POPOLAZIONE
(XXVII, p. 914; App. II, II, p. 591; III, II, p. 461; IV, III, p. 35)
Teorie della popolazione. - L'evoluzione della p., come tutti i fenomeni sociali, è la risultante di un insieme di fattori, oggettivi e soggettivi, che è persino difficile individuare e di cui è pressoché impossibile misurare l'impatto quantitativo derivante dalle loro complesse interrelazioni, solo in parte note e quantificabili. E ciò tanto più in quanto alla base dell'evoluzione demografica vi sono, oltre a molteplici fattori economico-sociali, anche fattori di ordine bio-fisiologico, che − un tempo prevalenti nel determinarla − agiscono tuttora direttamente e indirettamente su di essa, anche se in misura quantitativamente diversa nelle varie compagini demografiche.
In queste condizioni, la formulazione di teorie intese a descrivere e interpretare l'evoluzione quantitativa e le modificazioni strutturali dei gruppi umani non può che risolversi in ipotesi solo parzialmente verificabili. Tuttavia, nonostante le difficoltà concettuali intrinseche a un fenomeno bio-sociale così complesso, i tentativi di teorizzare l'evoluzione delle p. sono stati storicamente numerosi e si sono arricchiti negli ultimi decenni con gli sviluppi dell'analisi demografica che hanno consentito una sicura conoscenza delle relazioni tra dinamica e struttura dei gruppi umani, e hanno permesso di tracciare alcune linee fondamentali della loro evoluzione.
Le maggiori conoscenze di cui si sono arricchite le discipline biologiche e sociali da un lato, e dall'altro le migliori possibilità di analisi sviluppatesi nell'ambito degli studi demografici, suggeriscono una sistemazione delle teorie della p. che tenga conto sia dei progressi metodologici dell'analisi demografica, sia delle acquisizioni scientifiche delle varie discipline che concorrono a interpretarne l'evoluzione.
Per meglio comprendere gli sviluppi recenti, sembra perciò opportuno tentare una classificazione di massima dei vari filoni di pensiero che hanno sostanziato le teorie sull'evoluzione demografica nel corso dei secoli, in modo da individuare quanto di nuovo o, invece, di ricorrente si possa rintracciare nelle elaborazioni concettuali più recenti. Le concezioni teoriche che si sono succedute storicamente possono distinguersi a seconda che interpretino l'evoluzione quantitativa della p. come effetto prevalente di fattori interni oppure di fattori esterni. Le prime possono qualificarsi come teorie biologiche, le seconde come teorie economico-sociali, in quanto appunto sui fattori economici e/o sui fattori sociali esse hanno centrato la loro attenzione.
Teorie biologiche. - Sono meno numerose e meno articolate delle teorie che attribuiscono a fattori esterni l'evoluzione quantitativa delle p.; vanno ricordate tra queste la teoria evolutiva di H. Spencer, la teoria periodica di J. Brownlee e la teoria ciclica di C. Gini.
La teoria evolutiva di Spencer, formulata alla metà del secolo 19°, inquadra l'evoluzione della p. umana nel contesto più generale dell'evoluzione delle specie. Accettata da numerosi altri autori (G. Delaunay, C. Richet, I. Vanni, F. S. Nitti), tale teoria postula l'esistenza di una relazione inversa tra capacità genetica e specializzazione nervosa. Nella specie umana, lo sviluppo progressivo del sistema nervoso − effetto delle crescenti attività intellettuali che caratterizzano la specie − comporterebbe un progressivo indebolimento del potere riproduttivo nel tempo, così come si osserva una prolificità decrescente passando dalle specie inferiori alle specie superiori.
La teoria periodica, formulata da Brownlee all'inizio del 20° secolo, aveva già avuto un'embrionale formulazione dallo stesso Ch. R. Darwin ed è stata ripresa e arricchita di sviluppi matematici da altri autori (A. J. Lotka e, in Italia, V. Volterra). Essa postula, anche per la specie umana come per le altre specie animali, il succedersi di fasi alterne di espansione e di contrazione della capacità riproduttiva come effetto secondario delle variazioni d'intensità della selezione naturale in conseguenza dell'alternanza dell'aggressività di specie ''divoranti'' (nel caso della specie umana, batteri e virus).
La teoria ciclica, formulata da Gini fin dal 1912 e successivamente precisata e completata (v. XXVII, p. 926), si differenzia dalle altre teorie biologiche per il fatto di considerare il controllo delle nascite come causa determinante della riduzione della fecondità spiegandone, peraltro, la diffusione in chiave biologica (prevalenza della ragione sull'istinto riproduttivo quando questo si attenua come effetto della decadenza biologica).
Negli ultimi decenni le teorie a sfondo biologico non hanno dato luogo a nuovi sviluppi, anche se alcune osservazioni di andrologi occidentali suggeriscono l'ipotesi di una più frequente rarefazione di spermatozoi nel liquido seminale, che potrebbe essere in qualche misura collegata con la progressiva riduzione della fecondità che caratterizza nella nostra epoca il mondo industrializzato.
Teorie economico-sociali. - Più numerose e più note sono le teorie che attribuiscono l'evoluzione delle p. a fattori esterni, soprattutto economici o economico-sociali. Il problema della p. inteso come dualismo tra incremento della p. e incremento delle sussistenze comincia a delinearsi soltanto nel tardo Medioevo. Tuttavia, anche in precedenza e fin da epoche antiche, si possono individuare precise concezioni sull'importanza e sui riflessi di uno sviluppo demografico più o meno rapido. Si tratta di concezioni in qualche modo collegate con ideologie religiose, con teorie filosofiche o con orientamenti politici.
Sotto il profilo religioso, si ritrova in quasi tutte le religioni il concetto sacrale della procreazione e della moltiplicazione della specie intesa come dovere, e si indicano le regole di condotta dei fedeli al riguardo. Manca, però, una vera e propria costruzione teorica nell'ambito di una concezione puramente religiosa. Costruzioni teoriche si ritrovano, invece, nel pensiero filosofico. Esse sono state sviluppate in Grecia fin dal 5° e 6° secolo a.C. e poi in particolare da Platone e Aristotele, che hanno teorizzato come ideale una p. stazionaria sotto il profilo quantitativo e selezionata sotto quello qualitativo.
Destinata a maggiori sviluppi nel corso dei secoli è stata la concezione politica del problema demografico, che ha caratterizzato l'antica Roma e ha contrapposto all'ideale filosofico della p. stazionaria quello politico di una p. a rapido ritmo d'incremento, che ha trovato la sua massima espressione nel periodo imperiale. Tale concezione, che considera il rapido aumento della p. come fattore fondamentale del potere politico, ha costituito un filone di pensiero dal quale si sono sviluppate due correnti: l'una più propriamente politica (che giunge fino al secolo 20° con le teorizzazioni del nazismo e del fascismo) e l'altra più propriamente scientifica, che nel corso del Rinascimento e dei secoli successivi ha dato luogo a sviluppi teorici intesi a descrivere e interpretare il legame che intercorre tra sviluppo demografico e sviluppo economico.
Nell'ambito di quest'impostazione, che si ritrova in molti pensatori, si vanno delineando nei secoli 16°-18° due antitetiche vedute: quella della scuola mercantilistica, che vede in una p. numerosa uno dei fattori fondamentali per incrementare la produzione e, quindi, il commercio; e quella fisiocratica che, sostenendo il ritorno alla terra considerata unica vera fonte di ricchezza, non attribuisce alla p. il carattere di fattore condizionante dello sviluppo. L'una e l'altra scuola ebbero fautori numerosi in Francia, Inghilterra e Italia. Qui, dopo G. Botero, numerosi pensatori contribuirono ad arricchire nei secoli successivi il filone delle teorie economiche della popolazione. Sempre in Italia, con G. Ortes, viene formulata l'ipotesi, sviluppata poi da Th. Malthus, della progressione geometrica dello sviluppo demografico, così come pure in Italia si possono ritrovare molti degli spunti critici alla concezione malthusiana e i precursori della teoria logistica di P. F. Verhulst (v. XXVII, p. 926).
Le teorie più recenti: lo schema descrittivo della transizione demografica. - La dinamica dell'incremento della p. che nel corso di oltre un secolo si è andata via via delineando nei paesi occidentali, in tempi diversi dall'uno all'altro ma sorprendentemente analoghi nella loro successione, ha dato luogo a un'analisi storico-statistica che ha suggerito la formulazione di uno schema descrittivo che ha trovato sempre maggiori conferme e si è via via arricchito di successivi sviluppi. Già negli anni Trenta era stato osservato un comportamento chiaramente differenziato in p. diverse (Thompson 1929; Landry 1934; Savorgnan 1936). A queste prime indicazioni è seguita una costruzione teorica: lo schema della ''transizione demografica'' (Notestein 1945) che è stato poi ulteriormente sviluppato, arricchito (Coale 1973) e approfondito (Chesnais 1986). La concezione logico-teorica implicita nello schema descrittivo è che una p. tende a un equilibrio il quale − se alterato − tende a ripristinarsi a livelli inferiori.
L'evoluzione di una p. considerata come risultante delle sue componenti naturali (natalità e mortalità), dà luogo − sostanzialmente, in base allo schema descrittivo − a tre fasi successive punteggiate da oscillazioni che non alterano però la tendenza: in una prima fase si ha natalità elevata, mortalità elevata e risultante incremento di modesta entità, cui succede una fase di transizione nella quale a un periodo di mortalità decrescente e di natalità solo in seguito e più lentamente decrescente (e, quindi, di elevato incremento), succede la terza fase nella quale l'incremento si riduce come effetto della dinamica delle due componenti, tornando a livelli bassi per effetto del nuovo equilibrio raggiunto. Nella realtà, l'evoluzione più recente nei paesi occidentali ha portato l'incremento a raggiungere la ''crescita zero'' con tendenze che lasciano intravvedere anche l'ipotesi d'incremento negativo.
