Popolazione
sommario: 1. Il problema della popolazione. a) Generalità. b) I termini moderni del problema. 2. Il meccanismo di crescita di una popolazione. a) Interrelazioni tra ambiente esterno e comportamenti demografici. b) Gli elementi della crescita demografica. 3. Da una stazionarietà primitiva a una moderna stazionarietà. a) La teoria della transizione demografica. b) La situazione dei paesi economicamente sviluppati. c) La situazione dei paesi economicamente meno progrediti. 4. Alcuni problemi emergenti. a) L'invecchiamento della popolazione. b) La grande crescita urbana. □ Bibliografia.
1. Il problema della popolazione
a) Generalità
La dimensione e la composizione della popolazione, la sua velocità di crescita, i suoi rapporti con il territorio e le risorse hanno costituito un elemento fortemente problematico della strutturazione economica e sociale delle collettività umane, forse fin da quando si sono avute le prime forme di organizzazione della società. Probabilmente un ‛problema della popolazione' è sempre esistito.
Le più antiche testimonianze in materia risalivano ad alcuni dei grandi filosofi greci (Socrate, Platone) o a pensatori, come Confucio, che furono anche uomini di Stato. La scoperta di un nuovo e completo poema epico mesopotamico ha messo in evidenza come preoccupazioni (carenza di risorse, rumore, inquinamento) derivanti da una pretesa sovrappopolazione fossero presenti già alla fine dell'antica civiltà babilonese, verso il 1600 a.C. E il biblico ‛crescete e moltiplicatevi' può essere visto come una reazione consapevole, da parte degli estensori del Vecchio Testamento, alle preoccupazioni mesopotamiche. È solo nel Medioevo che la ‛questione popolazione' non ha suscitato punti di vista largamente divergenti fra allarmati pessimisti e persuasi ottimisti.
La contrapposizione, in termini molto semplificati, è fra chi vede in un presunto eccesso della popolazione insediata in un dato territorio o nel suo sviluppo accelerato la causa della povertà di certi popoli e un ostacolo allo sviluppo economico e chi considera invece la popolazione e la crescita demografica come elemento strutturale fondamentale per la crescita economica, anche perché non si è mai osservato un paese economicamente prospero che fosse depresso dal punto di vista demografico. In una prospettiva storica di lunghissimo periodo si può constatare che, se da un lato hanno largamente e ripetutamente convissuto povertà e sovrappopolazione, dall'altro l'aumento di popolazione ha creato, oltre che stimoli alla crescita economica e all'innovazione tecnologica, anche la necessità di ricercare nuove fonti di sostentamento attraverso le migrazioni. Queste ultime hanno consentito che per l'uomo si verificasse una circostanza pressoché unica fra le specie animali nella storia della Terra: la sopravvivenza del genere umano lungo migliaia e migliaia di anni e la sua diffusione su tutti i continenti.
Quanto all'atteggiamento dei politici, si può osservare che in generale i regimi democratici sono stati più favorevoli a un ridotto numero di abitanti rispetto alle autocrazie e ai regimi autoritari i quali, quasi sempre, hanno avuto tra gli obiettivi da perseguire quello di accrescere la potenza del paese, potenza in senso militare, in senso economico e di pura presenza di abitanti sul territorio. I regimi democratici, invece, hanno avuto come obiettivo dichiarato quello di migliorare il tenore di vita della popolazione, un fine quindi a base economica, rivolto al benessere individuale piuttosto che ad affermazioni collettive.
Anche se in tempi più recenti la diminuita importanza delle armi tradizionali ha contribuito in molti paesi a non far più considerare la popolazione come elemento di potenza militare, in diverse aree essa viene ancora vista come strumento di egemonia politica ed economica e quindi tale da modificare i rapporti fra gli Stati. Da qui l'attenzione rivolta non solo alla crescita demografica di un determinato paese, ma anche a quella di altri paesi che con esso si trovano ad avere una serie di relazioni, dirette o indirette. Anche le differenze territoriali nell'accrescimento demografico hanno perciò contribuito a far sì che attualmente la popolazione, la sua crescita e le sue caratteristiche costituiscano l'oggetto di un rinnovato interesse da parte della comunità internazionale in generale e, in particolare, da parte di politici e di studiosi delle scienze dell'uomo. Questa accresciuta attenzione da un lato ha fatto sì che gli strumenti statistici e la raccolta delle informazioni sulle popolazioni si siano andati progressivamente arricchendo e dall'altro che gli strumenti metodologici per una più piena comprensione dei meccanismi che presiedono allo sviluppo delle popolazioni umane si stiano raffinando e potenziando. Vanno perciò chiarendosi sempre di più le situazioni attuali, le prospettive future e le interrelazioni fra i fenomeni demografici e tutte le altre componenti dell'ambiente naturale e dell'organizzazione socioeconomica delle varie società.
b) I termini moderni del problema
Gli elementi che caratterizzano l'evoluzione recente della popolazione sono la sua crescita accelerata, la fortissima differenziazione territoriale nella velocità della crescita, il rapido invecchiamento nei paesi economicamente più sviluppati, l'esasperata urbanizzazione nei paesi in via di sviluppo. Da questi elementi strettamente demografici nascono una serie di conseguenze e preoccupazioni legate a una non infrequente incapacità di ogni singolo Stato di alimentare sufficientemente la popolazione, a una non sempre adeguata crescita economica rispetto alla crescita demografica, a una seria alterazione dei rapporti ecologici fra popolazione e ambiente e dei rapporti socioeconomici fra popolazione e organizzazione della società, a una possibile alterazione negli equilibri politico-territoriali fra Nord e Sud.
Alla metà del 1985 l'ONU stimava la popolazione mondiale in 4 miliardi e 837 milioni, il che significa che essa è quasi raddoppiata dal 1950, quando si stima che fosse di 2 miliardi e mezzo di persone. Erano occorsi milioni di anni perché si arrivasse alla popolazione del 1950, mentre ne sono poi bastati solo 35 perché a essa si aggiungessero altri 2 miliardi e 330 milioni di individui (v. tab. I). Dal secondo dopoguerra la popolazione è cresciuta a un tasso dell'1,9% in media all'anno, un valore che mai può essere stato sperimentato a lungo nel passato, nè potrà essere sperimentato a lungo in futuro. La riprova sta nel fatto che, ove questo tasso di crescita fosse rimasto costante, l'alba dell'uomo dovrebbe essere collocata vicinissima a noi, perché un primo nucleo di poche centinaia di persone avrebbe impiegato soltanto 850 anni per dar luogo ai 4.837 milioni di persone del 1985, mentre in effetti fra l'Homo sapiens e il giorno d'oggi sono trascorsi ben più di centomila anni. Se nel futuro rimanesse ancora costante questo tasso di crescita, la popolazione attuale darebbe luogo in soli 543 anni a una popolazione sterminata, corrispondente a 1 abitante per m2 della superficie emersa del globo (136 milioni di km2).
