GERMANICI, POPOLI
. Sotto la denominazione di Germani si comprendono tutte quelle numerose e varie popolazioni appartenenti alla famiglia etnica indoeuropea e da questa staccatesi in epoca remotissima, e forse già al principio dell'età del bronzo, come una massa omogenea con distinta personalità antropologica e linguistica, che poi a poco a poco si accrebbe e si suddivise in una serie di ramificazioni particolari, le quali, all'inizio dell'era cristiana, si trovavano fissate nelle regioni settentrionali d'Europa dal Reno ad oltre la Vistola e, verso mezzogiorno, fino al corso del Danubio. Di tutte queste popolazioni, che Tacito conosceva in numero di oltre sessanta e Tolomeo valutava ad oltre cento, nei primi secoli della loro storia molte andarono sommerse, molte finirono assorbite dai popoli più civili in mezzo ai quali avevano costituito più o meno effimeri regni indipendenti; le altre, ripetutamente fra loro commiste, perdurano, in parte nelle antiche sedi, negli attuali Tedeschi, negli Olandesi, negli Scandinavi e negl'Inglesi. Ad onta della comunanza dell'origine le diverse famiglie germaniche non ebbero in antico unità nazionale e neppure possedettero un nome che le designasse come complesso etnico. Il nome di Germani fu loro dato dai Romani, presso i quali esso diventò comune al tempo di Cesare, che lo udì nelle Gallie, e al quale venne data diffusione ufficiale con la creazione della provincia della Germania e con l'estensione del medesimo nome a tutti gli abitanti della Germania libera. Il vocabolo si trova per la prima volta nei Fasti Capitolini all'anno 222 a. C., ma fu osservato con fondamento ch'esso può essere un'interpolazione posteriore. Controverso è pure il suo significato, e tuttavia dubbio se esso abbia origine celtica o germanica: nel primo caso, molto probabile, esso potrebbe avere il senso di "abitatori delle foreste", oppure di "schiamazzatori": così le popolazioni celtiche del basso Reno avrebbero qualificato i Germani incontrati in battaglia. La derivazione germanica darebbe, invece, fra altri, il senso di mercenarî "desiderosi di guadagno" (ted. mod. gehren). Comunque sia, pare certo quanto a tal proposito racconta Tacito, che, cioè, col nome di Germani fu dapprincipio chiamata nelle Gallie qualche tribù passata per prima sulla sinistra del Reno, e il nome fu poi esteso a tutti gli altri abitanti della Germania. Tale processo, che è assai comune nella storia, ha altri paralleli presso gli stessi popoli germanici nel vocabolo Alemanni, gli antichi Semnoni, esteso dai Gallo-romani a tutti i Tedeschi, e in quello di Teutoni, da noi spesso usato nello stesso senso con intenzione spregiativa; analogamente i Tedeschi estesero il nome di una piccola popolazione gallica, i Volcae Tectosages, dapprima a tutti i Galli e poi a tutti i popoli neolatini (welsch), mentre, d'altro canto, il nome di una congerie di popolazioni germaniche, i Franchi, rimase, in definitiva, alla nazione dove la razza germanica era un'esigua minoranza. ll vocabolo Germani non fu tuttavia mai popolare fra le nazioni così designate e sparì inoltre dall'uso corrente assai per tempo, finché la lingua dotta non se ne impadronì adoperandolo nell'attuale largo significato generico. La parola deutsch, che deriva dal sostantivo antico tedesco diota "popolo", da cui l'aggettivo diutisc, latinizzato theodiscus, significava dapprima la lingua del popolo, cioè il "volgare", in contrapposto al latino, adoperato dalle classi dirigenti, e fu in seguito usata a indicare il popolo che la parlava; essa diventò generale dopo il decimo secolo.
Antropologicamente gli antichi Germani pare abbiano avuto fra gl'indoeuropei una notevole unità di tipo, e Tacito stesso ha notato il loro aspetto uniforme; essi appartenevano alla razza detta nordica, distinta dalla pronunciata dolicocefalia, dal colorito chiaro, capelli biondi, occhi azzurri e alta statura. Parlavano una lingua indoeuropea occidentale di tipo kentum, strettamente affine al celtico e all'italico, differenziatasi dal linguaggio comune in seguito a un fenomeno particolare di mutazione consonantica, detto rotazione dei suoni o Lautverschiebung. Il fenomeno si è ripetuto più tardi, verso il sec. VI dell'era volgare, dando origine, in seno alle lingue germaniche, e precisamente a quelle del ramo occidentale, all'alto tedesco di fronte al basso (v. qui sotto: Lingue).
I Germani non conobbero la scrittura e non ebbero un alfabeto prima dei loro contatti coi Romani, dai quali presero tutti gli elementi della civiltà; così dalle lettere capitali dei primi tempi dell'impero, ch'essi conobbero forse col tramite dei Celti, trassero un alfabeto detto runico (v. rune) del quale si servirono dapprima negli atti della magia, e poi per iscrizioni sopra armi, gioielli o lapidi sepolcrali. L'uso della scrittura a vero scopo letterario comincia però soltanto con la conversione al cristianesimo, la quale si compì presso talune famiglie, come i Visigoti, già fin dal sec. III, e molto più tardi, nel sec. XII, presso gli Scandinavi. Perciò appunto al cristianesimo quasi tutti i popoli germanici dovettero fare il sacrificio della loro primitiva leggenda divina e della loro saga eroica: i concetti etici che formano la struttura morale di quest'ultima sono il solo avanzo, nel campo dell'arte, dell'antica vita spirituale pagana.
