Popoli e culture dell'Italia preromana. L'Italia e i popoli italici
La nozione geografica di Italia, nella più antica tradizione classica, è sottoposta a oscillazioni. Per Ecateo di Mileto, alla fine del VI sec. a.C., era la regione nella quale i Greci avevano fondato molte colonie costiere, sullo Ionio e sul Tirreno (frr. 89-94 Nenci), ma in cui erano incluse anche Capua e l’isola di Capri (frr. 70-71 Nenci). Per i Greci di Occidente della seconda metà del V sec. a.C. e, in particolare per lo storico Antioco di Siracusa (in Strab., VI, 1, 4), l’Italia era una regione originariamente compresa fra lo Stretto e l’istmo calabro, ma i re che vi si sarebbero succeduti, tutti appartenenti a un orizzonte cronologico precedente la guerra di Troia, avrebbero ampliato tali confini, a cominciare dall’eponimo Italo, di stirpe enotria, cui venivano attribuite funzioni civilizzatrici (Arist., Pol., VII, 10, 5 = 1329 b), il quale avrebbe esteso il territorio fino alla foce del Lao e a Metaponto. Con i re successivi, Morgete e Siculo, l’Italia si sarebbe ampliata fino al golfo di Posidonia sul Tirreno e a Taranto sullo Ionio (FGrHist, 555 F 5), ma le popolazioni derivate da essi, Morgeti e Siculi, sarebbero state poi cacciate in Sicilia dagli Enotri (Strab., VI, 1, 6), ethnos originario degli Itali, e dagli Opici, abitanti della Campania (Thuc., VI, 4, 2).
Questo stadio ricostruttivo, ravvisabile anche presso la tradizione ateniese di Ferecide (in Dion. Hal., I, 13, 1), che include nell’Italia pure gli Enotri, e presente anche in Ellanico, il quale tramanda l’origine del nome Italia da una pseudoetimologia forse raccolta localmente (sarebbe il nome indigeno del vitello, così designato dai locali quando Eracle aveva attraversato lo Stretto con la mandria dei buoi di Gerione: Dion. Hal., I, 35, 4), precede la situazione storica successiva, di IV sec. a.C., quando si formano gli stati etnici dei Bruzi e dei Lucani, che occupano i territori designati come Italia dalla precedente tradizione. La koinè linguistica rappresentata dall’osco favorisce probabilmente, come risulta dal trattato fra Romani e Cartaginesi del 306 a.C. (Pol., III, 26, 3), l’estensione del nome Italia a tutto il Meridione della penisola se poi Timeo, agli inizi del III sec. a.C., ne prolunga la designazione fino al Circeo (Ps.-Arist., Mir., 78).
Dopo la conquista romana della zona cisalpina occupata dai Galli, Catone, alla metà del II sec. a.C., identificava l’Italia con l’attuale penisola, “protetta dalle Alpi a guisa di un muro” (Serv., Aen., X, 13), interpretando la diffusa consapevolezza di un concetto geografico ereditato dai precedenti contatti con le genti di lingua osca e che si andava arricchendo di contenuti politici con l’ormai avvenuta espansione di Roma. I mercanti di lingua osca che svolgevano nel II sec. a.C. la loro attività nelle province dell’Oriente, in particolare a Delo, dove fu costruita negli ultimi anni del secolo un’agorà porticata in loro onore, sembrano infatti convivere accanto ai Romani in una situazione paritaria in cui la designazione di Ἱταλικοί/Italicei potrebbe rappresentare una variante di Ῥωμαῖοι (Romani) con cui essi vengono definiti presso i grecofoni. I problemi che agitò successivamente la disparità di diritti degli alleati (socii) italici (in specie di coloro che contribuivano all’esercito romano, piuttosto che dei negotiatores inseriti nelle attività mercantili nelle province), messi in moto dalle leggi agrarie, provocarono tendenze separatiste che dovevano sfociare nel 91 a.C. nel bellum sociale.