Le più recenti analisi interpretative condotte da J. C. Chesnais hanno individuato modelli differenziali dello schema, pur sempre valido nella sua sostanza, ma con modalità temporali diverse, in particolare nelle diverse zone geografiche europee. Lo schema della transizione demografica, peraltro, non ha trovato finora convincenti conferme nei paesi del Terzo e Quarto Mondo.
Le teorie più recenti: i modelli interpretativi della riduzione della fecondità. - Nelle analisi più approfondite che hanno arricchito lo studio dell'evoluzione quantitativa dei gruppi umani negli ultimi decenni emerge soprattutto la ricerca delle cause determinanti della progressiva riduzione della fecondità che ha caratterizzato − con fasi diverse e in tempi diversi − tutte le p. del Nord del mondo.
a) Uno dei modelli interpretativi più interessanti e più ricco di successivi sviluppi è il modello economico di Easterlin, secondo il quale la riduzione della fecondità crea squilibri nelle varie classi di età delle forze-lavoro determinando diversità nel ''reddito relativo'' dei giovani rispetto alle generazioni precedenti. Tali diversità provocano una riduzione della nuzialità e un più diffuso controllo delle nascite (Easterlin 1978). Successivi sviluppi della teoria cercano di spiegare anche la crescente partecipazione della donna al mercato del lavoro (che contribuisce alla riduzione della fecondità) con fattori legati all'evoluzione della struttura per età della p. (Wachter 1972 e 1977). Le interpretazioni si rifanno sostanzialmente alle profonde trasformazioni che hanno caratterizzato l'assetto economico e sociale delle p. del mondo industrializzato, modificandone profondamente le aspirazioni e la psicologia.
b) Formulata nei primi anni Sessanta e variamente sviluppata, la teoria della new home economics è molto complessa e − come quella di Easterlin − tratta il problema della riduzione della fecondità a livello micro. Secondo gli economisti della new home economics, la famiglia è un sistema micro-economico nel quale ogni membro è occupato in una serie di attività, ciascuna intesa alla produzione di un ''bene familiare'', ossia al soddisfacimento di un bisogno (materiale o non materiale). Pertanto, le variazioni del livello della fecondità sono dovute a modificazioni delle strategie familiari basate sulla valutazione del bilancio complessivo costi-benefici derivante dalla nascita di un figlio. Il costo è valutato sia in termini di denaro che in termini di tempo e il beneficio è concepito non in funzione individuale ma in funzione della famiglia e determinato dalle sue caratteristiche qualitative. In quest'impostazione assume particolare importanza il lavoro della donna: il lavoro della donna infatti, da un lato aumenta il reddito familiare ma dall'altro accresce il costo marginale del tempo da dedicare ai figli; si crea di conseguenza sia un ''effetto reddito'' che tende ad accrescere la fecondità, sia un ''effetto sostituzione'' che tende a ridurla. Ma l'effetto sostituzione prevale sull'effetto reddito, sì che la relazione tra lavoro della donna e fecondità è in ultima analisi una relazione inversa. A livello macro, in condizioni di congiuntura favorevole, l'aumento dei livelli salariali stimola il lavoro femminile extra-domestico e accresce il costo dei figli, aumentando quindi la relazione negativa. A parità di costi, la dimensione della prole dipende dai benefici (anche non economici) ricavabili dai figli.
Le teorie più recenti: il filone delle teorie economico-sociali. - Alle teorie più propriamente economiche sull'evoluzione della fecondità, che si propongono anzitutto di spiegare i comportamenti riproduttivi delle p. dei paesi economicamente sviluppati, si affiancano interpretazioni che hanno una prevalente valenza sociale e che si rifanno anche e/o soprattutto alla situazione dei paesi in via di sviluppo.
In questo quadro merita di essere ricordato un filone di pensiero, affermatosi negli anni Ottanta, che interpreta l'evoluzione demografica prevalentemente in funzione dei fattori collegati allo status della donna e alle modificazioni che questo ha subito − sia pure in misura e in forme diverse nelle varie realtà − negli ultimi decenni. Tali modificazioni vengono del resto considerate anche nelle teorie esposte al punto b) come uno degli elementi determinanti in quanto interagiscono con i fattori economici. Ma altre e numerose elaborazioni concettuali degli anni Settanta e Ottanta, intese a definire e analizzare lo status della donna, attribuiscono a questo un ruolo assolutamente determinante nell'influenzare la fecondità e anche la mortalità (soprattutto infantile e materna). Secondo questo filone di pensiero rivestono grande importanza sia le modificazioni della condizione della donna all'interno della famiglia sia i mutamenti della sua funzione produttiva.
Tra le elaborazioni teoriche di maggiore interesse vanno ricordate quella del sociologo australiano J. C. Caldwell (1982), il quale ha delineato una discussa ''teoria della transizione demografica'' che collega il valore attribuito ai figli (e quindi il diverso livello di fecondità osservato nelle diverse p.) con l'evoluzione della famiglia da patriarcale a nucleare e con la modificazione dello status della donna che l'accompagna e, soprattutto, la ''teoria dei sette ruoli'' enunciata da Ch. Oppong (1980), che interpreta l'evoluzione della fecondità come effetto prevalente delle differenze di status della donna.
Quest'ultima teoria distingue sette ruoli della donna: tre ruoli prevalentemente interni alla famiglia (parentale, coniugale, domestico), tre ruoli prevalentemente esterni (occupazionale, comunitario, individuale) e, infine, il ruolo familiare. I primi tre ruoli riguardano l'impiego di tempo trascorso in casa, gli altri tre l'impiego di tempo trascorso fuori casa, mentre il ruolo familiare occupa tempo impiegato sia nella casa che fuori di essa in quanto riguarda le relazioni con altri familiari. Ciascuno dei ruoli comporta tempo, capacità, uso di risorse, scelte, relazioni con altre persone ed è regolato da norme e, quindi, suscettibile di giudizi di valore; inoltre dà luogo ad aspettative, da parte sia della donna che di altri. Tale modello, atto a descrivere lo status della donna, può essere collegato ai comportamenti riproduttivi tenendo presente la conflittualità − in termini di tempo − tra i ruoli prevalentemente interni e i ruoli prevalentemente esterni. Esso si riconduce, così, alla new home economics che si basa sul costo marginale del tempo dedicato alla cura dei figli.
Le teorizzazioni economico-sociali hanno dato luogo a modelli interpretativi molto complessi che si sforzano di schematizzare l'insieme delle determinanti della fecondità. Tra i numerosi schemi proposti, va ricordato quello di R. A. Bulatao e R. D. Lee (1983) che considera la fecondità come risultante dell'incontro tra ''domanda'' e ''offerta'' di figli, a loro volta determinate da un insieme di situazioni oggettive e di fattori culturali propri di ciascun gruppo demografico, che condizionano il ricorso più o meno diffuso al controllo delle nascite.
Una pluralità di schemi è stata anche proposta da M.K. Oppenheim (1985), il quale ha tentato d'integrare le teorizzazioni di autori diversi sui legami che intercorrono fra lo status della donna, la fecondità e la mortalità. Il tentativo risulta particolarmente interessante in quanto pone in rilievo la necessità di tener conto dei diversi contesti culturali nella valutazione dei legami tra condizione femminile e comportamenti demografici. In realtà, i moderni sviluppi dell'analisi approfondita delle tendenze demografiche indicano anche l'opportunità di riferirsi distintamente alla p. generale (livello ''macro''), a p. parziali omogenee (livello ''meso'') o addirittura a elementi singoli: individui, coppie, famiglie (livello ''micro''), giacché le variabili esplicative dei comportamenti non sono le stesse nell'uno o nell'altro caso. Ne derivano modelli estremamente complessi. Quello di R. Mackensen (1982) considera, separatamente per i tre livelli, i fenomeni da spiegare (effetti demografici e struttura demografica) e le numerose variabili esplicative che andrebbero prese in considerazione nei vari casi per interpretarne le cause. Tale modello cerca di fondere la teoria economica della famiglia con la teoria dei sette ruoli; ma la sua notevole complessità ne rende assai difficile l'utilizzazione nelle analisi concrete.
Accanto ai tentativi di schematizzare modelli interpretativi della nuova realtà, negli anni più recenti molti contributi hanno arricchito la letteratura socio-demografica su quella che viene ormai definita come ''seconda transizione demografica''. Dalle trattazioni dei numerosi autori europei che si sono occupati del fenomeno (Van de Kaa 1987; Lestaeghe 1988; Roussel 1989) emerge il quadro dei comportamenti che concorrono a mantenere molto basso il livello di fecondità dei paesi industrializzati, tanto da dar luogo a un incremento naturale pressoché nullo o addirittura negativo. Tali comportamenti sono stati individuati nella progressiva transizione da modelli di vita tradizionali a nuovi modelli di vita che tendono a diffondersi fino a generalizzarsi. Questi sono stati identificati nei seguenti passaggi: a) dall'epoca d'oro del matrimonio all'epoca della coabitazione; b) dall'epoca del bambino-re all'epoca della coppia-re con bambino; c) dalla contraccezione preventiva al concepimento scelto come gratificazione personale; d) da un modello unico di famiglia a una pluralità di forme familiari. In effetti, come si vede, si tratta più che di una vera e propria teoria nuova, di un'analisi esplicativa di nuovi comportamenti sociali che − affermandosi sempre più diffusamente − concorrono a mantenere la fecondità dei paesi industrializzati a livelli molto bassi e non lasciano prevedere prossimi, sostanziali mutamenti di tendenza.