Un tasso di accrescimento cosi intenso è perciò eccezionale e caratteristico dell'epoca nostra, epoca di profonde trasformazioni. Può essersi verificato anche in altri periodi più o meno brevi della storia dell'umanità, in periodi di transizione evolutiva, quando cioè grandi scoperte o innovazioni tecnologiche (come ad esempio la rivoluzione agricola di 8 mila anni fa) o imponenti migrazioni hanno consentito che la popolazione, rimasta in precedenza pressoché stazionaria per un grandissimo numero di anni, aumentasse sensibilmente fino ad arrivare a una soglia più alta, a un ammontare tale di persone che potessero essere alimentate grazie alle nuove tecnologie o alle nuove terre. In una prospettiva storica di lunghissimo periodo, invece, con l'eccezione delle fasi di transizione, la condizione normale dell'umanità è stata quella della stazionarietà: in epoca premoderna l'approssimativa crescita zero era il frutto di alta natalità e alta mortalità, mentre in epoca moderna è il risultato molto più ‛economico' di bassa natalità e bassa mortalità.
2. Il meccanismo di crescita di una popolazione
a) Interrelazioni tra ambiente esterno e comportamenti demografici
Alla base dell'evoluzione demografica di una popolazione stanno il nascere e il morire; l'intensità della differenza fra questi due processi dinamici, combinata in un certo territorio con l'intensità delle migrazioni, determina la velocità di accrescimento o di decremento. Ma le nascite, le morti, le migrazioni, ecc., cioè il totale degli eventi demografici che si registrano ogni anno in una popolazione, non sono che la somma degli eventi inerenti a ogni singola persona: sono l'effetto complesso e collettivo dei comportamenti demografici individuali. Gli insiemi dei vari eventi demografici sono infatti il frutto del ‛rischio intrinseco' di procreare o di morire cui ogni individuo è sottoposto, combinato con la capacità dello stesso individuo di riuscire a controllare più o meno efficacemente la propria attitudine a dare la vita o a perderla con la morte; sono altresì l'effetto dell'attitudine, della volontà e della capacità di spostarsi sul territorio, cioè di migrare. Questi comportamenti, che sono la risultanza di tutta la storia sociale e individuale, oltre che dell'influenza di cicli congiunturali e della reazione a essi, sono pertanto direttamente indotti dal complesso dell'ambiente esterno, da un insieme di fattori che possono essere distinti in fattori biologici, ambientali, economici, sociali, politici e tecnologici (v. schema 1). Dell'influenza di questi fattori si dà cenno in maniera necessariamente breve e schematica.
I fattori biologici determinano le potenzialità del nascere, del morire e dello stato di salute dell'individuo e quindi della popolazione. Il numero massimo di parti che una donna può avere o il rapporto dei sessi alla nascita sono determinati da fattori biologici, che sono altresì largamente influenti nel determinare l'età alla prima mestruazione, l'età alla menopausa e la percentuale di persone sterili. Fattori genetici sono alla base della durata massima della vita dell'uomo, che è una caratteristica propria della specie umana così come di qualsiasi altra specie animale. Fattori biologici sono alla base di malattie epidemiche che possono contribuire a mantenere una mortalità relativamente alta.
I fattori ambientali hanno una forte influenza anche sull'insediamento della popolazione e sulla propensione a emigrare. A parte poche aree particolarmente ingrate per la vita dell'uomo, tutto il resto della Terra è abitato, ma fra regioni e regioni del mondo vi sono differenze sostanziali che sono il frutto di situazioni ambientali combinate con eventi storici, economici e sociali. E inoltre non v'è dubbio che fluttuazioni climatiche e variazioni nel tempo meteorologico (oltre che specifici e drammatici eventi come inondazioni e terremoti) possono provocare gravi crisi demografiche di breve e lungo periodo, diminuendo la capacità di resistere alle malattie e alla morte e la capacità di procreare e aumentando la propensione a emigrare. E, ancora, l'ambiente naturale può favorire o ostacolare il movimento delle persone, delle merci e delle idee o la diffusione delle innovazioni tecnologiche.
Il considerare una stratificazione della società in classi sociali, o secondo la condizione o lo status sociale, i partiti politici, il credo religioso - categorie queste che dipendono dal livello d'istruzione, dalla professione, dal livello di reddito, dalle ideologie professate, ecc. - non è operazione che trovi d'accordo tutti gli scienziati sociali, ma è comunque importante per attirare l'attenzione sulle dimensioni economiche, sociali e politiche dell'organizzazione sociale e in ogni caso per meglio analizzare le relazioni fra demografia e società. Tutte le indagini empiriche dimostrano infatti che i fattori economici, sociali, politici e culturali influenzano nettamente, attraverso un'azione specifica o attraverso un azione congiunta, il sistema demografico, considerato nella sua più ampia accezione, dal quale poi sono a loro volta influenzati. Queste azioni sono così ampie e numerose che si può accennare soltanto a qualcuna di esse.
La popolazione si ritrova già a monte del sistema economico. È infatti il primo dei fattori di produzione e uno dei fondamentali: da essa originano le forze di lavoro che da un lato inducono e dall'altro sono la risposta alla domanda di lavoro avanzata dal sistema economico. E tale domanda, ove non sia completamente soddisfatta dall'offerta di lavoro locale di origine demografica, non incide solo a breve termine sulla ridistribuzione territoriale della popolazione attraverso le migrazioni internazionali e le migrazioni interne (soprattutto quelle rurali-urbane), ma anche a lungo termine stimolando la crescita demografica.
I fattori economici infatti hanno una considerevole, anche se indiretta, influenza sulla crescita della popolazione. È ben nota, ad esempio, la relazione inversa fra miglioramento delle condizioni di vita e mortalità, cioè come la migliore alimentazione, un più adeguato abbigliamento e abitazioni meglio attrezzate siano stati e siano elementi decisivi nello sconfiggere quelle malattie che derivano da sottoalimentazione e povertà. Ma anche la trasformazione produttiva - il passaggio dalla prevalenza dell'agricoltura a quella dell'industria prima e del terziario dopo - ha comportato mutamenti fondamentali (dal lavoro manuale al lavoro intellettuale, per esempio) nella vita dell'individuo e della famiglia e nei loro comportamenti demografici.