I popoli germanici rappresentano nell'antichità il fattore diretto della più grande opera di dissoluzione che gli annali del mondo ricordino. Apparsi al tavoliere della storia in condizioni molto primitive di civiltà, essi portarono nel loro urto contro l'Impero romano, in processo di esaurimento, non solo la violenza dei movimenti ineluttabili e la forza cieca delle passioni elementari, ma anche un grande potere di assimilazione e di restaurazione e un'insaziabile attività. E come il loro ingresso nella civiltà romano-cristiana fu il punto di partenza di una trasformazione del mondo, così essi rimasero poi sempre, nei due millennî della loro vita, un elemento dinamico di primo ordine, conservando uno spirito sempre rinascente di espansione e di dominio, un loro carattere sovvertitore e costruttore insieme, che si manifestò così nel campo politico come nel dominio dell'intelletto, e che li portò nello stesso tempo a dissolvere e a rielaborare in proprio gli elementi delle superiori culture straniere, di cui subivano il fascino. Sicché, come nel Medioevo essi accentrarono nell'impero di nazione tedesca il potere antagonistico all'autorità universale del papato romano, così a più riprese nei tempi moderni, con la Riforma religiosa, con l'arte del romanticismo, coi nuovi sistemi filosofici e coi nuovi verbi sociali, la storia del pensiero culminò in una ribellione germanica all'ordine costituito, in un'opposizione di nuovi valori e di nuovi ideali a quelli delle tavole tradizionali. In siffatta opera di reazione e di rielaborazione sta l'apporto caratteristico della razza germanica al progresso della civiltà mondiale.
Sommario. - Etnografia e storia (p. 809); Lingue (p. 812); Mitologia e religione (p. 816); Diritto (p. 819).
Etnografia e storia.
Almeno dal III millennio a. C. i Germani occupavano la Scandinavia meridionale e le altre regioni intorno al Mar Baltico occidentale fino alla Vistola, e le coste orientali del Mare del Nord; a sud essi giungevano al Harz. Di qui, già dai primi secoli del I millennio a. C., essi vennero estendendosi verso ovest, sud ed est, respingendo o assorbendo le popolazioni celtiche della Germania occidentale e centrale, che esercitarono sui Germani una profonda influenza, e le stirpi illiriche, iraniche, baltiche, slave e finniche che confinavano coi Germani a sud, est, e nord.
Il mondo classico ebbe le prime notizie su tribù germaniche del Mare del Nord dal marsigliese Pitea, intorno alla metà del sec. IV a. C.; ma forse già prima stirpi germaniche erano giunte nella Svizzera. Al principio del sec. II comparvero sul Danubio inferiore i Bastarnae e gli Sciri, e intorno alla metà deve essere avvenuta la prima grande invasione di Germani nella Gallia di nord-est, ove in seguito vantavano origine germanica anche alcune popolazioni galliche, come i Nervii e i Treveri, pretesa che forse dipendeva dal fatto che essi provenivano da oltre Reno. Intorno al 120 si mossero dal Holstein i Cimbri, ai quali si unirono i Teutoni e gli Ambroni; dopo aver riempito di terrore l'occidente d'Europa, essi furono distrutti nel 102 e 101 da Mario. Tribù suebiche comandate da Ariovisto passarono il medio Reno verso il 70, chiamate dai Sequani; esse stavano per conquistare la Gallia intera, quando nel 58 a. C. intervenne Cesare, che ricacciò Ariovisto oltre il Reno, passò due volte il fiume (55 e 53), e ne fece la linea di confine fra l'impero e i G., che furono da allora in relazione con i Romani.
Le tribù germaniche migravano facilmente, si scomponevano e ricomponevano assumendo nomi nuovi, o scomparivano in lotte fra loro: perciò l'etnografia della Germania variò nelle varie epoche. Queste migrazioni non erano totali, e le tribù muovendosi lasciavano parte dei loro membri nell'antica sede; e oggi non si ammette più che il nord-est della Germania sia rimasto deserto in seguito alle migrazioni.
I Suebi, potente confederazione di tribù, cominciarono all'inizio del sec. I a. C. a lasciare le loro sedi a oriente dell'Elba, ove rimase la tribù sueba dei Semnoni, e occuparono la regione fra l'Elba, il Meno e la Selva Ercinia. I Marcomanni (uomini della marca) erano Suebi che, valicato il Meno, avevano preso possesso del paese fra il Reno e il Danubio superiore, sgombrato dagli Elvezî, che divenne così una marca di confine sueba. Fra il 9 e il 2 a. C. essi, guidati dal re Maroboduo, passarono nella Boemia, sgombrata dai Galli Boi, e vi fondarono un potente regno, che, dopo aver dominato su molte delle circostanti tribù germaniche, si sfasciò presto in seguito alle lotte coi Cherusci. La grande invasione del 166 d. C. li rese di nuovo famosi; una parte furono stanziati dai Romani in Pannonia, gli altri passarono, pare nel sec. VI, nella Baviera (Baivarii "abitanti di Baia, la Boemia"). Loro alleati contro i Romani erano i Quadi, d'origine suebica, che avevano strappato la Moravia ai Volcae Tectosages, stirpe gallica con la quale i Germani devono essere venuti a contatto molto per tempo, poiché ne estesero il nome (Welschen) a tutti i Galli e poi a tutti i popoli romanizzati. Ad est dei Quadi stavano tribù minori dei Bastarni (Sidones, Buri) e nella guerra marcomannica comparvero varie tribù vandaliche (Victovali, Asdingi, Lacringi). L'avanzata dei Suebi spinse oltre il Reno gli Usipeti e i Tencteri, che, sconfitti nel 55 da Cesare in Gallia, ripassarono il fiume e si unirono ai Sugambri, che si erano affacciati al Reno a sud della Ruhr, seguiti dai Marsi e dai Gambrivii. A nord del Meno inferiore stavano gli Ubii, vinti da Cesare e trasportati nel 38 a. C. da Agrippa sulla sinistra del Reno, ove Colonia Agrippina fu in seguito la loro città. Fra l'Elba, il Weser superiore e il Harz abitavano al tempo di Cesare i Cherusci, il popolo di Arminio, presto decaduti, e più a occidente i Bructeri, il cui territorio fu poi in gran parte occupato a ovest dai Chamavi e ad est dagli Angrivarii, che stavano prima sul medio Weser. Sulla costa fra l'Elba e l'Ems stavano i potenti Chauci, gli Amsivarii e, un po' più all'interno, i Chasuarii; più ad ovest i Frisii (che alla fine dell'antichità riappaiono estesi dalla Schelda allo Schleswig e furono poi incorporati nel regno dei Franchi), e nelle isole del Reno i Canninefati.
