Popoli e culture dell'Italia preromana. L'influenza greca nell'arte italica
La Sicilia e l’Italia meridionale
La cultura artistica in Sicilia e nell’Italia meridionale, dalla metà circa dell’VIII sec. a.C. all’inizio del V sec. a.C., si presenta poco unitaria. Le colonie greche cercano di trasmettere in Italia i motivi dell’arte della Grecia propria. Ben presto però, il fenomeno è già della fine dell’VIII secolo, si assiste alla formazione di spunti figurativi autonomi: sia nella produzione delle città coloniali, sia in quella indigena. Tra le famiglie che partecipavano alla colonizzazione non mancavano quelle degli artigiani che dovevano produrre bronzi, ceramiche, terrecotte. È naturale che questi artigiani non si limitassero a importare motivi tradizionali dalle città di origine, ma che ben presto, a disposizione di una clientela che reagiva diversamente da quella della madrepatria, allentassero la tematica originaria creando un’arte coloniale caratterizzata da una immediatezza e una corposità ignote alla Grecia propria. L’immigrazione continua di nuovi artigiani determinò grande mobilità nell’assumere mode e modi stilistici nelle città coloniali: mode e modi tradotti con un linguaggio formale spesso insufficiente, ma spigliato e immediato.
Le più antiche tradizioni indigene, basate su una consuetudine più che secolare, assorbivano anche esse spunti coloniali. Attraverso l’assimilazione di questi, spesso fraintesi – mai organicamente recepiti – si venivano a creare invenzioni indigene-coloniali che non potevano essere senza effetto sulla cultura delle colonie stesse.
Queste premesse sono necessarie per comprendere perché sia illusorio considerare l’arte della Magna Grecia e della Sicilia, così come l’arte della Puglia, della Campania, di alcune regioni appenniniche e adriatiche come un fatto unitario; l’etichetta “indigeno” e “coloniale” altro non deve essere che il mezzo per giungere all’identificazione di fenomeni che debbono essere esaminati volta per volta al fine di articolare la comprensione di una più reale attività artigianale. Non è possibile parlare di continuità artistica, di cultura autonoma, ma solo di sollecitazioni, spesso casuali, che rischiano di degenerare in un vernacolo paesano se non alimentate da più autentica cultura formale greca. Dalla fine del V secolo gli influssi delle poleis greche si fanno meno formativi sull’arte coloniale: per la contrazione degli interessi verso l’Italia meridionale e la Sicilia che caratterizza il periodo delle guerre persiane, per la sempre maggiore pressione dei Cartaginesi e degli Etruschi. Già alla fine del VII secolo la società della Magna Grecia e della Sicilia dovette sostanzialmente modificarsi: si assiste alla formazione di classi sociali differenziate – rispetto alle aristocrazie precedenti – quasi più tarda acquisizione dei caratteri di alcune oligarchie greche.
La cultura media andò rarefacendosi, la formazione di vere e proprie dinastie permise l’acquisizione di precisi motivi dell’arte colta delle poleis greche (ma questi motivi, ristretti attorno a rarefatte classi sociali, non divennero operanti su tutta la popolazione). La lacerazione di un tessuto medio comune alla grecità coloniale (la disparità che venne a crearsi nelle necessità di classi diverse) favorì la decadenza di una cultura comune (sia pur goffa e semibarbara, esposta a sollecitazioni sempre nuove) che aveva caratterizzato la prima grecità di Occidente. Sin dalla fondazione, le città coloniali presentavano una urbanistica regolare caratterizzata dalla suddivisione ortogonale dell’abitato e del contado. Gli edifici che caratterizzavano i santuari erano, probabilmente per la maggior importanza delle città doriche, di ordine dorico. Si tratta di un dorismo particolare, che ha una monumentalità e una potenza ignote agli edifici della Grecia propria; su questo, ben presto, vengono a sovrapporsi edifici e spunti ionici, che tradiscono l’assimilazione della grande edilizia della Grecia orientale (il risultato è un totale ibridismo di forme).
La plastica, di antica tradizione dedalica, assume caratteri autonomi, soprattutto nella decorazione degli edifici di culto. I miti sono rappresentati secondo interpretazioni locali: saghe più comprensibili ai coloni, forse, che derivavano da una reinterpretazione dei grandi temi epici operata da Stesicoro. La sobrietà delle sculture della Grecia propria è travolta da una gioia narrativa a volte minuta e aneddotica; la misura classica cede di fronte a una corposità paesana, fatta di atteggiamenti evidenziati, segnata da gerarchie di importanza. Ritardi stilistici, improvvise assimilazioni o contaminazioni di stili eterogenei mostrano la spregiudicatezza nel recepire motivi che vengono intesi solo come spunto creativo, punto di partenza per esercitazioni autonome. Le poche sculture sicuramente di arte locale hanno una pesantezza, una aderenza tutta terrena al materiale nel quale sono eseguite. I caratteri locali si possono cogliere soprattutto nelle terrecotte dalle stipi dei santuari.
Nella pittura vascolare le iconografie classiche, spesso immiserite, sono adeguate alla forma delle ceramiche locali pesanti, gonfie. Accanto alla produzione coloniale si sviluppa un’arte indigena. Si manifesta soprattutto in alcune ceramiche: le forme greche, rozze e imbarbarite, sono decorate con figure incombenti, disorganiche (a volte sigla di puro valore disegnativo). Nei bronzi una serie di figure di animali ci riporta a un mondo campagnolo, tutto terreno. Nelle terrecotte e nelle sculture predomina l’immagine femminile della fecondità, seduta, fissa allo spettatore. Il gusto di rappresentare per simboli si esprime nella disorganicità di alcune terrecotte dagli occhi a globo, limitate sempre o quasi alla rappresentazione di pochi elementi dell’intera figura, con particolare predilezione per il capo e il busto. La produzione dei territori che – apparentemente – meno erano in contatto col mondo coloniale come la Puglia, il Piceno e in parte la Campania, si mostra più tipica; frutto di civiltà più autonome (nella forma dei manufatti, nella consuetudine degli oggetti dedicati nei santuari).
Si tratta di armi, di utensili, di stele funerarie, di gioielli, di terrecotte votive; lo spunto greco è inteso solo come sigla decorativa, a volte recepita per organizzare una sintassi formale che rimane sempre ornamentale. I temi della mitologia o della religiosità classica spesso altro non sono che motivo per divagazioni di gusto indigeno, per rappresentazioni di consuetudini per noi quasi incomprensibili, di riti funerari, di battaglie che non riescono a canonizzare iconografie proprie. Le scene rimangono episodiche, oscure per essere inconsuete; rese con un disegno lineare che richiama più robuste composizioni, ma che rimane infantile e tende a racchiudersi in una narratività minuta, ricca di dettagli, di accostamenti e giustapposizioni (risultato di un processo mentale lontano da quello categoricamente ordinato del mondo greco). Alcune opere, a volte suggestive per immediatezza narrativa, non hanno continuità né per numero né per qualità: appaiono casualmente senza lasciare traccia duratura nella cultura figurativa dell’Italia antica.
La Sicilia
L’attestarsi sulle coste di coloni forniti di ben precisa organizzazione politica dové determinare uno squilibrio nel tenore di vita delle popolazioni indigene. Forse all’arrivo dei Greci, che si giovavano del ferro che potevano mutuare con le popolazioni dell’interno, si deve l’accumulo del bronzo. Nel ripostiglio del Mendolito sono state scoperte maschere (altre provengono dall’agrigentino), databili nella seconda metà dell’VIII sec. a.C., a forma di protome umana stilizzata: tra i più antichi esempi dell’arte indigena. Immediatamente dopo l’arrivo dei primi coloni alcune officine indigene iniziarono la produzione di vasi che imitavano le forme greche. Il carattere peculiare dell’arte coloniale della Sicilia si mostra appieno nel VII sec. a.C. Abbiamo la testimonianza che a Siracusa e a Megara, ancor prima della metà circa del VII secolo, erano attive fabbriche di ceramiche dipinte; così anche a Gela. La ceramica indigena assimila una produzione greca ancora indefinibile quanto a luogo di esecuzione. Una oinochoe da Polizzello mostra una remota acquisizione di forme greche; soprattutto la decorazione, di lontana ascendenza geometrica, è caratterizzata da fantasioso decorativismo (per il quale è spunto la stessa figura umana).
Il carattere indigeno è testimoniato particolarmente da piccoli bronzi che rappresentano animali. Tra questi i più importanti, databili circa alla fine del VII secolo, provengono da un deposito votivo di Castronovo. Si tratta di doni votivi di pastori: la spontaneità, l’immediatezza nel rappresentare gli animali si testimoniano con un bozzettismo tutto immediato. La capacità di cogliere gli aspetti della vita animale è evidente in un cratere da Sabucina. Nella forma, il vaso richiama quelli corinzi del VI secolo, ma la decorazione è indigena: un lupo, con incombente ferocia, è caratterizzato dall’enormità della parte anteriore e dalla veduta frontale della testa. Per quanto concerne i modelli architettonici la produzione indigena è evidente. Uno da Sabucina deriva da quelli greci comunemente offerti nei santuari. Ma l’edificio è innaturalmente sostenuto da una base; soprattutto la rozzezza delle antefisse e degli acroteri (spettrali alla sommità del tempietto) mostra come il prototipo greco fosse solo uno spunto per l’artigiano indigeno: tutto intento a esaltare la grandezza dell’edificio, la decorazione ricca e piena.
