Popoli e culture dell'Italia preromana. I popoli dell'area medio-adriatica
Con l’espressione “cultura medio-adriatica”, introdotta nella letteratura specialistica da V. Cianfarani, si designa convenzionalmente la facies archeologica che caratterizza fra VII e V sec. a.C. un’ampia fascia del versante adriatico della penisola, grosso modo compresa fra il corso del fiume Tronto (a nord) e quello del Biferno (o tutt’al più del Fortore, a sud), e le retrostanti zone appenniniche interne. In tale accezione, l’aggettivo medio- adriatico, riferito dunque a un ambito territoriale coincidente con il settore meridionale di quella che sarà la regio V (Picenum) augustea e con buona parte della futura regio IV (Sabina et Samnium), accanto a una valenza geografica ne assume, pertanto, una storico-culturale; sostanzialmente a esso estranee rimangono, invece, possibili connotazioni in senso etnico o linguistico, ancorché in passato medio-adriatiche siano state definite le iscrizioni in alfabeto locale oggi qualificate come “sudpicene”. Peraltro, se sul piano linguistico alla realtà storico-culturale individuata dall’aggettivo medio-adriatico corrispondono, in epoca arcaica, entità parlanti, almeno in buona parte dell’area sopra descritta, una varietà linguistica italica di tipo umbroide, documentata per l’appunto dalle iscrizioni sud-picene, su quello etnico vanno valutate le indicazioni desumibili dalla documentazione epigrafica epicoria e dalle fonti letterarie.
L’analisi delle iscrizioni sud-picene (già variamente definite “italico-orientali, sabelliche, protosabelliche, paleosabelliche, picene, medio-adriatiche”), in particolare di alcuni testi incisi su stele rinvenute nella località teramana di Penna Sant’Andrea, mostra come, seppure in un contesto nel quale fattori situazionali e di forte ideologizzazione devono avere avuto un notevole peso, la locale comunità, in termini di autodefinizione etnica, si qualificasse come safina, ovvero sabina. Un tale dato, che non va però sopravvalutato o generalizzato, apre la strada, unitamente ad altre indicazioni presenti nelle fonti letterarie, epigrafiche e archeologiche, a una possibile interpretazione in chiave “(pan)sabina” della storia del popolamento arcaico del comprensorio medio-adriatico, o per lo meno di una parte di esso, quantunque vada ricordato che la percezione dell’appartenenza e dell’identificazione dei singoli o dei gruppi si espliciti a più livelli, dei quali quello etnico (presumibilmente individuato, nel caso specifico, dall’aggettivo safino) non ne rappresenta che uno.
Una presenza arcaica dei Sabini nelle zone appenniniche interne tra Lazio e Abruzzo parrebbe, del resto, testimoniata o quanto meno presupposta, pur con tutti i problemi connessi alla ricostruzione operata dalla storiografia antica in rapporto a epoche così remote, dalle fonti letterarie, sebbene queste chiamino in causa (ma per quanto riguarda il settore più meridionale dell’area medio-adriatica) popolazioni indigene di ambiente tirrenico, quali gli Opici, che qui avrebbero preceduto i Sanniti. Certo è che gli autori antichi attestano la presenza, a partire dal IV sec. a.C. e negli stessi territori nei quali fiorì in epoca arcaica la cultura medio-adriatica, di una molteplicità di etnie di stirpe osca (o meglio osco-sannita, nel settore meridionale dell’area: Sanniti Pentri, Carricini, Frentani) o più genericamente osco-umbra (in quello centro-settentrionale: da nord a sud, Pretuzi, Vestini, Marsi, Peligni, Marrucini). Popolazioni, queste, che la tradizione antica romana identificava anche mediante l’etnico Sabelli, affermatosi (a partire da Varrone) in una accezione che sembra includere Sabini e Sanniti e avere valenze connotative nel complesso positive (e come “paleosabelliche” e “sabelliche”, rispettivamente in riferimento all’orizzonte arcaico e a quello posteriore al V sec. a.C., vengono spesso definite dagli studiosi moderni tali genti).