Del nome Italia si appropriarono allora le genti che abitavano le regioni centro-meridionali (Piceni, Marsi, Peligni, Vestini, Marrucini, Frentani, Sanniti, Campani, Lucani, Apuli), secondo l’elenco più completo fornito da Appiano (Ital., I, 39 ss.). Si trattò del tentativo, guidato dalle classi alte di quelle regioni, di costituire una “confederazione” con una propria struttura politica (Diod. Sic., XXXVII, 2, 4; Strab., V, 4, 20) e una propria capitale, riconosciuta in Corfinio, situata nella regione peligna e ridenominata per l’occasione Italica: di tale episodio l’unico documento archeologico è costituito dall’effimera emissione di monete, alcune con il simbolo del toro che aggredisce la lupa romana, con la personificazione dell’Italia e con leggende anche in osco (víteliú per “Italia”, nonché i nomi dei magistrati). È assai discutibile che tale tentativo partisse da una coscienza “nazionale” unitaria, poiché gruppi diversi anche da un punto di vista etnico non avevano avuto sino ad allora possibilità di coesione, dato il sistema di alleanze bilaterali instaurato da Roma, né le esperienze all’interno dell’esercito romano o delle attività mercantili avevano favorito un processo di omogeneizzazione fra non Romani. Nemmeno il bellum sociale, pertanto, può essere interpretato come evento unificante per una cultura che archeologicamente non risulta visibile. D’altro canto, la stessa diversità linguistica fra le genti convenzionalmente definite “sabelliche” (Piceni, Marsi, Vestini, Marrucini), che parlavano dialetti derivati da un’arcaica lingua di koinè come il sabino, e quelle di lingua osca (Campani, Sanniti e Lucani) non poteva favorire un processo di unificazione così improvviso.
Ciononostante, negli studi della prima metà del XX secolo, tesi a rivalutare la storia di un’Italia autonoma da quella romana, le affinità linguistiche fra gruppi che, tra tardo V e inizi del I sec. a.C., parlavano umbro e osco (lingue appartenenti al cd. “ramo italico” dell’indoeuropeo, ma del tutto autonome nel momento in cui affiorano alla scrittura) sono sembrate motivo per proiettare nel quadro delle origini dei popoli dell’Italia antica alcuni aspetti culturalmente omogenei e apparentemente unificanti come i riti funerari, considerati espressione di strati etnici riferibili a genti parlanti lingue di origine indoeuropea o non indoeuropea, in particolare al ceppo osco-umbro. Nello stesso periodo, sulla scia di alcune intuizioni di A. Furtwängler, fu elaborato anche un concetto come quello di “arte italica”, concetto al negativo poiché vi rifluivano tutte le manifestazioni non riconducibili al mondo greco, etrusco, punico e celtico: vi si riconobbero, soprattutto, le espressioni modeste della piccola bronzistica figurata.
Il terreno dell’analisi si indirizzò poi verso espressioni quali l’architettura e la ritrattistica: secondo G. Kaschnitz von Weinberg l’organizzazione interna della forma in area italica si manifestava in due tendenze contrapposte, l’una dinamico-plastica, l’altra statico-lineare, derivate da un’eredità protostorica di genti che praticavano l’inumazione e l’incinerazione; di fronte all’“organicità” dell’arte greca furono coniate espressioni quali “cubismo” ed “espressionismo” italico, come valori del Kunstwollen (“volontà d’arte”) proprio di genti abitanti in area medio-italica partecipi di una koinè artistica che si sarebbe determinata in particolare fra IV e III sec. a.C., in coincidenza con la formazione dei grandi stati etnici fra le popolazioni di lingua osca (Campani, Sanniti e Lucani) e che si sarebbe interrotta dopo le guerre annibaliche. Si è tuttavia osservato, in specie col progredire delle ricerche dell’ultimo trentennio, che la storia stessa delle genti d’Italia non permette di delineare lo sviluppo unitario di un’arte italica, dato il diverso strutturarsi delle comunità: santuari e necropoli appaiono i luoghi del “consumo” artistico, dove forme devozionali o memorie mitistoriche legate al singolo o a gruppi trovano espressioni formali semplificate, anche quando dipendenti da modelli “colti”, greci o etruschi, che si caratterizzano per la loro facilità comunicativa.
A prescindere dal problema delle manifestazioni figurative, scoperte archeologiche ed epigrafiche hanno consentito lo sviluppo di un’“archeologia italica” come disciplina che studia le culture sviluppatesi tra l’età del Ferro e la romanizzazione fra le genti parlanti lingue del ceppo “italico” (celtico e venetico in Italia settentrionale; umbro, sabino e latino in Italia centrale; lingue del gruppo osco in Italia meridionale). Differenza di contatti con culture più avanzate quali quella dei coloni greci in Italia meridionale e degli Etruschi in Italia centrale e la diversità delle stesse realtà ambientali favoriscono la formazione di culture regionali nelle quali processi di autoidentificazione politica si affermano in tempi diversi oggettivandosi in comunità di prevalente tipo territoriale e cantonale piuttosto che urbano.