I caratteri tipici dell’arte indigena della Sicilia sono soprattutto della scultura. Da Megara proviene una statua, di calcare, di una donna che allatta due bambini. L’iconografia è della Grecia orientale, del VI sec. a.C., ma la chiarezza disegnativa delle figure ioniche è travolta. La madre greve, immobile, frontale, stringe con le mani immense i bambini enormi, ben fasciati; sembra esporre i figli quasi a trofeo, simbolo della propria ricchezza; la veste, nella parte inferiore del corpo, si dispone innaturalmente con un decorativismo che lascia trapelare un gusto festoso di parata (cui non sfuggono neppure le dita dei piedi). Alla stessa concezione si rifà una figura seduta da Grammichele. L’artigiano lavora in questo caso la terracotta, un materiale più umile, più malleabile, sembra compiacersi della materia. Le superfici sono fluide, ma la figura è terrena e pesante come il materiale nel quale è realizzata. Anche in questo caso il prototipo si deve ricercare tra le figure sedute di arte greco-orientale della seconda metà del VI secolo, ma l’attenzione dell’artigiano è verso l’immanenza del suo prodotto (forse una divinità femminile) resa attraverso la pesantezza del corpo, l’incombente frontalità. Le mani enormi, la testa lievemente alzata in alto, gli occhi a globo, la bocca appena segnata, la gravezza della veste mostrano che l’interesse è per quei particolari emblematici della presenza divina che si cerca di evidenziare a scapito della organicità dell’insieme. Tutta la figura è proiettata verso lo spettatore, ha come unico punto di vista quello frontale. Nei bronzi la plastica indigena ha caratteri evidenti. Uno di essi, proveniente dal Mendolito, ci mostra un offerente che, protetto dalla corazza (forse una lancia nella sinistra) si atteggia in foggia da parata. La freschezza baldanzosa del personaggio, appena abbozzato nel volto, con i capelli da chierico, le gambe grosse, ma flosce, mostra i limiti della produzione locale nella prima metà del V sec. a.C.
La Puglia
La posizione della Puglia è ben diversa da quella della Sicilia. I contatti con la Grecia sembra si siano mantenuti con costanza (almeno per quanto testimoniano alcuni stanziamenti nel Golfo di Taranto) dall’età micenea sino all’inizio dell’età geometrica. Una nuova ondata culturale dové sopraggiungere con la fondazione di Taranto. I Dauni nella parte settentrionale, i Peucezi in quella mediana, i Messapi in quella meridionale avevano già definito una propria civiltà, caratterizzata da stanziamenti urbani; civiltà che partecipava di convenzioni comuni. Gli indigeni, ancora prima dell’arrivo dei Greci a Taranto, avevano avuto rapporti con quelli dell’altra sponda dell’Adriatico. I Greci non si trovarono in contatto con popolazioni subalterne (almeno – completamente – sul piano culturale), ma con popolazioni che presentavano una cultura propria. Si trovarono nella necessità di mediare, più che di imporre, la propria civiltà. Questo può spiegare perché la produzione indigena pugliese sia più ricca e articolata di quella siciliana, almeno per quanto concerne la cultura artistica, e perché in Puglia sia possibile parlare di arte indigena meglio caratterizzata.
Sino a qualche decennio addietro il panorama della cultura artistica pugliese si basava quasi esclusivamente sull’esame della ceramica. Il rinvenimento di centinaia di frammenti di stele incise e dipinte in Daunia ha riproposto il problema della civiltà pugliese in età storica. Le stele provengono in grandissima maggioranza dalle necropoli dell’antica Siponto (ma esemplari analoghi sono stati rinvenuti in altre città della Daunia). Lavorate su lastre di calcare locale, esse presentano, in forma schematizzata, l’immagine dei defunti: ritti in piedi, la testa appena abbozzata, il corpo rivestito di stoffe ricamate, adorni di collane, fibule, ornamenti e armi (nel caso di stele destinate a uomini); ornamenti che permettono una precisa definizione cronologica dei monumenti, a partire almeno dal VII sec. a.C. Alcune scene testimoniano una complessità iconografica e un talento compositivo ignoto ad altre popolazioni indigene. Purtroppo le stele non sono state rinvenute in diretto rapporto con le tombe, sono quasi tutte riadoperate: la loro collocazione nel tempo, la ricostruzione di serie cronologiche, la possibilità di cogliere la dinamica di una classe tanto complessa sfuggono a più precise definizioni. L’esegesi di alcune scene di significato funerario, con processioni per offerte (probabilmente al defunto), cacce, rimane incerta.
La rigida fissità delle figure (accentuata nelle teste dai lineamenti affatto o appena accennati), la ricchezza degli elementi decorativi (tracciati con righe e compassi), l’opulenza barbarica degli ornamenti, la ritmata scansione di alcune scene (che si articolano in vere e proprie rappresentazioni) emancipano le stele daunie da un giudizio di insufficienza e documentano una produzione artigiana che poté proporsi come vera e propria scuola. Le stele assimilano modelli greci. Probabilmente quando il loro studio sarà completato potranno essere stabiliti utili confronti con le più antiche stele funerarie della Grecia (delle quali rimane scarsissima documentazione: forse perché incise su tavoloni di legno, oggi perduti; ma qualche spunto può cogliersi nella più antica serie di pietra dei cimiteri della stessa Atene, di Paro, di Creta). Indubbiamente, benché gli spunti possano dirsi greci (ma non ancora localizzabili in un preciso ambiente culturale), le raffigurazioni sono tradotte per rappresentare usi locali: esse non testimoniano la semplice assimilazione di iconografie d’oltre mare, ma lo stimolo che, in una società sufficientemente evoluta, quelle iconografie potevano avere per rappresentare momenti particolari della civiltà dauna. La produzione delle stele dové essere estesa nel tempo: non è escluso che esse siano state fonte di ispirazione per altre sculture (come una testa, forse di uso funerario, rinvenuta a Egnazia, databile nel VI sec. a.C.).
I rapporti tra la Puglia e la Grecia sembrano essere confermati dalla importazione di armi. Nel VII secolo sembra giungesse un elmo cretese, nel VI i bracciali di scudo scoperti a Noicattaro. La produzione pugliese è meglio caratterizzata dalle ceramiche indigene. I vasi apuli sono caratteristici per le forme, che non risentono di quelle greche, ma che sembrano trarre ispirazione da quelle delle ceramiche indigene più antiche (con una continuità, dalla preistoria all’età storica, molto notevole). Si tratta di vasi di grandi dimensioni, caratterizzati da un corpo capace, spesso destinati a contenere e a conservare l’acqua (necessità indispensabile nella Puglia assetata), che hanno una policromia vivacissima e, spesso, una decorazione plastica che, pur non interferendo sulla tettonica del vaso, si sovrappone a essa. I vasi più antichi, del IX secolo, sono stati rinvenuti in Puglia (ma sono esportati anche nel Piceno e sulle opposte coste dell’Adriatico: essi testimoniano la non comune capacità di penetrazione del commercio indigeno). Il momento di massima fioritura della ceramica è soprattutto nel VII-V sec. a.C. Le ceramiche della Daunia sono caratterizzate da una policromia densa e cupa, da un disegno pieno e severo. Alcune presentano una decorazione plastica: come un mostro che sembra poggiare le mani sull’orlo (mentre l’ansa vuole rappresentare la testa deforme); altri vasi sono decorati da figurette appena abbozzate. La produzione della Peucezia ha un disegno più frammentario, meno geometrizzato, più ritmato nella scansione dei motivi decorativi. La produzione messapica ha una decorazione più minuta, colori meno accesi, maggiore organicità decorativa.
Forse di influenza daunia un campanello funerario (?), rinvenuto nella necropoli di Sala Consilina, databile nel VI sec. a.C.: documenta l’assimilazione di scene complesse dello stile geometrico, forse attico, adottato per interpretare motivi cultuali locali. Due secoli dopo il superamento dello stile geometrico in Grecia, in Puglia esso viveva ancora con vitale esuberanza. Non è possibile infatti pensare che lo stile geometrico si sia formato autonomamente in Daunia; è più semplice ammettere (date vere e proprie identità tra le figure del Geometrico di quella regione e di quelle della Grecia) che artisti in possesso del patrimonio figurativo di età geometrica si siano trasferiti già nell’VIII secolo in Puglia e abbiano poi lasciato, fossilizzati, spunti di quello stile alle popolazioni indigene. Alcune antefisse della Daunia mostrano anch’esse l’acquisizione di elementi geometrici greci; altre l’assimilazione di mode dedaliche rese con un linguaggio scarno e insufficiente, forse mediate dall’Etruria (?), attraverso la Campania. Una serie di piccoli bronzi provenienti da Lucera, forse databili all’inizio del VII secolo, mostra l’attività di fonditori capaci di realizzare, con spigliata disinvoltura, quei caratteri aneddotici così cari anche alla produzione italica dell’VIII e del VII sec. a.C. (che deriva da bronzi della Grecia, particolarmente del Peloponneso, forse mediati attraverso Cuma e la Campania).