A fronte delle numerose problematiche aperte, relative a una effettiva qualificazione in termini unitari e di “sistema” della cultura medio-adriatica, o connesse ai processi di strutturazione e di identificazione etnica e linguistica in atto nella regione, che porteranno all’emergere dei singoli ethne sabellici (Pretuzi, Vestini, Marsi, ecc.) nelle loro sedi storiche, vi sono le importanti acquisizioni conseguite dalla ricerca archeologica nel corso degli ultimi decenni. Acquisizioni che, con scoperte talora di carattere davvero straordinario (ad es., di Fossa, nell’Aquilano), hanno decisamente ampliato l’orizzonte delle nostre conoscenze, consentendo di meglio delineare, seppure non senza incertezze e lacune, la fisionomia culturale e le forme di organizzazione sociale di tali genti, per il periodo che va dagli inizi dell’età del Ferro al loro definitivo ingresso nella cittadinanza romana, intervenuto a conclusione del bellum sociale (91-89 a.C.).
Per le fasi più antiche, le indicazioni più significative provengono dal settore appenninico interno dell’area medio-adriatica, in particolare dal territorio storicamente appartenuto ai Marsi. Nel Fucino, la cui vitalità nel corso dell’età del Bronzo è documentata non solo da ritrovamenti più o meno occasionali, ma anche da contesti oggetto di recenti indagini di scavo (come quelli dell’abitato perilacustre e del sepolcreto di Paludi di Celano), si registrano con gli inizi dell’età del Ferro importanti cambiamenti nelle dinamiche e negli assetti insediativi.
Al pressoché generalizzato abbandono degli abitati di epoca precedente (posti, in genere, in zone di pianura o su terrazze fluviali e pendii) corrisponde la nascita di nuovi insediamenti situati in altura, cui sembrerebbe accompagnarsi un incremento demografico testimoniato dal moltiplicarsi delle attestazioni. Dinamiche simili parrebbero in atto in buona parte dell’area medio-adriatica, stando almeno a quanto è dato di desumere dalla documentazione disponibile (oltre che nelle zone interne, abitati di altura sorgono anche nella fascia costiera adriatica e nell’immediato retroterra: a Martinsicuro e Tortoreto, nel Teramano, a Monte Pallano e Campomarino, in Frentania, solo per fare qualche esempio).
Oltre che dagli abitati, la continuità di vita e di occupazione dei siti nel lungo periodo è documentata anche e soprattutto dalle necropoli. È infatti nel corso della prima età del Ferro che si registra l’impianto, in zone pianeggianti, di grandi necropoli destinate a essere utilizzate per secoli, talora ininterrottamente fino a epoca romana: quelle di Campovalano di Campli e Teramo (loc. La Cona) nel territorio pretuzio; Scurcola Marsicana (loc. Piani Palentini) in quello marso; Fossa (loc. Casale), Bazzano, Capestrano (loc. Capo d’Acqua) e Caporciano (loc. Campo di Monte) nel territorio vestino cismontano; Castelvecchio Subequo (loc. Le Castagne-Colle Cipolla) in quello peligno-subequano; Guardiagrele (loc. Comino) in quello marrucino. Nell’ambito di tali necropoli, a precoci forme di articolazione interna e di organizzazione planimetrica dello spazio funerario si accompagnano, sin dalle più antiche fasi d’uso (X-IX sec. a.C.), fenomeni di delimitazione e protezione delle aree assegnate e riservate alle sepolture, nonché di monumentalizzazione delle stesse, che trovano la loro più tipica espressione nelle cosiddette “tombe a circolo”. Queste ultime, nella varietà della casistica attestata (con circolo, continuo o interrotto, costituito da anello perimetrale litico di base o da fossato anulare, coperto o meno da tumulo e racchiudente sepolture singole o multiple, a fossa), rappresentano fino a età arcaica il tipo di sepoltura più caratteristico delle genti centro-italiche insediate a est del Tevere: esse hanno il proprio epicentro di diffusione nelle aree appenniniche interne di Umbria, Lazio e Abruzzo, per giungere, a nord, sino alla Romagna (San Martino di Gattara e altre località) e, a sud, al Molise (Schiavi d’Abruzzo, Pietrabbondante). Alle grandi necropoli appena menzionate altre se ne aggiungono nel corso del periodo tardo-orientalizzante e arcaico, anche nelle zone più meridionali dell’area medio-adriatica: fra le principali, quelle di Alfedena e Opi (ove, peraltro, l’esigenza di segnalare l’appartenenza a un gruppo parentelare o sociale si riflette nella presenza di circoli di tombe), nell’alta valle del Sangro, nel territorio che sarà dei Sanniti Pentri; quelle di Vasto, Termoli e Larino, in quello frentano.
