POPOLAZIONE (XXVII, p. 914; App. II, 11, p. 591; III, 11, p. 461)
Il fenomeno comunemente noto come "esplosione demografica" è relativamente recente, avendo avuto luogo, come conseguenza di determinati mutamenti sociali, nel corso degli ultimi 50 anni. Pochi altri fatti, salvo forse la guerra e le carestie, hanno suscitato, a partire dall'ultimo conflitto mondiale, cosi vaste preoccupazioni da parte di sociologi, demografi, pianificatori sociali ed ecologi, come questo aumento senza precedenti del ritmo di crescita della p. e i suoi riflesi sulle risorse del nostro pianeta e sulla qualità della vita. Tre conferenze internazionali sono state dedicate allo studio dei diversi aspetti della rivoluzione demografica: nel 1954 a Roma, nel 1965 a Belgrado e nel 1974 a Bucarest.
All'inizio dell'era cristiana, sulla Terra vivevano circa 250 milioni di persone. Ci sono voluti 1000 anni perché la p. mondiale raggiungesse i 350 milioni, e altri 800 anni per arrivare al miliardo. È a questo punto che, sul problema della crescita della p., si leva per la prima volta una voce preoccupata, quella di Robert Malthus nel suo Essay on population (1798; 18286). All'inizio del nostro secolo vi erano nel mondo 1650 milioni di persone, mentre oggi, dopo soli 75 anni, la famiglia umana è arrivata ai 4 miliardi di unità. Nel giro di altri trent'anni, entro il 2000, la p. mondiale si prevede raggiungerà almeno i 6 miliardi e mezzo di persone: si sarà cioè quadruplicata nel corso di un secolo.
A quanto è dato prevedere, gli anni che ci separano dalla fine del secolo sono anni che faranno storia, da un punto di vista demografico. Nel corso di questi anni, il tasso d'incremento della p. mondiale non solo subirà un'impennata, ma raggiungerà livelli che, in futuro, non si verificheranno probabilmente mai più. Questo tasso record dovrebbe aggirarsi sul 2% annuo, tra il 1970 e il 1990; nei paesi meno svilappati si prevede giungerà fino al 2,5%, mentre in quelli più sviluppati dovrebbe rimanere sull'1% e forse meno. Di conseguenza, tra il 1965 e il 2000, la p. mondiale sarà praticamente raddoppiata (da miliardi e 300 milioni a sei miliardi e mezzo), con un aumento che sarà del 40% nei paesi sviluppati e del 124% nelle aree più arretrate. Se un simile ritmo rimanesse costante, la p. mondiale si raddoppierebbe ogni 35 anni.
Le cause di una tale situazione demografica sono varie e complesse, ma possono essere ricondotte, in generale, a una sostenuta diminuzione dei tassi di mortalità a partire dagl'inizi del secolo. In passato, le carestie mietevano, a frequenti intervalli, un alto numero di vite umane. Anche le pestilenze contribuivano a contenere i livelli della p.: si pensi per es. che, in un periodo di soli cinque anni, dal 1347 al 1351, un terzo della p. europea morì di peste bubbonica. A ridurre i tassi d'incremento, vi erano poi le guerre tribali o dinastiche. Ai nostri tempi, invece, soprattutto in seguito ai progressi della scienza medica e al continuo miglioramento delle strutture igienico-sanitarie, i tassi di mortalità sono progressivamente diminuiti e si è allungata la durata media della vita, mentre i tassi di natalità sono rimasti più o meno gli stessi.
La p. mondiale cresceva, nel corso del 19° secolo, a un tasso medio annuo che era soltanto dello 0,3% e, nella prima metà del 20° secolo, dello 0,8%. Nel decennio tra il 1950 e il 1960 questo tasso è improvvisamente salito all'1,8%, e ha continuato ad aumentare nel decennio successivo, tanto che oggi è calcolato intorno al 2%, con una crescita annuale di 75-80 milioni di unità. La seguente tabella fornisce gli attuali tassi d'incremento annuo nelle diverse aree geografiche.
Si può osservare che nel 1970-75, mentre nei ricchi paesi industrializzati compresi sotto la voce "aree sviluppate" la p. è aumentata a un tasso annuo inferiore all'i %, nelle aree meno sviluppate questo tasso è stato ben del 2,36%. Il tasso d'incremento più alto è stato raggiunto dalla zona tropicale dell'America latina con il 2,73% annuo. Quello dell'Africa è quasi del 2,7% e quello dell'Asia (Giappone e Cina esclusi) del 2,64%, mentre l'America del Nord ha un tasso d'incremento che è soltanto dello 0,9% e l'Europa dello 0,64%.