Fra IX e VIII sec. a.C. le evidenze sono fornite soprattutto da necropoli. Distribuite al Sud lungo itinerari terrestri o lungo le coste, in aree ecologicamente favorevoli a forme di sussistenza con eminente carattere agro-pastorale, si caratterizzano per la prevalenza del rito inumatorio in tombe a fossa (la cd. Fossakultur) con il defunto in posizione supina (Campania, valli dell’Agri e del Sinni, Calabria) o rannicchiata (versante medio- e bassoadriatico); l’affermazione del rito incineratorio in zone quali la Campania interna e meridionale (Pontecagnano, Vallo di Diano) sembra esito di forme di “colonizzazione” protostorica emananti dall’area etrusca, come attestano anche la cultura materiale e la successiva storia di queste zone. Il processo di articolazione sociale all’interno di queste comunità in via di sviluppo si interrompe nella seconda metà dell’VIII sec. a.C. per effetto della colonizzazione greca lungo le coste ioniche della Calabria e della Campania, dove i nativi vengono forzatamente integrati (a Cuma, Sibari, Metaponto), come risulta dalla stessa storiografia greca, o respinti all’interno delle regioni, mentre comporta forme di accelerazione culturale presso genti con organizzazioni più compatte, che instaurano contatti sistematici con i coloni greci (in Puglia e in Italia centrale).
I gruppi ricacciati all’interno di queste regioni creano una rete di insediamenti che si potenziano soprattutto nel corso del VII sec. a.C., disposti lungo le valli fluviali o presso passi montani, dove pratiche di allevamento creano forti concentrazioni di ricchezza. L’assenza di litterazione non consente tuttavia un’identificazione etnica di tali gruppi, per i quali l’etichetta di Enotri o Itali, desunta dalla tradizione storiografica greca di cui si è detto in precedenza, è frutto di ricostruzione moderna. Nell’Italia centrale, invece, il riverbero della mediazione greca comporta il consolidarsi di comunità protourbane dell’Etruria e del Lazio con effetti anche presso le genti tiberine, in specie presso i Sabini, dove viene anche elaborato, sul modello greco-etrusco, un sistema di scrittura proprio. La mobilità, caratteristica strutturale di tale gente secondo la tradizione antiquaria romana, reinterpretata anche in veste sacrale sotto l’etichetta della pratica del ver sacrum, comporta verosimilmente forme di migrazione verso l’area medio-adriatica che seguono itinerari fluviali e passi appenninici: nel momento di apparizione della scrittura, durante il VI sec. a.C., le comunità insediate già da tempo fra i fiumi Chienti e Aterno-Pescara sono dominate da gruppi parlanti una lingua di koinè, variante del sabino, documentata dalle cosiddette iscrizioni “sud-picene”, e si autoidentificano come Piceni (stele di Loro Piceno, Castignano, Sant’Omero) o Sabini (stele di Penna Sant’Andrea).
Più a nord, forme di continuità dall’età del Bronzo Finale mostra la necropoli di Ancona, punta emergente della cultura attestata successivamente nei centri della riviera del Conero, mentre nell’enclave del Marecchia si sviluppa attorno a Verucchio una cultura strettamente connessa con quella villanoviana. Nell’Italia settentrionale, oltre il Po, si formano aggregati nella regione veneta lungo il corso dei fiumi alpini (a Este, Padova), con necropoli a incinerazione, mentre gruppi parlanti una variante del celtico sembrano attestarsi soprattutto ai bordi meridionali dei grandi laghi alpini, a Como e a Golasecca, dove controllano i traffici lacuali e l’imbocco degli emissari che confluiscono poi nel Po. Diffuso, fra VII e VI sec. a.C., è l’affioramento di una classe sociale di “principi” detentori del potere militare e delle ricchezze, i cui simboli vengono esibiti nelle tombe sia maschili sia femminili. In Puglia l’etichetta di Iapigi sembra generica nei confronti dello sviluppo autonomo di comunità distinguibili nell’area del Salento, dove emergono i centri fortificati attribuibili ai Messapi, nella provincia barese, area dominata dai Peucezi, e in quella foggiana, sede dei Dauni.