Bibl.: A. J. Lotka, Elements of physical biology, Baltimora 1925; S. Thompson, Population, in American Journal of Sociology, 1929; A. Landry, La révolution démographique, Parigi 1934; F. Savorgnan, Corso di demografia, Pisa 1936; F. Notestein, Food of the world, in Population, The long view, a cura di E. Schulz, Chicago 1945; R. A. Easterlin, Population, labor force and long swings in economic growth, New York 1968; M. L. Wachter, A labour supply model for secondary workers, in Review of Economic and Statistics, maggio 1972; A. J. Coale, The demographic transition reconsidered, in International Union for the Scientific Study of Population (IUSSP), International Population Conference, Liegi 1973; M. L. Wachter, Intermediate swings in labour force participation, in Broking Papers in Economic Activity, 2 (1977); R. A. Easterlin, Fertility and female labor force participation in the United States: recent changes and future prospects, IUSSP, Helsinki 1978; J. Brownlee, Germinal vitality, in Proceedings of Philosophical Society, Glasgow 1980; Ch. Oppong, A synopsis of seven roles and status of women. An outline of conceptual and methodological approach, ILO, Paper n. 94, settembre 1980; J. C. Caldwell, Theory of fertility decline, Londra 1982; R. Mackensen, Social change and reproductive behaviour on continuous transition, in Determinants of fertility trends. Theories reexamined, a cura di Ch. Hohn e R. Mackensen, IUSSP, Liegi 1982; R. A. Bulatao, R. D. Lee, Determinants of fertility, in Developing countries: a summary of knowledge, a cura di P. E. Hollerbach e J. Bongaarts, Washington 1983; M. K. Oppenheim, The status of women. A review of its relationships to fertility and mortality, New York 1985; J. C. Chesnais, La transition démographique: état, formes, implications économiques, Parigi 1986; D. Van de Kaa, Europe second demographic transition, in Population Reference Bureau, Population Bulletin, 42, 1 (1987); R. Lestaeghe, J. Surkin, Cultural dynamics and economic theories of fertility change, in Population and Development Review, 14, 1 (1988); L. Roussel, La famille incertaine, Parigi 1989; R. Lestaeghe, G. Moors, Razionalità, coorti e riproduzione, in Famiglia, figli e società in Europa, Torino 1991, pp. 235-66; A. Pinnelli, Modernizzazione socio-economica, condizione femminile e nuovi comportamenti familiari e procreativi, in Stato e mercato, 36 (dicembre 1992), pp. 401-28; E.M. Bernhardt, Changing family tyries, Women's position and demographic change, Oxford 1993, pp. 80-103; R. Lestaeghe, The second demographic transition in Western countries; an interpretation, in Atti del seminario Gender and family change, Roma, 26-30 gennaio 1992 (in corso di stampa); D. Van de Kaa, The second demographic transition revisited. Theories and expectations, Symposium on population change and European society (Firenze, 7-10 dicembre 1993), in corso di stampa; L. Roussel, Fertilité et famille, Conferenza europea sulla popolazione, 23-26 marzo 1993, in corso di stampa.
Teorie formali della popolazione. - I tentativi d'individuare una legge di sviluppo della p. riguardano anche la determinazione di relazioni formali matematiche fra il suo ammontare e i diversi aggregati che l'influenzano. Il primo ad affrontare il problema − o, quanto meno, il primo che suscitò un'eco scientifica, dato che già alcuni studiosi italiani come A. Cornaro, G. Botero e G. Ortes avevano avanzato ipotesi in proposito − fu Th. R. Malthus che, nel suo celebre Saggio sul principio della popolazione (1798), ipotizzò con brillanti ragionamenti le relazioni esistenti tra sviluppo demografico e sussistenze, sostenendo che mentre queste ultime si accrescevano in progressione aritmetica, il primo si verificava in progressione geometrica. Tuttavia, come accade allorché si passa dalle formulazioni generali a relazioni formali di natura matematica, se la teoria di Malthus deve considerarsi storicamente importante, essa appare eccessivamente semplicistica, vista con occhi odierni, smentita come fu dai dati successivi. In effetti, molte critiche furono avanzate alla teoria poiché non giuste si rivelarono le assunzioni relative sia alla legge della produttività decrescente, sia alla tendenza dei gruppi demografici ad aumentare più che proporzionalmente rispetto ai mezzi di sussistenza. A. Messedaglia e V. Pareto, in particolare, furono tra i primi ad avanzare obiezioni che, invero, si riferivano più alle incertezze formali della teoria che alla sua sostanza. Anche sulla base degli sviluppi successivi, può dirsi che le proposizioni di Malthus apparvero di natura eccessivamente deterministica.
La teoria di Malthus venne modificata da P. F. Verhulst, il quale propose come legge di sviluppo quella logistica, derivata dallo stesso presupposto che era alla base della teoria di Malthus (saggio istantaneo d'incremento della p. costante), ma opportunamente temperato dall'assunzione del raggiungimento, da parte di una data p., di un ''livello normale'' oltre il quale il saggio istantaneo d'incremento decresceva proporzionalmente all'eccedenza registrata dall'ammontare della p. considerata rispetto al suo livello normale.
In formule, indicata y(t) la consistenza della p. al tempo t, lo sviluppo logistico è del tipo:
Nella [1] e è la base dei logaritmi naturali, a, b e k sono parametri determinati in base ai dati del problema che, nel caso delle p., sono tutti maggiori di zero (b>1). Talvolta la [1] si scrive
avendo indicato con y0 l'ammontare di p. iniziale.
Tale modello, che supera gli errori logico-matematici insiti nella teoria di Malthus, ma considera ancora la relazione tra p. e sussistenze come legge causale, rimase pressoché sconosciuto in sede internazionale e fu riscoperto dopo che R. Pearl e R.J. Reed formularono la medesima legge e anzi ne fornirono una versione generalizzata che, se da un lato si adattava meglio alla successione dei dati concreti, presentava dall'altro il grave inconveniente di apparire come un'espressione idonea, più che a interpretare, solamente a descrivere.
Proprio il prevalere dell'aspetto ''interpolatorio'' (cioè dell'adattamento più o meno buono della funzione matematica a una successione di valori esprimenti l'ammontare di p. a diverse epoche) rispetto a quello interpretativo, dette luogo a una fioritura di funzioni logistiche, dette ''logistiche di tipo m'', che, pur partendo dalle relazioni [1] e [2] dianzi specificate, ne complicavano le assunzioni e gli andamenti.
Sembra necessario avanzare in proposito due osservazioni. La prima riguarda i limiti che debbono attribuirsi al pur razionale ed elegante modello di Verhulst in relazione al suo valore interpretativo: essi furono notevolmente sottovalutati, specialmente nel periodo fra le due guerre mondiali. La seconda vuol sottolineare che proprio con l'apparire degli studi di Pearl e di Reed comincia a prodursi quella distinzione tra teorie globali unificatrici dello sviluppo delle p. e operazioni d'interpolazione ed estrapolazione dei dati demografici che, benché sviluppatesi enormemente in seguito, appariranno sempre meno inquadrate entro schemi logici razionali; com'è noto, i moderni metodi di previsione o proiezione demografica privilegiano tale aspetto estrapolatorio, concentrando l'attenzione su procedimenti che si basano essenzialmente sull'evoluzione temporale dei quozienti specifici di fecondità e di mortalità o di altri parametri ad essi più o meno strettamente collegati; le ipotesi di evoluzione, in effetti, raramente sono formulate in funzione di motivazioni e schemi che le giustifichino, mentre si tende ad assumere il tempo come variabile che tenga conto implicitamente dell'insieme di cause e concause di svariata natura determinanti il mutamento dei tassi vitali.
Anche nei tempi recenti, come si è visto, le stesse formulazioni di teorie globali interpretative dovute al filone economico-sociale (J. C. Caldwell, K. Oppenheim Mason, R. Mackensen) non sembrano riuscire a render conto della complessità delle relazioni intercorrenti tra fenomeni demografici e socio-economici da un lato, e delle difficoltà intrinseche alla comprensione dei meccanismi ''interni'' delle stesse compagini demografiche, dall'altro.
La consapevolezza di tale situazione − causata, fra l'altro, anche dalla mancata disponibilità di analoghe attendibili teorie sullo sviluppo economico − è ormai da tempo largamente diffusa. Essa ha spinto i demografi a concentrare gran parte dei loro sforzi per porre in luce sia metodi sempre più sofisticati di misura, sia i meccanismi interni che regolano la dinamica degli aggregati di popolazione. Fra questi ultimi occorre ricordare quella che senza dubbio può considerarsi come la struttura portante dell'intero edificio demografico, vale a dire la teoria della popolazione stabile di A. J. Lotka, che ha costituito e costituisce il principale strumento di comprensione e descrizione dei meccanismi interni che regolano la dinamica degli aggregati demografici, sia pure in presenza di opportune condizioni semplificatrici. Tuttavia, il livello di astrazione da essa raggiunto è di gran lunga superiore a quello proprio delle teorie economiche e sociali. Di conseguenza, anche se la sua possibilità di applicazione ai casi concreti si rivela non sempre elevata, le relazioni teoriche che la contraddistinguono appaiono di eccezionale importanza per chiarire e ordinare il pensiero.