Per quanto riguarda le pratiche e l’ideologia funerarie, i dati desumibili dalla documentazione dei sepolcreti medio-adriatici rivelano, per il periodo che va dagli inizi dell’età del Ferro all’epoca arcaica, caratteri di sostanziale uniformità e conservatorismo. Ne sono testimonianza il tipo di sepoltura adottato (per lo più, tombe a fossa terragna), di rituale (assolutamente predominante è l’inumazione del defunto, in posizione supina) e di corredo funerario (i modelli di autorappresentazione collettiva prescelti sono generalmente rivolti a valorizzare, tramite le armi, la funzione guerriera dell’uomo e, mediante gli ornamenti personali e gli elementi del costume tradizionale, il ruolo sociale della donna). Anche sul piano della cultura materiale si riscontrano, nei vari comparti territoriali nei quali si articola l’area medio-adriatica, indubbi elementi di omogeneità, estesi peraltro almeno in parte al vicino Piceno. I legami con questa regione, soprattutto evidenti nel settore settentrionale dell’area medio-adriatica (ossia nel territorio pretuzio, tra il Pescara o il Saline e il Tronto, che, del resto, è da taluni ritenuto pienamente rientrante nell’orizzonte culturale “piceno”) hanno fatto, anzi, parlare al proposito di una vera e propria koinè culturale esistente tra i due ambiti.
Elementi di conferma (sebbene parziale) sono in tal senso riscontrabili sul piano linguistico, come dimostra la distribuzione diatopica delle iscrizioni “sud-picene” (che interessa l’area che va dall’Esino al Sangro), e su quello mitistorico, come rivela la riflessione antica sulle comuni origine sabine (ricondotte al rituale italico del ver sacrum) dei Piceni e di alcune popolazioni dell’area medio-adriatica, quali i Peligni e, forse, i Marsi. Questa nozione di koinè è stata inoltre da taluni estesa, sulla scorta degli aspetti di identità e affinità individuabili sul piano degli assetti insediativi e delle forme ideologiche e materiali della produzione, all’intero settore centro-orientale della penisola (dalla Romagna al Molise). Né sono mancati studiosi che ne hanno proposto un’ulteriore dilatazione, proiettandola in una dimensione adriatica, tale da spiegare i caratteri di comunanza che uniscono le popolazioni delle due sponde dell’Adriatico fra VII e V sec. a.C. A fronte degli indubbi legami che uniscono l’area medio-adriatica al Piceno e ad altre regioni circostanti sono tuttavia, nella documentazione in nostro possesso, anche importanti segni di differenziazione culturale e ideologica che, per quanto riguarda l’area medio-adriatica, si traducono in fenomeni e tratti di peculiarità locale.
Ne abbiamo un esempio, per citare il caso meglio noto, con la scultura funeraria di pietra di grandi dimensioni, che costituisce probabilmente la più tipica espressione artistica dell’area medio-adriatica tra VII e V sec. a.C. Attestata da una dozzina di esemplari (dei quali il Guerriero di Capestrano è certo quello più celebre), abbastanza omogeneamente distribuiti sull’intera area medio-adriatica (con l’eccentrica e isolata presenza di una testa di guerriero da Numana), questa produzione era destinata a segnalare e monumentalizzare la tomba, evidenziando altresì lo status sociale privilegiato degli aristoi locali (in tal senso essa assolveva a una funzione, almeno in parte, analoga a quella attribuita, tra la fine dell’età del Bronzo e la prima età del Ferro, alle file di stele aniconiche di pietra messe in luce nelle necropoli di Celano, Scurcola Marsicana e Fossa). Del resto, elementi di articolazione e di differenziazione culturale e ideologica sono riscontrabili, in una prospettiva comprensoriale, all’interno della stessa area medio- adriatica e la ricerca archeologica ne va, anzi, sempre più documentando l’esistenza.