La Campania e l’Italia meridionale
A Ischia e a Cuma i coloni produssero vasi che rivaleggiavano con quelli della Grecia. Un cratere con una scena di naufragio, databile alla fine dell’VIII secolo, mostra l’assimilazione delle grandi scene dipinte sui crateri funerari attici. Non si tratta di una banale assimilazione di motivi iconografici: la nave rovesciata, i naufraghi morti assaliti dai pesci enormi (uno dei quali divora la testa di un marinaio), il senso barbarico, immediato, di una sorte sempre presente ai coloni di Occidente (più terrena, meno epica di quella che traspare nelle raffigurazioni dei grandi vasi funerari ateniesi) fanno dell’ignoto ceramografo di Ischia il primo illustratore della vita dei Greci d’Occidente. Formidabile l’assimilazione di spunti orientalizzanti (singolarissimi quelli ateniesi) in fabbriche di Metaponto (secondo venticinquennio del VII sec. a.C.). Le fabbriche coloniali, oltre a pezzi eccezionali, produssero su larga scala ceramiche che, se pur derivano da prototipi importati dalla Grecia o dall’Etruria, si liberano da questa soggezione sino a raggiungere piena autonomia formale; essi sono destinati a una clientela non solo cumana, ma del salernitano. Un fenomeno analogo caratterizza l’Etruria – in particolare Cerveteri, Vulci e Veio – dove la decorazione a uccelli, forse di tradizione euboica, viene ingigantita e trasferita nella ceramica e nella pittura parietale (una tomba di Veio) già alla fine dell’VIII secolo.
Motivo che precede l’arrivo di maestranze greche – che ben presto assimileranno la temperie etrusca – che si continua per tutto il VII secolo. In Campania si ripeté, in parte, il fenomeno già verificatosi in Sicilia. All’inizio si definirono potenti oligarchie. La cultura greca si trovò a contatto con popolazioni indigene le quali, ben presto, ne assimilarono i caratteri. Ma il fatto ebbe risonanza diversa: il processo di assorbimento della cultura greca da parte delle popolazioni fu quanto mai rapido. La Campania interna aveva una cultura ben articolata (si pensi alla documentazione dell’immensa necropoli di Capua): questa cultura indigena, che si giustificava con la grande ricchezza della campagna, aveva stabilito rapporti ben precisi sia con l’Italia centrale, sia con la Daunia (era egemone, non solo nella pianura campana, ma anche in quella del salernitano e nelle valli più interne). Il sopraggiungere dei Greci permise alla cultura indigena di creare un artigianato che, col continuo raffronto con quello dei coloni, trovò una propria indipendenza (e una sia pur parziale autonomia formale).
Probabilmente a influenza greca debbono essere attribuiti alcuni bronzetti che caratterizzano la produzione campana nella fase più antica e che, con fresca naturalezza, ci danno un’idea di notevoli possibilità espressive. La produzione di piccoli bronzi non si limita alla Campania propria, ma attraverso essa si ripropone alle popolazioni dell’interno, sino alla Lucania. L’influsso greco fu mutuato per rinnovare tradizioni locali, come quelle che Tertulliano attribuisce ai Romani dell’età di Numa; la fondazione di culti da parte dei coloni invogliò i Campani a definire i propri, indigeni. Si definirono aree di santuari: nella stessa Capua, a Montecassino, alle foci del Garigliano, a Cales. In questi santuari gli indigeni praticavano il culto, presentavano offerte alle divinità: si tratta di innumerevoli ex voto, quasi tutti fittili, lavorati nei santuari stessi e venduti ai pellegrini durante le feste stagionali. Non sappiamo se l’attività dei lavoranti fosse esclusiva o se alcuni, più dotati, occasionalmente si prestassero a preparare gli ex voto: tanta l’affinità con le creazioni di panificatori o di fabbricanti di dolciumi. I reperti mancano, in generale, di qualsiasi impegno stilistico: e se a volte è possibile risalire attraverso di essi ai monumenti greci dai quali gli artigiani derivavano qualche esperienza (monumenti sempre travisati con l’audacia paesana di chi, senza troppe preoccupazioni, si rifà all’arte colta), il più delle volte si tratta di opere delle quali sarebbe inutile voler definire l’origine culturale.
Predominano figure allungate, dalle braccia rachitiche, le gambe lunghissime, il corpo filamentoso sormontato da teste spiritate, rese sommariamente. In qualche caso l’artigiano si lascia prendere da una vera smania creativa e la materia stessa, l’argilla, sembra prendere la mano; si moltiplicano allora i riccioli e le incisioni con una esuberanza e una mancanza di misura inconsuete al mondo classico. Fenomeni analoghi sul piano formale si manifestano nella produzione di alcuni cinerari: ad esempio, a Pontecagnano. Il confronto con i coloni impose la costruzione di edifici per il culto dai larghi spioventi, bassi e pesanti. Per decorare questi edifici si produssero antefisse con Gorgoni (intere o ridotte al volto mostruoso), con donne che trattengono uccelli (forse a imitazione di Artemide), donne in fuga: tutto un repertorio del quale a mala pena si comprendeva il significato. I lineamenti sembrano navigare casualmente sulla superficie dell’argilla, i volti aprirsi all’esterno per essere meglio intesi dallo spettatore; le varie parti del corpo non sono complementari al fine della restituzione organica e articolata delle figure, ma spesso solo spunto disegnativo per una esercitazione ben lontana dal risultato organico dei prototipi dai quali derivano.
Quando, nella seconda metà del VI secolo, la Campania fu assorbita nell’orbita culturale etrusca, i motivi indigeni ebbero un ulteriore spunto da iconografie meglio definite: le antefisse si arricchiscono di un nimbo, le figure sembrano più articolate, sia pure in un panorama di una assoluta insufficienza formale; da Capua queste iconografie dilagarono verso tutta l’Italia centro-meridionale. Fabbriche di ceramica assimilarono i temi di quella etrusco-corinzia, forse a Pontecagnano. Durante il VI secolo e in parte del V, Capua dové avere importanza sempre maggiore. A questo periodo risalgono le prime delle cosiddette “madri”, dedicate in un santuario nei pressi della città. Si tratta di figure di donne sedute, con uno o più bambini in braccio, scolpite nel tufo. Un’iconografia analoga era caratteristica della Sicilia: si pensi all’esemplare di Megara; ma in questo caso il rendimento è più rozzo e approssimativo. Le prime, quanto a cronologia, di queste sculture sono intagliate in blocchi di tufo dei quali mantengono i volumi, si tratta di figure schematiche, appena enunciate. Ma ben presto le statue si fanno più complesse: i bambini si moltiplicano a ricordare i molti parti, aperti a ventaglio sulle braccia delle madri. Le statue erano offerte dalle donne di Capua alla divinità che le aveva assistite nel parto. L’occasione, il senso terreno di una vita che per le donne si calcola dal numero dei figli, è la testimonianza ulteriore di una civiltà tutta contadina, sempre attaccata alla terra.
Dai dintorni di Capua, probabilmente da un santuario, nei pressi di una sorgente, proviene una testa di terracotta di gusto indigeno, forse del V secolo. Ogni ricordo del mondo classico scompare in un’opera nella quale l’artigiano sembra compiacersi solo dell’uso della materia; la massa dei capelli è ottenuta con pezzetti sovrapposti di argilla; grumi schiacciati di argilla sono usati per rendere la barba; le palpebre e le sopracciglia sono lavorate a stecca. Ma l’impegno artigiano non riesce a superare l’insipienza formale. I più recenti rinvenimenti in Lucania (Serra di Vaglio, Lavello, Melfi) e in particolare i ricchi corredi di tombe principesche mostrano come i costumi delle popolazioni lucane si attardassero spesso in convenzioni cultuali dettate e fatte proprie dall’aristocrazia del VII secolo in Italia (che aveva assimilato i caratteri dell’aristocrazia greca nell’VIII secolo). Caratteristico l’enorme uso delle ambre, forse lavorate in un unico centro ellenizzato del Piceno; quello delle fibule di argento; quello dei bronzi, attardati su iconografie arcaiche; quello degli ori, forse importati dalla stessa Grecia – su ordinazione – così come le armi.
La civiltà atestina o delle situle
A Este questa civiltà è stata definita con maggiore approssimazione e suddivisa in quattro fasi (dall’VIII sec. a.C. sino all’età romana), suddivisione giustificabile, anche se non sembra corrispondere a precisi momenti culturali, e che rimane scolastica e generica. In realtà se i rinvenimenti di Este sono notevolmente ricchi, così da giustificare una loro articolazione nel tempo, i caratteri culturali della civiltà atestina sono complessi a intendersi se limitati solo all’orizzonte di quella città: ricettiva più che creativa di forme artistiche che hanno una dimensione geografica e una creatività artistica ben più vasta. La civiltà atestina è dovuta alla fusione di diversi spunti culturali: la civiltà di Hallstatt a nord aveva dato l’esempio di una tradizionale capacità metallurgica (e insieme aveva suggerito forme e motivi decorativi caratteristici della più antica tradizione celtica) e la consuetudine dello stesso Mar Baltico alla diffusione di prodotti attraverso un commercio assai attivo che investiva capillarmente i due versanti delle Alpi. La civiltà etrusca, per la quale la civiltà atestina è un importante veicolo di assimilazione culturale di motivi (tecnici e iconografici) e con la quale poteva venire in contatto attraverso l’etrusca Felsina, avrebbe fornito spunti per la forma di alcuni oggetti e probabilmente per una maggiore organicità narrativa di elementi della cultura orientalizzante (che nella civiltà atestina sono sempre preminenti).