La p. stabile si configura come un caso particolare di p. malthusiana chiusa (cioè che si modifica nel suo ammontare soltanto per nascite e morti e non per immigrazioni ed emigrazioni) nella quale la mortalità e la struttura per età e sesso si assumono costanti (anche se sia la mortalità sia la struttura per età e sesso possono risultare incognite). Le p. malthusiane sono caratterizzate dalle seguenti proprietà: 1) la struttura per età dei decessi è costante; 2) il quoziente generico di natalità (b) e quello di mortalità (d) sono costanti, così come il tasso di variazione naturale (r=b-d); 3) indicate con p(a) la funzione di sopravvivenza all'età a e con C(a) la struttura per età, si ottiene:
C(a)=be−rap(a)
con e base dei logaritmi naturali; 4) designando poi con ω l'età estrema di vita della p. considerata, si perviene a stabilire che
5) infine, indicando con ϕ(a, t) il tasso di fecondità delle donne di età a calcolato sulle figlie all'istante t, può dimostrarsi che vale la
con α e β età estreme del periodo procreativo e con p(a) che è ora la funzione di sopravvivenza relativa al solo sesso femminile.
Indicato con H(r) l'insieme delle p. malthusiane sopra definite, si denota con H0(r) il sottoinsieme ottenuto fissando le funzioni di mortalità. Ne segue che a ogni funzione di sopravvivenza p0(a) corrisponde un sottoinsieme H0(r). Evidentemente, tutte le p. del sottoinsieme si ottengono allorché, nell'ambito di H0(r), si lascia variare r. Quest'ultimo, pur potendo in teoria assumere valori da −' a +', nelle p. umane presenta un campo di variazione assai più contenuto. Si assuma, infine, che nell'ambito di H0(r), in cui le funzioni di sopravvivenza sono fissate, sia anche fissata e indipendente dal tempo la funzione di fecondità femminile, cioè ϕ(a, t)=ϕ0(a); ne segue che la [3] diviene un'equazione in r. Può dimostrarsi che essa possiede una sola radice reale r=ϱ. La p. malthusiana che corrisponde a tale valore di ϱ viene denominata popolazione stabile, la quale è caratterizzata dall'avere struttura per età costante e tasso di accrescimento p anch'esso costante. Quest'ultimo viene pure definito tasso ''intrinseco'' di accrescimento naturale, in quanto svincolato dagli effetti della struttura per età del momento della p. considerata, cosa che non accade per r, denominato invece tasso ''apparente'' di accrescimento naturale (o di variazione), sebbene sia quello che concretamente si osserva, in quanto non esprime compiutamente il potenziale riproduttivo della p. studiata.
Allorché si ragiona nel continuo, basta risolvere la [3] per individuare il valore di ϱ, unica soluzione reale sotto condizioni usuali, per definire la p. stabile corrispondente a quella concretamente osservata nella quale si assume che la funzione di mortalità e quella di fecondità rimangano immutate; nella realtà, anche ove si verificassero tali condizioni, soltanto dopo un notevole numero di anni la p. esaminata tenderebbe ad assumere la configurazione stabile. Ciò è però riflesso dalle soluzioni della [3], che sono infinite, e che oltre a essere caratterizzate dal possedere l'unica radice reale ϱ, forniscono anche infinite coppie di soluzioni complesse coniugate che, essendo in modulo inferiori a ϱ, cessano di esercitare la loro influenza (di tipo oscillatorio per quanto riguarda la struttura per età) allorché t→∞.
Il modo in cui si è pervenuti a definire la p. stabile (una p. malthusiana, cioè a struttura per età e leggi di mortalità costanti, nella quale si conosce la funzione di sopravvivenza e quella di fecondità femminile) è rigoroso. Tuttavia ad essa si può pervenire anche lasciando cadere la condizione della struttura per età costante. Può infatti dimostrarsi che una p. sottoposta a leggi di mortalità e funzione di fecondità costanti segue un'evoluzione che la fa tendere sempre più alla struttura della p. stabile corrispondente alle leggi di mortalità e di fecondità date. Nelle applicazioni, in effetti, questo secondo modo di procedere si rivela assai interessante perché consente di valutare la velocità di convergenza − e la portata delle oscillazioni che possono prodursi nella struttura per età, talvolta difficili a sopportarsi dal punto di vista sociale − di una data p. verso la sua configurazione stabile. Quanto detto può riscontrarsi forse con maggiore evidenza allorché si fa ricorso alla versione discreta dello schema della p. stabile, nel quale si fa uso di una matrice ''operatore di sviluppo'', che contiene nella sua prima riga le condizioni della fecondità e nelle successive le espressioni della funzione di sopravvivenza, e di un vettore esprimente l'ammontare della p. femminile considerata per età o classi di età (Lopez 1961).
La teoria della p. stabile, inizialmente predisposta per il solo sesso femminile, è stata poi ampliata a entrambi i sessi, adottando opportune ipotesi onde eliminare contraddizioni, soprattutto a opera di N. Keyfitz (1968). Ulteriori generalizzazioni sono poi state introdotte per estenderla a p. aperte, nelle quali cioè le variazioni demografiche avvengono anche per scambi migratori esterni al territorio oggetto di studio. Tali sviluppi sono stati causati dalla circostanza che, malgrado le ipotesi restrittive che connotano lo schema, si è sempre più compresa l'utilità del calcolo della p. stabile corrispondente a un insieme di condizioni demografiche date. Le direzioni di studio seguite, al riguardo, sono molteplici, talune delle quali promettono ulteriori sviluppi di grande interesse; ma accenneremo qui soltanto alle due che hanno assunto maggiore rilievo internazionale.
La prima strada, imboccata inizialmente da A. J. Coale e P. Demeny nel 1966, ha reso possibile la costruzione delle tavole di mortalità regionali, calcolando quattro famiglie (regioni del Nord, dell'Ovest, dell'Est e del Sud) e le corrispondenti p. stabili, e sfruttando, fra l'altro, le relazioni proprie della teoria oggetto di analisi. In particolare, Coale (1972) ha raccolto, in un apprezzabile studio, i risultati sulle popolazioni quasi stabili, che sono caratterizzate dall'avere una fecondità costante e una mortalità in diminuzione. Un aggiornamento delle tavole tipo di mortalità regionali è stato compiuto nel 1983 dalle Nazioni Unite (ma anche da Coale e Demeny), introducendo, fra l'altro, i procedimenti dovuti a W. Brass, basati sull'impiego del modello logit, che consentono una maggiore flessibilità d'impiego degli schemi, rendendoli meno strettamente dipendenti dai dati empirici utilizzati per la costruzione delle tavole tipo.
La seconda direzione di studio − che ha avuto relativamente minore fortuna anche se, in sostanza, affronta gli stessi problemi − ha teso ad analizzare le popolazioni parzialmente stabili (o meglio parzialmente malthusiane), aventi cioè struttura per età costante, nelle quali le relazioni esistenti in ogni istante tra fecondità, mortalità e struttura per età sono uguali a quelle riscontrate per le p. stabili, com'è facile dimostrare. Poiché la struttura per età di una p. dipende assai più dal comportamento della sua fecondità che da quello della mortalità − come ha messo in luce A. J. Lotka (1939) −, sino a che la mortalità, pur variando, non esce dall'universo definito per le specie umane e la fecondità rimane invariata, si osserva una struttura per età presso a poco costante e si ricade nel concetto di p. quasi stabile. Trascurando ulteriori approfondimenti, può dirsi, da un lato, che i concetti di p. stabile e di quella pressoché malthusiana provengono da schemi di riferimento astratti, cioè matematici, mentre, dall'altro, quello di p. quasi stabile prende l'avvio dall'esperienza propria dei paesi in via di sviluppo. E pertanto, allorché si esamina una delle strutture per età di questi paesi, si può o assimilare la relativa p. a una che segue lo schema parzialmente malthusiano, attribuendo il tenue mutare della struttura per età a una realizzazione imperfetta dello schema teorico, ovvero considerarla come una p. quasi stabile, nella quale la variazione della struttura per età è causata dalla materializzazione di una p. a fecondità costante e mortalità che si modifica in via contenuta.
Ulteriori importanti proprietà sono state messe in luce per le p. parzialmente malthusiane, ancora non pienamente utilizzate, ovvero generalizzando le caratteristiche stabili al caso di p. aperte con mortalità e fecondità variabili (Preston e Coale 1982; Horinchi e Preston 1988; Wunsch 1989). In tutti i casi però, come si è detto, gli studi si sono allontanati dall'impostazione iniziale, che si sforzava di stabilire i principi unificatori dello sviluppo delle p. umane. Ciò è tanto più vero anche nei confronti dello schema della transizione demografica, che è stato ripreso formalmente, anche se gli studi di quella che è stata chiamata seconda transizione demografica indagano in sostanza soltanto sui motivi del calo della fecondità, soprattutto nei paesi avanzati, utilizzando tecniche di analisi dei dati e metodologie multivariate che, almeno per ora, non sembrano consentire sintesi significative.
Bibl.: V. Travaglini, Gli schemi teorici del movimento della popolazione, Annali della facoltà di Giurisprudenza dell'università di Perugia, Perugia 1927; A. J. Lotka, Théorie analytique des associations biologiques, Parigi 1939; A. Lopez, Problems in stable population theory, Princeton 1961; A. J. Coale, Regional model life tables and stable populations, ivi 1966; ONU, Le concept de population stable. Application à l'étude des populations de pays ne disposant pas de bonnes statistiques démographiques, Etudes démographiques, 39, New York 1966; N. Keyfitz, Introduction to the mathematics of population, Massachusetts 1968; A. J. Coale, The growth and structure of human populations, Princeton 1972; J. H. Pollard, Mathematical models for the growth of human populations, Cambridge 1973; O. Vitali, La crisi italiana: il problema della popolazione, Milano 1976; S.H. Preston, A.J. Coale, Age structure, growth, attrition and accession: a new synthesis, in Population Index, 2 (1982); ONU, Indirect techniques for demographic estimation, Manuale x, New York 1983; S. Horinchi, S.H. Preston, Age-specific growth rates: the legacy of past population dynamics, 3 (1988); G. Wunsch, Relations générales entre mouvement et structure démographiques, in European Journal of Population, 5 (1989).