In molti casi i fattori economici tendono a confondersi con quelli sociali, specie quando entrambi contribuiscono a formare delle ‛classi', dei ‛gruppi' sociali che possono venire a costituire una gerarchia definita dal livello di prestigio e dal tipo di occupazione, classi che hanno al loro interno stili di vita e modelli di consumo simili, atteggiamenti e comportamenti comuni, sicché la variabilità fra classi è significativamente maggiore della variabilità all'interno di una classe. Mortalità, fecondità, migratorietà e nuzialità sono tutte empiricamente collegate alle differenze fra classi attraverso il sistema di valori cui i gruppi fanno riferimento per organizzare la loro esistenza giornaliera. Questi valori producono condizionamenti e vincoli sui singoli appartenenti al gruppo che sono perciò spinti a comportarsi in maniera più o meno simile nello sposarsi, nell'avere figli - più in generale nella strutturazione del ciclo familiare -, nei consumi dannosi per la salute (fumo, alcool, eccessi alimentari), nel migrare. La scelta individuale con difficoltà si discosta dalla scelta di gruppo; in questo contesto il comportamento demografico può essere collocato nel quadro più ampio del comportamento sociale, che è l'espressione di un largo spettro di variabili che includono oltre a quelle citate anche le variabili culturale, religiosa, linguistica, etnica, razziale e sessuale. Quest'ultima va particolarmente sottolineata, perché la condizione della donna e la sua evoluzione sono elementi di grandissimo rilievo pure dal punto di vista demografico.
Anche i fattori politici sono l'espressione di un complesso insieme di elementi, che vanno dalle grandi idee ai più semplici provvedimenti normativi. Il nazionalismo, ad esempio, attraversa confini geografici e culturali e barriere di classe creando con grande forza sentimenti e comportamenti uniformi. I provvedimenti legislativi incidono più direttamente sulle variabili demografiche: sulle migrazioni, attraverso le politiche migratorie; sulla fecondità e sulla salute, attraverso l'attivazione di servizi sanitari e di pianificazione familiare, per fare solo qualche parziale esempio. Possono anche incidere indirettamente - ma non meno sostanziosamente - attraverso le politiche del lavoro, delle abitazioni, del sistema di sicurezza sociale, ecc.
La tecnologia infine può essere vista come una risposta a tutti gli altri fattori e considerata sotto quattro aspetti: l'invenzione, lo sviluppo pratico, l'adozione e la diffusione di un prodotto. I progressi nella medicina, nei trasporti, nell'agricoltura e nell'industria hanno tutti contribuito alla crescita rapidissima della popolazione negli ultimi 200 anni, e in particolare negli ultimi 40, consentendo la riduzione della mortalità, prevenendo le grandi crisi di sussistenza, migliorando le condizioni di vita e favorendo una eccezionale mobilità interna e internazionale della popolazione. E, ancora, i progressi nella contraccezione, meccanica o chimica, hanno consentito a milioni di coppie di pianificare le nascite determinando in larga misura la dimensione finale della famiglia e i tempi della procreazione.
È evidente come tutti questi fattori siano fortemente connessi fra loro. I nuovi contraccettivi non sarebbero stati ampiamente accettati e usati se non vi fossero state condizioni sociali ed economiche favorevoli alla loro adozione, cioè se tali metodi non fossero stati visti come strumenti per raggiungere obiettivi individualmente e socialmente desiderabili. A proposito della complessità dell'azione d'influenza va ricordato, per la tecnologia, anche il fattore tempo, nel senso che per essa, oltre all'importanza delle innovazioni, conta molto anche il ritmo con cui si susseguono e si diffondono. La velocità delle trasformazioni tecnologiche si è molto accresciuta ultimamente e spesso le società non riescono ad adeguare altrettanto in fretta le proprie strutture e la propria organizzazione, tanto che in molti casi si potrebbe dire che le società moderne sono ‛malate di tempo'.
Sempre con riferimento al fattore tempo, va ulteriormente sottolineata la circostanza che nell'influenza di tutti i fattori prima citati si ha un'azione di lungo periodo, che incide nell'arco della vita di ogni individuo, e in essa si accumula, e un'azione congiunturale di breve periodo che induce l'individuo, in una certa fase della vita, ad avere un determinato comportamento proprio come risposta alle condizioni del momento.
Esaminate le determinanti del comportamento demografico è necessario segnalare, nella relazione biunivoca che lega i fattori esterni alla popolazione, l'esistenza della relazione inversa, e cioè l'influenza della popolazione sul complesso delle condizioni ambientali.
Le migrazioni sono particolarmente idonee a mostrare come un fenomeno demografico sia a un tempo l'oggetto e il soggetto di trasformazioni economiche, sociali, ambientali, genetiche, ecc. Le condizioni sociali ed economiche di lungo periodo creano la necessità e la mentalità per migrare, cioè le condizioni di base che si estrinsecano quando poi in un certo momento un insieme di elementi contingenti induce a prendere la decisione finale dello spostarsi, decisione che ha quasi sempre motivazioni economiche, ma anche componenti sociali, politiche e psicologiche. Ad esempio, le informazioni che il migrante accumula riguardo alla possibilità di trovare altrove una buona sistemazione e un buon lavoro, e che traggono spunto da rapporti interpersonali e da una più ampia rete informativa, servono per scegliere al meglio il luogo di destinazione. Si viene così a formare, soprattutto per effetto dei rapporti interpersonali, una ‛catena migratoria' che porta a costituire una più o meno grande colonia di immigrati, la quale modifica certo l'assetto demografico, economico e territoriale della popolazione del paese di destinazione. In più, questo gruppo di immigrati adatta via via alla nuova realtà i valori e i comportamenti che erano seguiti nella madre patria e in una certa misura ‛impone' al paese ospite una cultura diversa e diversi comportamenti economici e sociali.
Ancora più forte può essere l'impatto sull'intera società di un calo delle nascite intenso e rapido quanto quello verificatosi nelle civiltà occidentali negli ultimi decenni, calo che peraltro ha preso l'avvio dalle trasformazioni extrademografiche che in quelle società si sono avute.
Questi due brevi esempi mettono bene in evidenza come si venga a formare un processo interattivo dinamico fra l'insieme dei fattori esterni, i comportamenti demografici individuali e collettivi e le tendenze della popolazione. Tale processo è sintetizzato nello schema 1, nel quale compaiono in forma approssimativa questi legami: uno schema più accurato e approfondito dovrebbe mettere in evidenza più specificamente le variabili interessate e la forma dei legami causali coinvolti. Il tutto per rispondere a due domande fondamentali: come cresce la popolazione e quali elementi e processi siano coinvolti in questa crescita.
b) Gli elementi della crescita demografica
Al primo quesito è ormai possibile rispondere con sufficiente approssimazione grazie ai progressi compiuti nelle rilevazioni statistiche dei fatti demografici e nell'analisi demografica. Al secondo è molto più difficile dare una risposta perché è molto complesso e variabile il meccanismo dei nessi causali che legano la popolazione al complesso dei fattori esterni. In ogni caso, nell'ambito del processo interattivo di cui si è detto sopra, è relativamente più facile tentare di valutare le conseguenze economiche, sociali, politiche dei fatti demografici che non i meccanismi attraverso i quali i fattori esterni determinano le tendenze demografiche.