Oggi tuttavia è ben difficile comprendere come gli elementi orientalizzanti siano penetrati e siano divenuti il patrimonio fondamentale di questa civiltà. Il problema dell’apporto etrusco sulla prima civiltà atestina rimane – dopo le più recenti scoperte – ancora problematico. La difficoltà nell’intendere come questi motivi siano stati assimilati, se attraverso artigiani itineranti, o per via marittima (e soprattutto l’impossibilità di chiarire i tempi di queste assimilazioni) impongono di sospendere, almeno per il momento, qualsiasi definizione articolata. Certo è che l’assimilazione dei motivi orientalizzanti non dové essere molto precoce, se le prime manifestazioni risalgono al VII sec. a.C. Caratterizzano la civiltà atestina oggetti di uso domestico, ad esempio le situle; le fibule, con una notevole e fantasiosa decorazione plastica; le armi: cinturoni, elmi, pugnali. In genere ha largo sviluppo la metallotecnica, contraddistinta dalla tecnica a sbalzo e a incisione su lamine di rame o di bronzo. La spigliatezza di alcune rappresentazioni (processioni di soldati, processioni cultuali, giochi; le sfilate delle figure a volte mostruose di animali) se pure con ingenuità narrativa, mostra una composizione attenta e calibrata.
Alcune scene sono tra le pochissime del mondo arcaico in Italia che presentino un vero e proprio valore narrativo. Ma tutto il problema dell’influsso celtico deve essere riveduto in base ai rinvenimenti di alcune tombe principesche a Verucchio, alle spalle di Rimini. I corredi di legno (caratteristici due troni intagliati), bronzo, oro, ambra, avorio mostrano attive almeno due correnti artigiane, già nel VII secolo. Una corrente celtica che si manifesta soprattutto nella lavorazione del legno e dell’oro – ma di matrice greca – in grado di lavorare con particolare perizia l’avorio e soprattutto l’ambra, importata dal Baltico.
Il Piceno
La cultura artistica del Piceno può dirsi oggi poco definita: la scoperta continua di nuovo materiale da un lato contribuisce alla migliore conoscenza della cultura materiale della regione del medio Adriatico, dall’altro impedisce di concretizzare un giudizio sugli aspetti delle popolazioni cosiddette “picene”. È innegabile che i rinvenimenti di alcune necropoli (costiere: Novilara, Numana; o a breve distanza dal mare: Campovalano; o definitivamente nell’entroterra: Fabriano, Capestrano – in parte anche Alfedena) presentino un aspetto culturale unitario; unitari sembrano anche i reperti di alcune località che hanno restituito testimonianze più sporadiche (come Pitino, Ripatransone, Rapino, Belmonte, Bellante, Loreto Aprutino, Guardiagrele). Questi territori risentivano, sin dal IX sec. a.C., di influenze esterne: da un lato della penetrazione della cultura cosiddetta “villanoviana”, dall’altro dell’influenza apula (forse, più precisamente, dauna). Durante l’VIII e il VII secolo, e più ancora nel VI, gli stanziamenti piceni subirono precise influenze culturali: quella della “civiltà atestina” da nord; quella della cultura etrusca da ovest (attraverso i passi appenninici ?); quella della cultura pugliese, dauna, da sud; quella della Grecia attraverso la navigazione. La civiltà picena si definì lentamente, attraverso l’acquisizione di spunti eterogenei, sino a giungere, forse verso la fine del VI secolo, a una propria autonomia culturale.
Ma sarebbe un grave errore metodologico pensare che la cultura etrusca sia stata prevalente nella formazione di quella picena; in realtà l’apporto etrusco si dimostra sempre più limitato, mentre sembra di poter affermare che quello celtico e soprattutto quello greco e quello dauno abbiano avuto importanza ben maggiore. Alcuni oggetti rinvenuti nelle necropoli documentano provenienze quanto mai diverse. L’ambra, numerosissima, è, con ogni probabilità, di origine baltica; gli avori sono senza dubbio di provenienza orientale, forse laconica. Non mancano importazioni fenicie. L’enorme quantità di bronzo potrebbe far pensare all’accumulo di un materiale ormai poco in uso, in una regione che disponeva di notevoli merci di scambio (attestata su consuetudini tradizionali: sull’accumulo di un materiale sempre meno ricercato, amatissimo comunque dalle maestranze che provvedevano alla fusione e alla lavorazione). Dalla metà del VI secolo l’influsso greco inizia a farsi sentire sempre più prepotentemente, testimoniato dall’importazione di ceramiche attiche a figure nere.
Dall’inizio del V secolo, e poi in misura sempre maggiore, l’influsso greco divenne preminente. Ma la cautela, l’implicito conservatorismo delle aristocrazie locali può essere dimostrato dall’estraniamento delle popolazioni indigene rispetto agli empori greci (che spesso erano separati da quelli piceni da poche centinaia di metri). Possibilità di assimilare abitudini esterne, cautela, riserbo, indipendenza e conservatorismo nelle proprie consuetudini (basate su un benessere molto notevole) sembrano essere i motivi caratterizzanti della civiltà picena. Tra i monumenti più caratteristici le stele che segnalavano alcune tombe della necropoli di Novilara. Esse sono meglio comprensibili se poste a confronto con quelle della Daunia (con alcune delle quali presentano vivaci analogie, ma tutti questi monumenti partecipano di un orizzonte culturale più vasto, date le affinità con alcune sculture funerarie rinvenute a Nesazio, in Istria: lì dove sono documentate esportazioni di ceramiche apule). Le stele mostrano rappresentazioni vivaci di cacce, di battaglie terrestri e marittime; in un caso, su un rovescio, una decorazione a spirale continua di tradizione celtica. La cronologia dei monumenti è discussa; ma, anche in seguito all’esame dei materiali di una tomba ove la stele era conservata in situ, la datazione può attestarsi nella seconda metà del VII sec. a.C.
A differenza delle stele daunie, caratterizzate da immagini antropomorfe rigide e statiche, da ornamenti ben calibrati, le stele di Novilara hanno spigliatezza notevole. Le scene sono quelle delle guerre condotte per terra e per mare dalle popolazioni di Novilara; guerre forse rievocate con saghe simili a quelle che dovevano essere diffuse tra le popolazioni di tutto il mondo classico. I ricchi abitanti della città sembrano trasferire nell’epopea e nel mito le proprie gesta: le battaglie si moltiplicano di contendenti, le cacce di animali immensi; compaiono belve sconosciute in Italia, come i leoni; demoni alati partecipano alle gesta; mostri e simboli incombono su combattimenti smisurati. La narrazione delle saghe – e il trasferimento in esse dell’individualità dei protagonisti – è realizzata con freschezza, con immediatezza, ma con ingenuità (sia nella caratterizzazione delle imprese che nell’assimilazione del repertorio iconografico). Le figure non superano il bozzettismo, la composizione è ottenuta per accostamenti disorganici su piani diversi; le scene sono intese a riempire più che a costruire uno spazio (che rimane sostanzialmente vuoto). E la difficoltà da parte degli artigiani a orientarsi sul piano della stele sembra essere dimostrata dal più felice abbandono alla spirale ricorrente.
Nella tomba di un guerriero di Fabriano, databile ancora in pieno VII secolo, le situle sbalzate con figure di animali mostruosi e gli scudi incisi con processioni di cavalieri, di opliti e di animali, mostrano contatti abbastanza precisi con la cultura orientalizzante atestina e dell’ambiente alpino. Ma un giudizio sulla cultura picena potrà essere definito solo dopo l’edizione – troppo a lungo attesa – dei materiali delle tombe di Pitino e di Numana. Una deposizione femminile principesca da Numana, circa la metà del VI secolo, mostra un corredo ricchissimo di ceramiche importate, di bronzi, di argenti, di avori; sul tumulo erano sepolti ben due carri. Sembra, anche attraverso l’analisi del corredo, poter proporre che proprio nel Piceno, a opera di maestranze di ascendenza greca, fossero lavorate ambre importate dal Baltico. La rappresentazione della figura umana, che già nel VII secolo si era manifestata con il fresco bozzettismo di alcuni bronzetti (probabilmente immagini di offerenti, che traducono in tutto tondo iconografie tratte da rilievi e da stele) e che continuerà nell’approssimazione delle figurine che sormontano o pendono dai pendagli bronzei, ha manifestazioni monumentali alla fine del VI secolo.
Da Numana proviene una testa colossale, difesa da un elmo crestato, che apparteneva a una statua funeraria; in essa la disorganicità sostanziale del capo, quasi enfiato dall’interno, con gli occhi piccoli e i lineamenti appena abbozzati, nulla toglie alla monumentalità. Il problema che la scultura propone è quello di spiegare come si sia potuti giungere a rappresentazioni così imponenti, che, immense, dovevano sovrastare le tombe, quasi ultima difesa del defunto. Scavi condotti nella necropoli di Campovalano hanno portato al rinvenimento di numerosissimo materiale, databile nel VI sec. a.C., almeno nella maggioranza, che permette di giudicare meglio della civiltà dei Piceni. Una grande olla a decorazione plastica sul coperchio e figure incise sul corpo (animali e guerrieri), databile nel VI secolo, se da un lato potrebbe far pensare al confronto con materiali etrusco-falisci, dall’altro richiama la decorazione delle stele incise (la presenza di un fuso di vetro, ancora non definibile quanto a luogo di fabbricazione, testimonia l’importanza delle donne nell’ambito dell’aristocrazia picena). Nelle numerose protomi con figura umana si nota, pur nelle minute dimensioni delle figure, una monumentalità accentuata che le fa ben diverse dai piccoli bronzi. Una stele da Belmonte mostra quali risultati si potevano ottenere isolando figure su un piano, estraniandole da un contesto narrativo.