Popolazioni naturali ed evoluzione biologica. - Il termine p. può assumere diverse connotazioni. In biologia esso definisce un gruppo di individui tra cui sussista possibilità d'incrocio e di dare origine a prole fertile, senza limitazioni di natura geografica o religiosa o etologica o altro.
La costituzione genetica di una p. può cambiare con il tempo, e questo cambiamento si chiama evoluzione. Diversamente dalla genetica classica o molecolare, che sono interessate soprattutto alla natura e alla trasmissione dell'informazione genetica e al modo in cui quest'informazione si traduce nelle caratteristiche osservabili di un individuo (fenotipo), la genetica di p. studia il patrimonio genetico di intere p. e i fattori che ne determinano l'evoluzione (v. genetica di popolazioni, App. IV, ii, p. 11). Se le caratteristiche genetiche che si studiano vengono trasmesse secondo semplici regole mendeliane, il gruppo di individui che s'incrociano viene indicato come popolazione mendeliana.
La genetica di p. fa spesso ricorso all'aiuto della statistica, che permette, attraverso la descrizione di un campione, di definire le proprietà della p. stessa. Per lo statistico, il termine p. serve a indicare tutti, o la più ampia serie possibile di valori di una variabile casuale. Il campione rappresenta una parte della p. e ne riproduce le caratteristiche se viene estratto casualmente.
Un'importante scoperta della biologia, che risale ormai alla seconda metà degli anni Sessanta, è che la variabilità genetica delle p. naturali è generalmente molto ampia, e molti sono i loci polimorfici (cioè con almeno due alleli comuni). Si può allora descrivere la costituzione genetica di una data p. utilizzando le frequenze degli alleli di un determinato locus. È possibile in tal modo costruire un modello semplice che permetta di prevedere quali saranno le frequenze genotipiche una generazione dopo, quali sono le forze che hanno maggior rilievo nel processo evolutivo e come misurare e prevedere i loro effetti.
In p. di organismi diploidi e a riproduzione sessuale, le frequenze genotipiche sono in parte determinate dal tipo di accoppiamento. Per fare valutazioni sulla frequenza di tali accoppiamenti, conviene introdurre una semplificazione e ammettere che gli accoppiamenti avvengano a caso. Si dice che gli accoppiamenti avvengono a caso (random mating), rispetto a un determinato gene, quando la probabilità che un individuo si accoppi con un altro del sesso opposto che abbia un determinato genotipo è uguale alla frequenza di quel genotipo nella popolazione. L'accoppiamento casuale degli individui equivale all'unione casuale dei gameti due a due (panmissia).
Un esempio di tutto ciò può essere un locus autosomico con due alleli, A e a, con frequenze p e q, rispettivamente, dove p+q=1. Per sapere quali saranno le frequenze dei genotipi diploidi AA, Aa e aa dopo una generazione di accoppiamenti casuali, basta prendere in considerazione tutte le possibili combinazioni genotipiche ottenute moltiplicando tra loro le frequenze geniche:
La colonna di destra della tabella non rappresenta altro che una distribuzione binomiale per gruppi di due elementi e si chiama distribuzione genotipica di Hardy-Weinberg, dal nome di coloro che sono ricordati come i primi che indipendentemente l'applicarono alla biologia agli inizi del Novecento.
Una caratteristica dei sistemi mendeliani panmittici è che, se il locus è autosomico e le frequenze geniche sono uguali nei due sessi, le frequenze genotipiche si conformeranno alla distribuzione binomiale in una sola generazione, qualunque sia il loro valore iniziale. Inoltre, in assenza di fattori in grado di modificare le frequenze geniche (selezione, mutazione, migrazione e deriva genetica), le proporzioni dei differenti genotipi rimarranno costanti nel tempo (v. genetica: Genetica di popolazioni, App. IV, ii, p. 11).
La legge di Hardy-Weinberg rappresenta la base della genetica evolutiva e delle teorie matematiche dell'evoluzione, formulate negli anni Venti e Trenta da coloro che si possono considerare i fondatori della genetica di p.: R. A. Fisher, J. B. S. Haldane e S. Wright. Da allora lo sviluppo di questa materia è stato notevole, con l'apertura di nuovi orizzonti in campo sia sperimentale che teorico e la proposizione di modelli matematici sempre più complessi.
Alla luce della scoperta che moltissimi sono i loci polimorfici in una p., ci si è chiesti per es. se i modelli che tengono conto di un locus alla volta siano veramente adeguati a capire l'evoluzione genetica di una p., o se non sia invece necessario considerare più loci contemporaneamente. In effetti molti dei più interessanti e importanti caratteri presenti in ciascun individuo sono controllati da diversi geni che spesso interagiscono in maniera complessa l'uno con l'altro e con l'ambiente. È opportuno allora che la costituzione genetica di una data p. venga descritta in termini di frequenze gametiche piuttosto che alleliche. Gli alleli dei diversi loci, infatti, possono trovarsi all'interno dei gameti a formare combinazioni non casuali (disequilibrio gametico o linkage disequilibrium), e poiché la distribuzione genotipica di una p. dipende in ultima analisi non solo dalla probabilità con cui i gameti si uniscono tra loro due a due, ma anche dalla frequenza con cui essi sono stati individualmente prodotti, le frequenze alleliche da sole possono non essere sufficienti a spiegare tutta la variabilità genetica esistente.
Consideriamo due alleli al locus A, A e a, e due alleli al locus B, B e b, con frequenze pA, qa, rB, sb, rispettivamente, dove pA+qa=1 e rB+sb=1, e una p. panmittica di grandi dimensioni. Se le combinazioni alleliche all'interno dei gameti sono casuali, allora la frequenza di ciascun tipo di gamete sarà uguale al prodotto delle frequenze degli alleli che esso contiene:
In questo caso le frequenze alleliche saranno da sole sufficienti a specificare le frequenze gametiche e tutta la variabilità genetica esistente ai due loci nella popolazione. Se invece gli alleli all'interno dei gameti non sono associati a caso (se, in altri termini, la presenza di un dato allele al locus A influisce sulla probabilità che l'uno o l'altro dei due alleli del locus B sia presente nello stesso gamete), le frequenze dei quattro tipi di gameti differiranno dalle frequenze attese all'equilibrio di un certo valore, D, come è mostrato nella tab. seguente
In questo caso, allora, per descrivere la variabilità genetica esistente nella p. ai loci A e B, sarà necessario conoscere, oltre alle frequenze alleliche, anche il parametro D. Il valore di questo parametro, che rappresenta una misura del grado di linkage disequilibrium esistente tra i due loci, può essere calcolato nel seguente modo:
D=(fAB × fab)− (fAb × faB)
dove fAB, fAb, faB e fab sono le frequenze ''osservate'' dei gameti AB, Ab, aB e ab, rispettivamente.
Si può dimostrare che l'entità del disequilibrio esistente tra due loci si riduce a ogni generazione di una quota che dipende dalla frequenza di ricombinazione tra di essi (cioè, dalla loro distanza di mappa): Dt=Dt−1(1−r) e Dt=Do(1−r)t, dove D0, Dt−1 e Dt rappresentano l'entità di linkage disequilibrium alla generazione iniziale, t−1 e t rispettivamente, ed r la frequenza di ricombinazione tra i due loci.
Individuare quali siano le forze di maggior peso nel determinare e/o mantenere un disequilibrio gametico, è un problema complesso, anche quando si abbiano informazioni sulla storia della popolazione. La selezione naturale può favorire il successo (o l'insuccesso) di certe combinazioni alleliche; tuttavia, rimane spesso difficile stabilire se il disequilibrio che si trova sia il risultato della selezione naturale o piuttosto una reminiscenza del modo in cui la p. si è venuta a formare o semplicemente il risultato di eventi casuali. E così, nonostante il numero di esempi di linkage disequilibrium che vengono scoperti sia sempre maggiore, assai raramente è possibile stabilire con certezza le cause che lo hanno determinato e/o lo mantengono a un livello stazionario nella popolazione.
Nonostante siano trascorsi più di cinquant'anni dalla nascita della genetica di p. come disciplina a sé, molti sono gli interrogativi sull'evoluzione delle p. naturali che attendono ancora una risposta. Non è infatti ancora noto quanto sia grande la quota di variabilità genetica coinvolta nel processo evolutivo, quale sia il ruolo delle variazioni ambientali nell'evoluzione, e quale sia la rilevanza biologica media dei polimorfismi genetici. In altri termini, manca ancora una valutazione quantitativa della porzione di variabilità genetica esistente che può essere spiegata dalla selezione naturale. Questi ora citati sono solo alcuni dei problemi che vengono ancora dibattuti non senza vivaci polemiche.
Selezione naturale e demografia. - Com'è noto, si chiama selezione naturale il meccanismo attraverso il quale le p. si adattano al proprio ambiente. Alcuni genotipi tendono a produrre un numero di figli che sopravvivono all'età fertile costantemente più alto (o più basso) degli individui con altri genotipi. L'effetto può manifestarsi o attraverso una sopravvivenza differenziale dei diversi genotipi oppure attraverso una loro fecondità differenziale. Questo significa che una misura diretta della selezione naturale, che in ultima analisi si riconduce alla misura della probabilità che gli individui con diverso genotipo hanno di sopravvivere e di riprodursi, deve basarsi sulla conoscenza di metodi di analisi connessi con quelli della demografia. Ed è nel contesto delle scienze demografiche che il termine p. assume la connotazione che ci è più familiare.