Fra Mosa e Reno stavano, già al tempo di Cesare, i Batavi, al pari dei Mattiaci (sul Reno di fronte a Magonza) ritenuti tribù dei potenti Chatti. Questi, ignoti ancora a Cesare, dall'Assia si estesero sino al Reno nel paese sgombrato dagli Ubî; essi non sono più ricordati dopo il 200 d. C. e al loro posto compaiono nel sec. VI gli Hassii. Un ramo dei Chatti erano i Chattuarii, posti prima fra i Cherusci e i Bructeri, e passati poi, sembra, sul Reno inferiore. Ad oriente dei Chatti, gli Hermunduri occupavano nel sec. I d. C. la Turingia stendendosi fino all'Elba e a sud fino al Danubio; essi furono sempre in buoni rapporti coi Romani. I Naristi (Suebi?) stavano ad ovest della Selva Boema e migrarono più tardi nel Giura.
Tiberio trovò nel 5 d. C. sull'Elba inferiore i Langobardi, che si dicevano oriundi dalla Svezia meridionale; nel sec. V essi scesero per la Slesia e la Moravia verso l'Ungheria, passarono poi nella Pannonia e di qui nel 568 in Italia. Gli Angli, dal Holstein, cominciarono a passare nel sec. VI nella Britannia; loro vicini erano i Varini. La più antica sede dei Sassoni era sulla destra dell'Elba inferiore. Parte di essi seguì gli Angli in Britannia, ove passarono anche degli Iuti (del Jutland settentrionale); gli altri Iuti furono assorbiti dai Dani venuti dalla Svezia. Gli Eruli vennero dalla Scandinavia nel Jutland e nelle isole danesi, donde furono cacciati dai Dani; parte di essi seguì i Goti verso il Ponto, altri migrarono in direzioni diverse (in Gallia, Pannonia) e un gruppo ritornò nel sec. VI nella Scandinavia. Tacito raccoglie i Germani della Scandinavia sotto il nome di Suiones, che erano famosi navigatori; i Suetidi (Svear, Svedesi) appaiono per la prima volta in Giordane. I Sitones (abitanti della costa), che Tacito ricorda come abitanti al di là dei Suioni, e da alcuni ritenuti Finni, facevano probabilmente parte delle tribù germaniche passate in età preistorica sulle coste orientali del Baltico.
I Germani orientali erano, almeno in parte, oriundi della Scandinavia e delle isole baltiche. La numerosa nazione dei Lugii aveva posto le sue sedi fra il Mons Asciburgius (Sudeti) e la Vistola. Dopo il 280 d. C. essa non è più ricordata, ma i Vandali, provenienti dal Jutland, erano, pare, o ad essi identici o una loro suddivisione. Al principio del sec. V, i Vandali rimasti sull'Oder, specialmente le due tribù degli Hasdingi e dei Silingi (questi diedero il nome alla Slesia), migrarono con Alani e Suevi nella Gallia e di qui nella Spagna (Andalusia-Vandalusia) e in Africa. A nord dei Lugi stavano i Burgundi, venuti nel sec. II a. C. dall'isola baltica di Bornholm; in seguito a lotte coi Gepidi, migrarono verso occidente, e presero stanza nel 406 sul medio Reno, ove fondarono un regno celebre nella leggenda; sconfitti nel 437 dagli Unni, passarono nella Gallia di sud-est (Borgogna). I Gepidi, tribù dei Goti, scesero dalla Vistola inferiore nella Dacia, ove il loro regno fu abbattuto nel 567 dai Longobardi e dagli Avari; parte di essi seguirono Alboino in Italia. Tra le foci della Vistola e dell'Oder stavano, almeno dal sec. II a. C., i Rugii, che troviamo poi nella Pannonia, dove Odoacre li vinse nel 487; essi seguirono poi i Goti in Italia. Il grande popolo dei Goti (Gutones, Gauti) passò, forse nel sec. I a. C., dalla Scandinavia alle foci della Vistola. Alla metà del sec. II d. C., la maggior parte dei Goti (un regno gotico continuò a sussistere sulla Vistola) si misero in moto verso sud-est, toccarono nel 214 i confini della Dacia Romana, e si estesero poi su tutta la costa settentrionale del Mar Nero e nella Transilvania. I Goti erano divisi dal Dnestr in occidentali o Visigoti o Tervingi e in orientali o Ostrogoti o Greutingi. Varie altre tribù germaniche vennero prima o dopo dei Goti, o con loro, sulle coste del Mar Nero: Borani, Urugundi, gruppi di Eruli, Gepidi e Vandali e i Bastarni. I Goti finirono nell'Italia e nella Spagna, mentre alcuni gruppi rimasti sul Ponto conservarono almeno sino al sec. XVI la loro lingua. Più ad oriente dei Goti non è possibile individuare nessun'altra nazione sicuramente germanica.
Nei secoli III e IV d. C., i Germani occidentali presentano nuovi aggruppamenti etnici, che, sotto l'influsso della civiltà romana, costituiscono più salde formazioni politiche. Dai Suebi ebbero specialmente origine gli Alamanni (cioè: uomini di molte stirpi), che comparvero fra il Meno e il Danubio e, forzato dopo lunghe lotte il limes, varcarono il Reno occupando l'Alsazia e il Palatinato. Sul Reno inferiore appare nel sec. III la potente confederazione dei Franchi (gli audaci), che continuavano gli antichi Chauci; essi erano distinti in Franchi Ripuarii a sud e Franchi Salii a nord. I Sassoni dall'Elba inferiore si estesero sino al centro della Germania e poi verso ovest e sud, incorporando molte tribù in uno stato potente.
