Popoli e culture dell'Italia preromana. La ceramica etrusca
di Marina Micozzi
Intorno alla metà dell’VIII sec. a.C. nell’area etrusco-laziale, in seguito ai contatti con i coloni euboici di Pithecusa e Cuma, compare una serie di vasi di argilla depurata realizzati al tornio e decorati da motivi dipinti ispirati al repertorio geometrico greco. Sono per lo più skyphoi (a semicerchi pendenti, à chevrons, a metopa con uccello, a meandri, ecc.) e oinochoai a bocca tonda, che attestano la parallela diffusione di abitudini di vita greche, in particolare la presenza del vino nella dieta etrusca. Recenti esami basati anche sulle analisi delle argille, oltre a stabilire la provenienza delle importazioni da diverse zone della Grecia (Eubea, Cicladi, Corinto, Attica) hanno evidenziato l’esistenza, fin dal periodo più antico, di esemplari realizzati localmente, probabilmente da artigiani greci immigrati, responsabili dell’avvio di officine in Etruria. Queste prime produzioni applicano schemi e ornati euboico-cicladici anche a forme indigene (ad es., l’orciolo) e, sebbene quantitativamente ridotte, hanno un certo raggio di diffusione: coppe à chevrons e brocchette veienti provengono dall’agro falisco e dal Latium vetus, orcioli laziali da Veio, brocchette tarquiniesi da Bisenzio, Castel di Decima, La Rustica e Veio.
Tuttavia, solo dall’ultimo trentennio dell’VIII sec. a.C. si può parlare di un vero stile etrusco-geometrico, che comprende una vasta gamma di forme destinate a soddisfare le accresciute esigenze di una società in trasformazione. Accanto ai piccoli vasi potori ne appaiono di grandi dimensioni, con forme mutuate dalla Grecia (anfora e cratere) o dal repertorio indigeno (holmos, olla) o frutto di una contaminazione tra forme locali e allogene. È un periodo di intensa sperimentazione che produce anche tipi destinati a breve vita (ad es., i lebeti su piede con anse sormontate da fiore di loto, probabilmente ispirati a prototipi bronzei ciprioti), alla fine del quale sono canonizzate molte delle forme che ricorreranno per tutta l’età arcaica. Prevalgono i vasi da mensa: crateri, holmoi, olle, lebeti attestano ora non solo il consumo del vino, ma anche l’adozione del costume aristocratico ellenico del banchetto, indice di una società più complessamente strutturata. Contemporaneamente la superficie dei vasi accoglie decorazioni di maggiore impegno, spesso organizzate nella sintassi metopale prediletta dal tardo Geometrico euboico: nel tessuto di diaboloi, zig-zag, meandri, losanghe, scacchiere si inseriscono alcune figure zoomorfe (uccelli palustri, cavalli, stambecchi) e le prime sequenze narrative con figure umane, come la scena di caccia su un askòs ornitomorfo della collezione Schimmel.
Alle più antiche botteghe individuate, localizzate a Veio nel terzo quarto dell’VIII sec. a.C., sono attribuiti alcuni sostegni per cratere che adattano la sintassi greca a una forma di origine locale. Tuttavia l’esperienza etrusco-geometrica dell’area tiberina è destinata a breve vita. Nell’ultimo trentennio del secolo, infatti, il principale centro di produzione è Vulci, presto affiancata da Tarquinia. Dall’agro vulcente proviene un gruppo di vasi di qualità eccezionale, decorati secondo i canoni del tardo Geometrico euboico-cicladico, fra i quali il noto cratere da Pescia Romana attribuito al Pittore di Cesnola, la cui influenza è prevalente nella produzione etrusco-geometrica di Vulci (Pittore Argivo, dei Primi Crateri, del Cratere Ticinese, del Biconico di Vulci), ove comunque non mancano apporti di altre scuole ceramografiche greche. Nei decenni finali dell’VIII sec. a.C. le botteghe di Bisenzio realizzano, in argilla figulina e in impasto, una produzione etrusco-geometrica di stampo euboico dipendente da quella vulcente, ma con particolare predilezione per forme (l’askòs a botticella o a corpo di volatile) e tecniche di ascendenza cipriota, come la bicromia (rosso e nero) con la quale è decorata una famosa olla con choròs rituale dal sepolcreto delle Bucacce.
Di impronta più spiccatamente protocorinzio-cumana, sia nelle forme (oinochoai, kotylai, coppe tipo Thapsos), che nella decorazione (bande, linee ondulate, denti di lupo, catene di S correnti e i primi motivi fitomorfi orientalizzanti), è la produzione vascolare che fiorisce a Tarquinia tra la fine dell’VIII e i decenni iniziali del VII sec. a.C. Vi emergono il Pittore di Bocchoris, cui si deve l’introduzione di soggetti orientalizzanti come il grifo, e il Pittore delle Palme, che arricchisce il substrato corinzio di spunti attici e orientali. Nella bottega di quest’ultimo viene fra l’altro sperimentato il motivo dei pesci natanti, mutuato dal repertorio protocorinzio e cumano, che avrà grande fortuna in Etruria e costituirà spesso l’unico elemento figurato della ripetitiva produzione subgeometrica in cui le botteghe tarquiniesi si attardano per buona parte del secolo. Anche in area vulcente, già alla fine dell’VIII sec. a.C., gli stimoli innovativi sembrano esaurirsi e l’attività delle botteghe si sclerotizza in una produzione di routine, che prevede la monotona applicazione di ornati di origine euboica e protocorinzia (losanghe quadrettate, tremoli, chevrons, diaboloi), per lo più in sintassi metopale, da cui il nome di Metopengattung per l’intera classe, che domina il panorama vulcente-tarquiniese fino alla metà del VII sec. a.C.
A Cerveteri è stata individuata una produzione etrusco-geometrica di matrice essenzialmente euboico-cicladica, documentata tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII sec. a.C. da opere notevoli, come un’olla su piede con despotes hippòn e un askòs ad anello con figura virile armata, verosimilmente un cacciatore. Anche qui l’esperienza etrusco-geometrica viene continuata, durante il VII sec. a.C., da una produzione altamente standardizzata che si distingue per l’inserimento nel tessuto decorativo geometrico-lineare di teorie unidirezionali di pesci e di uccelli palustri, gli aironi eponimi della più nota classe subgeometrica ceretana, localmente elaborati innestando sul gusto villanoviano il motivo euboico dell’uccello ad ali spiegate. Si tratta soprattutto di piatti, oltre che di anfore, olle stamnoidi, coppe, oinochoai, ampiamente diffusi non solo in area ceretano-veiente, ma anche nel Lazio, nell’agro falisco-capenate e in alcuni centri della Campania e della Sicilia. Dal secondo quarto del VII sec. a.C. anche a Veio si ha una produzione subgeometrica simile alla ceretana, ma semplificata, costituita per lo più da anfore di argilla figulina ornate quasi esclusivamente da ricorsi di cuspidi. Al repertorio subgeometrico si ispira anche la prima megalografia etrusca: la veiente Tomba delle Anatre (intorno al 675 a.C.), che attesta come in quest’epoca ceramografia e pittura parietale costituiscano probabilmente una attività unitaria.