Non sfugge, ad esempio, il particolare rilievo assunto dal distretto fucense nell’ambito delle attività metallurgiche locali. La vitalità della produzione fucense, i cui presupposti risiedono nella partecipazione del Fucino a una importante cerchia metallurgica centro-italica del Bronzo Finale, si spiega anche in rapporto ai contatti privilegiati intercorsi con le aree umbro-sabina e falisco-capenate e trova forse le sue più caratteristiche espressioni nei dischi e dischi-corazza a decorazione geometrica o prevalentemente geometrica, prodotti localmente tra la fine dell’VIII e il VI sec. a.C. (con una articolazione, avente valore anche diacronico, nei gruppi Casacanditella, Civitaluparella, Alba Fucens) e deposti nelle sepolture quale insegna di rango. Alla concentrazione nel Fucino di tali manufatti si contrappone una più ampia distribuzione territoriale della parallela produzione costituita dai dischi-corazza con decorazione figurata (a sbalzo e a incisione) di stile orientalizzante, recanti un singolare episema (il cd. “quadrupede fantastico”) e databili fra la metà del VII sec. a.C. e l’età tardoarcaica (con una articolazione, significativa pure in senso cronologico, nei gruppi Numana, Paglieta e Alfedena).
A fronte di un patrimonio di elementi culturali e di atteggiamenti ideologici, comune (o quanto meno largamente condiviso) a gran parte delle genti insediate in area medio-adriatica tra la prima età del Ferro e l’arcaismo, sembra dunque di potere riconoscere aspetti locali di tipo subregionale (pretuzio, fucense, sangritano, frentano, ecc.), la cui definizione, oltre che a fattori strutturali, pare strettamente correlata alla diversa possibilità di contatto e di acculturazione propria dei singoli comprensori. Se le facies locali individuate appaiono soltanto in parte corrispondenti a quelli che saranno gli esiti dei processi di strutturazione e di segmentazione etnica e territoriale attestati a partire dal IV sec. a.C., i dati di cui disponiamo sempre più orientano a interpretare tali processi in chiave endogena e in termini di sostanziale continuità. Il concetto stesso di “crisi”, che avrebbe investito l’area medio-adriatica (come, del resto, buona parte della penisola italiana) nel corso dell’avanzato V sec. a.C., ne esce in qualche modo ridimensionato (ancorché un ruolo destabilizzante vada di certo attribuito alla calata dei Galli Senoni nel Piceno) e alcuni settori del mondo medio-adriatico, come quello marrucino o frentano, sembrano anzi proprio in questo periodo restituire evidenze archeologiche di particolare significato.
Certo è che nel momento in cui i singoli ethne sabellici e sannitici fanno il loro ingresso nella storia (ovvero in riferimento a eventi datati dalla storiografia antica alla seconda metà del IV sec. a.C.) l’area medio-adriatica appare oramai suddivisa in una serie di realtà etnico-territoriali, che da nord a sud possono essere così individuate: i Pretuzi, stabiliti tra il Saline e il Tronto, con una articolazione interna in tre distretti (da nord a sud: Palmensis, Praetutianus e Hatrianus); i Vestini, che occupavano la regione attorno al Gran Sasso, distinti in Cismontani (ubicati a ovest del massiccio) e Transmontani (a est dello stesso, fino al Mare Adriatico, per il breve tratto di costa compreso tra le foci dei fiumi Pescara e Saline); i Marsi, dislocati nella regione che tuttora ne tramanda il nome (Marsica), nelle zone intorno al lago del Fucino e nel settore più settentrionale dell’alta valle del Liri (Val Roveto); i Peligni, insediati nella conca di Sulmona e in quella subequana, oltre che nelle circostanti alture; i Marrucini, stanziati fra il massiccio della Maiella e il litorale adriatico, nel tratto incluso tra i fiumi Pescara e Foro.