L’arte picena è alla base delle esperienze formali di alcune popolazioni guerriere dell’interno. La decorazione delle più antiche armi della necropoli di Alfedena, databili nel VI sec. a.C., mostra l’adeguarsi di motivi iconografici piceni per armi di parata. Ma il canone piceno caratterizza la più importante tra le sculture rinvenute nell’Italia centrale: il Guerriero di Capestrano. Si tratta della statua colossale di un guerriero, scolpita in calcare, in parte dipinta, che incombeva sulla tomba di un capo, nella necropoli. Sostenuto sotto le ascelle da pilastri sui quali sono rappresentate, incise, due lance, il capo coperto da un enorme elmo da parata, reca una maschera sul volto. Le mani sono conserte, il collo ornato da una collana rigida, le braccia da armille. Nella destra stringe, forse, un’insegna di comando; la spada dall’elsa e dal manico sbalzato è appesa a un balteo, così il pugnale; il cuore è protetto da due dischi, l’addome da una difesa sostenuta da un cinturone; sulle gambe gli schinieri, ai piedi i sandali. Un’iscrizione indicava probabilmente il defunto. Il guerriero non è isolato nella produzione picena: oltre la testa di Numana si possono ricordare la stele incisa da Guardiagrele (che mostra quasi una identità iconografica), un busto femminile dalla stessa necropoli di Capestrano. Le sculture testimoniano che statue dei defunti non dovevano essere infrequenti nelle necropoli, come segnacoli.
Si è pensato che la scultura altro non sia che la trasposizione, in dimensioni monumentali, dei motivi della piccola plastica o delle figure delle stele; altri hanno ricordato le statue funerarie dei kouroi che in Grecia segnavano, a volte, le tombe (e si ricordino i due kouroi di Osimo, che potrebbero venire dalla necropoli di Numana). Ma si tratta di confronti che non riescono a spiegare appieno il carattere cultuale e quello iconografico della statua del Guerriero di Capestrano. È indubbio che la statua avesse una collocazione funeraria. Probabilmente essa rappresentava il defunto, armato per l’ultima parata, a difesa del proprio nome guerriero e del proprio censo familiare contro la morte, solo, nella pianura del cimitero. In questa difesa tutta terrena, teatrale, del proprio orgoglio e dei propri beni, egli è certamente l’antenato di quei Romani delle famiglie più potenti che Polibio (VI, 53) ricorda, morti, esposti ritti in piedi nel foro avanti ai rostri, a ricordo perenne di tutta la cittadinanza romana, onorati dai familiari che recavano sul volto le maschere dei più noti tra gli antenati. Il Guerriero di Capestrano è morto anch’esso, sostenuto da pilastri sotto le ascelle, sul volto è la maschera che nasconde l’impossibilità del comando, le braccia sono ferme, la destra stringe inutilmente un’insegna. Ma la terribilità del personaggio vuole superare il tempo nel ricordo dei posteri e l’iscrizione è forse in pratica l’equivalente di un cursus honorum: dice la biografia del guerriero.
La testa troppo piccola, i fianchi stretti, il corpo di morbidezza quasi femminile, la cura minuta degli ornamenti (evidenziati nella propria ricchezza), se pur tolgono organicità alla figura, nulla diminuiscono della incombente fissità del defunto, impalato, maggiore dello spettatore. La scultura ha in sé una monumentalità ignota ad altre creazioni del mondo italico (una monumentalità che non è quella che descrive i caratteri tutti umani di alcune figure di kouroi): una monumentalità dovuta alla capacità di esaltare quegli attributi che servono a riconoscere e a descrivere la natura morale, guerriera, del defunto. L’ideologia che trapela dalla statua di Capestrano non è episodica, aveva trovato certo una codificazione iconografica e stilistica: per questo la scultura non è isolata e quelle che le fanno cerchio sono la manifestazione di una civiltà che si organizza in modo unitario e che negli ordinamenti militari e giuridici della repubblica romana troverà, dopo incertezze di secoli, norme destinate a combattere l’ingiuria del tempo. Con la statua di Capestrano l’arte picena ha dato la più alta manifestazione delle proprie capacità monumentali (manifestazioni che potranno essere assimilate a Roma stessa).
La Liguria
La scoperta di una grande necropoli a Chiavari, in una delle rare valli coltivabili della Liguria, ha riproposto il problema dell’arte ligure. Si tratta di un numero notevolissimo di tombe, databili nel corso del VII secolo, che mostrano da un lato analogie con manifestazioni della cultura etrusca e falisca, dall’altro una indipendenza anche formale, nelle forme e nella decorazione, che trova ancora troppo generici elementi di confronto con altre manifestazioni della cultura orientalizzante in Italia.
L’Italia meridionale e centrale
Diversa è la situazione tra l’inizio del V secolo e l’invasione di Annibale. Anche in questo caso, non è possibile articolare un quadro unitario delle manifestazioni della cultura artistica, ma solo segnalare come, in diversi ambienti geografici, si siano articolate varie tendenze significative di differenti situazioni culturali. Le fonti non ci sono di aiuto. Anzi alcune (Flor., Epit., I, 13, 26-27) tendono a ricondurre l’età precedente al V secolo a una condizione subalterna, che non trova corrispondenza nella realtà archeologica, ma che illumina invece quella del V e del IV secolo. È necessario comprendere a fondo il fenomeno della cultura indigena nel V e nella prima metà del IV secolo: non si tratta più infatti di un mondo che reagiva a quello coloniale, diversificandosi antagonisticamente rispetto a esso, ma di una civiltà che giunge, per sopravvivere, a portare a dignità civile le proprie norme di vita. Il fenomeno è caratteristico soprattutto degli ordinamenti costituzionali, giuridici e militari, che assumono, da questo momento, un’importanza preminente e che permetteranno un’autonoma articolazione del diritto pubblico.
L’acquisizione di una indipendenza dovette essere lunga e irta di difficoltà, continuamente minacciata da dissidi, sempre al limite di una rottura. In queste circostanze Roma, opponendosi alle altre città dell’Italia, impadronendosi in parte dei caratteri delle civiltà indigene, passa in primo piano come centro di vita civile dell’Italia centrale. Le popolazioni delle zone montuose organizzano sempre meglio le proprie strutture, soprattutto quelle militari. L’aristocrazia subisce un tracollo definitivo. Le città della Puglia e parte di quelle della Campania mantengono un tono più particolaristico di vita civile: sono quelle che più delle altre mostrano di avere assimilato i caratteri della colonizzazione di Thurii. In questi anni, i più oscuri della storia dell’Italia antica (oggetto tra l’altro di scorrerie puniche a sud, galliche a nord), essa trova le prime manifestazioni comuni che permetteranno una successiva organizzazione unitaria, esaltando a norma di vita civile la propria tradizione indigena.
Il panorama muta sostanzialmente a partire dalla metà circa del IV secolo. Le popolazioni della Puglia e in parte quelle della Campania cercano di assimilare, quanto più è possibile, i caratteri di una nuova civiltà; quella che si va diffondendo soprattutto nella Macedonia. Non si tratta più di richiamare i già superati tempi dell’atticismo (quali erano stati proposti attraverso la fondazione di Thurii), ma di rappresentare i temi classici attraverso l’interpretazione dello stato macedone e poi delle corti ellenistiche. La civiltà di tipo ellenistico si articola soprattutto a Taranto da dove si diffonde in tutta l’Italia (e avrà larghissima risonanza soprattutto in Etruria); a essa corrisponde in Sicilia, se pure con intensità minore, la cultura di Siracusa (che assimila in larga misura motivi da Alessandria). Ma questa cultura ha un limite ben preciso nelle strutture costituzionali e civili delle città dell’Italia meridionale e della Sicilia. Si tratta del limite antico della cultura coloniale: quello cioè di racchiudersi in sé stessa, di non voler interpretare motivi esotici.
Il limite è ora ancora più sentito: la cultura che si vuol assimilare nell’Italia meridionale è cultura di classe, che riprende motivi di quelle delle corti della Grecia settentrionale, dell’Egitto, dell’Oriente e vuole ripeterne i caratteri. Essa non sarà formativa per le classi sociali intermedie e per quelle subalterne (per queste Roma è interprete più rozza, ma più sicura ed evidente). Il III secolo è caratterizzato, in Italia, da una moda ellenistica, più che da una vera e propria civiltà ellenistica; moda circoscritta a singoli ambienti, non sempre tollerati dalla classe media. Alla fine del III secolo l’Italia si trova di fronte alla prova più difficile: Annibale e gli eserciti cartaginesi invadono per 15 anni la penisola. Si assiste a una lotta senza tregua di due civiltà, quella punica e quella romana, dalla quale Roma esce vittoriosa. Ma la vittoria significò anche un prezzo immenso. Gli ordinamenti giuridici romani dettero la misura delle proprie capacità, ma l’Italia si presentava, alla fine della seconda guerra punica, estenuata, immiserita: l’economia artigiana e quella dei piccoli agricoltori era distrutta e con essa quella civiltà intermedia e subalterna che aveva trovato una propria dimensione assimilando, seppur solo in parte, i caratteri della cultura ellenistica.
