Popolazione
(XXVII, p. 914; App. II, ii, p. 591; III, ii, p. 461; IV, iii, p. 35; V, iv, p. 191)
All'inizio del terzo millennio e a cinquant'anni dal primo manifestarsi dell'esplosione demografica, avutasi soprattutto nei paesi meno sviluppati e dovuta in larga misura alla diffusione di tecniche igienico-sanitarie più efficaci, la questione della crescita della p. va riconsiderata in rapporto alla capacità di popolamento della Terra, nel suo insieme e nelle sue parti più sfavorite, rivedendo le teorie tradizionali alla luce di moderne acquisizioni. Per contro, nuovi problemi si presentano sul versante del declino demografico in molti paesi avanzati. Inoltre, mentre i più ritengono che sia meglio avere una p. stazionaria, altri considerano accettabile una dinamica sostenuta, purché si contengano gli squilibri creati dalla distribuzione spaziale della crescita demografica, in termini sia di quantità sia di qualità. Dopo aver raggiunto i 6 miliardi (ott. 1999), la p. terrestre continuerà a crescere e, secondo le previsioni, raggiungerà i 10 miliardi verso il 2050. Si stima che la sua stabilizzazione avverrà intorno al 2070, a un livello di forse 12 miliardi di persone, o di 14, secondo un'ipotesi massima. La crescita demografica annua, pur rallentata in termini relativi (da 1,9% negli anni 1970-77 a 1,6% nell'intervallo 1990-98), ha aggiunto ogni anno alla Terra una quantità crescente di abitanti. Mentre nel decennio Settanta l'incremento assoluto era intorno a 82 milioni l'anno, nella seconda metà degli anni Novanta esso è salito a circa 87 milioni, e pur rimanendo la cifra totale degli abitanti ancora ben lontana dalla massima capacità stimata di popolamento del pianeta, il ritmo dell'aumento resta tuttavia preoccupante, non tanto per la disponibilità di alimenti (la cui crescita continua a un ritmo superiore a quello della p.), quanto per la difficoltà di ridistribuire la produzione alimentare nelle aree di maggior vivacità demografica, dove si trovano i grandi agglomerati di p. e dove, a causa del permanere di alti tassi di natalità, la situazione tende a peggiorare: infatti, mentre l'Europa deve contrarre la sua produzione alimentare, in ampie aree dell'Africa la p. è mediamente sottoalimentata, anche perché, come nelle regioni a sud del Sahara, è ancora in corso un ritmo di crescita demografica così rapido (oltre il 3%) da contribuire a peggiorare ulteriormente le condizioni di vita degli abitanti, quando nelle altre parti del mondo risultano migliorati i parametri più significativi del benessere. È quindi soprattutto la distribuzione della crescita a destare preoccupazione, poiché i paesi più direttamente interessati possiedono terre di limitato potenziale produttivo, che non possono assicurare grandi rese. Nei paesi ormai stazionari, fra l'altro, allo spopolamento di alcune aree di collina e montagna si contrappone l'espansione degli abitati di pianura, che sottrae all'agricoltura terre fertili bonificate e messe a coltura da secoli: la sostenibilità nel tempo della produzione agro-alimentare è quindi messa in discussione.
Con la diversa distribuzione della crescita mutano i rapporti di densità (44 ab./km² nell'insieme delle terre emerse) a vari livelli, dalle regioni antropiche alle fasce climatico-vegetazionali, ai continenti, dove il valore più alto (78) si raggiunge ormai in Asia, che ha superato in questo l'Europa dalla metà degli anni Ottanta. A partire da questa data una maggior crescita della densità si è riscontrata in Africa (+28%), mentre è mediocre, in rapporto alla media mondiale, l'aumento nelle Americhe: resta praticamente invariata la densità di abitanti in Europa e in Australia. Cresce la p. nelle fasce costiere (entro 60 km dal mare vive oggi circa il 60% della p. umana), nonché nelle grandi valli fluviali, specialmente dei maggiori fiumi dell'Asia orientale e sud-orientale. Nelle aree montane delle zone temperate la p. è in calo, mentre aumenta sugli altopiani tropicali dell'Africa e dell'America Latina. Nei paesi avanzati si assiste da qualche decennio a una stasi dell'incremento nelle aree metropolitane, poiché la p. affluisce piuttosto verso le città medie e piccole, oppure si distribuisce nelle campagne periurbane; nei paesi in via di sviluppo, viceversa, continua la concentrazione nelle città e negli agglomerati maggiori, che sono oggi soprattutto rappresentati proprio in questi paesi. La crescita demografica eccessiva della p. terrestre, che si avvia dunque a essere sempre più urbana (lo era per il 46% al 1997), è divenuta così un problema soprattutto metropolitano, adeguatamente simboleggiato dalle bidonvilles che spesso orlano le maggiori città del Terzo Mondo (v. fig.).