Ancora più a sud, tra i Sanniti: i Carricini, stretti fra le pendici sud-orientali del massiccio della Maiella e il fiume Sangro; i Pentri, che costituivano la principale e più potente tribù del mondo sannitico (l’ultima a essere sottomessa da Roma), estesa dall’Abruzzo meridionale a tutto il Molise interno e a parte della Campania interna nord-orientale; i Frentani, infine, insediati nella fascia costiera e nell’immediato retroterra dell’Abruzzo meridionale e del Molise. A questo mosaico di etnie e tribù corrisponde, sul piano linguistico, sempre a partire dal IV sec. a.C., una documentazione epigrafica articolata essenzialmente in due nuclei. Quello centro-settentrionale è riferibile ai dialetti che vengono definiti “medio-italici” (o sabellici: vestino, marso, peligno, marrucino), comunque riconducibili nell’alveo dell’osco-umbro; redatte nei caratteri dell’alfabeto latino coloniale, tali attestazioni contemplano ora documenti epigrafici di particolare interesse (come la cd. Tavola di Rapino, nel caso dei Marrucini), ora corpora di una qualche rilevanza numerica (alcune decine di iscrizioni in quello dei Peligni). Al nucleo meridionale sono invece attribuibili le non poche iscrizioni in lingua e alfabeto osco-sannita provenienti dai territori di Carricini, Pentri e Frentani (fra i testi si segnala la cd. Tavola di Agnone).
La storia di tutte queste popolazioni, considerate dagli autori antichi le più bellicose dell’intera penisola (gentes fortissimae Italiae), nel corso del IV sec. a.C. è sostanzialmente la storia della loro opposizione al crescente espansionismo romano: essa ha nelle guerre sannitiche (343-341, 326-304, 298-290 a.C.) i momenti più significativi e trova conclusione, dopo la spedizione italiana di Pirro (280-275 a.C.), nella resa di quelle popolazioni sancita dall’avviarsi del processo di romanizzazione dei loro territori. Al ruolo prioritario avuto in tali avvenimenti dalle tribù sannitiche del comparto meridionale dell’area medio-adriatica si accompagna quello delle consanguinee e più settentrionali genti sabelliche che, schierate al fianco dei Sanniti, dopo essere state sconfitte, strinsero con Roma un trattato di alleanza (nel 304 a.C. Marsi, Peligni, Marrucini e Frentani; nel 302 a.C., probabilmente, i Vestini), cui rimasero in sostanza fedeli sino all’epoca del bellum sociale. Determinante fu, inoltre, l’apporto dato da queste popolazioni, in termini di uomini e di capacità militari, alle vittorie e alle conquiste conseguite da Roma nel corso del III e del II sec. a.C.
Grazie al contributo offerto dalle fonti letterarie, epigrafiche e numismatiche, il quadro storico ed etnico-territoriale relativo all’area medio-adriatica in età posteriore alla fine del V sec. a.C. dunque si precisa e si arricchisce di particolari. Anche per quanto riguarda le fonti archeologiche, la base documentaria a nostra disposizione si amplia considerevolmente: accanto alle attestazioni di ambito sepolcrale, sempre più frequenti si fanno quelle di carattere extrafunerario, pertinenti ad abitati e santuari. Sebbene non manchino indizi e segnali di cambiamento, l’assetto del territorio resta, nel suo insieme, caratterizzato da una situazione di accentuato frazionamento degli insediamenti (definita convenzionalmente, ma in modo improprio, di tipo “paganico-vicano”), essendo i fenomeni di (proto)urbanizzazione limitati a casi particolari (ad es., Larino in Frentania) e, in sostanza, legati alle forme e ai modi della penetrazione romana nella regione (se già in epoca anteriore al bellum sociale centri come Marruvium, Sulmo, Teate, ecc. acquistano una fisionomia urbana, sarà comunque a conclusione del conflitto che, con l’ordinamento municipale, il modello urbano avrà una maggiore diffusione in tali aree).