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di Marina Micozzi
A differenza di quanto avviene a Vulci e Tarquinia, a Cerveteri, fin dagli inizi del VII sec. a.C., alla produzione subgeometrica se ne affianca un’altra più creativa, che recepisce le conquiste della ceramografia greca di età orientalizzante elaborando un nuovo stile con raffigurazioni zoo- e antropomorfe di tipo monumentale e che solo di recente è stata adeguatamente valorizzata. La prima personalità di spicco è il Pittore delle Gru, attivo nella prima metà del secolo come leader di un prolifico atelier che realizza, in argilla figulina e in impasto rosso decorato in bianco (White-on-Red), anche esemplari della serie subgeometrica destinati a un consumo più allargato. La sua impronta ellenizzante è evidente sia nella scelta dei soggetti (gli eponimi uccelli dalla coda a ventaglio, cavalli, felini, grifi, cervi, ecc.), sia nel loro rendimento stilistico, con parti a silhouette giustapposte a zone a linea di contorno variamente campite, che rivelano l’influenza di esperienze protoattiche e cicladiche. A lui si devono le più antiche raffigurazioni sicuramente desunte dall’immaginario greco: su due pithoi in White-on-Red della collezione Castellani compaiono, inseriti nel consueto fregio animalistico, un guerriero cadente e due esseri teriomorfi che rappresentano la prima sperimentazione etrusca sul tema del centauro.
Personalità maggiore è il Pittore dell’Eptacordo, le cui figure antropomorfe superano lo stadio sperimentale organizzandosi in composizioni di carattere narrativo, come la danza acrobatica al suono dell’eptacordo sull’eponima anfora di Würzburg, anche desunte dal patrimonio epico-mitologico greco, come la partenza di un guerriero su un’anfora in collezione privata statunitense e la scena di supplica su un cratere biconicheggiante da Cerveteri. Il suo linguaggio stilistico attinge ancora una volta all’esperienza della Grecia insulare, che peraltro si ravvisa anche nel celebre cratere con accecamento di Polifemo e battaglia navale, firmato da Aristonothos, rinvenuto proprio a Cerveteri. Nella seconda metà del VII sec. a.C. si intensifica la produzione degli impasti in White-on-Red, in gran parte riconducibile alla bottega dell’Urna Calabresi, versatile (probabilmente produce anche terrecotte architettoniche) e specializzata in grandi recipienti per contenere derrate (anfore e pithoi), ma anche incinerazioni (le urne a casa e le grandi pissidi), per lo più decorati da motivi lineari e fitomorfi (filetti, triangoli variamente campiti, catene di S, baccellature, palmette fenicie, guilloches).
Su un gruppo di esemplari (pissidi, pithoi, urne, alcune anfore), evidentemente destinati a una committenza più qualificata, si snodano, intercalati da complessi trofei vegetali, fregi di animali reali e fantastici e rare figure umane tanto simili alle raffigurazioni delle tombe ceretane degli Animali Dipinti e dei Leoni Dipinti, del terzo quarto del VII sec. a.C., da suggerire l’attribuzione delle pitture parietali al Pittore della Nascita di Menerva, il migliore ceramografo della bottega dell’Urna Calabresi, il quale deriva dalla toreutica non solo i soggetti (prediletti gli animali in composizione araldica), ma anche il contorno puntinato delle figure che è sua cifra distintiva, raffigurando, sulla pisside eponima del Louvre, episodi mitici come la nascita di Atena e la caccia calidonia. Il precoce interesse per temi epico-mitologici è condiviso, nella stessa White-on-Red, dal coevo Pittore della Sirena Assurattasche, che per primo illustra l’incontro di Odisseo con le Sirene, traducendo il nostos omerico nel corrente linguaggio figurativo orientalizzante. Intorno alla metà del secolo si colloca invece un’anfora in argilla figulina del Pittore di Amsterdam che verosimilmente raffigura Medea alle prese con il drago di Colchide. La concentrazione a Cerveteri di tale eccezionale documentazione (cui va aggiunta l’olpe di bucchero, recentemente rinvenuta, con episodi della stessa saga degli Argonauti), contribuisce a individuare la città come il centro culturalmente più vivace di età orientalizzante, pronto a recepire saghe elleniche, che assumono un valore paradigmatico per la cultura etrusca.
M. Martelli, Del Pittore di Amsterdam e di un episodio del nostos odissiaco, in Prospettiva, 50 (1987), pp. 4-14.
Ead., La ceramica orientalizzante, in M. Martelli (ed.), La ceramica degli Etruschi. La pittura vascolare, Novara 1987, pp. 16-22, 255-68, nn. 26-45 (con bibl. prec.).
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Ead., I Fenici e la questione orientalizzante in Italia, in CFP I, III, pp. 1049-1072.
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di Marina Micozzi
Nella seconda metà del VII sec. a.C., in coincidenza con il considerevole incremento delle importazioni, il mercato etrusco viene inondato da una copiosissima serie di ceramiche (alcune migliaia di esemplari) complessivamente denominate “etrusco-corinzie” in quanto largamente imitanti la ceramica corinzia, pur se assai differenziate, specie nelle manifestazioni iniziali. A Cerveteri il rinnovamento si manifesta, nell’ultimo trentennio del secolo, principalmente con un mutamento di tecnica: le figure sono graffite sul fondo scuro del vaso e ravvivate da suddipinture bianche e paonazze, con un procedimento applicato, seppur raramente, nella ceramica tardoprotocorinzia e transizionale e noto in Etruria da esemplari importati. La nuova tecnica contraddistingue il cosiddetto Gruppo Policromo, che ha i suoi principali centri di produzione, oltre che a Cerveteri, a Veio e Vulci.