Il mutato quadro distributivo ha risentito fortemente della globalizzazione economica, per cui non solo i prodotti, ma anche le forze di lavoro, sempre più impegnate nella produzione di beni destinati all'esportazione, muovono verso le aree più accessibili ai trasporti. A confronto del periodo di massimo sviluppo dell'economia cosiddetta coloniale, ossia la seconda metà del 19° secolo, la p. appare molto meno legata ai luoghi delle risorse primarie, siano essi miniere o terre arabili: dopo la rivoluzione verde e la meccanizzazione dell'estrazione mineraria la produzione primaria chiede oggi molte meno braccia. Per contro, la trasformazione delle materie prime, sempre più localizzata nei paesi in via di sviluppo a motivo della concomitanza di più fattori, porta le forze di lavoro ad affollarsi nelle aree industriali prossime alle grandi città e ai maggiori porti. Per vari motivi, quindi, il quadro distributivo ha assunto connotati che destano preoccupazione. I due terzi della p. umana vivono nei paesi arretrati, una proporzione destinata a un ulteriore sbilanciamento, tanto che si prevede che intorno al 2100 questa quota potrebbe raggiungere l'88% del totale. Il miglioramento dipende dal successo delle politiche della p. in Africa, dove molti paesi, peraltro di piccole dimensioni demografiche, devono ancora entrare nella fase matura della transizione demografica. In particolare, i paesi islamici manifestano un ritardo nel percorso della transizione, un fatto più volte sottolineato e che ha profonde radici ideologiche e religiose. In questi paesi la discesa dei tassi di natalità sta mostrando infatti un andamento diverso e rallentato rispetto ad altri paesi dove pure la modernizzazione demografica si è avviata recentemente.
Si valuta che il tasso di natalità mondiale per gli anni 1990-95 sia stato del 25‰, un valore in netto calo da almeno vent'anni, cui fa riscontro un tasso di mortalità del 9‰, in discesa ancora più marcata e da più tempo: a far diminuire quest'ultimo valore è soprattutto il calo del tasso di mortalità infantile, sceso al 62‰. L'incremento naturale è stato quindi in crescita fino ad anni recenti, e solo dagli anni Settanta questo saldo ha manifestato la tendenza a ridursi. Alla discesa del tasso di natalità ha contribuito soprattutto la dura politica di controllo delle nascite in Cina, in specie a partire dai primi anni Ottanta: con una natalità in via di contenimento (era del 17‰ nel 1996) e una mortalità ormai tra le più basse al mondo (6,6‰) la crescita della p. cinese è destinata a rallentare, al punto che entro pochi anni sarà l'India (982 milioni di ab. al 1998) il paese più popoloso del mondo.
Il numero medio di figli per donna in età fertile (Total Fertility Ratio, TFR) presenta grandi variazioni tra gruppi di paesi: di fronte a una media mondiale di 2,8 figli per donna, i paesi sviluppati sono a 1,7 e quelli in via di sviluppo a 4,1. I valori più alti si registrano in Africa (in media 5,6 figli per donna), soprattutto nei paesi più poveri, mentre al contrario anche paesi che sino a pochi anni fa difendevano modelli di famiglia di tipo pionieristico, come il Brasile e l'Argentina, si sono ormai adeguati, almeno nelle città, a comportamenti demografici di tipo avanzato (2,4 in Brasile). Là dove i tassi sono discesi in anni recenti (Cina e India) una crescita elevata è però mantenuta da una massa demografica giovane che ancora per anni alimenterà il rinnovo generazionale in misura rilevante.