Stabilite relazioni permanenti fra Roma e i Germani, Cesare diede per primo l'esempio di servirsi di truppe ausiliarie germaniche, la qual cosa ebbe poi conseguenze gravissime per le sorti dell'impero. Ma, per qualche decennio dopo Cesare, la frontiera renana fu abbastanza tranquilla. Le forze romane che la difendevano si appoggiavano specialmente ai campi di Magonza, Bonn e Vetera. Per le vicende della conquista della Germania di là dal Reno, iniziata da Druso e da Tiberio, e abbandonata da Augusto dopo il disastro di Teutoburgo, v. germania. Qui ricorderemo solo i contatti fra Romani e Germani, dopo fissata la linea del Reno a confine della provincia di Germania. Sotto i Flavî, i Romani avanzarono oltre il Reno, per togliere il pericoloso saliente di territorio germanico, con vertice a Basilea, che si addentrava nell'impero; e il paese conquistato e colonizzato (agri decumates) fu protetto con una linea continua di fortificazioni che andava dal Reno, poco a nord di Coblenza, al Danubio, poco sopra Ratisbona (limes germanicus et raeticus), linea ampliata poi e migliorata da Traiano e Adriano. Sotto Domiziano cominciarono le lotte coi Germani anche sul medio Danubio, ma un nuovo periodo nelle relazioni fra Roma e i Germani ebbe inizio nel sesto anno di Marco Aurelio (167), quando, sotto la spinta di movimenti etnici nell'interno della Germania, Marcomanni, Quadi e altre tribù passarono il Danubio gettandosi sulla Pannonia e arrivarono in Italia ad Aquileia, che assediarono, e a Oderzo che distrussero. Con lotte durate varî anni, Marco respinse l'invasione e passò il Danubio; egli voleva portare la frontiera ai monti boemi e sui Carpazî, ma la morte (180) troncò i suoi disegni. Nel 213, sotto Caracalla, comparvero dinanzi al limes gli Alamanni, che nel 234, ultimo anno di Severo Alessandro, attaccarono in massa le difese romane. Da questo momento la lotta non cessò più sul Reno contro Alamanni e Franchi, e lungo il Danubio, ove cominciò la pressione di nuove stirpi germaniche (Vandali, Burgundi, Longobardi, ecc.) e specialmente quella dei Goti sulle frontiere della Dacia e della Mesia. L'ultima grande offensiva romana in Germania, ma con effettivi in gran parte germanici, fu quella di Massimino contro gli Alamanni (235), che rimasero per un vent'anni tranquilli; ma quando, durante i torbidi che seguirono la morte di Decio, che aveva dovuto sostenere dure lotte coi Goti giunti sino a Filippopoli, gli eserciti lasciarono le frontiere per marciare verso l'interno, i barbari passarono dovunque i confini. I Goti, oltre a spingersi per terra a sud del Danubio, arrivavano per mare nell'Asia Minore; Alamanni e Franchi si rovesciarono sulla Gallia, attaccata per mare dai Sassoni. Gallieno sconfisse gli Alamanni sotto Milano (261) e torme di Franchi raggiunsero la Spagna. La marea fu contenuta per il momento, ma gli agri decumates andarono perduti. In questa lotta perpetua l'unità stessa dell'impero si rallentava: ogni provincia si affidava a chi poteva difenderla e la Gallia ebbe con Postumo un impero autonomo che durò un decennio. D'altra parte l'esercito imperiale è per buona parte formato di Germani, il suo aspetto e la sua organizzazione divengono sempre più barbari, ed esso perde quella superiorità che gli veniva dall'armamento e dalla disciplina romana. Germani salgono ai gradi più elevati; anzi, nel sistema di caste chiuse che si viene formando nell'impero nel sec. IV, solo i barbari hanno la possibilità di salire da gregarî ai più alti gradi. Gl'imperatori illirici si opposero con rinnovata energia alle invasioni: Claudio il Gotico diede rudi colpi ad Alamanni e Goti (278-69); ma sotto Aureliano gli Alamanni giunsero sino a Fano, nel cuore dell'Italia, e la Dacia dovette essere abbandonata. Un'altra grave crisi si ebbe sotto Probo. E oltre che per l'esercito, l'impero aveva bisogno dei Germani anche per reggere la sua crollante economia: si fanno razzie nella Germania per trarne braccia da lavoro, e i Germani come prigionieri di guerra (dediticii) o in seguito a patti come foederati, laeti, inquilini, gentiles, a gruppi omogenei, vennero collocati nelle provincie spopolate, specialmente da Marco Aurelio, da Gallieno, da Claudio Gotico, da Aureliano, da Probo, da Massimiano, da Diocleziano, ecc. Essi dovevano coltivare le terre e fornire soldati e ricevevano sovente sussidî in denaro. Massimiano nel 288 fece dei Franchi un regno vassallo, al quale venne affidata la difesa della frontiera contro gli altri Germani; i Germani, cioè, oltre ad essere arruolati individualmente o a gruppi nei corpi regolari ed ausiliari dell'esercito, cominciano ora a entrare al servizio di Roma come federati conservando la loro organizzazione, i loro capi nazionali, la loro lingua e i loro costumi, ciò che li renderà tanto meno assimilabili e tanto più pericolosi alla compagine dell'impero.
Nel 355 gli Alamanni, imitati poi da altre stirpi, passarono la frontiera con l'idea di stabilirsi in massa e definitivamente nel territorio dell'impero, nell'Alsazia; Giuliano li sconfisse a Strasburgo (358), ma dovette concedere sedi sulla sinistra del Reno ai Franchi Salî. Il crollo definitivo cominciò nel 375, quando gli Unni, provenienti dall'Asia, si gettarono sui regni gotici e li distrussero. I Goti fuggiaschi furono accolti dall'impero d'oriente, ma, trattati male, essi presero le armi e ad Adrianopoli (378) sconfissero i Romani: l'imperatore Valente cadde nella battaglia. È un'altra data capitale nella storia dei rapporti romano-germanici. Teodosio infatti, accorso a frenare l'invasione, dovette riconoscere i Goti come federati, ed essi cominciarono a percorrere l'impero in ogni senso come padroni. E l'esercito degl'imperatori costantinopolitani, che avrebbe dovuto fronteggiarli, era esso stesso costituito quasi per intero da Goti e comandato da capi goti, come Gaina. Gli Unni, giungendo all'Elba, spingevano intanto contro le frontiere romane anche i Germani occidentali, e da allora l'insediamento dei Germani nelle provincie dell'impero, sotto la guida dei loro re, si estende sempre più. L'uccisione di Stilicone nel 408 è l'ultimo tentativo da parte dell'elemento romano di combattere la preponderanza dei Germani nell'esercito e nello stato; ma il sacco di Roma nel 410 per opera dei Goti di Alarico dimostrò che cosa valesse l'impero senza il braccio dei Germani. Ebbe così inizio l'epoca dei regni germanici nelle provincie romane.