Popolazioni umane ed evoluzione demografica. - Nonostante il loro grande interesse, solo di recente fenomeni come la dimensione di una p., la sua composizione per sesso e per età, la sua distribuzione geografica o la sua evoluzione nel tempo in termini di natalità, fecondità, mortalità o attività migratorie, si sono posti all'attenzione non più soltanto degli ''addetti ai lavori'', ma anche di quanti sono interessati alle problematiche sociali e ai diversi aspetti dell'evoluzione delle società. Alcuni elementi, in particolare della struttura e della dinamica della p. umana nel suo complesso, hanno caratterizzato gli ultimi anni della nostra storia demografica. Al fenomeno della cosiddetta ''esplosione demografica'', del quale si è già discusso (v. App. IV, iii, p. 35), è seguita negli anni Settanta e Ottanta una tendenza demografica che ha aspetti del tutto nuovi. Gli anni compresi tra il 1950 e il 1970 avevano visto la p. mondiale crescere di oltre un miliardo di individui grazie soprattutto all'incremento delle p. delle aree meno sviluppate, dove la riduzione del tasso di mortalità si era accompagnata a livelli di fecondità elevatissimi e mantenutisi pressoché invariati nel tempo. Tra il 1950 e il 1970 i tassi d'incremento medio annuo dei paesi in via di sviluppo sono stati non solo più alti di quelli delle aree più sviluppate ma, a differenza di queste, anche in costante aumento di quinquennio in quinquennio. Gli anni che vanno dal 1970 al 1990 hanno visto invece, oltre a una diminuzione della fecondità nelle aree più sviluppate, anche una riduzione netta della fecondità nelle aree meno sviluppate, con conseguente diminuzione del tasso d'incremento mondiale annuo dal 2,06% del 1965-70 all'1,61% del 1985-90.
A seguito di tali processi e di una riduzione dei livelli di mortalità molto forte, per le aree sviluppate si prospetta un continuo e progressivo invecchiamento che non può non destare preoccupazioni. Contemporaneamente si evidenziano alcune impressionanti disparità che ancora dividono i paesi in via di sviluppo dalle aree più sviluppate. La speranza di vita alla nascita è nei primi solo l'80% circa di quella dei paesi industrializzati (58,2 anni contro 73,9 nel quinquennio 1985-90); d'altro canto il tasso di fecondità che oppone le aree meno sviluppate alle altre continua a essere molto elevato: 3,7 figli per ogni donna nel corso della sua vita riproduttiva contro i 2,0 figli dei paesi industrializzati. La p. di questi ultimi rappresenta negli anni Novanta meno del 25% di quella mondiale, e, a quanto è dato prevedere, questo rapporto è destinato a diminuire ancora. Infine, mentre la quota di p. di età inferiore ai 15 anni è più di una volta e mezza nelle aree in via di sviluppo rispetto a quelle più sviluppate (35% del totale contro 22% circa), in queste ultime la percentuale di anziani (soggetti al di sopra dei 65 anni di età) rappresenta una quota del totale (10-12%) che è circa tre volte maggiore che nei paesi in via di sviluppo.
È difficile non ritenere che il progressivo invecchiamento dei paesi economicamente più avanzati, e la crescita ancora preoccupante che si registra nelle aree economicamente più arretrate, con l'inevitabile impatto che questa avrà sui rapporti demografici mondiali (si prevede che nell'anno 2000 le aree attualmente meno sviluppate rappresenteranno l'80% circa della p. mondiale), abbiano un grande rilievo politico e sociale e conseguenze tali che, se pure di non facile valutazione, devono indurre ad attenta riflessione.
Bibl.: D. L. Hartl, Principles of population genetics, Sunderland (Mass.) 1980; P. W. Hedrick, Genetics of populations, Boston 1985; J. F. Crow, Basic concepts in population, quantitative and evolutionary genetics, New York 1986; ONU, Les perspectives d'avenir de la popolation mondiale, ivi 1986; E. Sonnino, L'evoluzione demografica. Caratteri, conseguenze, problemi, in AA.VV., Demografia e società in Italia, Roma 1989.
Distribuzione della popolazione. - I presupposti teorici. - Il mutare della distribuzione della p. sul territorio di uno stato suscita un considerevole interesse poiché è rivelatore dei modi e del tipo di sviluppo sociale ed economico del paese esaminato. Ed è anche per questo che molte discipline si sforzano d'individuare aree territoriali variamente caratterizzate, che possano costituire chiavi di lettura interpretative degli spostamenti demografici. Fra tali aree, hanno rivestito e conservano tuttora grande importanza quelle urbane (o quelle rurali). Esse, se in origine venivano individuate sulla base di una manifestazione omogenea di un dato fenomeno (criterio di omogeneità, riguardante la p. nel nostro caso), in un periodo più recente, con l'introduzione del concetto di spazio funzionale, sono state delimitate in base al verificarsi di requisiti d'interdipendenza, cioè d'interazione fra la p. insediata nei vari centri ricompresi nella circoscrizione territoriale oggetto di studio. Questa seconda concezione si fonda sull'assunzione che il territorio debba configurarsi come sede di elementi che, anche se possono risultare tra loro eterogenei, vengono posti in relazione dall'insediamento umano (v. aree gravitazionali e funzionali, in questa Appendice).
I due diversi modi di percepire il concetto di area urbana (criterio di omogeneità ovvero criterio d'interdipendenza), ai quali se ne può aggiungere almeno un terzo, e cioè quello morfologico o di contiguità, fa intravvedere come risulti difficile effettuare uno studio ''storico'' dei comportamenti demografici che le riguardano e come, ove non si proceda a un'accurata analisi distintiva, si rischi di esprimere pareri e di pervenire a conclusioni talvolta confusi con riferimento a una prospettiva generale, anche se rispecchianti fenomeni contingenti o particolari, nei confronti dei quali però l'interpretazione teorica può non risultare completamente centrata. È indubbio che per l'individuazione delle aree urbane e per lo studio storico dei fatti demografici che le interessano è da privilegiare, fra i vari criteri proposti, quello dell'interdipendenza, che si rivela anche uno strumento di analisi più moderno. Purtroppo, però, la delimitazione di tali aree non è ancora avvenuta in Italia, e la l. 142 del 1990, che poneva il problema, rimandando la loro formazione alle decisioni delle assemblee delle regioni in cui erano inserite, è sostanzialmente rimasta lettera morta. In queste condizioni, non sono mancati tentativi di enti e di privati studiosi volti a perimetrare le aree urbane o metropolitane, ma i criteri adottati sono risultati i più diversi, e in parte opinabili, poiché sottintendevano una logica più di omogeneità che d'interdipendenza, il che creava difformità reali nella loro individuazione fra le regioni settentrionali del paese (più industrializzate) e quelle del Mezzogiorno (con sensibile e maggiore presenza agricola).
Tenuto conto di quanto detto e della difficoltà di applicazione del criterio dell'interdipendenza, che richiede studi onerosi sia dal punto di vista finanziario sia da quello temporale, si è qui fatto ricorso all'uso di criteri morfologici, che, come detto, si rifanno alla contiguità spaziale e che, implicitamente, adottano anche un'ottica gravitazionale, sottintendendo cioè l'esistenza di poli sul territorio, costituiti da unità urbane produttrici di funzioni centrali e, per l'appunto, generanti una stratificazione di intorni gravitazionali. L'adozione conseguente di un simile criterio avrebbe richiesto l'individuazione degli effettivi raggi di attrazione di ogni polo, nei vari punti del tempo considerati (i censimenti demografici dal 1951 al 1991); esiste in proposito un'approfondita e interessante letteratura (Cliff e Ord 1973; Getis e Ord 1992) che fornisce distanze ''ideali'' di attrazione fra diverse unità territoriali elementari (i comuni, nel caso italiano). Ma, ancora una volta, l'impiego di quei procedimenti si è rivelato proibitivo per la complessità delle elaborazioni richieste. Si è di conseguenza fatto ricorso a un procedimento empirico che prende sostanzialmente l'avvio dal criterio morfologico già descritto e che utilizza il concetto di ''area di attrazione'' (intesa semplicemente come area di addensamento demografico), il che comporta l'assunzione a priori dei comuni capoluogo di provincia italiani come località centrali di area. Per delimitarle, si sono tracciate delle circonferenze di raggio pari a 10 km, aventi cioè come centro ciascun capoluogo di provincia, individuando così delle zone di uguale superficie. Queste circonferenze attraversano però i confini di tutti quei comuni che si trovano ai margini dell'area stessa e, pertanto, essi sono stati inclusi se il ''centro principale'' (quello dove, di norma, è situata la sede comunale) era compreso nella superficie circolare. Poiché, infine, deve ritenersi che il potere di polarizzazione di un capoluogo muti in funzione della sua ampiezza demografica, il raggio dell'area di attrazione è stato aumentato a 15 km per tutti quei poli che, al 1981, avevano una p. residente superiore alle 200.000 unità (e che constano, così, di una prima e di una seconda fascia di attrazione), mentre è stato esteso a 20 km per le quattro città ''milionarie'' italiane, cioè Torino, Milano, Roma e Napoli (per le quali, di conseguenza, è stata prevista una terza fascia di attrazione). L'insieme delle ipotesi assunte conduce alla delimitazione delle aree che, in linea di principio, per il modo empirico con cui sono state ottenute, vanno incontro a talune critiche di cui occorre tener conto nell'interpretazione dei risultati, sebbene, come detto, esse siano state costituite utilizzando criteri morfologici e, almeno parzialmente, d'interdipendenza.