A Cerveteri operarono i ceramografi del Ciclo di Monte Abatone, il cui repertorio (per lo più zoomorfo, con rare figure semiferine o umane) è ancora improntato alla locale tradizione tardo-orientalizzante ed è spesso caratterizzato da ingenuità ed esuberanze che enfatizzano il carattere favoloso dei soggetti. Vicina a tale ciclo è la nota oinochoe di Tragliatella, il cui eccezionale fregio figurato, oggetto di numerose e diverse proposte interpretative, è certo connesso con la celebrazione di personaggi del locale ceto aristocratico, su commissione dei quali il vaso fu probabilmente eseguito. Tra Cerveteri e Veio si colloca anche il centro di produzione del Ciclo Castellani, il cui caposcuola, il Pittore Castellani, attivo intorno al 630-620 a.C., decora nella tecnica policroma preferibilmente piccole forme di origine corinzia (aryballoi, rare olpai e oinochoai), con uno stile miniaturistico più aderente ai modelli del tardo Protocorinzio e del Transizionale, ma pure ricco di elementi orientali, particolarmente vicino alla coeva produzione dei buccheri incisi.
La tecnica a figure nere viene invece sperimentata con successo a Vulci, dove, nell’ultimo trentennio del VII sec. a.C., approdano due personalità di rilievo. Più isolata è l’esperienza del Pittore delle Rondini, immigrato dalla Grecia dell’Est e già educato nel Wild Goat Style, cui si conforma nelle opere della prima fase, improntate a un minuzioso calligrafismo, discostandosene nella produzione recente, che progressivamente si adegua alla dominante tendenza corintizzante. A capo di un fiorente atelier è invece il Pittore della Sfinge Barbuta, di educazione corinzia e verosimilmente immigrato da Corinto, con il quale ha inizio una produzione etrusco-corinzia su vasta scala, ma scarsamente originale. Nei più di 100 vasi attribuitigli si segue l’evoluzione del suo stile da una prima fase (630-600 a.C. ca.) più aderente ai modelli tardo-protocorinzi e transizionali a una intermedia, nella quale trova spazio la sperimentazione di elementi nuovi, per lo più di origine greco-orientale, alla fase finale, caratterizzata da uno stile pesante, con figure molto allungate e quasi soffocate dai riempitivi.
Poiché la maggior parte delle opere tarde proviene da Cerveteri e comprende molte delle anfore del gruppo dei cosiddetti Anforoni Squamati, si è supposto che intorno al 600 a.C. il pittore si sia trasferito in quella città, nell’atelier degli Anforoni che, fra il 630 e il 580 a.C. circa, usa la tecnica a figure nere per grandi anfore caratterizzate da zone a fregi figurati che passano dal cosiddetto “stile miniaturistico” degli inizi, ispirato a modelli tardo-protocorinzi e transizionali, a uno “stile allungato”, con figure dilatate, coincidente con l’influenza del Pittore della Sfinge Barbuta, per finire con i fregi semplificati e trascurati dello “stile pesante”, con i quali si conclude a Cerveteri l’esperienza della ceramografia etrusco-corinzia a figure nere. Sullo scorcio del VII sec. a.C., la produzione vulcente si rinnova grazie a una seconda generazione di ceramografi che aggiorna lo stile locale con le innovazioni del Corinzio antico e del Corinzio medio. Molti usano sia la tecnica a figure nere che la policroma, già episodicamente sperimentata anche dal Pittore della Sfinge Barbuta.
Alle botteghe vulcenti dei vasi policromi figurati vanno ricondotti anche i vasi (per lo più olpai) a decorazione solo geometrica e fitomorfa dei gruppi a Fiori di Loto e a Palmette Fenicie, mentre è probabile la presenza di officine in diversi centri per i più comuni gruppi ad Archetti Intrecciati e a Squame e per la copiosissima serie dei balsamari etrusco-corinzi a decorazione policroma lineare. Uno dei più interessanti artisti bilingui della seconda generazione è il Pittore di Pescia Romana, autore di grottesche figure composite espresse in un accurato stile personale nelle quali, anche dopo l’abbandono dell’esperienza policroma, permane un gusto spiccato per l’incisione e i ritocchi suddipinti. Un’oinochoe policroma figura pure nella produzione del Pittore di Feoli, il quale, pur rimanendo sostanzialmente aderente ai modelli corinzi, mostra costante apertura a spunti greco-orientali e soprattutto una non comune capacità di rielaborare i vari elementi in uno stile unitario e originale che ne fa il più significativo esponente della sua generazione. Un genere di esperienza più isolata è quella del Pittore di Boehlau, ancora partecipe della temperie tardo-orientalizzante, che mostra una fantasia inesauribile nella creazione di figure surreali, grottescamente allungate sulla superficie delle predilette oinochoai coniche.
Collegati alle principali botteghe sono esponenti di secondo piano, come i pittori di Volunteer e di Saint Louis, che banalizzano il linguaggio figurativo della seconda generazione consegnandolo, impoverito e standardizzato, alla produzione della terza fase (dal 580 a.C. ca.). Questa, caratterizzata da un enorme incremento quantitativo, appare refrattaria alle innovazioni e attestata sulla monotona ripetizione di fregi zoomorfi. Tale produzione di massa si coagula in due principali cicli, delle Olpai (dalla forma più frequente) e dei Rosoni (dal più comune riempitivo): il primo, più direttamente connesso con esperienze della seconda generazione, non supera mai il limite di una mediocre uniformità; l’altro, dopo una certa accuratezza e varietà nei fregi dell’iniziatore, il Pittore dei Rosoni-Crateri, cui si deve anche l’eccezionale raffigurazione di due fatiche di Eracle su un cratere del Louvre, scade nell’opera di seguaci sempre più trascurati (Pittore delle Macchie Bianche, Gruppo di Poggio Buco). Con entrambe le botteghe sono connessi il Gruppo delle Pissidi (dalla forma più comune) e il Pittore delle Code Annodate il quale, in una produzione altrimenti di routine, annovera un pezzo eccezionale come il cratere cosiddetto “dei Gobbi” con episodi delle fatiche di Eracle.
Oltre a soddisfare la forte richiesta del mercato interno, le ceramiche etrusco-corinzie si inseriscono nel copioso flusso di esportazioni che nella prima metà del VI sec. a.C. dall’Etruria raggiunge non solo altre regioni italiane, ma anche numerosi centri del Mediterraneo occidentale e, più episodicamente, orientale. Intorno al 590 a.C. anche a Tarquinia si installano botteghe etrusco-corinzie, chiaramente dipendenti dall’esperienza vulcente, che esprimono una produzione alquanto scadente e standardizzata (Pittore senza Graffito, Gruppo di Poughkeepsie, Gruppo Vitelleschi). All’intraprendenza dei ceramografi vulcenti si deve anche l’impianto di una bottega etrusco-corinzia a Pontecagnano, in competizione con un altro atelier che ha le sue radici nel Gruppo Policromo ceretano. La produzione del periodo finale può essere suddivisa fra i tre grandi gruppi degli Uccelli, dei Galli Affrontati e a Maschera Umana prodotti, almeno in parte, a Cerveteri e nei quali dominano piccoli vasi potori, pissidi e soprattutto balsamari (anche configurati), decorati da pochi soggetti zoomorfi estremamente standardizzati. Questa stanca produzione di massa, di amplissima distribuzione, continua fin verso il 540-530 a.C., allorché viene sostituita dalla nuova esperienza ionizzante.