La p. non è uniformemente distribuita sulla superficie terrestre. Nel 1950, più di metà della p. mondiale viveva in Asia, e solo il 15,8% in Europa (esclusa l'Unione Sovietica che aveva il 7,2%), il 6,7% nel Nord America, il 6,5% nell'America latina e l'8,7% in Africa.
Questa distribuzione nelle diverse aree geografiche, dati i differenti ritmi di crescita, è sicuramente destinata a cambiare nei prossimi anni. Nell'anno 2000 vi saranno sulla Terra circa 4 miliardi di persone in più rispetto al 1950, ma ripartite in maniera non proporzionale. Più del 60% di questa massa aggiuntiva di persone si troverà in Asia, la cui p., così, risulterà verosimilmente triplicata nel giro di 50 anni. In Africa e in America latina si prevede vi sarà addirittura un aumento di quattro volte, con oltre un miliardo di persone in più. In queste tre zone, complessivamente, dovrebbe trovarsi nell'anno 2000 più dell'80% della p. mondiale, contro il 70% del 1950. Corrispondentemente, la quota di Europa, Unione Sovietica e Nord America scenderà dal 30% a meno del 20%.
Secondo le previsioni delle Nazioni Unite, importanti cambiamenti, per quanto riguarda sia la fecondità che la mortalità, sono da attendersi soltanto nei paesi meno sviluppati: in essi, se considerati nel loro insieme, il tasso di fecondità dovrebbe diminuire, il che, peraltro, non determinerà sensibili effetti, in termini di crescita complessiva, prima di parecchie decine di anni. Queste previsioni stimano che la popolazione della Terra sarà di 6,5 miliardi di persone entro il 2000 e di 12 miliardi entro il 2075, epoca in cui dovrebbe essere raggiunto un equilibrio demografico globale. Naturalmente vi saranno considerevoli differenze tra le principali aree geografiche: infatti il previsto calo dei tassi di fecondità dovrebbe essere più rapido nell'Asia meridionale e orientale, e più lento in America latina. In Africa questo calo dovrebbe avere inizio un decennio più tardi e, di conseguenza, l'attuale tasso d'incremento demografico, che è del 2,8%, dovrebbe continuare a salire fino al 3% o più, negli anni Ottanta. L'Africa cioè continuerà ad avere, probabilmente, il più alto tasso d'incremento fin oltre l'inizio del secolo venturo. Le conseguenze che una simile dinamica demografica globale produrrà sul piano delle risorse e dell'ambiente terrestri, sono d'incalcolabile portata. Dar da mangiare ogni anno a 70-80 milioni di persone in più, è un'impresa spaventosa, che richiederà sforzi eroici.
Tutto ciò significa anche un esplosivo aumento della forza-lavoro disponibile, aumento che, secondo le previsioni dell'ILO, sarà del 68% tra il 1970 e il 2000, vale a dire di un miliardo di persone, delle quali 800 milioni nei paesi del Terzo Mondo.
La migrazione dalle aree rurali a quelle urbane accelererà enormemente la crescita delle città: si prevede che, entro il 2000, la p. urbana aumenterà, nel mondo, di quasi 2 miliardi di unità. Si calcola inoltre che, entro il 1985, metà del genere umano vivrà concentrato in agglomerati urbani, e che, alle quattro città che attualmente superano - compresi i sobborghi - i 10 milioni di abitanti (New York, Londra, Tokyo e Shangai), se ne aggiungeranno altre tredici: Città di Messico, San Paolo del Brasile, Los Angeles, Bombay, Calcutta, Pechino, Osaka, Buenos Aires, Rio de Janeiro, la zona renana della Ruhr nella Rep. Fed. di Germania, il Cairo, Parigi e Seul. Un tale sviluppo delle città è destinato a portarsi dietro problemi quali la povertà, la disoccupazione, l'inquinamento e la degradazione dell'ambiente, la difficoltà di soddisfare la crescente domanda di alloggi, di attrezzature e di servizi sociali.
Potrebbe accadere nei prossimi decenni che ci troveremo nella condizione di non poter più mantenere gli attuali livelli di consumo energetico e che, in futuro, il mondo si troverà a dover affrontare gravi difficoltà a causa dell'insufficiente disponibilità di energia. Anche le cosiddette risorse rinnovabili - acqua, aria, terra, piante e animali - potrebbero divenire scarse. L'acqua dolce, i terreni coltivabili, le foreste e il pesce sono già sfruttati al limite delle possibilità in molti paesi densamente popolati, ed è noto che in diverse regioni della Terra vi è già una preoccupante insufficienza di determinate risorse.