Ma un'analisi storica di medio-lungo periodo non può assumere che le aree di attrazione rimangano invariate, soprattutto allorché si ritiene che sia da preferire non il criterio dell'omogeneità ma quello dell'interazione. Da tale punto di vista, com'è ovvio, dato l'intensificarsi degli interscambi che sempre si accompagna allo sviluppo economico, può benissimo accadere che esse risultino nel tempo più estese, pur diminuendo storicamente la p. delle suddivisioni territoriali qui adottate a rappresentarle e che sono state assunte come fisse. Quest'ultima considerazione indebolisce molte delle affermazioni effettuate anche in sede internazionale sui nuovi modi d'insediamento demografico e sul conseguente declino dell'importanza delle città, misurata in base alla loro p. residente, poiché al giorno d'oggi la consistenza demica del polo non sembra più sufficiente a ''descrivere'' compiutamente l'importanza di un'area urbana (ciò è, in particolare, dovuto allo straordinario incrementarsi dei movimenti pendolari, di tipo giornaliero, o comunque periodico).
L'evoluzione degli insediamenti dal 1951 al 1991. − L'analisi dei mutamenti dei modelli insediativi della p. italiana risulta complicata dalla circostanza che i risultati censuari hanno fatto registrare nel tempo notevoli contraddizioni, soprattutto con riferimento alle rilevazioni del 1981 e del 1991, come dimostra il corrispondente saldo di accrescimento totale della tab. 1 (220.000 unità), che è inferiore al saldo naturale (circa 420.000 nascite in più delle morti del periodo intercensuario). Ciò richiede che, in contrasto con quanto è universalmente noto a seguito delle ingenti correnti immigratorie indirizzatesi verso il nostro paese nell'ultimo decennio, si debba per esso corrispondentemente ipotizzare un saldo migratorio negativo. Pur senza entrare in particolari, può plausibilmente ritenersi che la contraddizione sottolineata sia causata soprattutto dai risultati del censimento del 1981 che avrebbe sopravvalutato la p. residente (specie nei centri urbani di maggiore importanza). Ne consegue che, volendo attenuare la portata di tale circostanza distorcente, si sarebbero potuti raggruppare i risultati del periodo 1971-91 e confrontarli con quelli del ventennio precedente indicanti comportamenti decisamente diversi. Tale modo di operare avrebbe forse posto in una giusta luce molte delle ''artificiose'' inversioni di tendenza rilevabili dalla considerazione acritica dei dati dei due ultimi censimenti. Si è ritenuto tuttavia di non seguire quest'ultima strada, forse troppo riduttiva, bastando indurre a una qualche cautela nei confronti delle più recenti caratteristiche emergenti.
I dati raccolti nella tab. 1 pongono in evidenza le grandi trasformazioni prodottesi in Italia nelle aree di attrazione e nel resto dei comuni. Nelle prime, la p. è passata dai 19,3 milioni del 1951 ai 27,3 milioni del 1991 (un aumento di oltre 8 milioni), mentre, per i restanti comuni (cioè quelli periferici), il corrispondente accrescimento demografico si è attestato su 1,2 milioni. Se tale incremento differenziato rivela una fortissima concentrazione demografica nei comuni capoluogo di provincia e nei loro dintorni durante il quarantennio esaminato, non va tuttavia sottaciuto che, a partire dal 1981 (se non prima), si sono realizzate attenuazioni o addirittura inversioni di tendenza (nell'ambito delle suddivisioni territoriali adottate) che non appaiono di poco momento. L'osservazione dei dati di p. riguardanti il saldo di variazione totale evidenzia che, sino al 1971, i comuni ''periferici'' hanno presentato valori negativi, mentre straordinariamente positivi appaiono quelli delle aree (dell'ordine di 3,5 e di 3,7 milioni). Al contrario, nei due ultimi decenni, l'accrescimento dei comuni periferici prima approssima (e, forse, stante quanto premesso sull'attendibilità della documentazione statistica del censimento del 1981, supera) quello delle aree, per poi sopravanzarlo decisamente nel 1981-91, periodo in cui si realizzano addirittura decrementi nel complesso delle aree di attrazione.
Le caratteristiche delineate risultano precisate se si esaminano le dinamiche riscontrate all'interno delle aree stesse. Sino al 1971, in effetti, la p. cresceva fortemente nei comuni capoluogo (e, in particolare, nelle città più grandi), mentre dopo quel censimento questi hanno fatto registrare decrementi demografici, compensati con difficoltà, quando ciò è accaduto, dagli aumenti di p. nelle diverse fasce di attrazione. Va sottolineato che nel quarantennio oggetto di analisi la capacità riproduttiva della p. italiana si è fortemente ridotta, e anche tale circostanza ha concorso a modificare la consistenza demica delle varie suddivisioni territoriali predisposte. L'osservazione della documentazione riguardante il saldo naturale dell'insieme dei poli testimonia in misura evidente la rapidità del decremento, facendo registrare addirittura, nell'ultimo decennio, un'eccedenza delle morti sulle nascite.
Del pari, i dati sul saldo migratorio (che appaiono però di dubbia attendibilità, tenendo conto di quanto premesso) esibiscono per il complesso dei poli valori negativi pronunciati, nell'ultimo ventennio, che quasi compensano quelli fortemente positivi del 1951-71. Ma, anche qui, occorre interpretare rettamente il fenomeno: non è che, nel periodo più recente, si sia assistito alla tanto reclamizzata ''fuga dalle città''; più semplicemente deve sostenersi che si è realizzato un blocco delle immigrazioni verso i centri demici, anche se per brevità si omette d'indicare la documentazione statistica che suffraga tale affermazione. Ciò sta a significare che le difficoltà demografiche evidenziate dai comuni capoluogo sono più gravi rispetto a quanto superficialmente si creda e, comunque, di tipo diverso. In effetti, le città vedono ridursi la consistenza della propria p. soprattutto perché il loro potere riproduttivo intrinseco risulta estremamente basso (in quasi tutti i capoluoghi le morti superano le nascite) e anche perché, a un'uscita pressoché fisiologica per migrazioni, non corrispondono più gli intensi flussi immigratori dell'immediato dopoguerra, che rendevano i saldi corrispondenti fortemente positivi.
Come si è visto illustrando i presupposti teorici alla base delle misure predisposte, ciò non implica necessariamente perdita d'importanza delle aree urbane, le quali potrebbero essersi ampliate rispetto a quanto qui assunto. È tuttavia indubbio che lo sviluppo dei trasporti, in special modo quelli privati −al quale si è accompagnata una debole azione dei poteri amministrativi volti a risolvere i complessi problemi delle città −, ha spinto le p. a realizzare modelli di insediamenti demografici diversi da quelli affermatisi nel periodo immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale. All'affermazione dei modelli più recenti hanno anche contribuito, in certa misura, l'alto costo delle abitazioni urbane e l'evoluzione dell'economia in senso terziario e, comunque, il decentramento degli impianti industriali. Ciò ha reso possibile a grandi masse di Italiani trovare abbastanza facilmente un'occupazione anche al di fuori dei confini dei comuni più popolosi.
La situazione italiana appena descritta non costituisce una rappresentazione ''tipica'' di quanto è accaduto nelle grandi ripartizioni geografiche che compongono il paese, poiché queste ultime presentano ritmi differenziati e comportamenti particolari nell'approssimazione dei nuovi modelli. In sintesi, può dirsi che l'Italia settentrionale fa rilevare una più marcata modifica del modo di disporsi sul territorio della p. fra il primo e il secondo dei due ventenni considerati. Da un lato, la fuga dalle campagne è limitata, nella ripartizione, soltanto al decennio 1951-61, o almeno il valore negativo del saldo migratorio dei comuni periferici appare solo per questo primo decennio, forse perché in seguito gli afflussi immigratori originatisi nel Centro e, segnatamente, nel Mezzogiorno, superano più che compensare eventuali emigrazioni. Dall'altro, nelle aree di attrazione, il decremento risulta assai più sensibile di quello registrato nelle restanti due ripartizioni (e anzi, nel Mezzogiorno, esse non sono affatto in diminuzione, anche se il ritmo d'incremento si è di recente notevolmente ridotto). Inoltre, nell'Italia settentrionale, la contrazione di p. registrata nei poli e nel complesso delle aree (nell'ultimo decennio) è dovuta in misura molto sensibile anche ai valori negativi del saldo naturale. Va rilevato, al riguardo, che le sole zone territoriali del Nord del paese in cui le nascite superano le morti sono le tre fasce delle aree di attrazione (ma, confrontando i valori del decennio 1981-91 con quelli del 1971-81, si osservano sensibilissime diminuzioni), poiché anche nei comuni periferici il saldo naturale è fortemente negativo. Va infine segnalato che l'Italia centrale, pur con ritmi più blandi e tempi ritardati, tende ad assumere gli stessi andamenti del settentrione del paese.
Si tralasciano le puntualizzazioni e gli approfondimenti che possono formularsi sulla base dei dati percentuali raccolti nella tab. 2 per esaminare, sia pure per rapidi cenni, la documentazione statistica contenuta nelle tabb. 3 e 4. Un risultato di grande momento − che ha avuto certamente riflessi sulle vicende politiche italiane − è quello relativo alla quota di p. residente nei centri capoluogo di provincia e nelle corrispondenti aree di attrazione (tab. 3): su 100 individui, 40 risiedevano nei poli e nelle zone ad essi circostanti nel 1951; quarant'anni dopo la quota supera di poco il 48%, anche se risulta in leggera contrazione (i valori del 1971 e del 1981 sfioravano il 49%). Aumenta invece progressivamente, come effetto della deconcentrazione degli insediamenti già descritta, il peso relativo dei residenti nelle fasce delle aree di attrazione, passati dal 12,3% del 1951 al 17,7% del 1991.