Fra le élites di quest’ultimo gruppo, che scelgono come insediamenti siti costieri, si diffondono tombe a tumulo di pietre e, in particolare, segnacoli sepolcrali tabulari di tipo antropomorfo, rinvenuti fra Siponto e Salapia, con ricca decorazione incisa che riproduce ornamenti e vesti cerimoniali; nell’entroterra, in particolare lungo il corso dell’Ofanto, attività pastorali e di controllo dei traffici interni con la Campania favoriscono l’affermazione di un ceto guerriero (ad es., a Lavello). Il fenomeno si estende anche ai centri disposti lungo le valli interne segnate dal Basento, dall’Agri e dal Sinni, in cui le comunità indigene instaurano rapporti di scambio con le colonie greche dello Ionio, in fase di ascesa (si tenga conto della ricchezza proverbiale attribuita a Sibari, ma anche di quella documentata concretamente da tombe di aristocratici presumibilmente greci scoperte a Metaponto), o con la Campania interna, mediati attraverso il Vallo di Diano e il corso del Tanagro (ad es., a Sala Consilina). Il processo di articolazione sociale si manifesta anche negli insediamenti, dove si isolano edifici con decorazioni fittili eseguite da artigiani magno-greci riservati al ceto dominante (ad es., Serra di Vaglio).
Nell’Italia centrale i riflessi della civiltà urbana ormai consolidata in Etruria e nel Lazio si diffondono anche presso genti dell’area medio-tiberina quali i Falisci e i Sabini: i centri posti sui passi appenninici – rilevante quello umbro scoperto a Colfiorito – così come quelli medio-adriatici, polarizzati attorno alle tombe principesche, prevalentemente del tipo “a circolo”, rinvenute a Fabriano, Pitino San Severino, Belmonte Piceno fino a Campovalano, pur documentando forme di accumulo di ricchezze che provengono largamente dal versante medio-tirrenico, non superano lo stadio di agglomerati di villaggio con una probabile forma di coesione politico-territoriale, suggerita dalle forme di autoidentificazione (determinanti, in questo senso, risultano le stele con iscrizioni “sudpicene”, dianzi ricordate), che si coagulano attorno a figure di capi, militarmente connotati, raffigurati in statue commemorative funerarie, di tipo monumentale, diffuse da Numana fino a Capestrano. Nella zona del Conero si sviluppano in particolare i centri di Numana e Sirolo, dove necropoli fornite di tombe particolarmente ricche, spesso a circolo, con armature e carri, avranno seguito anche nel V sec. a.C.
Più a nord, il gruppo stanziato fra VII e VI sec. a.C. a Novilara, presso Pesaro, in evidente contatto con la circolazione adriatica, rimane etnicamente indeterminato per l’impossibilità di classificare i documenti epigrafici (cd. “nord-piceni”), che ci restituiscono poche stele, decorate da episodi di caccia e vita militare. Nella regione veneta e negli insediamenti riconducibili alla cultura di Golasecca il processo si avverte fra VI e V sec. a.C.: la vita cerimoniale del ceto “signorile” è ben illustrata nella cosiddetta “arte delle situle”, sviluppatasi inizialmente per impulso di toreuti etrusco-settentrionali. La fine del VI sec. a.C. rappresenta per gran parte delle genti dell’Italia un momento di rottura e trasformazione, dovuto a profondi mutamenti politici, in parte registrati dalle fonti greche o ricostruibili dalla letteratura antiquaria romana. Se il territorio della Puglia sembra sviluppare, nonostante attacchi e rapine dei Tarantini, un’edilizia stabile in centri che assumono carattere urbano, tali aspetti di continuità paiono venir meno in altre regioni, interessate dall’insediarsi di nuovi gruppi etnici e delle loro fresche classi dirigenti.
Il fenomeno sembra da imputare a gruppi organizzati militarmente in bande armate più o meno numerose, di cui si ha notizia solo a proposito della battaglia di Cuma del 525 a.C., dove l’esercito greco sconfisse schiere alleate di Etruschi della Padania, Umbri e Dauni, descritte come massa di migranti (Dion. Hal., VII, 3, 1-2). In effetti questi casi di mobilità assumono il carattere di “colonizzazione” interna per quanto concerne l’Etruria padana, interessata da gruppi di provenienza etrusco-meridionale che si aggiungono a quelli preesistenti: la coalescenza pressoché contemporanea di comunità umbre in varie zone della Romagna (ad es., a Imola) è una risposta all’occupazione etrusca di terre precedentemente incolte o di lidi non abitati (si vedano, ad es., vari insediamenti di tipo agricolo nelle attuali province di Modena e Reggio Emilia, fino a Mantova, e tutto il comprensorio alla foce del Po, in particolare Spina).
