Popoli e culture dell'Italia preromana. I Falisci
Gente dell’Italia preromana (gr. Φαλίσκοι; lat. Falisci) che occupava una zona poco estesa del Lazio, costituita da pianori tufacei segnati da corsi d’acqua che confluiscono nel Treja, affluente di sinistra del Tevere, compresa fra l’ager Capenas a sud, il Lago Sabatino e i Monti Cimini a ovest e a nord.
L’identità etnica dei Falisci viene attestata dagli scrittori antichi (Strab., V, 2, 9, che riprende verosimilmente Polibio), anche se la loro storia è direttamente legata a quella degli Etruschi. Di essi appaiono alleati, assieme agli abitanti della vicina Capena, soprattutto a partire dal V sec. a.C., quando iniziano le lotte con Roma (Liv., IV, 17-18, 21, 23; V, 8 e 18- 19; VII, 16; X, 45-46), al punto da essere inclusi fra i populi etruschi (Liv., V, 8, 4-5), con i quali partecipano ai concilia presso il santuario “nazionale” etrusco di Voltumna (Liv., V, 24, 2-3). La loro lingua, ritenuta autonoma già dagli antichi (Strab., V, 2, 9), presenta tuttavia forti convergenze con il latino e si è ipotizzato che sia il residuale di parlate di genti protolatine abitanti tutta la regione del basso Tevere in età preistorica. Documentata epigraficamente a partire dalla metà del VII sec. a.C. da una scrittura derivata da quella degli Etruschi, ma con alcune modifiche, essa riflette, come il dialetto di Capena, che deriva invece dal gruppo umbro, l’affermazione dell’idioma delle élites dominanti in questa enclave quando si consolidano le civiltà storiche dell’Italia centrale.
Il popolamento di età storica sembra inizialmente organizzarsi lungo il corso del Treja, in piccoli e medi abitati di altura, dipendenti in gran parte dal centro maggiore, Falerii, città che raggiungerà un’estensione di 47 ha, distrutta dai Romani nel 241 a.C. (Pol., I, 65; Liv., Epit. Oxyrh., 19) e ricostruita in pianura con il nome di Falerii Novi, e dal centro sorto a Narce, in tre distinti nuclei abitativi, nel quale si vorrebbe riconoscere, ma non unanimemente, l’altra città falisca cursoriamente ricordata dalle fonti, Fescennium (Dion. Hal., I, 21, 1). In ambedue i centri non mancano tracce di abitato e di tombe risalenti al Protovillanoviano, mentre si registra assenza di testimonianze della prima età del Ferro. Sempre a partire dalla prima metà dell’VIII sec. a.C. si distinguono altri centri di limitata estensione: a ovest di Falerii, Nepi (15 ha ca.), a nord Corchiano (10 ha ca.) e Vignanello (4,5 ha ca.), tutti posti su speroni rocciosi difesi naturalmente.
Falerii, in posizione centrale e collegata con i traffici tiberini, si avvia a divenire presto il capoluogo della regione, sede di santuari comuni all’intero ethnos, come quello di Giunone Curite (Dion. Hal., I, 21), divinità di carattere guerriero, archeologicamente riconosciuto nel sito extraurbano in località Celle, attivo a partire dalla prima metà del VI sec. a.C. Narce appare invece un centro di “frontiera”, culturalmente – se non politicamente – dominato dalla vicina Veio, se vi fiorisce una colonia di maggiorenti etruschi, attestata da iscrizioni arcaiche di lunghezza anche ragguardevole. Il riferimento alla cultura etrusco-tiberina appare una costante nella fase più antica: le prime tombe, a incinerazione in pozzetti con custodia litica e ossuario a semplice olla, poi sviluppate nel tipo a inumazione a fossa con loculo, seguono la tipologia veiente. Improntata a modelli etrusco-meridionali è anche la morfologia vascolare locale di tipo fine, da mensa, in impasto lucido rossastro decorato a graffito, con motivi sia geometrici, sia derivati dalla cultura figurativa orientalizzante, ma rielaborati con un peculiare stile fantastico che si ritrova anche nelle produzioni di Capena e dei centri sabini situati sulla riva opposta del Tevere.