Gravi proporzioni potrebbero assumere anche altri problemi, come quello di fornire assistenza sanitaria, istruzione e alloggi alle p. rurali.
Emerge da tutto ciò un problema cruciale: fino a che punto le risorse naturali della Terra, che non sono infinite, sopporteranno il peso di una p. che cresce di continuo e che va migliorando progressivamente i propri livelli di esistenza? E potrà l'uomo giungere infine a un equilibrio dinamico con il proprio ambiente, evitando d'imboccare una china che porta alla distruzione?
Una parte degli studiosi sostiene che la crescita della p. è un fatto senz'altro auspicabile e che gli attuali tassi d'incremento sono molto al di sotto dei livelli ottimali, e inoltre che, se fossero messe in atto appropriate politiche di sviluppo economico e sociale, ogni necessaria riduzione del ritmo di espansione demografica si verificherebbe "automaticamente". Dalla parte opposta, si guarda all'attuale crescita della p. come a un autentico disastro, si profetizza un rapido succedersi di carestie, a meno che non si verifichi un immediato quanto drastico rallentamento dei ritmi di crescita, e s'indica nell'aumento della p. la principale causa della povertà, della malnutrizione, della degradazione ambientale e perfino delle minacce di guerra. Probabilmente la verità sta, più o meno, nel mezzo.
E bene, a questo punto, considerare alcuni fatti. Nel corso degli anni Sessanta, attraverso grandi sforzi, in parte favoriti, alla fine del decennio, dalla cosiddetta "rivoluzione verde", il mondo (senza calcolare la Cina) ha accresciuto di circa il 30% la propria produzione di alimenti. A causa però dell'aumento della p., ciò ha significato soltanto un 7% di alimenti in più pro capite, se si considera il mondo nel suo complesso, e appena un 2-3% se si considerano i soli paesi in via di sviluppo. In 25 anni, a partire dal 1947, l'Unione Indiana ha quasi raddoppiato la propria produzione alimentare, ma, poiché nello stesso periodo la sua p. è aumentata di circa 200 milioni di unità, vi è oggi in quel paese un maggior numero di persone malnutrite. Un altro importante sforzo, negli anni Sessanta, è stato fatto per combattere l'analfabetismo: e, in effetti, il numero degli analfabeti è percentualmente diminuito (dal 40% al 35%); in termini assoluti, però, si è avuto un aumento di 50 milioni di unità. Nei paesi ad alto tasso di fecondità, la p. in età scolare è cresciuta così rapidamente che, alla fine degli anni Sessanta, malgrado la notevole espansione del sistema scolastico, solo poco più della metà aveva effettivo accesso all'istruzione. Le strutture sanitarie nelle aree arretrate, come dimostra la minore durata media della vita, sono in ritardo di almeno 50 anni rispetto alle aree sviluppate. Lo sfruttamento delle risorse e la degradazione ambientale sottopongono il nostro, non illimitato, ecosistema a una pesante sollecitazione che aumenta attualmente di qualcosa come un 6% annuo, e che, a causa del crescente aumento di abitanti e dei sempre più alti livelli di vita, dovrebbe diventare di sedici volte maggiore nel 2020.
Il punto di vista intermedio tra le due posizioni estreme sopra accennate, consiste appunto nel riconoscere il significato di fatti come questi, e nel ritenere che la persistenza di alti tassi d'incremento demografico costituisca un grave impedimento allo sviluppo socio-economico di molti paesi e sia causa del moltiplicarsi e dell'aggravarsi di numerosi problemi. È evidente, di conseguenza, che un rallentamento dell'espansione demografica darebbe un incalcolabile contributo al miglioramento delle condizioni di vita dell'umanità aumentando la disponibilità di alimenti e la qualità della nutrizione, favorendo l'alfabetizzazione e l'istruzione, migliorando le condizioni igieniche e sanitarie, consentendo maggiore occupazione e redditi più elevati, e ampliando le possibilità d'impiego per le donne. Questo punto di vista riconosce tuttavia che, in determinate zone, l'esistenza di una p. più numerosa o un costante, moderato incremento demografico, potrebbero dar luogo a effetti positivi, particolarmente in paesi con bassa densità di p., con risorse agricole scarsamente sfruttate e con carenza di manodopera. Il controllo demografico non può risolvere da solo i problemi della miseria e del sottosviluppo, ma può essere un elemento importante nel complesso delle misure necessarie al conseguimento della crescita economica e della giustizia sociale. La contrazione della natalità non è in alcun modo sostitutiva dello sviluppo, ma, in molti casi, può facilitarne il processo.