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di Fernando Gilotta
L’influenza greco-orientale, che dai decenni centrali del VI sec. a.C. si intensifica in tutti i settori dell’artigianato artistico etrusco, comporta, da un lato, la produzione di raffinate ceramiche dipinte in Etruria meridionale a opera di artigiani di origine nord-ionica ed eolica – i dinoi Campana, l’hydria Ricci, le hydriai ceretane – che si distinguono per la ricercatezza delle loro forme, la qualità del disegno, la complessa struttura delle scene figurate, anche di carattere mitologico, e, dall’altro, una produzione di vasi da mensa il cui stile è improntato inizialmente proprio a esperienze greco-orientali. Il nucleo più antico di questi è costituito dal Gruppo Pontico, attribuibile a manifattura vulcente sulla base della maggior parte delle provenienze note e il cui caposcuola è il Pittore di Paride. Tra le forme vascolari da lui adottate predomina un tipo di anfora che, per il profilo ovoide e il sovrapporsi di più registri decorativi, indica una chiara dipendenza da esemplari attici del Gruppo Tirrenico, molto amati dalla clientela etrusca; a questa forma se ne affiancano altre, come l’anfora nikosthenica, il kyathos e il piatto, che denunciano, al contrario, piena aderenza alle tradizioni morfologiche locali.
Sul versante della decorazione figurata, si segnala la scelta di alcuni episodi del mito di chiara impronta attica (Teseo e il Minotauro, Eracle in lotta con Nesso), ma con singoli dettagli iconografici di matrice greco-orientale, e la presenza di soggetti più direttamente connessi alla realtà cultuale italica (lotta tra Eracle e Iuno Sospita); in alcune raffigurazioni di genere (ad es., sfilate di personaggi con kerykeion) e nell’apparato decorativo (teorie di pernici, motivi a stella) è evidente l’ispirazione della Grecia dell’Est nelle sue componenti rodio-samie e nord-ioniche, che traspaiono d’altronde anche nei tratti più propriamente stilistici, come il peculiare profilo dei volti segnato da una linea continua tra fronte e naso, il rendimento nitido e minuto dei dettagli anatomici interni, i contorni scorrevoli. Di grande interesse è il vaso eponimo del pittore, l’anfora di Monaco con Giudizio di Paride, per l’insolita presenza della mandria di buoi che affianca Paride e dell’anziano personaggio barbato, estranei alla tradizione iconografica ellenica.
Al caposcuola, che opera nel 540-520 a.C., si affiancano alcune personalità minori: il Pittore del Sileno, probabilmente suo allievo, che predilige scene di ispirazione dionisiaca, con figure dai movimenti spesso accentuati, ma dalla struttura anatomica assai meno coerente e definita; i pittori di Amphiaraos e di Tityos (530-510 a.C. ca.), esponenti di un gusto più decisamente etrusco per la eterogeneità delle scelte iconografiche (singolare il piatto da Vulci al Museo di Villa Giulia con uomo dalla testa di lupo), la scarsa disciplina formale, la stessa preferenza per forme vascolari locali quali il piatto, il kyathos e la coppa globulare. Più o meno coevi sono altri gruppi di ceramiche figurate: il Gruppo de La Tolfa e quello delle Foglie d’Edera. Il primo, consistente in un nucleo di neck-amphorae decorate sul collo da catene di fiori di loto e palmette e nella parte superiore del corpo da una metopa figurata, è da attribuire con ogni probabilità a bottega ceretana, stando alla maggioranza delle provenienze note. Il repertorio dei soggetti rappresentati è piuttosto povero (creature fantastiche, personaggi alati in corsa, ecc.) e rara è la presenza degli episodi mitici (ad es., Europa sul toro, agguato di Achille a Troilo); lo stile, ionizzante, rivela qualche analogia con quello delle hydriai ceretane.
Il Gruppo delle Foglie d’Edera, localizzabile invece a Vulci, è costituito per la maggior parte da anfore a profilo continuo di ispirazione attica, con decorazione a pannello distesa tra la spalla e il punto di massima espansione del vaso; il nome deriva dal soggetto più frequentemente rappresentato, figure umane in corsa con enormi foglie d’edera tra le mani, ma il repertorio annovera anche numerose rappresentazioni animalistiche, scene dionisiache, specifici episodi del mito (ritorno di Efesto, Eracle e Nesso), con personaggi dalle pose irrigidite. L’influenza della coeva ceramografia attica appare in questi prodotti determinante sul piano sia iconografico che stilistico e il richiamo al Pittore di Amasis e a manieristi a lui in qualche modo legati, quali il Pittore Affettato e dei Gomiti in Fuori, obbligatorio; non mancano tuttavia inaspettati prestiti anche da altre produzioni ceramografiche arcaiche, come gli occhioni e gli intrecci di serpenti dispiegati alla maniera calcidese sul pannello di un’anfora a Leida.
Nell’ultimo quarto del VI sec. a.C. la personalità di maggior rilievo è senza dubbio il Pittore di Micali, a capo di una bottega situata probabilmente a Vulci, che produsse centinaia di vasi (anfore, ma anche hydriai, oinochoai, olpai, crateri a colonnette, kyathoi, ecc.). I più antichi di essi, con ampie zone verniciate di nero, rappresentazioni non affollate e rari elementi vegetali, hanno frequentemente soggetti animalistici (inclusi Pegasi o Sirene) o di genere, con gruppi di Satiri o figure umane dai movimenti concitati, talora impegnati in danze; schemi iconografici e dettagli stilistici, come il profilo dei volti o il rendimento delle chiome suddipinte in rosso, ricordano i vasi pontici. Nella fase della piena maturità diventano più frequenti soggetti narrativi di un certo impegno (apoteosi di Eracle, Gigantomachia, ecc.) accompagnati da una maggiore originalità compositiva e da un più sicuro rendimento dei particolari interni delle figure. Tra le opere più tarde si constata una rarefazione del numero dei personaggi rappresentati, un maggior ricorso alla suddipintura in luogo dell’incisione e uno sviluppo della decorazione fitomorfa del vaso su collo, spalla e zona al di sotto delle anse. Particolarmente rilevanti in questo gruppo alcuni vasi databili ormai verso la fine del VI sec. a.C., che nella tettonica, nell’intero apparato ornamentale e nel rendimento dei soggetti figurati denotano il tentativo di far propri i più recenti sviluppi della ceramografia attica a figure nere e rosse.