Già al tempo di Cesare commercianti Romani si recavano presso gli Ubî e gli Svevi. Ma i Germani commerciavano da tempi remoti l'ambra del Baltico ed elementi antichissimi delle civiltà orientali e mediterranee entrarono in Germania seguendo le piste di questo commercio. La navigazione sui fiumi e lungo le coste del Mare del Nord era attiva. I Romani importavano in Germania specialmente prodotti industriali, metalli, droghe, vino, e ne esportavano ambra, pellicce, prodotti agricoli, bestiame e schiavi. Gli scambî avvenivano più anticamente nella forma del baratto; poi i Germani accettavano anelli di metalli pregiati e infine dalle frontiere cominciarono a diffondersi le monete, prima le celtiche, poi le romane.
Il più antico diritto germanico era basato sulle consuetudini e non abbiamo testi giuridici anteriori al sec. V. I Germani vivevano in famiglie patriarcali, ma nei loro istituti non mancano tracce di un più antico ordinamento matriarcale (p. es. l'avunculato). La famiglia si allarga nella Sippe, la quale è anche, anticamente, gruppo politico e militare, che viene indebolendosi con l'affermarsi dell'organizzazione statale della tribù. Presso i Germani vigeva in genere la monogamia, e solo i personaggi più potenti tenevano parecchie mogli, e di solito per ragioni politiche. Molto più frequente era l'uso di concubine. Il matrimonio avveniva per contratto d'acquisto della moglie, ma rimanevano tracce della più antica forma di matrimonio per ratto. L'adulterio della donna era severamente punito e le vedove, in genere, non si rimaritavano. La donna era tenuta però in alta considerazione, anche per le virtù profetiche che le si attribuivano, e partecipava in pace e in guerra alle sorti del marito. Questi aveva nella casa una posizione sovrana: il riconoscimento dei figli era in suo arbitrio e tutti i beni che comunque pervenivano nella casa erano suoi. L'adozione era praticata. Portavano i Germani nomi individuali significativi, composti di solito di due elementi, uno dei quali spesso si ripete nei nomi d'una stessa famiglia. Prevalgono i nomi ispirati alla guerra, e ricorrono anche nomi semplici, ipocoristici e soprannomi.
La vendetta del sangue era obbligo degli agnati dell'ucciso, ma già al tempo di Tacito essa veniva sostituita dal risarcimento in bestiame pagato ai parenti. I giudizî, che si svolgevano attraverso forme procedurali tradizionali rigidamente osservate, erano regolati dai sacerdoti e dai magistrati. La pena di morte, consisteva nell'impiccagione o nell'annegamento; ma fu sempre più largamente sostituita dalla multa in bestiame.
La società germanica era composta di liberi e di semiliberi e liberti, questi legati in varie forme ed ereditariamente ai loro patroni. V'erano poi schiavi. Le fonti della schiavitù erano varie (guerra, obbligazione, ecc.), e le condizioni dello schiavo, che già ai suoi tempi Tacito trovava sopportabili, andarono migliorando dalla fine delle migrazioni. Dai liberi emergeva la nobiltà, ereditaria, costituita da famiglie famose e ritenute di origine divina. Essa stava spegnendosi al tempo delle migrazioni e venne sostituita dalla nobiltà degli uffici. Gli stranieri stavano sotto la protezione dei loro ospiti, che ne assumevano la tutela giuridica; e l'ospitalità era rigorosamente osservata. Accanto ai legami di parentela, altri, ed efficacissimi, se ne potevano costituire con il patto di fratellanza e poi con l'entrata nel seguito di un capo (Gefolgschaft).
I Germani non raggiunsero mai l'unità politica nazionale. I varî popoli stavano a sé, formando stati di solito piccoli; solo col tempo si costituirono stati più vasti a struttura confederativa più o meno salda e tenuti assieme dall'egemonia di una tribù più potente o dalla signoria personale di un conquistatore. Il territorio dello stato è detto Land, e se lo stato è retto da un re, Riki (Reich), determinato poi dal nome del popolo. Le tribù sono divise in genti e centenae (Hundertschaften), gruppi di famiglie, che hanno il loro territorio (Gau), il loro villaggio (Dorf) e i loro magistrati (thungini) e formano le unità dell'esercito. Il potere sovrano risiede nelle assemblee armate (thing) dei liberi, che eleggevano i magistrati; nell'assemblea venivano solennemente consegnate ai giovani per la prima volta le armi. C'erano poi anche assemblee di anziani. I capi dei popoli, scelti fra la nobiltà, vennero poi assumendo potere e attributi di re; ma al loro apparire nella storia non tutti i Germani erano retti da re. La monarchia era più forte presso i Germani orientali, ma i re avevano funzioni prevalentemente militari e non legislative. L'epoca delle migrazioni, che richiedevano unità e saldezza di comando, rinvigorì la monarchia, e sul suolo romano, a contatto dello stato dispotico, essa divenne infine assoluta ed ereditaria. Accanto ai re le assemblee potevano eleggere anche dei valorosi a duci per la guerra (per maggiori particolari v. sotto: Diritto).