I temi della p. e dello sviluppo appaiono più strettamente interconnessi a partire dalla Conferenza del Cairo del 1994, l'assise internazionale in cui le Nazioni Unite hanno affrontato i problemi della crescita in rapporto allo sviluppo sostenibile, secondo un approccio meno strettamente demografico e più dichiaratamente globale. La dimensione dello sviluppo umano si integra quindi nel problema mondiale della p., per la particolare attenzione che si vuole accordare alle categorie svantaggiate (donne, handicappati, immigrati, minoranze), ma anche agli abitanti di zone geografiche critiche, i cui equilibri fragili espongono una p. crescente a rischi maggiori che in passato. La questione dell'eccesso di crescita è dominante nel quadro mondiale, però i paesi in cui la p. non cresce più hanno problemi di aggiustamento. In alcuni paesi europei l'incremento demografico è sotto i limiti della sostituzione (in Italia, per es., il valore del TFR è sceso a 1,2, il più basso al mondo), per cui il mantenimento della p. attuale non è assicurato. L'invecchiamento demografico infatti fa sì che il tasso lordo di mortalità in questi paesi sia tra i più alti del pianeta e, a motivo della concomitanza di nascite ridotte, assai alto è anche l'indice di vecchiaia, per cui la proporzione di anziani è destinata a subire ancora ulteriori aumenti prima di iniziare a ridiscendere. Si aggrava, contemporaneamente, anche la percentuale di invecchiamento della forza di lavoro in Europa, fatto che costituisce il principale motivo chiamato in causa da chi sostiene l'opportunità di maggiori aperture all'immigrazione di manodopera proveniente da paesi con crescita demografica ancora alta ed eccesso di forze di lavoro; inoltre, è da sottolineare anche come il mantenimento del sistema pensionistico attualmente in uso nei paesi ricchi non potrà che basarsi sull'ingresso di nuovi lavoratori.
In Europa, dunque, il tendenziale appiattimento della dinamica naturale mette in maggior rilievo l'effetto demografico della mobilità di p. e delle politiche migratorie, cosa che costituisce un importante motivo di attenzione per le nuove migrazioni internazionali. Il timore del declino demografico si manifesta a tutti i livelli: dai governi centrali, che temono di non poter assicurare la copertura delle spese pensionistiche, ai piccoli comuni delle aree marginali, dove a uno sfavorevole bilancio nati/morti si aggiunge la falcidia della partenza dei giovani; in conseguenza di ciò, le politiche di sostegno alla famiglia vedono una consistente ripresa, ma non in tutti i paesi, poiché diversa è la percezione dei rischi connessi al declino. A causa del controllo effettuato da quasi tutti i paesi avanzati, l'emigrazione reale riesce a restare enormemente inferiore rispetto alle richieste di ingresso avanzate dai cittadini degli Stati posti ai margini delle aree di sviluppo, ma in realtà solo investimenti locali provenienti dai paesi ricchi sembrano in grado di contrastare l'incombente minaccia di immigrazioni ancora più massicce. Le zone più critiche appaiono quelle in cui su brevi distanze si fronteggiano paesi ricchi demograficamente stazionari e paesi brulicanti di nuova umanità in cerca di sostentamento, come nelle aree dei mediterranei europeo, americano e australasiatico.
La struttura della p. mostra sensibili cambiamenti a livello generale e locale: la proporzione delle femmine tende infatti a salire, essendo la loro speranza di vita alla nascita più alta in quasi tutti i paesi (al 1996, media mondiale di 64,1 anni per i maschi e 68,3 anni per le femmine). Quegli Stati in cui il tasso di femminilità (numero di femmine su 100 maschi) è fortemente spostato a favore dei maschi fanno sorgere forti sospetti sulla possibile selezione negativa dei neonati di sesso femminile alla nascita. Non pochi sono peraltro i paesi, soprattutto in Africa, dove questo indicatore segnala chiaramente per le donne condizioni di vita e di lavoro inferiori rispetto a quelle degli uomini. Se non altro per ragioni di longevità (e quindi di più consistente presenza femminile nelle classi anziane), nei paesi avanzati sono poi sempre più le donne a essere rappresentate tra i gruppi sfavoriti e al di sotto della soglia di povertà.
Mentre negli anni Sessanta e Settanta la crescita demografica e l'aumento tendenziale dei consumi alimentavano soprattutto il timore delle carenze alimentari, verso la fine del secolo le maggiori preoccupazioni si sono spostate sul problema energetico e sull'impatto del popolamento umano sugli ambienti naturali residuali. Al crescere del fabbisogno energetico, causato dall'aumento della p. mondiale e dei consumi pro capite nel Terzo Mondo, non corrisponde la previsione di realizzare in tempi brevi una produzione energetica a basso costo e durevole: a parte pochi casi di uso di energie alternative, infatti, continua il massiccio impiego da un lato di idrocarburi e dall'altro di combustibili vegetali, e mentre per la prima fonte energetica si prospetta l'esaurimento dei giacimenti, per la seconda il problema consiste nel crescente depauperamento delle foreste intertropicali e nella desertificazione delle aree a rischio. Si può facilmente intuire quindi come, proprio perché la crescita demografica è rilevante soprattutto nei paesi in via di sviluppo, il consumo di combustibili per uso domestico rappresenti un grave problema mondiale: i maggiori casi di deforestazione del mondo (Cina, isole australasiatiche, bacino amazzonico, altopiani dell'Africa orientale), per es., sono legati piuttosto all'espansione della p. che allo sfruttamento forestale di tipo commerciale.