Si può affermare che, almeno per quanto concerne la cultura figurativa intermedia e subalterna, con l’inizio del II secolo sembra scomparire la tematica ellenistica (che al più rimane fossilizzata su posizioni ormai superate), mentre quella indigena appare informe, insufficiente sul piano formale. Da quanto affermato ci si può rendere conto di come sia praticamente impossibile suddividere in ambienti troppo circoscritti la produzione artistica che va dal V al II sec. a.C. e della necessità di trattare a linee ampie ambienti culturali che mostrino affinità, anche generiche. Alcune famiglie nobili romane assimilano, in contrasto con quanto affermato, i caratteri del lusso ellenistico: lo testimoniano il ritratto di Scipione l’Africano (su un anello), di Flaminino (su monete d’oro). A questi canoni si rifarà la nobilitas romana a partire dai primi decenni del I sec. a.C. Caratteristica è la posizione della Puglia e dell’Italia meridionale, soprattutto della Campania. Al momento della fondazione di Thurii, tra i coloni dovevano trovarsi numerosi ceramografi. A questi si deve l’acquisizione in Italia dei motivi stilistici della ceramica ateniese. Ben presto, soprattutto a Taranto, la ceramica trovò manifestazioni peculiari: le forme dei vasi, ingigantite rispetto ai prototipi attici, arricchite da una decorazione plastica inconsueta (di ascendenza indigena), manifestano la tendenza verso una monumentalità paesana o la produzione di forme elaborate, spesso di spiccato carattere funerario.
La decorazione, che nella ceramica attica, già a partire dal secondo venticinquennio del V secolo, risentiva della difficoltà di rappresentare sulla superficie dei vasi con due soli colori (nero e rosso) le convenzioni della grande pittura, cerca di arricchire le proprie possibilità con l’aggiunta di colori che ben poco hanno a che fare con le prerogative della decorazione lineare della ceramica stessa (bianco, paonazzo, giallo, oro). A una prima produzione ellenizzante segue una fase che mostra l’acquisizione di motivi indigeni. I guerrieri rappresentati nei sacelli (corrispettivi di quelli scolpiti nelle stele monumentali dell’Atene del IV secolo) incombono sulla parte principale del vaso; la misura classica cede a una fantasiosa descrizione di armi, di ornamenti, di costumi locali; la decorazione vegetale diviene preminente, si ingigantisce sul collo e sul retro di alcuni esemplari. Nell’insieme una sostanziale disorganicità cui corrisponde il gusto immediato di alcune scene mitiche tragicissime, esotiche o chiaramente comiche (assimilazione truculenta o parodistica delle saghe, sempre più colte, che la più raffinata società ateniese andava elaborando). Accanto la naturalezza e la spigliatezza di figure minori, il gusto per un racconto semplificato, la vivacità di alcune scene erotiche o di banchetto.
Ma già alla metà circa del IV secolo si nota l’assimilazione nelle ceramiche di motivi di un’arte più complessa e più colta: quella che dové caratterizzare la corte macedone. Notazioni luministiche compaiono su alcune ceramiche e testimoniano il tentativo di rappresentare, con intensa policromia, i problemi della grande pittura della Grecia; altri vasi vogliono ripetere nella terracotta i motivi della grande toreutica. La cosiddetta “ceramica di Gnathia”, che si esaurisce all’inizio del III secolo, mostra la precisa assimilazione di motivi di arte più colta: da Atene e dall’Egitto. Taranto mostra anche una caratteristica produzione coroplastica: la serie numerosissima di teste a tutto tondo, statuette, pinakes (alcuni dei quali di altissima qualità artigianale), testimonia l’esistenza di fabbriche di alta capacità formale. I numerosi monumenti funerari della città hanno, molto spesso, una decorazione di calcare scolpito con rilievi (fregi e metope) che lasciano trasparire l’assimilazione dei complessi problemi della civiltà artistica della Grecia; alcuni erano ornati da una serie di antefisse fittili di notevole qualità, di iconografia pienamente ellenistica.
A Taranto deve essere attribuita la diffusione di spunti iconografici e formali di pittura che invadono ben presto tutta la Puglia (e che si trasmetteranno in Etruria) e la produzione di ricchissime oreficerie e argenterie che trovano anch’esse larga diffusione e imitazione. La lezione macedone era stata bene assimilata. Un panorama simile, se pur meno intenso, è quello della Sicilia: caratterizzata da fabbriche di coroplasti e di ceramografi, alcuni dei quali producono esemplari con fine decorazione policroma. Fabbriche di ceramica si stabiliscono già nel IV secolo a Paestum e in Campania. Ma tutta questa produzione non rappresenta altro che un aspetto locale – coloniale – dell’arte della Grecia. Le fabbriche di oreficeria e gli incisori di tradizione alessandrina condizioneranno la produzione più ricca di tutta la Sicilia. È opportuno esaminare la produzione indigena che, pur traendo lo spunto da quella ellenistica, raggiunge una precisa autonomia formale. Accanto alla fabbricazione delle ceramiche ellenizzate continua quella delle ceramiche indigene. Caratteristici i grandi askòi che presentano a volte, come nel caso di uno scoperto a Lavello, un’ingenua, ma intensa narrazione di un funerale: con figure appena abbozzate, di gusto assolutamente locale.
Altri hanno per decorazione teste femminili viste di prospetto, quasi un corrispettivo delle protomi rappresentate sui grandi vasi figurati. Altri ancora si arricchiscono di una ricchissima, pesante e paesana decorazione di figurine o di protomi plastiche che sembrano documentare il trasferirsi in ceramica di temi tratti dalla toreutica. I ceramografi che dipingevano i vasi sono con ogni probabilità utilizzati, già nel V secolo, per composizioni pittoriche nelle tombe più ricche. In Puglia (ad esempio, a Ruvo e a Canosa), in Lucania (nella serie ricchissima di Paestum), in Campania (a Paestum, Capua o a Cuma) i pittori dipingono le pareti dei sarcofagi o delle camere funerarie (figure di danzatrici, offerenti, guerrieri, scene di combattimento, scene funerarie, scene della vita dell’oltretomba) caratterizzate dalla vivacità dei colori, ma da composizioni affollate ottenute più per giustapposizione di figure che per organica articolazione di esse nel campo figurato. Gli autori di queste rappresentazioni mostrano i propri limiti: la tradizione della ceramografia permetteva loro di decorare con competenza le superfici dei vasi, ma quando essi si trovano a dover campire le pareti interne dei sarcofagi o quelle delle tombe, di ben maggiori dimensioni, sembrano provare imbarazzo e la composizione risulta affaticata ed elementare (si ripete quel fenomeno che era stato caratteristico in Etruria, nella seconda metà del VI secolo, quando i ceramografi “pontici” giunti dall’Oriente si erano trovati a dover dipingere le ampie superfici delle camere funerarie).
Nella grande maggioranza i pittori si dimostrano incapaci di amplificare le dimensioni della pittura vascolare senza distruggere la sostanza, iconografica e stilistica, delle figure. Queste, ricomposte in scene pittoriche e approssimative, mostrano l’insufficienza artigiana di botteghe che hanno ben poca disponibilità se sottratte alla consuetudine di mestiere e usate per composizioni di dimensioni diverse (che richiedono tecniche dissimili). In altre condizioni il passaggio dalla decorazione della ceramica a quella delle pareti delle camere funerarie o dei sarcofagi avrebbe forse determinato la formazione di scuole di pittura, in Italia meridionale la pratica artigianale è incapace di superare difficoltà tanto elementari. Il panorama artigianale presenta maggiore autonomia in Campania: forse perché più distaccata dai centri propulsori della grecità coloniale l’arte di questa regione poté trovare forme più autonome. Conosciamo insufficientemente la produzione delle città ellenizzate della costa, che senza dubbio dovevano trovare manifestazioni più notevoli di quelle delle città dell’interno.
I rinvenimenti più ricchi sono soprattutto quelli di Capua. Continua la produzione e la dedica delle statue di tufo offerte dalle madri. In esse però la dimensione classica che ancora caratterizzava i primi esemplari è completamente trascurata per forme tutte locali. Le donne sedute espongono quasi a ventaglio i propri figli e l’orgoglio è nel numero dei nati (a volte intere dozzine), orgoglio che sembra superare un affetto più intimo. La teatralità tutta terrena dei gesti, la pesantezza delle figure contadine non le emancipa da un giudizio di insufficienza formale, di rozzezza, al limite dell’incapacità. Nella produzione delle terrecotte gli artigiani campani sembrano trovare modi più caratteristici. Essi, oltre che figure di piccole dimensioni, crearono statue di notevole grandezza: al vero o più grandi del vero. Ma questa produzione monumentale altro non è che l’amplificazione, in maggiori dimensioni, della piccola plastica: il risultato è analogo a quello ottenuto dai ceramografi se impegnati per decorare le pareti delle tombe o dei sarcofagi (una monumentalità sciatta e insipiente, inutilmente ricca di dettagli, una disorganicità sostanziale).