Sulla scia del Pittore di Micali si collocano alcune personalità minori, operanti verosimilmente ancora a Vulci tra l’ultimo decennio del VI e gli inizi del V sec. a.C. Di particolare rilievo è il Pittore del Vaticano 238, cui sono state assegnate tra l’altro un’anfora e un’hydria con episodi del mito decisamente rari in ambito etrusco, quali la lotta tra i Centauri e Kaineus e la trasformazione in delfini dei pirati tirreni. Assai modesti sono i Gruppi di Monaco 892 e 883, comprendenti essenzialmente anfore e stamnoi di netta impronta stilistica attica, con gruppi di due o tre figure per lo più rese a silhouette. Nella stessa temperie atticizzante, ma ormai già nel secondo decennio del V sec. a.C., va posta infine l’attività del Pittore dei Satiri Danzanti, significativo soprattutto per la scelta di alcuni soggetti di tipo teatrale (anfora con attori travestiti da Satiri). Tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C., botteghe ceramografiche minori operano anche in altre località dell’Etruria interna centro-settentrionale, come Orvieto e forse Chiusi, mentre si avvia, forse in seguito al trasferimento di maestranze dall’Etruria, una produzione campana a figure nere da localizzare probabilmente a Capua, ispirata direttamente a quella etrusca tardoarcaica della cerchia del Pittore di Micali.
Intorno al 480 a.C. anche le produzioni ceramografiche etrusche accolgono la tecnica delle figure rosse elaborata in ambiente attico verso il 530 a.C. Agli inizi, in realtà, viene preferita una variante della nuova tecnica, con figure suddipinte anziché risparmiate e particolari indicati mediante graffito invece che con linea a rilievo o a vernice diluita.
I vasi più antichi di questa classe (anfore, kyathoi, hydriai, ecc.) sono stati riuniti nel Gruppo di Praxias (così denominato dalla firma dell’artigiano apposta su un’anfora del Cabinet des Médailles) e si collocano cronologicamente tra 480 e 450 a.C. Il repertorio iconografico annovera, accanto a rappresentazioni di genere, soggetti mitologici (Chirone e il piccolo Achille, Achille e Priamo, Enea e Anchise, ecc.); lo stile, certamente influenzato da quello delle ceramiche attiche, conserva nel ductus delle incisioni e nei persistenti tratti subarcaici legami con i vasi a figure nere di scuola vulcente della fine del VI e degli inizi del V sec. a.C. Il dato è di un certo rilievo poiché le località di rinvenimento sembrano indicare anche per questi vasi una circolazione – e probabilmente una produzione – nella regione di Vulci.
La medesima tecnica a sovraddipinture viene adottata dal secondo quarto e per tutta la seconda metà del V sec. a.C. anche in altri gruppi, tra cui notevole è il Gruppo Vagnonville, da attribuire forse a Chiusi, che riflette nella scelta delle forme (crateri a colonnette, stamnoi) e nello stile gli sviluppi della ceramografia attica severa e protoclassica e accoglie nel repertorio un vasto numero di episodi del mito, talora decisamente inconsueti (i Dioscuri e Idas (?), Hermes Psychopompos (?), ecc.). Rilevanti, per il numero limitato di attestazioni, appaiono pure alcuni vasi databili verso l’ultimo trentennio del V sec. a.C., tra i pochi, in ambito etrusco, in grado di testimoniare un’assimilazione diretta dello stile ceramografico attico di epoca postpartenonica. Le forme adottate (oinochoe di forma VII, cratere a campana, ecc.) e le rappresentazioni (Hermes e Dioniso bambino presso le Ninfe di Nysa, Hermes e personaggio femminile alato) indicano un buon livello artigianale e una non disprezzabile cultura figurativa; la datazione consente a sua volta di colmare lo iato, un tempo presunto, fra i gruppi sovraddipinti di pieno V sec. a.C. e quelli del secolo successivo, i cosiddetti “gruppi Sokra e Phantom”, contraddistinti da un livello tecnico più modesto e da una tematica assai più povera e limitata.
Le esperienze maturate nella produzione di vasi sovraddipinti condizionarono inevitabilmente i primi tentativi di pittura nella vera e propria tecnica delle figure rosse. Rimane a tutt’oggi fenomeno episodico una neck-amphora da Orvieto databile intorno al 480-470 a.C., che appare legata alle tarde figure nere e al Gruppo di Praxias per le proporzioni slanciate delle figure e il rendimento dei volti. Più agevole, invece, è il riconoscimento dei legami fra alcuni crateri a colonnette sovraddipinti (ma con dettagli interni a vernice diluita anziché graffiti) prodotti in Etruria settentrionale e un nucleo di stamnoi, crateri, kylikes apode a figure rosse pure di area nord-etrusca, databili tra gli ultimi decenni del V e la prima metà del IV sec. a.C.: comune, infatti, è l’iniziale ispirazione a modelli attici del secondo e terzo quarto del V sec. a.C., tanto per la monumentalità delle figure che per le tipologie vascolari adottate, e analoghi appaiono per molti versi soluzioni stilistiche e repertorio iconografico (frequenti le scene di genere); in una fase cronologicamente più avanzata, i prototipi attici dei vasi a figure rosse di questo gruppo sembrano individuabili nelle pitture di coppe degli ultimi decenni del V sec. a.C., destinate a essere fonte di ispirazione anche per altri ceramografi operanti nel medesimo milieu (ad es., Pittore degli Argonauti).
Dai primi decenni del IV sec. a.C. i prodotti vascolari a figure rosse conoscono in Etruria e nella contigua regione falisca una discreta popolarità. La notevole vitalità artistica dei centri gravitanti sulla valle del Tevere, in particolare, dovette condizionare anche gli sviluppi del settore ceramografico; è verso questi mercati, infatti, che si dirige una parte considerevole delle importazioni attiche ed è nei medesimi che sembrano fiorire alcune importanti botteghe falische di ceramiche a figure rosse. Materiali di recente pubblicazione hanno consentito di porre alla testa della più antica produzione falisca l’opera del Pittore Del Chiaro, attivo agli inizi del IV sec. a.C. e forse di origine greca, a giudicare dalle fortissime assonanze con le coeve produzioni attiche del Pittore di Jena e della sua cerchia. Già nel corso della generazione successiva, tuttavia, la maggioranza dei pittori falisci appare di origine locale, come sembra evincersi tra l’altro dal gusto prettamente italico della decorazione fitomorfa (Gruppo di Nepi). Nel corso del secondo quarto del IV sec. a.C., a pittori di osservanza attica (Pittore del Diespater) se ne affiancano altri, come il Pittore di Nazzano, certamente influenzati dalle produzioni campane e pestane.