La ragione sta nel fatto - e lo si vede chiaramente nello schema 1 - che esiste un impatto diretto delle variazioni della popolazione sul complesso dell'ambiente esterno inteso in senso lato e sulle sue singole componenti (nello schema tale impatto è evidenziato dalle frecce che vanno dai blocchi C e D al blocco A). Al contrario, l'influenza dei fattori esterni sulle variabili demografiche collettive (l'impatto di A su C e D) è filtrata dall'influenza che essi hanno sul comportamento demografico individuale, di cui non molto si riesce a conoscere e comprendere. Infatti la demografia, la statistica, la genetica delle popolazioni, la demografia storica hanno avuto e hanno come oggetto principale di osservazione i fenomeni collettivi (nascite, morti, migrazioni, composizione ed evoluzione della popolazione - ossia i blocchi C e D), mentre l'analisi delle relazioni causali fra A da un lato e C e D dall'altro è sempre rimasta incerta, approssimativa e induttiva, proprio perché non si sono finora studiate abbastanza, e con sufficiente successo, le relazioni causali fra A e B, sulle quali qualcosa riescono a dire l'antropologia culturale, l'epidemiologia e altre discipline fra cui la stessa demografia, attraverso l'osservazione microdemografica di recente impiegata sempre più frequentemente.
Complica ulteriormente le cose la circostanza che tutte queste relazioni sono storicamente determinate, legate cioè a una determinata popolazione insediata nel suo territorio e che si trova a vivere in un preciso periodo storico. Da qui la mancanza di ‛leggi' demografiche universalmente valide, così come di teorie della popolazione numerose e di ampio spettro.
Anche se non è completamente chiarito quale sia l'azione dei fattori esterni quanto a intensità e modalità di estrinsecazione, sembra evidente che nelle popolazioni premoderne l'influenza prevalente fosse quella dei fattori biologici (stante la ridotta capacità di controllare la morte e la procreazione) e dei fattori economici (stante l'incapacità di modificare continuamente e rapidamente l'equilibrio fra risorse e popolazione). Nelle attuali popolazioni economicamente progredite, che hanno completato il processo di transizione verso la modernizzazione, l'influenza prevalente sembra essere quella dei fattori sociali, tecnologici e ambientali.
Nello schema 2 sono riportati cinque modelli di popolazione che vanno dalla popolazione ‛primitiva stazionaria' - caratterizzata da circa 20 anni di vita media e un po' più di 6 figli per coppia, come comportamenti demografici individuali che in termini collettivi si traducono in una crescita zero conseguente a circa 50 nascite e 50 morti ogni anno e ogni 1.000 abitanti - via via fino alla popolazione ‛moderna stazionaria' (a livello individuale circa 78 anni di vita media e circa 2 figli per coppia), caratterizzata anch'essa da una crescita zero, ma molto più ‛economica', essendo questa volta il frutto di circa 13 nascite e 13 morti ogni anno e ogni 1.000 abitanti.
Se dunque - come si è detto - in una prospettiva storica di lunga durata la stazionarietà, l'approssimativa crescita zero, sembra essere stata la condizione ‛normale' delle popolazioni, a questa condizione di stazionarietà ci si aspetta che esse tendano anche per il futuro. E se da un lato è certo che la popolazione mondiale non potrà continuare a lungo ad accrescersi tanto intensamente quanto è avvenuto nel nostro secolo, d'altra parte essa non potrà bruscamente frenare la sua crescita, in quanto una popolazione è dotata di grande forza inerziale. Perciò, a meno di immani catastrofi ecologiche o biologiche o di guerre termonucleari, un'ulteriore consistente crescita è inevitabile e per la fine del secolo l'ONU prevede circa 6 miliardi e 122 milioni di abitanti (e questa è una cifra del tutto verosimile quando si consideri che la popolazione che nel 2000 avrà 15 anni o più è già tutta vivente); 8 miliardi e 206 milioni dovrebbero poi essere raggiunti nel 2025 (che è un valore medio fra la stima minima di 7.358 milioni e quella massima di 9.088). Il quesito più importante è se saranno 9, 10 o ancora di più i miliardi di persone su cui alla fine si dovrebbe attestare la popolazione mondiale. Negli scenari a lungo termine predisposti dalle Nazioni Unite le varianti elaborate danno luogo a una popolazione che alla fine del XXI secolo potrebbe oscillare da 7,2 miliardi nell'ipotesi minima a 14,9 miliardi nell'ipotesi massima. Quella ritenuta più probabile è l'ipotesi media, secondo la quale la popolazione mondiale potrebbe stabilizzarsi su poco più di 10 miliardi a partire dal 2075, perché questo succeda è necessario che nei paesi in via di sviluppo sia sostenuta e stimolata ulteriormente la tendenza alla diminuzione (fino al livello zero) del tasso di crescita della popolazione, passato dal 2,5% all'anno del periodo 1965-1970 all'1,9% durante il quinquennio 1985-1990 (v. tabb. II e III).
A causa della forza inerziale residua, la stabilizzazione della popolazione diventerà una realtà solo alcuni decenni dopo che la dimensione media della famiglia nei paesi meno sviluppati declinerà fino a un livello comparabile a quello che si osserva ora nei paesi più sviluppati. Resta però l'incognita di sapere se e quando questo traguardo potrà essere raggiunto da tutti i paesi attualmente in via di sviluppo e, per gli altri paesi, quali sconvolgimenti demografici potranno conseguire, nel XXI secolo, a una durata media della vita che potrebbe andare ben oltre i 100 anni e a un numero medio di figli che potrebbe rimanere ben al di sotto del ‛livello di sostituzione', dei 2 figli per coppia.
3. Da una stazionarietà primitiva a una moderna stazionarietà
a) La teoria della transizione demografica
Oggi l'uomo riesce a controllare efficacemente tanto la morte quanto la nascita; si capisce perciò come per le società evolute ci si trovi in una fase che può dirsi di ‛demografia controllata', in cui cioè i processi biologici del nascere e del morire, che trovano la loro radice nella struttura genetica dell'individuo e della coppia o in termini più generali nell'attitudine a dare la vita e nella limitata capacità di conservarla, sono poi profondamente modificati sia per effetto di impulsi e di scelte che appartengono alla storia particolare dell'individuo e della coppia, sia per effetto di motivazioni ed elementi collettivi che derivano dall'appartenere, l'individuo e la coppia, a una società che ha un proprio ambiente fisico, una propria struttura economica e un proprio tessuto di cultura, di leggi e di costumi. Ben s'intende allora come e perché, per fare un esempio, l'avere un bambino in più costituisca una decisione e un evento profondamente diversi in una famiglia benestante di una città industriale europea rispetto a una povera famiglia rurale di un paese in via di sviluppo. Ben s'intende cioè quanto sociale sia nel primo caso l'accadimento nascita, che pure prende le mosse da una predisposizione biologica individuale e di coppia. Nel secondo caso invece a essere prevalenti sono le determinanti biologiche e fisico-ambientali; molto meno importante, nei confronti della nascita e della morte, è infatti il condizionamento sociale, che è in genere meno influente quanto più ci si rivolga verso società per le quali il processo di modernizzazione è ancora adesso appena iniziato o man mano che si risale indietro verso società per le quali il processo di modernizzazione era ancora di là da venire.