All'alba della loro storia, i Germani sono da tempo sedentarî e abitano territorî definiti, spesso separati da zone neutrali disabitate. Erano però facili a migrare, spinti dal desiderio d'avventure e specialmente dal fatto che la popolazione diveniva presto sovrabbondante. Abitavano in villaggi di case disposte irregolarmente e isolate nel mezzo dell'orto ricinto, costruite in legname, graticci e creta, con caratteristica cantina sotterranea coperta di fimo contro il freddo, nella quale riponevano anche le vettovaglie. Dai Romani appresero poi l'uso delle pietre e dei mattoni. Essi praticavano largamente l'allevamento di pecore, capre, porci, cavalli, volatili domestici e specialmente dei bovini, che davano a loro gli elementi principali della nutrizione, carne, latte e burro. Amavano la caccia e la pesca. Esercitavano l'agricoltura, che nei tempi più antichi era in buona parte affidata alle donne; usavano un buon tipo di aratro e coltivavano abbastanza bene parecchi cereali. Conoscevano varie specie di ortaggi, ma ebbero dai Romani gli alberi fruttiferi pregiati. Fino al sec. I d. C. presso la maggior parte dei Germani, a eccezione cioè delle tribù che avevano subito fortemente l'influenza dei Celti e dei Romani, la proprietà del suolo spettava alla comunità, che assegnava la terra arativa in parcelle per uno o più anni alle singole famiglie. Non è possibile attribuire, come alcuni fanno, a tribù in guerra o in migrazione questo sistema esplicitamente attestato da Cesare (Bell. gall., VI, 22) e da Tacito (Germania, 26). La cosa era resa più agevole dal fatto, ben avvertito da Tacito, che alla terra si chiedeva solo il prodotto annuale dei cereali e che era ignota la coltura a giardino legata alla terra. Sotto l'influenza di molti fattori, il ritmo della periodica riassegnazione dei campi venne rallentando e poi cessò ovunque; mentre contemporaneamente la privata proprietà si stabiliva anche sulla terra incolta sottoposta dai singoli all'aratro e si formava dai doni di terre fatti dai re ai singoli, e collettiva rimase solo la proprietà della terra non sottoposta a coltura, riservata all'uso in comune.
Stirpe guerriera, i Germani avevano in grande onore le armi. L'arma nazionale era l'asta da urto (framea) di varia lunghezza; l'uso della spada era invece meno diffuso presso alcune tribù. Ma si adoperavano anche giavellotti da lancio, come l'ango dei Franchi, simile al pilum: l'arco rimase sempre invece un'arma secondaria. Altre armi usate erano la mazza e l'ascia; questa era anzi arma nazionale dei Franchi. L'armamento difensivo era ignoto un tempo ai Germani, che usavano denudarsi per combattere; poi fu adottato generalmente lo scudo, di legno o di vimini, dipinto con varî colori. Alcune tribù erano famose per la loro cavalleria, con la quale combattevano frammischiati fanti leggieri; e i cavalli germanici erano abituati a manovre speciali, e ad attendere abbandonati a sé i loro cavalieri che combattevano a piedi. Ma il nucleo degli eserciti germanici fu sempre costituito dalla fanteria, con la sua ordinanza a cuneo, e formata da gruppi di vicini e di consanguinei. Squilli di corno, canti guerrieri e il famoso barditus o barritus, grido di guerra, stimolavano l'ardore dei combattenti. Il campo veniva protetto con i carri; in seguito i G. appresero anche a costruire valli difensivi. Ma per lungo tempo i Germani non ebbero il concetto del comando della battaglia; i capi davano l'esempio più che dirigere.
Anche per i costumi, non tutte le tribù germaniche erano allo stesso livello; i Longobardi, p. es., erano fra i Germani più arretrati; e più primitivi ancora erano gli Eruli, presso i quali i vecchi venivano uccisi e le vedove si suicidavano. Sono ovvie anche le ragioni per le quali gli antichi rappresentano e giudicano in modo spesso contraddittorio il carattere dei Germani, per alcuni ricchi di molte virtù, per altri barbari feroci e sfrenati. Essi erano certo animosi e coraggiosi, ma poco resistenti a sforzi duraturi; amanti delle avventure, erano proclivi alla guerra, al ladroneccio e alla pirateria. Il loro amore per la libertà individuale li rendeva indisciplinati e quindi inadatti a creare formazioni politiche durature. Era vantata la loro fedeltà alla parola data; perciò i Cesari sceglievano fra essi le loro guardie del corpo; erano cavallereschi, ospitali, morigerati, rispettosi delle donne. I banchetti e le libazioni, per quanto era possibile abbondanti, avevano, anche per idee religiose, gran parte in ogni occasione solenne della vita. Come tutti i barbari, gli antichi Germani si lasciavano però andare facilmente agli eccessi.
Per la storia ulteriore dei Germani, v. germania; e anche anglosassoni; franchi; longobardi; ostrogoti; visigoti.
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Lingue.
Distribuzione e classificazione delle lingue germaniche. - Lingue germaniche viventi sono: le lingue nordiche (danese, svedese, islandese, dialetti della Norvegia, e delle Færør); l'inglese; il frisone; il tedesco in senso largo (alto tedesco, basso tedesco, olandese-fiammingo). Delle numerose lingue germaniche estinte conosciamo soltanto la gotica, di cui possediamo, oltre a pochi altri resti, un insigne monumento letterario (v. goti: Lingua), mentre delle lingue di altri popoli ricordati come affini al gotico (Vandali, Rugi, Burgundi, Gepidi, Eruli, Sciri) non abbiamo che scarsissime reliquie (quasi soltanto nomi proprî). Del longobardo, pure estinto, conosciamo oltre a numerosi nomi proprî, circa duecento vocaboli tramandatici da fonti latine (v. longobardi: Lingua).
Il gotico coi suoi prossimi parenti formava un ramo della famiglia germanica, che si dice orientale con riferimento alla posizione tenuta rispetto agli altri Germani da quei popoli al tempo della loro prima comparsa nella storia. Un altro ramo è costituito dalle lingue nordiche. L'inglese, il frisone, il tedesco (in senso largo) formano il ramo occidentale, in cui rientrava pure il longobardo.
Il nordico nella sua fase più antica (circa 250-700 d. C.), attestataci da un certo numero d'iscrizioni runiche, presenta in tutto il suo territorio un aspetto uniforme (nordico primitivo). Soltanto nella cosiddetta età dei Vichinghi (circa 800-1050) comincia a delinearsi la distinzione, che diviene più chiara e profonda nell'età seguente, fra un nordico orientale (danese e svedese) e un nordico occidentale (norvegese e islandese). Le migrazioni dei Vichinghi diffusero i linguaggi nordici in varie direzioni. Lo svedese guadagnò terreno nel Baltico orientale, dove tuttora mantiene alcune posizioni e in Finlandia si afferma con vigore accanto al finnico. Il danese e il norvegese si diffusero a occidente: in Normandia, dove il danese (forse insieme col norvegese) ebbe vita breve (circa 900-1100), e in molte parti delle Isole Britanniche, dove specialmente il norvegese resisté a lungo (p. es. nelle isole Orkney fino ai primi anni e nelle Shetland fino alla seconda metà del sec. XVIII). L'islandese visse per qualche tempo (dal 986 fin verso il 1450) in Groenlandia, dove più tardi penetrò l'elemento danese (v. danimarca; islanda; norvegia; svezia).