Le forme preferite – kylikes, oinochoai, stamnoi, crateri a calice e a campana – accolgono con frequenza scene figurate di carattere dionisiaco, ma anche episodi mitici dall’impianto grandioso (Ilioupersis, contesa tra Atena e Poseidon, gara tra Apollo e Marsia). Più netta dipendenza da modelli apuli mostra invece il Pittore dell’Aurora (350- 340 ca. a.C.), come indicano morfologie vascolari e impianto delle raffigurazioni. Nel complesso, la diffusione di questi prodotti falisci non fu vastissima: oltre che nella valle del Tevere, rinvenimenti di un certo rilievo sono noti soprattutto a Roma e a Caere, cui forse si dovrà attribuire anche una redistribuzione in località più distanti, come Genova. Nella contemporanea produzione etrusca gli esiti stilistici appaiono diseguali, legati talora alla felice ispirazione di un singolo artigiano o all’impegno per una committenza fuori del comune. Di rilievo appaiono in ogni caso le opere del Pittore di Perugia, attivo forse nella regione tiberina, che sono caratterizzate da uno stile fiorito di marca attico-lucanizzante, superiore per preziosità e raffinatezza a quello di ogni altro vaso etrusco coevo (anfora a punta con Semla e Fufluns; cratere a volute con Apollo e Marsia).
Ma assai interessanti sono pure i prodotti della bottega localizzata a Vulci (Pittore di Londra F 484, della Biga Vaticana, ecc.), sia per le scene rappresentate (Eracle ed Eros, sacrificio alla presenza di Dioniso, personaggi nei pressi di una tomba, ecc.) che per lo stile, vera e propria somma di esperienze di epoca severa e pienamente classica riconducibili a matrice attica e anche italiota. Tra secondo e terzo quarto del IV sec. a.C. si colloca buona parte della produzione di kylikes falische, che rivelano legami con la tarda ceramografia attica, piuttosto che con la cerchia meidiaca, come sostenuto in passato, distinguendosi in tal modo nettamente dalla produzione del Pittore Del Chiaro e della sua cerchia. Una bottega stilisticamente dipendente dalle esperienze dei pittori di coppe falisci inizia la sua attività a Chiusi nei decenni centrali del IV sec. a.C.: le kylikes, le coppe, i vasi plastici del Gruppo Clusium, spesso decorati da singole figure o composizioni attinenti alla sfera dionisiaca, si colorano tuttavia, rispetto agli omologhi falisci, di un maggiore decorativismo e manierismo, cui danno sostanza spunti della ceramica attica del tardo V sec. a.C., mescolati a curiose reminiscenze severe e a elementi tratti dal repertorio vascolare contemporaneo.
Nella stessa epoca, la ricezione di motivi iconografici e decorativi di matrice italiota registra un deciso incremento sia in ambito falisco che in Etruria. Il Pittore di Settecamini, il cosiddetto Gruppo Campanizzante, il falisco Pittore dell’Aurora incarnano meglio di altri la mutata temperie stilistica, con la peculiare ricchezza degli apparati ornamentali e delle vesti, il profilo squadrato e massiccio delle teste, l’impianto di grandi scene narrative a sfondo mitologico sul corpo di crateri a volute e stamnoi, che costituiscono altrettanti punti di contatto con le ceramografie di area apula e campano-pestana. Qualitativamente più povera di quella dei decenni precedenti è la produzione (Gruppo Fluido) cui si dedicano nella seconda metà avanzata del IV sec. a.C. le botteghe falische (Full Sakkos Group, Gruppo di Barbarano, ecc.), ma sono proprio queste ultime, forse in seguito a un trasferimento di maestranze, a dare origine a una cospicua attività ceramografica nel territorio di Caere, la cui felice posizione geografica e il cui dinamismo consentiranno poi, nonostante la modestia del livello artigianale, ampia diffusione alle ceramiche prodotte in loco (ramo ceretano dei piattelli Genucilia, decorati con profili femminili o con motivi a stella; vasi del Gruppo Torcop, ancora con profili femminili; vasi con scene figurate dionisiache, ecc.) nell’area etrusca e anche in parecchie regioni del Mediterraneo occidentale (Sardegna, Corsica, Gallia, Spagna, ecc.).
Ben diverso l’impegno narrativo e la qualità formale dei vasi, per lo più funerari, prodotti nel corso della seconda metà del IV sec. a.C. a Vulci e Volterra. A Vulci sono riferibili i crateri, gli stamnoi, le kylikes del vasto ed eterogeneo Gruppo Funnel, spesso caratterizzati da scene complesse, anche mitologiche (Amazzonomachia, Menelao ed Elena), rese più vivide e plastiche da un sapiente uso dello scorcio e del tratteggio. L’impronta falisca di alcuni dei tratti più peculiari di questo gruppo si riscontra anche in altri grandi vasi (crateri a volute e a calice) riferiti ad ambiente vulcente, quelli dei gruppi Alcesti e Turmuca, ove personaggi del mito (Admeto e Alcesti, i prigionieri troiani, le Amazzoni) vengono situati in un oltretomba acherontico e grecizzante, che può ricordare quello di contemporanee pitture tombali. All’interno della produzione volterrana, direttamente legata a quella chiusina e dunque anch’essa partecipe delle esperienze falische, si segnala la cospicua serie di crateri a colonnette, decorati con scene dionisiache o genericamente mitologiche (lotte tra Pigmei e gru) dalla sicura valenza funeraria, ma anche con specifici episodi del mito (Eracle e ketos), che in qualche caso raggiungono una elevata qualità: la padronanza nell’uso del chiaroscuro e dell’ombreggiatura a fitti trattini paralleli, la piena conquista dello spazio, il rendimento fluido ed efficace di anatomie e volti umani fanno di questi vasi la testimonianza più alta della ceramografia tardoclassica in area etrusca. Qualche decennio più tardi, la tecnica delle figure rosse conoscerà un rapido e definitivo declino, lasciando il campo a produzioni di serie come quelle argentate e a vernice nera.
In generale:
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di Maria Antonietta Rizzo
Ceramica propria del mondo etrusco, dove ebbe continuità dal VII al V sec. a.C., eseguita al tornio, di colore nero all’interno e all’esterno, lucida in superficie, a imitazione del metallo. Il nome deriva dallo spagnolo bucaro, parola con cui veniva designato un particolare tipo di vasi provenienti dall’America del Sud all’epoca delle prime scoperte di bucchero etrusco. Secondo le teorie più recenti, il colore nero sarebbe dovuto a processi di riduzione in cottura, durante la quale si verificano trasformazioni dell’ossido di ferro contenuto nelle argille in ossido ferroso.