Per quanto concerne poi le tre grandi ripartizioni, si osservano i seguenti elementi distintivi: a) l'Italia settentrionale è la sola porzione di territorio per la quale i residenti nelle aree sopravanzano, sia pure di poco ormai, quelli nei comuni periferici; in questa ripartizione i residenti nelle fasce delle aree di attrazione superano, al 1991, il 21%; b) la massima quota dei residenti nei poli si riscontra invece nell'Italia centrale, che più del Mezzogiorno appare come la ripartizione in cui sono scarsamente rappresentati fenomeni di diffusione urbana (al 1991 i residenti nelle fasce raggiungono appena l'8,8%); c) nel Mezzogiorno, infine, la quota dei residenti nei comuni periferici appare di gran lunga maggiore di quella delle aree di attrazione, al contrario di quanto si osserva nelle due precedenti ripartizioni.
L'Italia ha visto aumentare la propria densità geografica (ab./km2) di poco più di 30 punti nel quarantennio oggetto di esame (tab. 4). Tale incremento risulta assai esiguo per la totalità dei comuni periferici (+4 punti), mentre sfiora i 190 punti per le aree di attrazione (con una significativa diminuzione, però, di 11 punti nei confronti del valore raggiunto nel 1981) e i 205 punti per il complesso dei poli (ma, anche qui, con una contrazione di ben 65 punti sul livello del 1981; pertanto, come già detto, il valore del 1981 può ritenersi piuttosto dubbio). L'esame condotto nell'ambito delle aree indica quanto la densità dipenda dal tipo di territorio per cui viene calcolata, nel senso che il suo valore è sempre superiore nella seconda e, ancor più, nella terza fascia (nelle quali sono situati i comuni gravitanti sulle città grandi e grandissime) rispetto a quello presentato nella prima fascia (alla quale sono interessati tutti i capoluoghi, anche quelli con debole area di attrazione). Così, nel periodo 1951-91, si osserva che la massima variazione si è verificata per la terza fascia (+330), che è quella propria delle quattro città ''milionarie''. Al solito, la considerazione dello stesso parametro per le tre grandi ripartizioni mostra − nell'ambito di un comportamento simile a quello nazionale − talune particolarità ed eccezioni. Merita segnalare, fra esse, il forte decremento della densità dei poli dell'Italia settentrionale (−137 punti), fra il 1981 e il 1991, e la considerevole variazione positiva nella terza fascia del Centro (relativa a Roma) dal 1951 al 1991 (oltre +440 punti); anche in quest'ultimo caso, però, dal 1981 al 1991, si sarebbe prodotto un non trascurabile decremento (circa −87 punti), cosa che invece non si è osservata per la terza fascia del Mezzogiorno (riguardante Napoli), che ha tuttavia molto attenuato il suo ritmo di accrescimento nel periodo compreso tra i due ultimi censimenti.
Le interpretazioni. - Il modello di urbanizzazione inteso come processo di agglomerazione spaziale, caratterizzato da una relazione positiva fra dimensione degli insediamenti e saldo migratorio, non sembra più capace d'interpretare le caratteristiche insediative dei paesi occidentali. E così anche in Italia, com'era già accaduto in quasi tutti i paesi economicamente sviluppati, si è riscontrato un sensibile mutamento nella distribuzione territoriale della p., soprattutto con riferimento al decennio 1981-91. Si è parlato in proposito di ''inversioni'' di direzione delle correnti migratorie che, antecedentemente, si originavano dalle regioni periferiche verso quelle centrali; altri, e per primo B. J. L. Berry nel 1976, hanno chiamato in causa il declino della città e usato il termine di controurbanizzazione per indicare un processo di deconcentrazione della p. implicante, per l'appunto, un movimento da uno stato di maggiore concentrazione a uno in cui essa diminuisce, dovuto a crisi (economica, politica, sociale) delle aree metropolitane e di crescita di quelle non metropolitane.
Con lo svilupparsi del dibattito sono emerse poi ulteriori posizioni, talune delle quali più sfumate: a) quella di P. Gordon, di P. Hall e D. Hay i quali, studiando i sistemi urbani, si sono convinti che il fenomeno oggi più diffuso sia quello della suburbanizzazione, cioè un aumento della concentrazione della p. delle zone di frontiera delle aree metropolitane rispetto ai loro poli o fuochi; b) quella di D. R. Vining e A. Strauss, di A. J. Fielding, ecc., i quali, invece, sostanzialmente condividono il punto di vista di Berry, asserendo l'esistenza di una contrapposizione netta metropolitano-non metropolitano, e sostengono l'affermarsi di un modello alternativo al precedente che aveva visto generarsi ingenti correnti emigratorie dalle campagne verso le città; c) una posizione intermedia (Van den Berg e altri, 1982), più vicina però alle posizioni degli studiosi dei sistemi urbani, che ipotizzano un'evoluzione futura di questi ultimi analoga a quella riscontrata nel caso nord-americano e inglese; essi designano tale fenomeno col termine di disurbanizzazione. Non si sfugge alla sensazione che, pur tra gli indubbi elementi di verità contenuti nelle varie analisi, le diversità di opinioni e di risultati circa la natura endogena dello sviluppo delle aree periferiche siano in parte condizionate dai pregiudizi di valore dei singoli studiosi che si concretizzano nella scelta delle variabili poste alla base dei procedimenti impiegati per il conseguimento delle regolarità determinate. Non va inoltre sottaciuto che, spesso, l'angolo visuale adottato è di natura quasi esclusivamente demografica e tale circostanza tende a particolarizzare l'interpretazione del concetto di aree urbane, come già sottolineato, impedendo di scorgere i modi della loro evoluzione e le nuove realtà che esse esprimono.
In particolare, nel caso italiano − pur confermandosi che nel periodo 1971-91 si osservano novità nei modelli insediativi rispetto a quello rigidamente centripeto del ventennio precedente − non può ritenersi che si sia in presenza di fenomeni di controurbanizzazione, ma piuttosto di suburbanizzazione o di disurbanizzazione, come del resto mette bene in evidenza il diverso ritmo di accrescimento demografico fatto registrare, nell'intero quarantennio, dalle aree urbane rispetto a quelle periferiche (il 42% contro il 2%). Va poi ribadito che, in effetti, non esiste alcun esodo o fuga dalle città, come un modo suggestivo ma non corretto di analisi si attarda a sostenere, dissimulando i problemi veri che le città debbono affrontare. Se mai − seguitando a ragionare nella limitata, anche se rilevante, ottica demografica −la perdita del potere di polarizzazione dei grandi centri si riscontra nel venir meno della corsa ''verso'' le città, prodottasi in Italia nel periodo immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale, per le ragioni già esaminate, e che ora non ha più motivo di alimentarsi. Ciò si comprende molto bene se si pensa alle aree urbane come a organismi che esprimono ''relazioni'' tra elementi, anche eterogenei, secondo un'ottica funzionalista che, pur non essendo la sola possibile, fornisce di tali realtà una buona chiave interpretativa.
Pertanto, anche se nelle aree urbane (soprattutto della parte nord del paese) si osserva una forte crisi della natalità − che è il motivo che concorre più fortemente alla diminuzione demografica dei poli − risulta difficile, al momento, che esse perdano d'importanza e che si affermino modelli insediativi di tipo alternativo, anche perché può dimostrarsi che i contingenti che si allontanano dalle città − non aumentati nel tempo − tendono a stabilirsi a distanze piuttosto esigue da esse e, assai spesso, nell'ambito delle aree di attrazione prese qui in considerazione, che approssimano certamente per difetto le aree urbane o metropolitane effettive. Ciò comporta, da un lato, che le città vengano ''usate'' da un numero di persone molto superiore a quello della p. realmente residente e, dall'altro, che − ove si continui a non programmare l'intera questione urbana, realizzando insediamenti in maniera disordinata e saccheggiando il territorio delle varie fasce, com'è praticamente avvenuto sin qui − aumenterà il grado di disagio di una larga quota di p. nazionale (forse la maggioranza). Anche se esistono indubbi ritardi culturali nell'affrontare il problema urbano − e la l. 142/90 lo testimonia − potrebbe essere giunto il momento, approfittando proprio della circostanza che i massicci ingressi del 1951-71 nelle città sono cessati, di procedere a una sua razionalizzazione, che è costosa (si pensi anche ai nuclei storici degradati), ma irrinunciabile per il proseguimento o il consolidamento dello sviluppo economico e sociale dell'Italia. Abbandonare la questione urbana, o ritenere di poter allentare la tensione su di essa, in nome di una pretesa fuga dalle città o dell'affermarsi di ipotetici modelli insediativi alternativi, sembra una decisione poco illuminata.
Bibl.: A. D. Cliff, J. K. Ord, Spatial autocorrelation, Londra 1973; B. J. L. Berry, Urbanisation and counterurbanisation, in Urban Affairs Annual Review, 11 (1976); A. Vallega, Regione e territorio, Milano 1976; P. Gordon, Deconcentration without a ''clean break'', in Environment and Planning, 11, s. A (1979); P. Hall, D. Hay, Growth centres in the european urban systems, Londra 1980; D. R. Vining, A. Strauss, A demonstration that the current deconcentration of population in the United States is a clean break with the past, in Environment and Planning, 17 (1982); A. J. Fielding, Counterurbanisation in western Europe, in Progress in Planning, 17 (1982); L. Van den Berg, R. Drewett, L. H. Klaassen, A. Rossi, C. H. T. Vijveberg, Urban Europe. A study of growth and decline, Oxford 1982; G. Dematteis, Le metafore della terra, Milano 1985; ISTAT, 12° censimento generale della popolazione, 25 ottobre 1981, Relazione generale sul censimento, Roma 1989; La città prossima ventura, a cura di J. Gottmann e C. Muscarà, Bari 1991; A. Getis, J. K. Ord, The analysis of spatial association by use of distance statistics, in Geographical Analysis, 3, vol. 24 (1992); G. Martinotti, Metropoli, Bologna 1993.