La lingua inglese e la frisone, nelle loro forme più antiche, si accordano in alcune peculiarità, specialmente fonetiche, e perciò vengono considerate come rampolli di uno stesso ceppo, anglo-frisone. La nazione inglese trae origine dalle migrazioni, avvenute nel sec. V d. C., di genti germaniche dal continente nell'isola fino allora abitata da Britanni di lingua celtica. Alle tre stirpi germaniche ricordate dalla storia (Angli, Sassoni, Iuti) corrispondono i principali dialetti attestati nei più antichi documenti inglesi: anglo (distinto in northumbrio a settentrione e mercio nel centro), sassone (a mezzogiorno) e kentio (nel territorio dei Iuti all'estremo sud-est). La prima fioritura letteraria si ebbe presso gli Angli, e perciò da loro prese il nome la lingua dell'intera nazione (ant. ingl. englisc = moderno english) e lo mantenne ancorché il primato nella cultura passasse ben presto ai Sassoni e in dialetto sassone si svolgesse la successiva letteratura. Molti studiosi moderni chiamano anglo-sassone l'inglese antico (fino al sec. XI). Le invasioni danese e norvegese lasciarono tracce nella lingua inglese; la conquista normanna, nel sec. XI, ebbe un'importanza decisiva per l'ulteriore sviluppo di essa (v. inghilterra: Lingua).
La lingua frisone, in altri tempi più diffusa, è oggi ridotta entro angusti confini. Delle tre o quattro varietà dialettali, in cui appare divisa, soltanto l'occidentale (parlata in Olanda) mostra ancora una certa vitalità. Pochi resti sopravvivono del frisone orientale (parlato in territorio oldemburghese, cioè in alcuni villaggi del Saterland e a Neuwangeroog) e del frisone settentrionale (in un breve tratto dello Schleswig e nelle isole Halligen), da cui poco differisce il frisone insulare (Amrum, Föhr, Sylt, Helgoland; v. frisia).
Il tedesco, in senso largo, si divide in basso-tedesco (niederdeutsch) e alto-tedesco (hochdeutsch); e questo a sua volta si distingue in tedesco centrale (mitteldeutsch) e tedesco superiore (oberdeutsch) così che tutti i dialetti tedeschi vengono a essere distribuiti in tre grandi gruppi (v. germania: Lingua e dialetti). Il tedesco superiore occupa la zona meridionale della Germania linguistica (che comprende l'Austria, gran parte della Svizzera e l'Alsazia), mentre le pianure settentrionali (con l'Olanda e buona parte del Belgio) spettano al basso tedesco. Al tedesco centrale rimane la zona intermedia. In territorio alto-tedesco (più precisamente: tedesco centrale) si formò la lingua nazionale e letteraria dei Tedeschi (compresi quelli che parlano dialetti basso-tedeschi), mentre dal ramo basso-franco del gruppo dialettale basso-tedesco si svolse la lingua nazionale e letteraria degli Olandesi e dei Fiamminghi. Occupa un posto a parte fra i dialetti tedeschi lo yiddish, misto di elementi ebraici, parlato da alcuni milioni di ebrei (specialmente in Russia, in Polonia e in altri paesi dell'Europa orientale). L'olandese (v. olanda: Lingua) fuori d'Europa si parla specialmente nelle antiche colonie di quella nazione, oggi dominio britannico, nell'Unione Sudafricana, dove si formò un nuovo dialetto chiamato afrikaans, che da qualche tempo viene usato, accanto all'olandese classico, come lingua letteraria e dal 1925 è ammesso in tutti gli atti pubblici. La tabella che segue indica per ogni lingua germanica vivente il numero dei parlanti [A] secondo i calcoli di L. Tesnière (Statistique des langues de l'Europe, in appendice alla 3ª ed. dell'opera di A. Meillet, Les langues dans l'Europe nouvelle, Parigi 1928) riferiti al 31 dicembre 1926, e [B] secondo G. Schütte (Our Forefathers, I, Cambridge 1929).
Seguendo la comune opinione abbiamo distribuito le lingue germaniche, vive ed estinte, in tre gruppi: orientale, settentrionale e occidentale. A questa dottrina (che risale ad A. Schleicher) sta di contro quella (enunciata fino dal 1839 da A. Holtzmann, riaffermata da K. Müllenhoff e da W. Scherer e sviluppata da H. Zimmer, in Zeitschr. f. deutsches Altertum, XIX, 1876), che al gruppo occidentale contrappone il nordorientale o gotonordico. Questa dottrina, che storicamente si fonda sulla ben nota tradizione che fa provenire i Goti dalla Seandinavia, sembra confermata sul terreno linguistico da alcune concordanze fra gotico e nordico. Il fatto più caratteristico consiste nel trattamento (comune al gotico e al nordico, ignoto al germanico occidentale) del germanico primitivo jj e ww (sorto da j e da w in particolari condizioni: v. J. J. Mikkola, in Streitberg-Festgabe, Lipsia 1924, p. 267 segg.), che in nordico diviene ggj risp. ggv, e in gotico ddj (ulteriore sviluppo di ggj) risp. ggw: p. es. got. twaddjē, ant. isl. tueggia contro ant. alto-ted. zwe(i)io "duorum", e got. skuggwa "specchio" ant. isl. skugge "ombra" contro ant. alto-ted. scūwo "ombra", scouwōn "mirare". Anche la morfologia ci mostra un fatto notevole: mentre in gotico e in nordico la 2ª persona sing. del pret. ind. ha la stessa vocale radicale che la 1ª e la 3ª e prende la desinenza -t, nei dialetti occidentali essa mostra la vocale propria delle tre persone plurali e una desinenza -i (-e); cioè: alla forma di perfetto conservata negli altri due linguaggi il germanico occidentale contrappone una forma d'aoristo (p. es. got. baust, ant. isl. bautt "botest" contro ant. alto-ted. buti ant. ingl. bude). Però il dissidio tra le due dottrine non è insanabile. Come dice W. Streitberg (Germanisch, Berlino 1927, p. 13), il fatto che Goti e Scandinavi derivano dallo stesso ceppo etnico non distrugge il fatto che la lingua gotica e la lingua nordica fino dal momento della loro separazione hanno avuto uno sviluppo indipendente, sì che il glottologo non può considerarle come formanti un'unità linguistica. In altre parole, come osserva T. E. Karsten (Die Germanen, Berlino 1928, p. 212), entrambe le teorie sono vere, purché si riferiscano a fasi cronologicamente distinte dell'evoluzione linguistica. Di recente G. Neckel (in Paul u. Braune's Beiträge, LI, 1927) propose di dividere il territorio linguistico germanico in due zone (settentrionale e meridionale) separate dal Mar Baltico.