Genti appenniniche si riversano poi in zone rivierasche, in specie tirreniche: i Volsci dalla Marsica si insediano con la forza nella pianura pontina, stanziandosi anche in alcune città latine (ad es., Anzio, Satricum); successivamente, nel V sec. a.C., gruppi di lingua osca provenienti dal Sannio pentro si riversano nella Campania interna, ponendo fine al dominio degli Etruschi a Capua e attivando, con le genti italiche residuali della zona, l’ethnos dei Campani, o dilagano nell’Italia meridionale, indebolita strutturalmente dalla caduta dell’impero di Sibari (510 a.C.), dando vita all’ethnos dei Lucani, che si insediano pure in città greche quali Poseidonia e Laos, oltre che nel territorio interno della Basilicata e si espandono anche nella Calabria, assumendo il nome di Bretti. La formazione di nuovi grandi stati etnici nell’Italia centro-meridionale (Campani, Lucani, Bretti) comporta, da un punto di vista archeologico, due aspetti diversificati: quello urbano, derivato da modelli greci ed etruschi, cui i nuovi dominatori si adeguano (ad es., a Capua, Nola, Poseidonia, Laos), e quello paganico-vicano, proprio dei territori interni.
Fenomeno generalizzato è quello dei centri fortificati disposti di solito in punti strategici e a volte con reciproco controllo a vista, che si ritrova in Calabria, Lucania, nella Campania settentrionale, come anche fra Ernici e Volsci, stanziati nelle valli del Sacco e del Liri, e che si mantiene pure fra i Sanniti e i Marsi. Il sistema cantonale che questo tipo di organizzazione del territorio prospetta deriva da gruppi che si riconoscono in un assetto politico di tipo tribale, piuttosto che “nazionale”, e si rivela attraverso forme di autoidentificazione quali gli etnonimi e sedi di riunione comune, soprattutto i santuari, spesso disposti in luoghi d’altura, isolati. I nomi tribali emergono fra le genti dette “sabelliche”, nate dal processo di frantumazione dell’unità “sabina” in area medioadriatica (dove la tradizione romana e l’epigrafia locale ci trasmettono, da nord, i nomi di Piceni, Pretuzi, Marrucini, Peligni, Carricini e Vestini), o fra gli stessi Sanniti, divisi fra Pentri e Frentani, ma anche fra i Lucani, come documentano gli Utiani, cui va attribuito il santuario di Mefite localizzato a Rossano di Vaglio.
Tali società sembrano basarsi soprattutto su un’organizzazione di tipo aristocratico-militare, che affiora nelle tombe, ricche di armi, come pure nelle pitture tombali dei gruppi urbanizzati, a Poseidonia, Capua e Nola, queste ultime dominate dall’ideologia degli equites campani. Il fenomeno del mercenariato italico, documentato fra i Lucani da armi con dediche iscritte già nel IV secolo iniziale, promana evidentemente da gruppi di tal genere, distaccati volontariamente dalla comunità d’origine alla ricerca di forme di sussistenza (si vedano i più tardi episodi delle momentanee conquiste delle città dello Stretto: i Campani a Reggio e i Mamertini a Messina), così come nelle forme di ex voto più diffuse, i bronzetti a figura di Ercole, divinità guerriera ma anche protettrice dei traffici interni, diffusi a partire dalla fine del V sec. a.C. (deposito di Pietrabbondante), ma più cospicui soprattutto nel IV e III sec. a.C. fra i Peligni, i Marrucini e i Pentri.