Quando ci si trovi in questa fase premoderna, in termini demografici si è, in contrapposizione alla fase di demografia controllata, in una fase di ‛demografia naturale', fase che è durata con ogni probabilità centinaia di migliaia di anni. A saldare queste due fasi, in quelle società in cui il processo di modernizzazione è andato via via cominciando e progredendo, si è sviluppata una fase di ‛transizione demografica' che ha portato progressivamente le popolazioni da alti livelli di fecondità e mortalità verso bassi livelli. La transizione si è attuata per tutti i paesi economicamente progrediti, anche se con tempi molto diversi quanto a inizio e durata. In base a criteri analogici si ritiene che essa ‛debba' verificarsi anche per i paesi in via di sviluppo, ma non tutti gli studiosi sono convinti che questo in realtà avverrà in tempi più o meno brevi. I tre casi reali che compaiono nella parte bassa della fig. i dimostrano quanto possano essere differenziati i tempi e i modi dell'evoluzione demografica.
In popolazioni a demografia naturale, cioè nelle società premoderne, in cui le pratiche anticoncezionali erano poco o nulla diffuse ed efficaci e la lotta contro la morte quasi sempre perdente - e cioè dalle popolazioni più antiche fino al vaccino di Jenner nel XVIII secolo - si stima che il numero medio di figli per donna oscillasse fra 5 e 8 e la lunghezza media della vita delle persone fosse di circa 25-30 anni. Detti in altri termini questi valori corrispondono, per una comunità di 1.000 persone, a circa 45 nascite e 35 morti all'anno, il che assicura un incremento di circa l'1% all'anno, per fare un discorso di larga massima. In termini ‛naturali' quindi il potere moltiplicatore della specie umana non era poi tanto basso, giacché un incremento più o meno costante dell'1% porta a un raddoppio della popolazione ogni 70 anni. Una crescita della popolazione d'intensità più o meno pari a questa si pensa che si sia storicamente avuta in molte situazioni concrete; essa però comportava un progressivo deterioramento del rapporto fra la popolazione e le risorse che per millenni, a parità di tecnica e di ambiente naturale, restavano praticamente immutate. Si aveva perciò una crescente ‛pressione demografica' sul territorio che in prossimità del punto di rottura poteva trovare soltanto tre sbocchi: l'acquisizione di nuovi spazi (ma le migrazioni, pure fondamentali nella storia dell'uomo, non hanno mai potuto risolvere completamente e in tutti i casi i problemi di sovrappopolazione); oppure un miglioramento delle tecniche che consentisse di trarre nuovi mezzi dall'ambiente naturale (ma fino alla rivoluzione industriale le grandi scoperte si sono susseguite soltanto a grandissimi intervalli di tempo); o, infine, soluzione questa di gran lunga la più frequente, forti e prolungate punte di mortalità provocate da uno dei tre flagelli che san Giovanni definì ‟cavalieri dell'Apocalisse" e cioè carestie, epidemie e guerra (‟A bello, fame et peste libera nos, Domine"). Queste decimazioni catastrofiche - schematizzate ed esemplificate nella prima parte della fig. 1 - spesso azzeravano tutto l'incremento di popolazione dei periodi precedenti, sicché il potere moltiplicatore della specie umana dell'1% ogni anno rimase solo allo stato potenziale e, ad esempio, nella preistoria la crescita effettiva fu straordinariamente più ridotta, forse soltanto dello 0,4% ogni millennio.
Dopo che per decine di migliaia di anni la vita media dell'uomo era rimasta intorno ai 25-30 anni, a partire dalla fine del XVIII secolo essa aumenta progressivamente e, nei paesi più progrediti, sale a 50 anni all'inizio del XX secolo e a 75 anni circa ai giorni nostri. Nel giro di soli 150 anni un neonato si trova a poter sperare in una vita triplicata. Il declino della mortalità costituisce l'inizio di una vera e propria rivoluzione demografica che ha portato all'incremento accelerato della popolazione mondiale nel XIX e soprattutto nel XX secolo, con tempi e modi molto diversi fra i paesi più sviluppati e quelli meno sviluppati.
b) La situazione dei paesi economicamente sviluppati
Nei paesi economicamente più sviluppati al processo di modernizzazione, che ha comportato l'evoluzione da una società largamente rurale e analfabeta a una società essenzialmente urbana, industriale e scolarizzata, si è accompagnato, come si diceva, un processo di transizione demografica che ha portato dopo il declino della mortalità anche il declino della fecondità. Quest'ultima infatti dai 5-8 figli per donna è scesa in tutti i paesi occidentali a 1,5-2,5 figli per donna. In tutte le nazioni più sviluppate, quindi, negli ultimi due secoli si è triplicata la speranza media di vita e si è ridotto a un terzo il tasso di fecondità. La combinazione che ne deriva attualmente in termini di nascite e di morti annuali assicura un incremento ridottissimo o nullo (in qualche paese la crescita, dopo essersi azzerata, è diventata addirittura negativa): da una stazionarietà primitiva, frutto di alta mortalità e alta fecondità, si è arrivati quindi alla moderna stazionarietà, frutto di bassa mortalità e bassa fecondità.
Le cause del declino iniziale della mortalità si trovano in una serie di eventi ben conosciuti che cominciano con la vaccinazione contro il vaiolo e il miglioramento delle condizioni abitative, dell'igiene personale e dell'alimentazione; tutto il progresso successivo ha segnato poi le tappe delle ulteriori vittorie contro la morte. Ora, però, non ci possiamo più aspettare che esse si susseguano con il ritmo e il successo di un tempo. Nessuna scoperta farmacologica potrà allungare nei prossimi lustri la vita nella stessa misura di quanto fecero vaccini e antibiotici. Ormai siamo arrivati a vivere fino in prossimità dei limiti biologici che sembrano essere consentiti alla specie umana: la mortalità infantile, che fino a 100 anni fa eliminava nel primo anno di vita 200 o 300 neonati su 1.000, ora ne colpisce solo 8-12; di una generazione di donne solo il 30% riusciva ad arrivare a 60 anni, mentre ora questo traguardo è toccato da almeno il 92% delle donne. È profondamente modificata la presenza stessa della morte nella vita della famiglia e della società. Un tempo con essa si conviveva, perché non v'era famiglia in cui non morisse almeno un bambino, in cui non ci fosse almeno una morte prematura; oggi, se non fosse per gli incidenti, la morte prematura sarebbe praticamente scomparsa e normalmente si muore nelle età in cui pare ‛giusto' dover morire (v. morbilità, suppl.). Soltanto fondamentali scoperte sui meccanismi che regolano la vita della cellula potranno spostare in avanti il limite biologico della durata della vita e allungarla ancora sostanzialmente, il che si prevede possa avvenire nel corso del XXI secolo.