Un altro problema ambientale direttamente connesso all'aumento della p. consiste nella crescita demografica delle aree costiere, dove i nuovi insediamenti vanno quasi sempre a occupare pianure alluvionali litoranee, a detrimento del potenziale agricolo rappresentato dai suoli fertili e dalle acque superficiali e sotterranee che vi si trovano. Inoltre, l'occupazione umana della costa comporta l'antropizzazione di spazi naturali importanti per la riproduzione biologica, come le zone umide costiere e le aree di foce: l'eliminazione degli habitat litoranei e la loro sostituzione con peschiere, saline, bacini portuali e altro ha come conseguenza una perdita di biodiversità e un'alterazione degli equilibri fra acque dolci e acque salate, nonché un peggioramento ambientale per le terre agricole sublitoranee. Fra l'altro, tende anche a salire l'esposizione al rischio di calamità naturali da parte di quelle p., in maggioranza del Terzo Mondo, che occupano proprio spazi che devono continuare ad avere una dinamica naturale: zone sismiche e vulcaniche, ma anche litorali in via di erosione e di sommersione o frequentemente battuti dai tifoni, sono infatti soggetti a un popolamento crescente, diventando motivo di sempre più gravi preoccupazioni, ovviamente non perché le catastrofi naturali siano in modo oggettivo più frequenti, ma per il crescente numero di abitanti esposti. Appare quindi comprensibile la preoccupazione dei gruppi ambientalisti nei confronti del pericolo della scomparsa o dell'eccessiva riduzione degli spazi naturali residui del pianeta: per quanto si noti una ripresa del bosco e della fauna selvatica in molti paesi avanzati, grazie alla protezione loro accordata, si teme che nei paesi arretrati, dove permangono habitat insostituibili, il tempo ancora necessario perché l'evoluzione socio-economica porti a una condizione simile sia ancora troppo lungo. Secondo alcuni, non basterebbero divieti o incentivi economici alla conservazione, ma si renderebbero necessarie una vera e propria esclusione della p. umana da talune aree e una pianificazione delle nascite più rigida. Anche la modifica della struttura del mercato dei prodotti provenienti dalle foreste intertropicali è ritenuta potenzialmente assai importante. L'impatto negativo della p. ha bisogno di essere valutato in nuovi termini dal momento in cui la società dei paesi avanzati ha attuato con successo misure di controllo delle emissioni inquinanti e operazioni di recupero di ambienti compromessi. La qualità ambientale è invece bassa soprattutto nelle grandi città dei paesi arretrati, per l'insufficiente servizio di raccolta e trattamento dei rifiuti urbani e per la debolezza del controllo sulle emissioni industriali. Senza contare che le falde idriche sotterranee alle aree urbanizzate sono largamente compromesse.
Di fronte agli sviluppi planetari, trova sempre più conferma l'idea che il nesso tra crescita demografica e sviluppo economico vada rivisto rispetto alle posizioni neomalthusiane che hanno caratterizzato gli anni Settanta: anche se la crescita demografica elevata provoca un effetto immediato di impoverimento, positivo è invece il suo effetto a distanza sulla crescita economica e sullo sviluppo, cui contribuisce un'innovazione tecnologica favorita da una p. più numerosa. È dimostrato inoltre che la crescita delle p. rurali stimola l'agricoltura a produrre più cibo e che, in generale, l'aumento di p. accelera i processi di mutamento sociale, generando ricadute positive sulla società.
In conclusione, i mutamenti demografici si avviano ad avere un peso crescente nel quadro economico mondiale: le masse di produttori e di consumatori dei paesi dalle grandi dimensioni demografiche, come la Cina e l'India ma anche il Brasile e l'Indonesia, catalizzano le produzioni ad alta intensità di lavoro e rappresentano i mercati cui guardare anche da parte delle potenze avanzate. Viceversa, l'invecchiamento demografico dei paesi ricchi si teme comporti un abbassamento del potere medio di acquisto di classi anziane sempre più numerose e un deprezzamento dei capitali investiti in strutture abitative e produttive. Il declino dell'Occidente può però trovare un correttivo in termini di valore investito nella formazione dei giovani e nella promozione dei settori di ricerca finalizzata allo sviluppo.
bibliografia
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