Strutturalmente diverso sembra invece il caso dei centri della Puglia, avviati verso una cultura di tipo cittadino, attestata dal lusso delle abitazioni, alcune delle quali con ambienti mosaicati (ad es., Arpi), come anche dagli apprestamenti tombali, a camera o semicamera, nel corso del IV sec. a.C., con decorazione dipinta collegata con le esperienze della pittura funeraria macedone (ad es., Ruvo, Canosa, Egnazia), o organizzata in complessi con facciate architettoniche di eguale derivazione (Canosa). I corredi tombali rivelano, fra le aristocrazie terriere della zona, una ricca potenzialità acquisitiva, documentata in specie dai corredi con imponenti servizi vascolari provenienti dalle fabbriche tarantine. In Italia centrale l’affioramento degli Umbri provoca, sul versante tiberino, la formazione di città di “frontiera” esemplate sul modello etrusco (ad es., Todi), la cui descrizione fisica è in qualche modo arguibile dai dati topografici contenuti nella grande iscrizione delle Tavole Iguvine, mentre all’interno della regione spiccano santuari all’aperto, posti su itinerari appenninici, presso fonti o laghi, documentati in larga parte da ex voto bronzei a figura umana (anche divinità in assalto quali Minerva, Giove e Marte).
Sul versante adriatico emerge un prevalente assetto militare della società, rilevabile nelle tombe di guerrieri con armi di ferro, fenomeno diffuso anche nel territorio romagnolo, effetto pure delle nuove forme di navigazione adriatica: a Numana la ceramica attica di V e inizi del IV sec. a.C., oltre ai rinvenimenti minori della costa più settentrionale, documenta forme di drenaggio sugli scambi mercantili che Egineti e Ateniesi andavano praticando con il centro etrusco di Spina e, ancora precedentemente, con quello di Adria, posto nel versante veneto della foce del Po. Il fiume con i suoi affluenti di sinistra diviene, dalla fine del VI sec. a.C. e poi a seguito della fondazione di Mantova, una sorta di via preferenziale del commercio verso il mondo transalpino attraverso i laghi. Ciò provoca, a partire dalla fine del V sec. a.C., la diaspora graduale di gruppi di Celti, che occupano stabilmente le città etrusche dell’Emilia e i centri dell’Umbria e del Piceno con conseguenti fenomeni di destrutturazione del territorio.
Isolato appare di conseguenza il Veneto dove, fra tardo V e IV sec. a.C., spiccano in particolar modo i santuari con depositi votivi (San Pietro Montagnon, Este, Padova, Vicenza, Altino) che evidenziano sia nei bronzetti a figura umana, sia nelle lamine votive sbalzate (eredi della tarda maniera dell’“arte delle situle”), un popolo di devoti connotati come guerrieri e soprattutto come cavalieri. Il III sec. a.C. rappresenta l’inizio della progressiva espansione romana nell’Italia peninsulare, attuata anche mediante la fondazione di colonie nei territori conquistati. Dopo le guerre contro i Sanniti, definitivamente sconfitti nel 290 a.C., e il fallimento della politica delle città italiote, in specie di Taranto, con le forme di intervento di eserciti esterni (Alessandro il Molosso, Pirro), gli stati territoriali dovevano gradualmente soccombere: durante le guerre sannitiche furono fondate colonie a Lucera (314 a.C.), Venosa (291), Atri (290) e poi a Paestum (273), Benevento (268), Isernia (263) e Brindisi (246), tutte popolate da Latini.
Le forme di alleanza che le aristocrazie locali riuscirono a instaurare con Roma consentirono dopo le guerre annibaliche, anche per il contatto con le colonie, un diffuso sviluppo, rilevabile soprattutto nell’edilizia templare e nelle forme di restauro e risarcimento che tali complessi subirono con il parere del senato e dei magistrati locali (documentati da iscrizioni monumentali in lingua osca, ma anche dai molti bolli su tegole, esito di produzioni affidate anche a manodopera servile). In particolare fra i Pentri (ad es., a Pietrabbondante) la struttura templare si accompagna a una teatrale, intesa come luogo di raduno dei maggiorenti locali, mentre altrove, fra Marrucini (a Civitella di Chieti), Pretuzi (Colle San Giorgio presso Castiglione Messer Raimondo, nel Teramano) e Piceni (Monterinaldo), si sviluppa una decorazione fittile che interessa anche i frontoni, forse per intervento di decoratori romani, ma non sempre di alto livello. In Lucania, il santuario di Mefite a Rossano di Vaglio viene restaurato nel II sec. a.C., ma mantiene la struttura originaria chiusa, polarizzata su un grande altare rettangolare situato su un “piazzale” pavimentato e circondato da ambienti di servizio. Sono queste, probabilmente, le sedi comuni nelle quali si elabora pure quella fragile coscienza “italica” destinata ben presto a soccombere.
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