Il risultato è sempre al limite del pasticcio: inutilmente si cerca di nascondere una sostanziale inesperienza con piccole trovate come quelle che suggeriva la stessa tecnica del coroplasta: l’ingegnosità nello steccare l’argilla in modo da supplire volumi plastici non realizzati, aggiungere a effetto palline o cubetti di argilla più liquida. Il bozzettismo è al limite della caricatura e questi giovanotti un po’ tronfi, quasi lievitati su una struttura inesistente, inutilmente atteggiati, queste donne tutte terrene, pesanti, offerte allo spettatore, sembrano proporre l’immagine di una società che vuole parodiare più che assimilare i temi della più raffinata civiltà ellenistica. Il risultato più notevole della produzione campana si manifesta con alcuni busti dedicati nei santuari; in questo caso gli artigiani si preoccupavano ben poco, data la qualità della stessa clientela, di motivare stilisticamente le proprie creazioni, si sentivano più liberi: le opere sono più spontanee. L’immediatezza di alcuni di essi, appena abbozzati, volutamente accentuati nei caratteri fisionomici, le maschere spiritate e fisse sugli spettatori, la tendenza a dilatare la materia innaturalmente, l’impadronirsi non della organicità delle figure, ma delle possibilità plastiche dei singoli elementi anatomici di esse (a volte amplificati sino all’inverosimile) sono la migliore documentazione di una civiltà artistica abituata a considerare l’argilla come la materia per eccellenza.
A questo periodo appartiene il monumento più singolare della Campania. Si tratta di una metopa rinvenuta nei pressi del Foro Triangolare di Pompei, forse del III sec. a.C. Sul piano, larghissimo, si stagliano, frontali, tre figure: Atena, forse Dedalo che inchioda Icaro a una ruota (o forse Efesto che inchioda Issione). Le figure tozze gesticolano quasi per una sagra domenicale, sono fisse allo spettatore. Esse sembrano comunicare tra loro solo per il consenso di chi assiste alla scena. E le armi implacabili di Atena sono abbandonate sul fondo per gli arnesi del carpentiere: quegli arnesi che gli artigiani campani avevano consuetudine quotidiana a usare e che sembrano sottomettere, nella loro evidenza, il mito all’ingegnosità di una classe orgogliosa dei propri mestieri. La Campania, per i motivi che le erano tipici già in età più antica, rappresenta l’ambiente che, pur sempre al limite di una rottura formale, può mediare le tendenze dell’arte ellenistica per il resto dell’Italia meridionale e appenninica. Sui due versanti del crinale appenninico nell’Italia centrale e in quella meridionale, e soprattutto nei territori che corrispondono alle moderne regioni di Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Lucania, in parte la Calabria, e, come riflesso, in parte del Lazio, delle Marche, dell’Umbria, la natura geografica è caratterizzata da boschi, che solo in pochi comprensori divengono così fitti da non poter essere transitati, da pascoli stagionali.
Erano questi, e lo sono stati sino a età abbastanza recente, i territori più adatti all’allevamento di animali di medie dimensioni, soprattutto pecore e maiali. La struttura delle greggi e delle mandrie, la necessità di spostamenti stagionali, un’economia di mercato, caratterizzata dalla discesa in pianura all’inizio dell’autunno e l’ascesa verso i pascoli di mezza montagna in primavera inoltrata. Una civiltà nomade che, pur avendo proprie sedi fisse con difese molto potenti, bene si prestava a essere il tramite di motivi culturali che venivano acquisiti negli spostamenti frequenti e soprattutto nelle occasioni delle fiere. Soprattutto tra la Campania e la Puglia questa civiltà permise un contatto costante e una osmosi continua lungo quei tratturi ove transitavano le innumerevoli greggi, rendita mobile e notevole delle popolazioni montane dell’Italia antica. Una civiltà pastorale ha proprie leggi fisse e ferree, legate a consuetudini invalicabili, insieme la possibilità di assimilare modi da civiltà diverse, di renderli adatti alle proprie consuetudini. Il contatto con le civiltà contadine della Campania e della Puglia, e con quelle commerciali delle città coloniali, non incideva sulla continuità secolare di abitudini e di modi di vita.
Le popolazioni dei pastori dovevano essere bene armate, per difendere se stesse e gli animali, il capitale doveva essere accumulato in oggetti facilmente trasportabili, i culti dovevano essere legati al mutare dei tempi e dei pascoli, gli stessi santuari erano lungo le direttrici di marcia delle greggi in rapporto a sorgenti, ai pascoli più ricchi, all’incrocio delle vie di traffico. Le offerte dedicate in questi santuari erano bronzo fuso, monete coniate dalle città più diverse dell’Italia centrale e meridionale, statuette di soldati e di pastori, di Ercole e di Marte, di donne, vasetti, terrecotte di animali, statuette di offerenti, e soprattutto teste maschili e femminili nelle quali si riconoscevano gli offerenti, parti anatomiche a testimonianza delle guarigioni ricevute. Possiamo immaginare l’aspetto di questi santuari (e ne conosciamo uno soprattutto: quello di Carsoli in Abruzzo), come l’insieme di padiglioni mobili dove gli artigiani vendevano i bronzi o lavoravano direttamente sul posto le terrecotte, spesso adeguandosi al desiderio dei committenti e ricavando da matrici, a volte consunte, volti che poi arricchivano di notazioni fisionomiche più individuali e che forse cuocevano direttamente sul posto. È stato notato che da una stessa matrice sono stati tratti prototipi che sono stati poi individualizzati, a richiesta, in maschili o femminili, più giovani o più vecchi, barbuti o glabri. E chi aveva meno denaro acquistava solo una mezza testa di profilo da appendere ai padiglioni del santuario.
Gli artigiani raramente creavano opere originali, quasi sempre offrivano agli acquirenti, uomini e donne, l’immagine prefigurata che essi desideravano; un’immagine di vaga reminiscenza ellenistica, scarsamente individualizzata, spesso ridotta a simbolo, come nel caso delle teste, le più frequenti; o il ricordo di una condizione umana riconosciuta attraverso la malattia. I bronzetti rappresentavano Ercole, l’eroe continuamente in cammino, un Ercole già maturo e vestito delle spoglie del leone nemeo, con la clava alzata, minaccioso contro le difficoltà che la natura presentava ai pastori, un Ercole che solo alla lontana ricordava, forse, quelli di Lisippo dei quali si era sentito parlare come di cose mirabili a Taranto; o Marte pronto alla difesa contro gli uomini che azzardassero opporsi ai pastori; più raramente Giove e Minerva; o gli stessi offerenti coperti di vesti pesanti, di lana, in atto di sacrificare, libando, alla divinità. E si tratta in generale, come dimostrano le dediche di alcuni vasetti, di divinità indigene che sembrano personificare la presenza immanente della natura, la difesa contro la malattia, la guerra, la buona sorte, l’amore, o poveri culti domestici, o i mestieri più umili: Asclepio, Vulcano, Giunone, Salute, Bellona, Minerva, Fortuna, Vesta, Venere, Saturno.
Le prime manifestazioni di questa civiltà pastorale sono caratteristiche già nel VI e V sec. a.C. Ma più completa articolazione si ebbe a partire dal V secolo, il momento in cui iniziano i documenti più antichi delle stipi. Ben presto le stipi si fanno sempre più frequenti e caratterizzano non solo la zona appenninica, ma gran parte dell’Italia centrale e meridionale, testimonianza della diffusione egemonica dei culti italici che vengono assimilati ormai ovunque. Al IV-III secolo può forse risalire la statuetta di un guerriero sannitico conservata a Parigi che, se pur mostra l’assimilazione di più generici motivi campani, ha in sé un impeto monumentale che permetterebbe di collocarla nella stessa tradizione del Guerriero di Capestrano. Statuette, come quelle da Pietrabbondante, del pieno III secolo, pur rozze ed elementari, mostrano una compiacenza disegnativa, un’immediatezza che permette di riscattarle da un giudizio di insufficienza: le teste troppo piccole o troppo grandi, i particolari fisionomici, i capelli, rappresentati con cura minuta dei dettagli, la posizione ingenua, ardimentosa degli offerenti, tutti protesi verso lo spettatore, in abito di parata, danno la misura di una cultura artistica che, pur in una sostanziale insufficienza formale, è largamente diffusa e sentita dalle popolazioni italiche.
Ma in qualche caso, sia in eccezionali teste di terracotta, sia in qualcuna di bronzo (come quella proveniente dall’Abruzzo, a Parigi), ci troviamo di fronte a opere che testimoniano l’attività di artisti comuni, forse di formazione urbana, italiota, o forse tarantina, i quali sanno cogliere nelle fisionomie degli offerenti una individualità ben calibrata, con una misura e una intensità inconsuete al mondo italico. Ma queste opere, pur nella loro eccezionalità, non sono destinate ad avere seguito proprio per la casualità stessa delle offerte e dei committenti. Manca nella produzione medioitalica una continuità figurativa che permetta la formazione di vere e proprie scuole d’arte che emancipino l’artigianato artistico da una caratterizzazione a volte riuscita, generalmente casuale, che non trova la propria giustificazione in una cultura più attentamente maturata, ma solo nelle tendenze troppo spontanee di rari artigiani e committenti. Ma sarebbe ingenuo voler proporre, troppo populisticamente, un panorama comune, eguale e costante. In realtà alcune stipi votive, prima fra tutte quella di Lavinio (nei dintorni di Roma; ma anche a Cerveteri e a Tarquinia) mostrano, attraverso i referti, una complessità di spunti che dovrà essere più accuratamente vagliata.