Negli ultimi anni, questa posizione ha avuto consensi crescenti tanto che oggi è opinione universalmente accolta quella che, pur non sottovalutando gli effetti a lungo termine che lo sviluppo economico e il cambiamento sociale possono avere sulla crescita della p., ritiene auspicabile un rallentamento dell'espansione demografica per mezzo di una riduzione dei tassi di fecondità.
In altre parole, se l'emancipazione della donna, il miglioramento delle condizioni di esistenza, la diminuzione della mortalità infantile e l'educazione delle masse popolari devono essere vigorosamente incoraggiati, allo stesso tempo va attivamente perseguita una riduzione della fecondità attraverso i moderni metodi di pianificazione familiare. E, per quanto i pareri non siano del tutto concordi circa l'applicazione di questi metodi a livello di massa in contesti culturali e in situazioni sociali diverse, vi è un sempre più ampio accordo, almeno in linea di principio, sull'opportunità che le singole coppie siano poste in condizione di poter controllare la propria fecondità e le dimensioni della famiglia se lo ritengono necessario ai fini della salute o per motivi di carattere umano, senza che nessuna coercizione in questo senso sia esercitata su di esse. Nei paesi in via di sviluppo, il 70% delle coppie afferma di non volere più di quattro bambini; in quelli sviluppati, il 70% afferma di non volerne più di due. Se si ammette la veridicità di tali risposte e se s'ipotizzano programmi di pianificazione familiare in grado di soddisfare queste esigenze, si può calcolare una riduzione del tasso di natalità di circa 9-12 punti nei paesi in via di sviluppo e di 2-3 punti in quelli sviluppati.
In effetti, la maggior parte dei paesi in via di sviluppo ha adottato, negli ultimi anni, politiche o programmi demografici aventi lo scopo di ridurre la fecondità. Sono indicati qui di seguito alcuni esempi degli obiettivi che queste politiche si propongono.
Si può osservare, in base ai dati sopra riportati, che la religione influisce sempre di meno sull'adozione di politiche demografiche da parte dei vari paesi. L'India ha una p. prevalentemente induista, pur con notevoli componenti musulmane e cristiane; l'Egitto, la Malaysia, l'Indonesia e il Marocco sono musulmani; le Filippine e la Repubblica Dominicana prevalentemente cattolici. Ciò nonostante hanno tutti adottato una politica di controllo delle nascite. Le differenze nell'attuazione di questa politica riguardano più le scelte dei metodi che le considerazioni dottrinali. Sono molti oggi i cattolici credenti, così come i protestanti, che utilizzano metodi anticoncezionali di ogni tipo e che si aprono sempre più ai problemi e alle decisioni di pianificazione demografica, in considerazione dei bisogni di sviluppo della personalità umana e delle esigenze di migliori condizioni di vita e di maggiore giustizia sociale.
Negli ultimi dieci-quindici anni, politiche a sostegno della pianificazione familiare sono state ampiamente adottate nei paesi in via di sviluppo. Circa l'87% della p. del Terzo Mondo vive in paesi che mettono in atto provvedimenti miranti a rendere accessibili i mezzi di contraccezione, anche se attualmente la proporzione di coloro che vi hanno realmente accesso è di molto inferiore. Soltanto pochi grandi paesi, come per es. il Brasile, la Birmania e l'Etiopia, non hanno ancora adottato tali politiche. La direzione verso cui specificamente s'indirizzano gli sforzi è, nella massima parte dei casi, quella di favorire una pianificazione familiare volontaria, attraverso programmi integrati che comprendono l'informazione, la distribuzione dei mezzi e l'assistenza necessari a una moderna contraccezione, con ampia scelta tra i diversi metodi, ma con una netta preferenza per gli IUD (intra-uterine devices - congegni intra-uterini), per la pillola orale, per la sterilizzazione maschile e, in particolari situazioni e con particolari cautele, per l'aborto, praticato col metodo dell'aspirazione.
Anche le consuetudini sociali e coniugali sono importanti fattori di limitazione della fecondità. Mettere al mondo dei figli al di fuori del matrimonio è cosa condannata nella maggior parte delle società, tanto da costituire un fatto statisticamente irrilevante nelle società di tipo tradizionale, mentre nelle società più evolute la percentuale di natalità attribuibile a rapporti extra-coniugali è di molto inferiore al 10%. A ridurre la fecondità contribuisce anche il ritardo dell'età in cui vengono contratti i matrimoni, com'è storicamente avvenuto in Irlanda e come pare stia oggi avvenendo in Cina. Lo spostamento in avanti dell'età matrimoniale in Tunisia, per es., si ritiene sia responsabile per un 40% della contrazione del tasso di fecondità in quel paese.
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