L’inizio della produzione del bucchero può porsi nel primo quarto del VII sec. a.C., con esemplari caratterizzati da una particolare sottigliezza delle pareti, spesso arricchiti da una decorazione impressa o graffita. La produzione del bucchero sottile è da localizzare soprattutto a Cerveteri, Veio e Tarquinia. Nell’ultimo quarto del VII sec. a.C. le fabbriche dell’Etruria meridionale aumentarono notevolmente la loro produzione; i vasi presentano pareti sempre più spesse e decorazioni che, pur continuando nella tradizione dell’incisione, hanno anche quella stampigliata, con fregi zoomorfi, rare figure umane, elementi fitomorfi.
Tra la fine del VII e la prima metà del VI sec. a.C. il bucchero risulta ampiamente diffuso non solo in tutta l’Etruria, ma anche nel Lazio e nella Campania etruschizzata, dove sono state riconosciute anche fabbriche locali (a Roma, a Capua e forse a Pontecagnano); venne inoltre ampiamente esportato in tutto il Mediterraneo (colonie greche dell’Italia meridionale e della Sicilia, Sardegna, Corsica, coste meridionali della Francia, Spagna, Cartagine, Grecia, Cipro, Siria, ecc.), in relazione al fiorente commercio vulcente e ceretano, anche se in un numero abbastanza limitato di forme. Sempre in questo periodo si svilupparono anche altre fabbriche nell’Etruria centro-settentrionale: le più note sono quelle di Chiusi, dove si ebbe una particolare produzione di bucchero pesante, caratterizzata da ricche decorazioni plastiche. A partire dalla fine del VI e dall’inizio del V sec. a.C. i vasi di bucchero, soppiantati man mano dalla ceramica a vernice nera, andarono scadendo di qualità, con poche forme ripetute e destinate all’uso domestico; l’argilla risulta meno depurata e assume in cottura un colore grigiastro e chiazzato.
Le anfore si ritrovano ininterrottamente dal primo quarto del VII a tutto il VI sec. a.C. Il tipo più antico, derivato dall’anforetta d’impasto “laziale” con doppia spirale incisa, persiste in forme più slanciate fino all’ultimo quarto del VII sec. a.C., sia a Cerveteri (Camera degli Alari) che a Veio. Le forme con corpo ovoidale perdurano per tutto il VI sec. a.C., insieme a quelle di tipo nicostenico. Più rari sono i tipi che imitano le anfore a collo attiche a figure nere, attestati solo a partire dall’ultimo quarto del VI sec. a.C.
Le oinochoai presentano una grande varietà di forme. Tra le più antiche è quella con corpo piriforme, collo tronco-conico e bocca trilobata, di tipo cosiddetto “fenicio-cipriota”, imitante probabilmente esemplari di metallo, databili tra il secondo e il terzo quarto del VII sec. a.C. e testimoniati del resto proprio nelle tombe principesche sia in Etruria che nel Lazio e nella Campania (tomba del Duce di Vetulonia, tombe Barberini e Bernardini di Palestrina, tomba 298 di Pontecagnano). Segue una forma a corpo ovoide e largo collo svasato, bocca spesso trilobata, a volte con decorazione incisa anche figurata, tipica dei corredi dell’ultimo trentennio del VII sec. a.C. Caratteristico tipo della metà circa del VI sec. a.C. è quello con corpo ovoide e bocca tagliata obliquamente, che risente sicuramente di prototipi metallici. Sempre dalla metà del VI sec. a.C. si hanno esemplari di bucchero pesante, riccamente decorati, anche con complesse scene figurate, soprattutto in ambito chiusino.
Le olpai sono comuni nel bucchero solo in ambito cronologico molto limitato. Imitazione delle olpai protocorinzie, appaiono verso la metà del VII sec. a.C. e non sembrano quasi più prodotte alla fine del secolo. Particolarmente significative quelle con decorazione a rilievo, di fabbrica ceretana, di contenuto mitologico o narrativo (ad es., quella della tomba 2 di San Paolo con Medea, Giasone, gli Argonauti e Dedalo, corredata dai nomi etruschi). Raramente sono testimoniate nel bucchero pesante, in pochi esemplari con ricca decorazione plastica o a rilievo, soprattutto in ambito vulcente.
Le kotylai derivate da quelle del Protocorinzio medio, di cui ripetono anche la decorazione nella zona di linee graffite e nei triangoli multipli intorno al piede e con cui sono spesso associate nei corredi della prima metà del VII sec. a.C., risultano una delle forme più antiche adottate nel bucchero e perdurano con poche varianti per tutto il secolo.
Dei calici il tipo più antico è quello con cariatidi e pilastrini traforati o a rilievo, derivato probabilmente da analoghi esemplari di avorio o di metallo (tombe Barberini e Castellani a Palestrina), databili intorno alla metà del VII sec. a.C. Accanto a questo sono frequenti calici con vasca baccellata e riccamente decorata da motivi impressi o incisi (ventaglietti, rosette, ecc.), a volte con piede smontabile, che possono essere datati dai contesti di scavo ceretani tra la metà e il terzo quarto del VII sec. a.C. Calici del tipo con semplice vasca, decorata al massimo con linee impresse e con qualche semplice motivo, e piede a tromba sono attestati almeno fino al terzo quarto del VI sec. a.C. Nella seconda metà del VI sec. a.C., in area vulcente, sono spesso decorati con fregio a cilindretto oppure presentano pareti ondulate arricchite da appendici plastiche.
I kantharoi ripetono la forma del calice a basso piede a tromba con l’aggiunta di due anse a nastro. Sono diffusi, con poche varianti nella forma, dalla fine del terzo quarto del VII alla seconda metà del VI sec. a.C. e sono la forma maggiormente distribuita nel bacino del Mediterraneo.
Le kylikes sono presenti con tre tipi nel VII sec. a.C.: uno riprende modelli protocorinzi tardi, uno imita le coppe “a uccelli” rodie (tomba Giuliamondi e Camera degli Alari a Cerveteri, tombe di Monte Michele a Veio), l’ultimo le coppe “ioniche” A1. Durante il VI sec. a.C. si affermano tipi con corpo tronco-conico, sempre con labbro svasato e piede a tromba.
I kyathoi sono testimoniati nel VII sec. a.C. in varie forme, di cui le principali sono quella con vasca emisferica, alta ansa a nastro e piede tronco-conico, spesso decorata anche a rilievo (esempi di Montetosto, delle tombe Calabresi e di San Paolo a Cerveteri, di Monteriggioni) e quella con vasca tronco-conica con alta ansa verticale a nastro, munita di setto intermedio (Tomba Regolini-Galassi di Cerveteri). Nel corso del VI sec. a.C. si diffonde, soprattutto in ambito vulcente, il tipo con vasca emisferica, piede a tromba, ansa spicata, spesso con decorazione plastica.