Sull'altro versante, quello delle nascite, la diminuzione della fecondità delle coppie va imputata quasi esclusivamente a una sempre maggiore diffusione, conoscenza, accettazione e attuazione del controllo dei concepimenti e a un massiccio uso delle pratiche abortive, il che ha consentito sia di ridurre drasticamente le nascite non desiderate, sia di programmare quelle desiderate. In una civiltà urbana e industrializzata, al contrario che in una società agricola preindustriale, la famiglia non è più l'unità economica fondamentale, né i figli costituiscono forza di lavoro già in giovanissima età e un sostegno economico su cui fare affidamento per la vecchiaia; i costi monetari (e anche quelli psicologici) di allevamento e istruzione sono molto elevati e tutto perciò scoraggia le coppie dall'avere una figliolanza numerosa o, soltanto, un figlio in più. Anche questo, com'è ovvio, ha comportato e va comportando nella vita della famiglia e della società profonde modificazioni che ancora conosciamo molto poco. Come siano allocati le energie nervose e fisiche, le risorse monetarie, il tempo che il minor numero di figli ha reso disponibili per la coppia, e soprattutto per la donna; come questa circostanza abbia cambiato i rapporti interpersonali nella coppia e gli atteggiamenti e i comportamenti individuali; come si svilupperanno personalità e comportamenti di figli abituati a crescere soli, o quasi, sono argomenti fondamentali della vita contemporanea, ma ancora poco affrontati.
Nello schema 2, nelle colonne ‛popolazione moderna' e ‛popolazione moderna stazionaria', sono esemplificati i valori relativi ai comportamenti demografici individuali, ai flussi che si registrano nella popolazione e all'ammontare e alla struttura della popolazione nei paesi economicamente sviluppati.
c) La situazione dei paesi economicamente meno progrediti
Nei paesi economicamente meno progrediti invece il tasso di incremento della popolazione è stato praticamente uguale a zero fino a 200 anni fa circa, fino a quando cioè una modesta riduzione della mortalità consentì un ridottissimo tasso di crescita dell'ordine dello 0,4% all'anno. È solo a partire dagli anni venti o trenta di questo secolo e più intensamente dopo la seconda guerra mondiale che in questi paesi la mortalità ha cominciato a decrescere sensibilmente e la vita media è salita in un trentennio da 40-42 anni a 56-57; per contro la fecondità è scesa solo di poco e ancora adesso il numero medio di figli per donna è 4,0-4,5 (varia da 3,8 per lo Sri Lanka a più di 8 per il Kenia), perché molte strutture socioeconomiche e antichi costumi incoraggiano ad avere ancora un gran numero di figli. La combinazione che ne deriva attualmente in termini di natalità (30-32 per mille) e di mortalità (10-12 per mille) assicura un incremento straordinariamente accelerato e pari ogni anno al 2,0-2,1%, il che significa un raddoppio di popolazione ogni 35 anni (i comportamenti demografici individuali e i flussi e le strutture delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo sono compresi fra quelli della ‛popolazione in transizione' e della ‛popolazione moderna' dello schema 2; l'esemplificazione con popolazioni reali si trova nella tab. IV).
Anche questo enorme incremento di popolazione viene normalmente interpretato in termini di transizione demografica, ma da un lato si può dire che in questi paesi la discesa della mortalità è stata più rapida e intensa di quanto lo sia stata nelle nazioni industriali e dall'altro si può aggiungere che, essendo la fecondità ancora tanto alta, il processo di transizione non si è completato, nè è semplice prevederne l'evoluzione futura. Per questi paesi la moderna stazionarietà è ancora lontana e non si sa quindi quando potrà essere raggiunta e se lo sarà da tutti. È vero che la storia del mondo industriale degli ultimi 200 anni indica che normalmente i tassi di fecondità e mortalità diminuiscono con la modernizzazione, ma anche al suo interno abbiamo avuto esempi molto diversi di come la triade ‛industrializzazione, urbanizzazione e istruzione' si sia legata alla discesa della fecondità; per converso, la Cina ci ha recentemente insegnato come anche in un paese ancora largamente rurale si possano avere veloci e sostanziose diminuzioni delle nascite. Alla base, comunque, della trasformazione demografica non può non esserci una crescita civile ed economica dell'intera società. L'inchiesta mondiale sulla fecondità (tenutasi fra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta) ha mostrato che, se il numero medio di figli per le donne che hanno completato il loro ciclo fecondo oscilla dagli 8,6 della Giordania ai 5,3 dell'Indonesia, il numero medio ‛ideale' di figli per le donne feconde dei paesi meno sviluppati resta ancora un po' superiore a 4, un numero questo che comporta quasi un raddoppio della popolazione da una generazione all'altra. È evidente che, ove si voglia salvaguardare il principio che il numero di figli è per la coppia una decisione volontaria, per promuovere l'ideale di una famiglia piccola si deve necessariamente passare anche per una modificazione dei valori culturali della società. Per capire quanto lungo e oneroso sia l'impegno per modificare l'‛ideale' di una famiglia numerosa, si pensi, per fare un solo esempio, che in alcuni paesi il concetto di ‛virilità' è ancora associato a quello di una grande prolificità.
Un impatto molto rilevante sulla fecondità lo ha anche l'elevata mortalità infantile e giovanile, che nei paesi meno sviluppati elimina ancora mediamente nel primo anno di vita 90-100 bambini per ogni 1.000 nati vivi (nei paesi sviluppati, come si è detto, si è scesi a 8-12); in molte nazioni dell'Africa si raggiungono i 150 morti per ogni 1.000 neonati. I genitori sanno che se vogliono ritrovarsi in vecchiaia 2 o 3 figli che li assistano devono procrearne un numero molto maggiore.
Il perdurare della mortalità infantile a livelli così alti ha anche un'influenza diretta e importante nel determinare la ridotta durata media della vita. I rilevanti progressi che pure si sono avuti negli anni cinquanta nei paesi in via di sviluppo sono stati il risultato diretto di miglioramenti sostanziali nell'igiene personale e collettiva e nella sanità pubblica. Una volta però che le malattie epidemiche siano state controllate, ulteriori riduzioni di mortalità dipendono dal miglioramento delle condizioni di vita in generale e dell'alimentazione e dei servizi sanitari in particolare. Dipendono poi dagli atteggiamenti sociali e personali nei confronti della malattia e della medicina, dal livello d'istruzione, dalle disponibilità economiche e anche molto dalla facilità di accesso ai presidi sanitari. Ad esempio, il fatto che in questi paesi la maggior parte delle strutture sanitarie siano localizzate nelle aree urbane rimane la ragione principale della forte supermortalità delle aree rurali.