La stabilità degli abitati viene poi segnalata dalla successiva diffusione, fra tardo VII e VI sec. a.C., di tombe a camera familiari, con loculi parietali, a volte fornite di arredi e decorazioni interne realizzate in tufo, distribuite sui pianori adiacenti agli insediamenti. Di questi, ben individuabili nella loro struttura geomorfologica e nei loro confini, poco si conosce: terrecotte architettoniche della fase arcaica sono documentate a Vignanello, mentre una vera e propria tradizione coroplastica finalizzata alle decorazioni templari, in parte legata alle esperienze veienti-laziali, si isola a partire dagli inizi del V sec. a.C. per le fabbriche dei templi urbani ed extraurbani di Falerii e per i più modesti santuari extraurbani di Narce. L’importanza del distretto falisco sembra accrescersi agli inizi del IV sec. a.C., a seguito della caduta di Veio (396 a.C.): il territorio, divenuto una sorta di stato-cuscinetto nei confronti dell’espansione romana, si spopola nel versante meridionale, contiguo a quello veiente, mentre subisce un incremento nella zona a settentrione di Falerii, a Fabrica di Roma, Corchiano e Grotta Porciosa, dove si ritrovano con una certa frequenza tombe a camera con loculi chiusi da tegole con iscrizioni in falisco, ma dove non dovettero mancare anche forme di integrazione di elementi etruschi, provenienti verosimilmente dal territorio volsiniese.
Questa sorta di ripresa politico-economica del distretto viene confermata da forme di riassetto del territorio che comportano, fra l’altro, la ristrutturazione del sistema viario, il quale usufruisce, nei percorsi, di vie cave o “tagliate” nella roccia lungo le cui pareti sono incise iscrizioni pubbliche con nomi falisci (come nella strada che da Falerii Veteres conduceva verso la Selva cimina) o etruschi (come nella strada che da Corchiano menava a Nepi), ma soprattutto dalle grandi fabbriche templari ricostruite nel capoluogo, Falerii, dopo la conclusione delle ostilità con Roma, nel 394 a.C., con decorazioni tardoclassiche di grande finezza, note anche a Fabrica di Roma, affini a, o derivate da, esperienze volsiniesi, e poi di tipo ellenistico, allineate con le esperienze romane. Notevole è anche la produzione di ex voto fittili, nonché di ceramiche da mensa impiantate da artigiani greci a partire dal secondo quarto del IV sec. a.C. Fra queste merita particolare menzione la produzione di vasi a figure rosse di grande prestigio (in specie crateri e stamnoi) detta per l’appunto “falisca”, derivata dalla ceramografia attica del primo quarto del IV sec. a.C., esportata anche a Roma (le didascalie dipinte sono anche in latino) e nei centri tirrenici, mentre più corrente è la ceramica a vernice nera, spesso fornita di decorazione suddipinta, iniziata anch’essa da artigiani greci, fra cui un Σωκρά(της).
È probabile che da queste esperienze produttive, in particolare dalle fabbriche di ceramiche a figure rosse, nascano anche filiali, le più importanti delle quali si localizzano a Cerveteri, ma tutte queste forme tendono a massificarsi nel corso della seconda metà del IV secolo. La distruzione del capoluogo nel 241 a.C., con il massacro di 15.000 abitanti, la confisca di beni e saccheggi (Zonar., VIII, 18), attestata anche da una corazza iscritta, spoglia di guerra, apparsa nel mercato antiquario, comportò la ricostruzione di una Falerii Novi in pianura, presso l’odierna Santa Maria di Falleri, nonché il trasferimento delle famiglie superstiti, le cui tracce ritroviamo successivamente nelle iscrizioni sia in falisco sia in latino fra i titolari delle magistrature della nuova città. Federata con Roma, conservò per qualche tempo la propria lingua e, sicuramente, i culti originari trasportati dalla città distrutta: in un boschetto vicino a questa doveva essere praticato quello a Giunone ancora in età augustea (Ov., Am., III, 13, 27-33).
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