Accanto a prodotti fittili di esecuzione più che modesta, o che assimilano ingenuamente spunti classici (una figura di Atena), una serie imponente di teste votive mostrano freschezza e realizzata volontà di individualizzazione, così da emergere come capolavori (che anticipano i canoni della ritrattistica romana del I sec. a.C.). L’esperienza urbana del ritratto è già presente in molti dei rinvenimenti del IV e III secolo. Il rinvenimento di armature di bronzo (nel Lazio) di sicura assimilazione ellenistica, i bronzi e gli avori trovati a Palestrina testimoniano che almeno le classi dominanti di Roma possedevano una cultura formale che era realizzata da maestranze sperimentate in grado di creare vere opere d’arte.
L’Italia peninsulare
Il periodo compreso tra l’invasione di Annibale e la battaglia di Azio è senza alcun dubbio il più difficile a essere compreso tra quelli che caratterizzano la storia della cultura artistica della penisola italiana, che si identifica ormai in gran parte con Roma. Le fonti letterarie insistono sull’enorme numero di opere d’arte che, soprattutto nel II secolo, sarebbero state trasferite in Italia, come bottino di guerra, dall’Oriente mediterraneo; sull’immenso accumulo di capitali quasi che Roma e la penisola avessero assorbito gran parte della rendita accumulata nel Mediterraneo; sull’intensa attività edilizia. D’altro lato, i rinvenimenti archeologici che possono essere attribuiti a officine italiche e ad alcune della stessa città di Roma mostrano, per quanto concerne le possibilità dell’artigianato artistico, una miserevole caduta di livello (e questa caduta è dimostrata inequivocabilmente dagli stessi conii delle monete, i documenti più ufficiali della repubblica). Il fatto è che le guerre annibaliche, condotte con efferata violenza dall’una e dall’altra parte, tra le due civiltà che mettevano come posta della vittoria la stessa sopravvivenza, condotte per 15 anni nella stessa penisola, avevano completamente distrutto l’economia dell’Italia, o almeno di gran parte di essa.
Le classi inferiori escono da queste prove profondamente ferite, le stesse classi medie vedono il tracollo di un’economia di tipo familiare che aveva permesso la diffusione di quella civiltà figurativa di tipo ellenizzante caratteristica del III secolo. Ma insieme, sotto l’egemonia di Roma, la penisola trova una sostanziale unità, politica, giuridica, amministrativa. Forse pochi territori si salvarono dal flagello dell’invasione; tra questi la Campania, soprattutto la Campania marittima mantenne una certa tradizione di artigianato artistico di tipo ellenistico, ma il resto dell’Italia meridionale non dové più risollevarsi dopo una simile prova. Il diffondersi del latifondo, l’estendersi della malaria determinarono un impoverimento e un abbandono che rendono credibili le possibilità di saccheggi di più antiche città e santuari, come quelli operati da Verre in Sicilia, nel I sec. a.C. A questa povertà si contrappone però la ricchezza e la completa adesione alle mode ellenistiche delle famiglie maggiori, a Roma. Gli edifici pubblici fatti edificare dai nobili (che traboccavano di opere depredate in Oriente) erano di stile pienamente ellenistico. Le case di abitazione e gli ornamenti dei potenti gareggiavano con le abitazioni e gli ornamenti dei grandi sovrani ellenistici. Questo processo divenne esclusivo nella prima metà del I sec. a.C.
Si può intendere perché, attraverso l’apparente negazione della cultura ellenistica (quella cultura che era alla base di larga parte della società romana del III sec. a.C.), l’esibizione di presunte tradizioni romane (in pratica inesistenti se non negli ordinamenti giuridici profondamente violati da coloro che se ne facevano i difensori e gli esaltatori), la cultura figurativa della penisola giunse – nell’insieme – a un livello infimo di qualità e solo pochi edifici e poche opere, direttamente importate dall’Oriente, mostrino qualità in qualche caso molto notevoli. Ma i ritratti degli antenati o dei nobiles raggiungono un livello formale molto elevato. In queste condizioni la cultura artistica indigena si presenta elementare e imbarbarita: quella documentazione così ricca, che caratterizzava ancora il III secolo, decade e diviene rozza e povera nel numero stesso dei monumenti (almeno all’interno delle classi medie e subalterne). Il fenomeno può essere seguito in particolare per quelle classi di monumenti che hanno una continuità nel tempo, dal III secolo sino al I: nelle stipi votive il materiale che può essere attribuito al II secolo, specialmente le teste fittili, mostra insufficienza formale.
Una serie di busti femminili, segnacoli delle tombe della necropoli di Palestrina, mostra un processo successivo di degradamento stilistico (quasi un parallelo di quanto avviene nelle immagini di Roma sui conii dei denari): gli esemplari databili nel II secolo sono poveri e rozzi, gli elementi fisionomici appena abbozzati, disorganicamente incisi sui volti, le mani tese, le vesti rappresentate con pochi inconsapevoli tratti. A Benevento e a Taranto è stata rinvenuta, nelle necropoli, una serie di busti rozzamente abbozzati, alcuni dei quali potrebbero essere datati nel II sec. a.C. Solo in Campania la produzione sembra mantenere una propria dignità. I monumenti funerari, statue e stele di Pompei, di Capua e di Teano, che potrebbero essere datati ancora in questo periodo, mostrano di voler trasferire nella scultura in pietra la tradizione di un’accettabile coroplastica. I corpi sono allungati quasi innaturalmente, il ritmo disegnativo delle pieghe delle vesti insistente, le figure sono schiacciate in superficie, le teste troppo grandi sui torsi rachitici dalle spalle curve verso il basso. Le figure risultano magniloquenti, ma vuote. Una ripresa si avverte a partire dall’inizio del I secolo; ma non si tratta del risorgere di una più antica tradizione, bensì dell’assimilazione provinciale di fenomeni dell’arte urbana, romana, che dall’inizio del I secolo si vanno definendo in modo sempre più organico.
Sono abbastanza numerose le stele funerarie che sembrano ripetere i motivi delle iconografie urbane. Su una di Capua due figure maschili si atteggiano su un ampio registro superiore, mentre su un piccolo registro inferiore è la scena della vendita all’incanto di uno schiavo. Il nuovo cittadino – probabilmente – non rinnega la propria origine, la vuole ricordata e rappresentata sulla propria tomba. Alcuni monumenti funerari sono ornati da figure di leoni; non sappiamo quando l’iconografia dell’animale è stata ripresa e riutilizzata per i monumenti funerari italici: la loro diffusione è abbastanza notevole, da Aquileia, all’Emilia, al Sannio, alla Sabina, al Piceno, alla Campania, alla Puglia, a Roma stessa. Le figure sono massicce, le teste enormi, gli animali rappresentati nella loro terribilità a difesa delle tombe, tutti ingenui anche se temibili, più cani che felini. Su alcune stele dell’Umbria e del Piceno si nota una singolare reviviscenza di caratteri tradizionalistici, su altre una estrema ingenuità e una sostanziale incapacità: le figure sono rappresentate con una frontalità esasperata; gli elementi significativi, ma anche i più accessori, ribaltati in superficie; inoltre, non si ha nessuna organicità tra le varie parti del monumento e la sua decorazione.
Le teste dei defunti si affollano su registri sovrapposti, le insegne municipali incombono quasi a dichiarare allo spettatore un censo ormai privo di sostanza, una vanità provinciale. I monumenti per i quali si può parlare più appropriatamente di arte italica, e che testimoniano una reviviscenza dei caratteri più antichi di essa, sono stati rinvenuti nel Sannio. Un monumento funerario di Amiterno era decorato da almeno due rilievi: uno con una scena funeraria, l’altro con un combattimento gladiatorio (da mettersi anch’esso in rapporto al funerale). I rilievi, della metà circa del I sec. a.C., hanno capacità rievocativa: su quello con la processione funeraria il rendimento preciso dei dettagli, dei gesti, degli avvenimenti, l’esuberanza delle figure, l’evidenza dei gesti, tutta a scapito di un’organicità di insieme, la stessa rappresentazione su più registri che evidenziano le fasi dell’avvenimento, mostrano una vena narrativa sincera e fresca. Nel rilievo col combattimento gladiatorio le figure massicce sembrano create da una materia molle; erte e morbide, sembrano riempire quanto più è possibile il riquadro.
Un rilievo, certo da un monumento funerario, è conservato a Sulmona. Si tratta di una rappresentazione della transumanza di un gregge, accompagnato dai pastori che recano i propri beni su un carro. Le figure si stagliano sul fondo neutro della pietra, senza alcuna articolazione nello spazio; misere e rattrappite, con un bozzettismo senza arte né parte, aneddotico e pure evidenziato (se non possedessimo l’iscrizione sarebbe ben difficile definire in quale epoca esso può essere datato). Ma la scena, all’inizio della grande via delle greggi che attraverso il Pian di Cinquemiglia portava verso il Mezzogiorno, è l’immagine atemporale di una consuetudine che nel ripetersi dei secoli ha dato struttura economica e sociale a tutta l’Italia media. La fatica umana diviene motivo per un proverbio (che, come tutti i proverbi, è solo un fossile culturale): “Avverto gli uomini: non diffidate di voi stessi” dice l’epigrafe, quasi didascalia. Proprio alla fine del tratturo, a Lucera, ancora un rilievo con un pastore coperto da un mantello di feltro, stagliato, quasi inciso sul legno. Ma i pastori italici, dal I sec. a.C., non hanno più un’autonoma civiltà; non sono più guerrieri e diffusori di cultura, ma solo uomini curvi su un mestiere che si amplifica con l’aumentare del latifondo, pazienti, senza prospettive, nello svolgersi faticoso del tempo.
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