Si ha così un'ineguaglianza straordinariamente forte fra paesi sviluppati e meno sviluppati nei confronti della morte. Il privilegiato quarto dell'umanità che abita nei primi vive in media 17 anni in più del resto del mondo. Se si lasciano proseguire le tendenze in atto, senza decisivi interventi esterni, i paesi meno sviluppati potrebbero forse raggiungere una durata di vita media qual è quella attuale dei paesi più sviluppati intorno al 2050.
Quest'ultima valutazione porta subito ai problemi cruciali dei rapporti fra nazioni e delle relazioni fra popolazione e sviluppo. Per citare un caso concreto si può ricordare che, sulla scorta di quello che si conosce attualmente, nelle proiezioni al 2000 della FAO si trova che - assumendo un uso medio di supporti adeguati, come pesticidi e fertilizzanti, migliorando le varietà di raccolti e ipotizzando una circolazione assolutamente libera delle eccedenze potenziali fra le cinque principali regioni del mondo - in tutte le regioni, eccetto l'Asia sudoccidentale, si potrebbe soddisfare il fabbisogno alimentare delle rispettive popolazioni. Se, viceversa, si ipotizza che non vi sia libera circolazione di alimenti e che si riesca a fare solo un ridotto uso di supporti esterni, allora un insieme di 65 paesi meno sviluppati avrebbe rispetto alla propria disponibilità di alimenti un ‛eccesso' di 441 milioni di abitanti, il 55% dei quali localizzati in Africa.
Tutto questo vale per il 2000, quando la popolazione del mondo dovrebbe essere di soli 6,1 miliardi di persone; essa, come s'è detto, dovrebbe continuare a crescere per un altro secolo fino alla sua eventuale stabilizzazione sui 10,2 miliardi: le implicazioni, a lungo termine, sul fabbisogno di cibo sono facilmente immaginabili. Il problema alimentare è ulteriormente complicato dall'impatto che popolazione e produzione di alimenti hanno sull'ambiente; anche per questa strada si arriva quindi a uno dei problemi cruciali, attuale e futuro: quello delle relazioni fra popolazione, risorse, ambiente e sviluppo, relazioni straordinariamente complesse, ancora abbastanza oscure e comunque fortemente dinamiche. Le ricerche e le esperienze degli ultimi dieci anni hanno infatti dimostrato quanto sia possibile accrescere la conoscenza e le capacità di trattare e risolvere problemi come l'equilibrio ecologico, l'inquinamento ambientale, la conservazione delle risorse naturali, un miglior uso delle risorse rinnovabili e la ricerca di fonti energetiche alternative. Hanno anche dimostrato che la crescita della popolazione resta sì un elemento fondamentale di queste relazioni, ma non può essere certo considerata la sola e la prima responsabile quando si ha deterioramento dell'ambiente naturale o spoliazione delle risorse del mondo (v. ecologia, suppl.).
4. Alcuni problemi emergenti
a) L'invecchiamento della popolazione
In generale il processo di transizione demografica che ha portato e va portando le popolazioni da una stazionarietà primitiva a una moderna stazionarietà comporta anche un progressivo e accentuato invecchiamento delle popolazioni stesse. Il meccanismo evolutivo di una popolazione è tale che ogni anno la popolazione sopravvivente slitta di un'età, giacché ogni individuo che non muore invecchia di un anno e ogni classe d'età scala nella successiva; resta libera pertanto la prima classe d'età, che viene riempita da coloro che nascono nell'anno. Ora, in termini un po' semplificati, se le nascite diminuiscono di anno in anno si ha che ogni leva di nuovi nati non riesce a rimpiazzare completamente la leva che l'ha preceduta, sicché si hanno proporzionalmente sempre meno persone in età infantile e la popolazione pertanto invecchia. È quindi il livello di fecondità, e l'intensità del flusso annuale di nascite che ne deriva, a determinare, o meno, il processo d'invecchiamento di una popolazione e a questa variabile è legato quindi il fatto che nei paesi meno sviluppati circa il 38% della popolazione ha meno di 15 anni e solo il 4% più di 65 anni, mentre nei paesi più sviluppati quelli con meno di 15 anni sono circa il 20% e gli ultrasessantacinquenni sono il 13-14%. Problemi molto diversi derivano da strutture per età tanto differenziate perché, ad esempio, la diversa struttura per età fa radicalmente cambiare non solo la domanda di beni e di servizi economici, sanitari, scolastici, culturali e per la fruizione del tempo libero, oppure l'atteggiamento e la spinta verso il progresso e l'innovazione tecnica e scientifica, ma anche il comportamento demografico stesso, nel senso che, a parità di altre condizioni, varia al variare dell'età la probabilità di morire, di avere un bambino, di sposarsi o di migrare (nella fig. 2 sono esemplificate le fortissime differenze di struttura per età che si possono osservare nelle popolazioni contemporanee, ad esempio nella popolazione della Nigeria e in quella dell'Italia al 1985).
Per i paesi economicamente progrediti quello dell'invecchiamento costituisce certo uno dei problemi emergenti e bisognerà che le società imparino a tenerne conto e a convivere con esso molto meglio di quanto facciano attualmente. Esso comporta, fra l'altro, una diversa strutturazione di molti servizi sociali e sanitari, rende necessario un ridimensionamento delle strutture scolastiche, aggrava l'onere pensionistico. È necessario perciò che tutta l'organizzazione della società (compreso quindi il ciclo lavorativo) sia ripensata tenendo conto di questa realtà e dei problemi e delle esigenze che ne derivano, a evitare che l'invecchiamento demografico si tramuti completamente e inevitabilmente anche in invecchiamento sociale.
b) La grande crescita urbana
Se ‛esplosione demografica' è stato il termine spesso usato per descrivere la crescita della popolazione mondiale, un'esplosione nell'esplosione si può definire la crescita della città o, meglio, la crescita della popolazione urbana nel mondo contemporaneo. La città ha rappresentato e ancora rappresenta in molti casi l'unica opportunità di migliori condizioni economiche e professionali e il luogo esclusivo per la promozione sociale. Perciò, partendo da poche e ristrette aree (quelle dove è nata la rivoluzione industriale), la diffusione dell'urbano si è allargata rapidamente e investe ora tutto il mondo, anche quello meno industrializzato: tuttavia anche per la crescita urbana la situazione è straordinariamente differenziata dal punto di vista territoriale.
Nei paesi economicamente progrediti attualmente l'urbanizzazione, intesa come concentrazione demografica nella grande città, ha cominciato da alcuni anni a esaurire la sua spinta. Iniziatasi con la rivoluzione industriale, si è estrinsecata perciò, a seconda dei casi, nel giro di 100-200 anni: ha favorito la transizione demografica e di essa si è alimentata in maniera graduale e progressiva; si è giovata, nei paesi europei, della possibilità dell'emigrazione internazionale verso i nuovi continenti per eliminare nella giusta misura e al momento giusto il surplus di popolazione (e diminuire, quindi, la pressione demografica sulle città); si è avvalsa delle grandi opportunità economiche e demografiche rappresentate dalle colonie. Questi paesi, instaurando e sfruttando rapporti commerciali di scambio eccezionalmente favorevoli a sostenere questa intensa crescita demografica e urbana, hanno escogitato e imposto una serie di meccanismi che hanno consentito di scaricare in larga misura all'esterno gli inevitabili squilibri e le tensioni che la forte urbanizzazione provocava.