Numerose altre forme sono attestate nel bucchero, ma in numero minore: situle cilindriche, con fregi figurati a rilievo e a incisione (tombe ceretane del Sorbo, degli Animali Dipinti e dei Denti di Lupo); pissidi a forma di calice con coperchio, spesso decorate con elementi plastici (Tomba Regolini-Galassi), askòi plastici (ad es., quello a corpo di uccello e doppia testa equina dal Sorbo), aryballoi, imitanti fogge ovoidi e piriformi del Protocorinzio, tutte databili nel corso del VII sec. a.C. Attestati in epoca più recente sono crateri e phialai, imitanti tipi greci del VI e V sec. a.C., ciotole, piattelli e bracieri. Alcune di queste forme, quali, ad esempio, hydriai e crateri, conoscono maggiore diffusione nel bucchero pesante.
Oltre che a baccellature, striature (limitate in genere alle coppe e alle forme carenate), scanalature orizzontali o verticali (comuni a gran parte delle forme), linee impresse, puntinatura a punzone (ventaglietti, rosette, palmette, ecc.), possono distinguersi diversi tipi di decorazione, in varie tecniche.
Decorazione a incisione
Il bucchero decorato mediante incisioni, fiorente nell’Orientalizzante antico e medio, è quasi esclusivamente ceretano. La particolare frequenza di forme di diretta imitazione metallica – quali l’oinochoe fenicio-cipriota o il kantharos – fa ritenere che l’origine del bucchero graffito debba essere riconnessa all’ambito della metallotecnica, di cui vengono imitati tipi iconografici e sintassi decorativa. Non a caso questa classe è presente soprattutto a Cerveteri, dove confluiscono prodotti di artigianato di lusso che provengono dal Mediterraneo orientale. Negli altri centri dell’Etruria meridionale il bucchero graffito è attestato solo nell’Orientalizzante recente; una produzione ricca presenta Veio, che rivela precise sintonie stilistiche con quella ceretana. Procedendo verso nord la produzione del bucchero graffito è meno consistente: Tarquinia sembra gravitare nella sfera ceretano-veiente, almeno nell’ultimo trentennio del VII sec. a.C.; a Vulci sono documentate alcune opere interessanti, inserite nella tradizione figurativa che fa capo ai maestri delle officine etrusco-corinzie.
Decorazione a rilievo
Le principali officine del bucchero a rilievo devono ancora una volta localizzarsi a Cerveteri, anche se alcune produzioni possono riportarsi a botteghe dell’Etruria settentrionale. La migliore qualità, combinata alla ricchezza tematica dei fregi figurati, si riscontra nelle situle delle tombe degli Animali Dipinti e dei Denti di Lupo, nei kyathoi e nelle kotylai dei tumuli di Montetosto, del Sorbo e di San Paolo, che ha restituito anche la olpe con Medea e gli Argonauti già ricordata. Si tratta di vasellame di lusso prodotto da officine di alto livello artigianale in cui, accanto a forme di tradizione locale (kyathoi e situle), si affermano forme di diretta derivazione greca (kotylai, olpai) e in cui trite iconografie del repertorio orientalizzante (fregi zoomorfi o figure virili in lotta con belve) si mescolano a nuove esperienze di natura narrativa, ispirate dal mondo corinzio, a partire dalla metà del VII sec. a.C. Nel corso del VI sec. a.C., la decorazione a rilievo è abbondantemente usata nei vasi di bucchero pesante (con scene di lotta, danza, banchetto) prodotti in area centro-settentrionale.
Decorazione stampigliata e a cilindretto
Derivata dall’impasto, la decorazione stampigliata è frequente nel bucchero più antico, ove si trova limitata a pochi elementi fitomorfi e geometrici, più raramente figurati, fino alla fine del VII sec. a.C. I motivi più comuni sono costituiti da cerchi, triangoli, motivi a S, svastiche. La decorazione a cilindretto è ottenuta mediante lo scorrimento sulla superficie del vaso di un cilindro con i motivi stampigliati, spesso geometrici, più raramente animali, figure alate, riti funebri e giochi, ripetuti in una esasperante monotonia.
Decorazione plastica
Tipica di alcuni vasi di bucchero di grande qualità, prodotti in ambito ceretano nella prima metà del VII sec. a.C. (pissidi del Sorbo con protomi di animali), sembra poi abbondare nelle più tarde fabbriche di bucchero pesante di Vulci, Orvieto e Chiusi. Molto più rari – almeno dalla documentazione finora giuntaci – sono altri tipi di decorazione, quali quella dipinta dopo la cottura, riscontrabile in pochi esemplari ceretani della metà del VI sec. a.C., dove ricorrono motivi geometrici in rosso, arancio, bianco, blu, verde, e quella argentata, ottenuta mediante una patina di mercurio e visibile solo su alcuni esemplari del VII sec. a.C.
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Id., Vasi di bucchero decorati con teste plastiche umane. Zona di Chiusi, ibid., 36 (1968), pp. 319-55.
Id., Vasi di bucchero decorati con teste plastiche umane. Zona di Orvieto, ibid., 37 (1969), pp. 443-62.
Id., Skyphoi chiusini di bucchero con anse piatte, ibid., 45 (1977), pp. 85-108.
Singole forme:
F. Villard, Les canthares de bucchero et la chronologie du commerce étrusque d’exportation, in M. Renard (ed.), Hommages à Albert Grenier, III, Bruxelles 1962, pp. 1625-635.
J. Poupé, Les aryballes de bucchero imitant modèles protocorinthiens, in Etudes étrusco-italiques. Mélanges pour le XXVe anniversaire de la chaire d’étruscologie à l’Université de Louvain, Louvain 1963, pp. 227-60.
M. Verzár, Eine Gruppe etruskischer Bandhenkelamphoren, in AntK, 16 (1973), pp. 45-56.
J. Gran Aymerich, in CVA, Louvre, XX, 1982.
Id., ibid., XXIII, 1992.
Id., Le bucchero et les vases métalliques, in REA, 97 (1995), pp. 45-76.
Sulla diffusione al di fuori dell’Etruria:
Le bucchero nero étrusque et sa diffusion en Gaule Méridionale. Actes des la Table Ronde (Aix en Provence, 21-23 mai 1975), Bruxelles 1979.
J.-P. Thuillier, Nouvelles découvertes de bucchero à Carthage, in Il commercio etrusco arcaico. Atti dell’incontro di studio (Roma, 5-7 dicembre 1983), Roma 1985, pp. 155-63.
F.W. von Hase, Der etruskische Bucchero aus Karthago, in JbZMainz, 36 (1989), pp. 327-410.
M. Py et al., Corpus des céramiques de l’âge du fer de Lattes (fouilles 1963-1999), Lattes 2001, pp. 421-28.