Numerosi sono i centri e i siti fortificati, di maggiore o minore grandezza, aventi ora funzione di stabili insediamenti, ora di rifugi temporanei o ancora di semplici postazioni e osservatori, che sorgono in buona parte dell’area medio-adriatica, specie nel settore interno centro-meridionale, soprattutto nel corso del IV sec. a.C. (ma taluni probabilmente anteriori, risalenti forse a età arcaica: ad es., quelli della Giostra di Amplero, nella Marsica; della Civita di Rapino, in territorio marrucino; di Alfedena, nel Sannio pentro). Arroccati sulla sommità e lungo le pendici dei rilievi appenninici, tali centri dovevano di certo rappresentare l’elemento più caratterizzante del paesaggio antico, per lo meno in epoca preromana. Se alcuni di essi sono probabilmente da identificare con taluni degli oppida noti dalle fonti letterarie, altri debbono avere costituito un punto di riferimento importante per le popolazioni che vivevano più o meno sparse nelle campagne o in insediamenti che solo in qualche caso parrebbero avere oltrepassato la dimensione del villaggio.
All’interno di questo quadro insediativo un’importanza particolare assumono anche i santuari. Se in qualche caso se ne ha attestazione già da età arcaica (ad es., in quelli di Monte Giove di Cermignano, nel teramano; della Grotta del Colle, presso Rapino; di Pietrabbondante, nel Sannio pentro), è a ogni modo a partire dall’inoltrato IV sec. a.C che la presenza dei luoghi di culto si rende evidente sul piano della documentazione archeologica. Ne sono testimonianza le decine di santuari, grandi e piccoli, sparsi nel territorio e collocati preferibilmente su alture non impervie e nelle vicinanze di sorgenti (non di rado, di acque salutifere) e delle principali vie di comunicazione (ricalcate poi dalla rete tratturale di epoca romana), individuati in tutta l’area medio-adriatica e spesso dedicati a Ercole. Né mancano importanti attestazioni di uso e frequentazione cultuale di grotte e cavità naturali, come, per fare qualche esempio, le grotte di Ciccio Felice, in area marsa, delle Marmitte, in quella vestina cismontana, e del Colle, in quella marrucina.
Se molti di questi santuari e luoghi di culto hanno dimensione puramente locale, altri appaiono riferibili a più comunità o ad aggregazioni di tipo cantonale, oppure sono posti a protezione dei confini del territorio tribale. Altri sembrano pertinenti all’intero ethnos: è il caso del santuario di Monte Giove di Cermignano per i Pretuzi; del Lucus Angitiae per i Marsi; del santuario di Ercole Curino, presso Sulmona, per i Peligni; della Grotta del Colle, presso Rapino, per i Marrucini; del santuario di Pietrabbondante per i Sanniti Pentri. Sono soprattutto questi ultimi santuari, ma non solo essi, che nel corso del tempo vengono assumendo dignità architettonica e forme monumentali. Già nel III, ma, soprattutto, nel II sec. a.C., in tutta la regione medio-adriatica si registra una vera e propria fioritura dell’edilizia sacra, che appare rivolta da un lato alla ristrutturazione e alla monumentalizzazione di luoghi ed edifici di culto preesistenti, dall’altro alla costruzione di nuovi.
Essa si concretizza nell’erezione di templi e impianti dalle raffinate e scenografiche architetture di ispirazione ellenistica, realizzati da maestranze specializzate, spesso a testimonianza della politica di munificenza ed evergetismo messa in atto dai membri delle élites locali o della loro capacità di convogliare risorse pubbliche. Per la molteplicità di funzioni (di carattere cultuale, socio-economico, politico, culturale) che in misura diversa assommavano, si può dire che i santuari dell’area medio-adriatica abbiano costituito un luogo di incontro e di scambio per una serie di momenti di carattere collettivo e sociale che nei centri urbani avevano spazi e sedi specifiche. Nello stesso periodo, per effetto del mutato quadro storico, agli insediamenti di altura subentrano via via quelli in pianura o in pendio, spesso ubicati in prossimità delle principali vie di comunicazione. Nonostante l’incipiente urbanizzazione, una realtà di diffuso frazionamento dell’insediamento sopravviverà, come sostrato del sistema municipale romano, nella massima parte del territorio medio-adriatico.
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