A partire però da una ventina di anni fa, il sistema costituito dalla triade industrializzazione-urbanizzazione-migrazione è andato via via degradandosi ed è perciò alla ricerca di nuovi equilibri. L'elemento del sistema che sembra essere entrato maggiormente in crisi è la grande città centrale, che va dimostrandosi sempre più ingovernabile e sempre più antieconomica, sia dal punto di vista produttivo, sia dal punto di vista umano. La grande industria ha cominciato ad abbandonare la grossa fabbrica e a spezzare la produzione in stabilimenti piccoli e decentrati, allontanandosi perciò dalla grande città e disseminandosi sull'intera regione. Anche il sorgere e il fiorire della piccola e media industria su tutto il territorio hanno favorito il decentramento produttivo, cui si è accompagnato poi il decentramento commerciale e quindi il decentramento residenziale.
Il fenomeno è ormai comune a molti paesi e si manifesta soprattutto con un'accentuata crescita delle città di secondo e terzo livello, di media e piccola ampiezza, mentre le grandi città centrali (Londra, Parigi, New York, Madrid, Milano, Torino, solo per citarne alcune) perdono popolazione: nelle nazioni più industrializzate si sta assistendo a una vera e propria ‛contro-urbanizzazione'. D'altra parte in questi paesi comincia a diventare dubbia la storica distinzione fra territorio urbano e territorio rurale. Gli elementi determinanti che stanno consentendo di superare questa distinzione sono in primo luogo la maggiore economicità, velocità e sicurezza nella mobilità delle persone e delle merci e quindi l'enorme sviluppo che essa ha avuto; in secondo luogo la crescente disseminazione delle idee, delle informazioni, delle conoscenze, della cultura e della tecnologia; poi, ancora, la crescente diffusione su tutto il territorio di servizi fondamentali come scuole, ospedali, strutture per l'uso del tempo libero, ecc. Tutti questi elementi hanno spezzato la moderna cinta muraria, la barriera economica, sociale e culturale che cingeva la città e che ne faceva un luogo diverso, il luogo esclusivo della civiltà contemporanea. Si è attenuata fortemente la distinzione fra le ways of life, fra il tipo di vita urbano e il tipo di vita rurale: si diffonde sempre di più l'‛urbanizzazione senza città'.
Nei paesi meno progrediti l'esplosione urbana ha preso pieno avvio solo dal secondo dopoguerra ed è stata rapidissima e accentuata. Questo è potuto accadere perchè - come si diceva - l'esplosione urbana si è trovata congiunturalmente legata a una intensissima e altrettanto rapida esplosione demografica; non si è accompagnata, però, a tutte quelle altre opportunità politiche, economiche e sociali di cui si è giovata l'urbanizzazione nei paesi progrediti. Giudicata in termini di evoluzione urbana europea, non v'è dubbio che nei paesi meno progrediti, e in specie in America Latina, vi sia attualmente un eccesso di urbanizzazione rispetto al livello di industrializzazione e, più in generale, al livello di sviluppo cui questi paesi sono pervenuti, e quindi un forte squilibrio in tutti i rapporti demografico-economici.
A considerare solo qualche esempio, si può ricordare come in appena trent'anni (dal 1955 al 1985) Kinshasa sia cresciuta di 14 volte, Calcutta abbia incrementato la propria popolazione di oltre 4 milioni di persone e Città del Messico (la cui popolazione è passata da 4 a 18 milioni) sia aumentata per trent'anni di 470 mila persone ogni anno (v. tab. V). Quando la crescita è tanto dirompente non ci sono strutture amministrative, economiche e sociali che possano reggere. I problemi collegati a un'urbanizzazione così esasperata assumono una dimensione drammatica e la soluzione quasi sempre non può non essere che quella delle sterminate e miserevoli bidonvilles.
Non solo però la situazione urbana attuale dei paesi meno sviluppati, ma anche le prospettive future rappresentano una sfida storica per l'intera umanità. Si valuta che nel mondo nel 1980 fossero 9 le agglomerazioni urbane con più di 10 milioni di abitanti, 5 delle quali localizzate nei paesi in via di sviluppo, nei quali queste megacittà dovrebbero diventare 20 (su un totale di 25) entro il 2000. È previsto che alla fine del secolo Città del Messico sia la più grande città del mondo con una popolazione di 26 milioni di abitanti: se da un lato può sembrare impossibile che questa proiezione sia realistica, e quindi che Città del Messico cresca ancora tutti gli anni di ulteriori 615 mila persone all'anno, bisogna d'altra parte considerare che anche quello di avere una città di soli 26 milioni è un obiettivo difficile, per perseguire il quale bisognerà fare in modo che il tasso di crescita della città, fra il 1990 e il 2000, si riduca a meno della metà di quello che si è registrato fra il 1970 e il 1980.
Gli stessi problemi sorgono per San Paolo (popolazione prevista al 2000: 24 milioni) o per Calcutta (16 milioni) o per Il Cairo (13 milioni) e così per quasi tutte le grandi città dei paesi in via di sviluppo. Problemi tanto gravi che paiono irrisolvibili: una delle soluzioni proposte è quella di dirottare parte dell'immigrazione che affluisce verso le megacittà sulle città di ‛secondo' e ‛terzo' livello, il che - sempre che esista nei vari paesi una vera e propria rete urbana che renda possibile una soluzione del genere - creerebbe comunque problemi molto seri, perché aumentare la già rapidissima crescita delle città medie e piccole comporta incrementi di popolazione così grandi che sembrano eccedere sia la capacità di provvedere in misura adeguata alla creazione di servizi (case, fognature, scuole, ospedali, ecc.) e di posti di lavoro, sia quella di mantenere la salute pubblica a un livello accettabile.
Parzialmente praticabile è anche la soluzione di dare priorità all'agricoltura negli interventi di sostegno allo sviluppo e di attrezzare adeguatamente di servizi le zone rurali in modo da poter frenare l'esodo che dalle campagne affiuisce verso le città: infatti lo sviluppo tecnologico dell'agricoltura rende superflua una larga parte delle forze di lavoro attualmente in essa impegnate e quindi una soluzione del genere in molti casi ha prodotto effetti opposti a quelli sperati, alimentando un'ulteriore emigrazione dalle campagne. Soltanto un approccio multiplo e graduale al problema sembra al momento la soluzione in grado di fronteggiarlo, almeno parzialmente.
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