La documentazione delle lingue germaniche comincia relativamente tardi. La più antica reliquia linguistica del mondo germanico consisterebbe in una brevissima iscrizione che si legge sopra un elmo di bronzo, del sec. II a. C., trovato a Negau nella Stiria, se la sua germanicità non fosse contestata, così come è contestato il carattere germanico dei segni incisi nei primi anni d. C. sopra un punteruolo d'osso trovato nel 1924 presso Maria-Saal (Carinzia). Il più cospicuo e quasi unico documento letterario della lingua gotica consiste nella traduzione del Nuovo Testamento, eseguita nel sec. IV d. C. dal vescovo Ulfila e pervenutaci con molte e gravi lacune; ma due o tre brevissime iscrizioni gotiche in caratteri runici si fanno risalire al secolo precedente. Del "nordico primitivo" abbiamo iscrizioni di cui talune vengono assegnate al sec. III. I più antichi testi letterarî nordici spettano al sec. XII, ma si ha ragione di credere che alcune composizioni poetiche siano creazione di un'età anteriore. Così, mentre le prime scritture inglesi datano dal sec. VII, è probabile che nelle raccolte poetiche tramandateci in manoscritti compilati per lo più nei secoli X-XI si conservino brani composti avanti il 600 e in parte forse anteriori persino alle migrazioni dal continente. Le fonti a cui attingiamo la conoscenza dell'antico frisone, consistenti quasi unicamente in testi giuridici, non risalgono oltre il sec. XIII. Le prime testimonianze della lingua tedesca, consistenti in glosse, ci riportano alla metà del sec. VIII. I primi documenti letterarî dei dialetti alto-tedeschi datano soltanto dalla fine di quel secolo e dal principio del seguente; quelli dell'antico sassone (principale dialetto basso-tedesco) e del basso franco (forma anteriore dell'olandese) spettano altresì al sec. IX. Insomma le più antiche attestazioni sicure di lingue germaniche non vanno al di là del sec. III d. C. Materia linguistica più antica, ma trasmessaci in forma non genuina, ci offrono i molti nomi di persone, di popoli e di luoghi conservati in fonti latine e greche, così letterarie come epigrafiche, nonché un certo numero di vocaboli tramandatici pure da scrittori classici (p. es. alces, glaesum Cesare; ganta Plinio; framea Tacito). Una fase linguistica anche più arcaica è rispecchiata da numerosi prestiti germanici alle lingue finniche e lapponiche, taluni dei quali serbano una forma non molto diversa da quella che la comparazione ci autorizza ad attribuire al germanico primitivo. Così, ad esempio, finn. kuningas "re" (germ. *kuningaz, ted. König), finn. ruhtinas "principe" (germ. *druhtinaz, ant. isl. drótten "signore", ant. alto ted. truhtin), finn. valta "potenza" (germ. *valßa-, ant. isl. vald, ted. Gewalt), finn. kulta "oro" (germ. *gulþa-, got. gulþ, ted. Gold), finn. kaunis "bello" (germ. *skauniz, got. skauns, ted. schön).
Caratteristiche principali delle lingue germaniche.
Fonetica. - Spetta alla fonetica una caratteristica essenziale del germanico, consistente in certe mutazioni a cui vanno soggette le consonanti indoeuropee, e che si sogliono comprendere sotto il nome di "1° spostamento fonetico" (Lautverschiebung) per distinguerle da un'altra serie di mutazioni che le consonanti germaniche subiscono nei dialetti alto-tedeschi. La comparazione insegna che (a prescindere dal particolare trattamento di talune consonanti in determinate condizioni) la maggior parte delle lingue germaniche risponde: 1. alle occlusive tenui greche, latine e sanscrite (p, t, k) per lo più con f, þ, h; 2. alle aspirate greche (ϕ, ϑ, χ) e sanscrite (bh, dh, gh) con suoni che la scrittura usata nelle varie lingue rappresenta di solito con b, d, g; 3. alle occlusive medie greche, latine e sanscrite (b, d, g) con le tenui p, t, k rispettivamente. Esempî: 1. got. faíhu, lat. pecu, sanscr. paśu; got. waírþan, lat. verto, sanscr. vartate; got. gateihan, lat. dīco; 2. got. baíran, gr. ϕέρω, sanscr. bharati; got. daúr, gr. ϑύρα; got. steigan, gr. στείχν; 3. got. þaúrp, lat. trabs, osco trííbum "domum"; got. tiuhan, lat. dūco; got. juk, gr. ζυγόν, lat. iugum, sanscr. yugam.
Le corrispondenze fra le consonanti germaniche e le consonanti greche e latine, già riconosciute da R. K. Rask (Undersögelse om det gamle nordiske eller islandske Sprogs Oprindelse, Copenaghen 1818), furono ridotte a sistema da J. Grimm (Deutsche Grammatik, I, 2ª ed., Gottinga 1822) e ricondotte, con le mutazioni caratteristiche dell'alto-tedesco, a una norma generale che si potrebbe formulare così: date tre serie di consonanti indoeuropee - T(enui), A(spirate), M(edie) - il germanico comune le muta rispettivamente in A, M, T, e l'alto-tedesco in M, T, A. Noi non possiamo più accettare questa formula. Astraendo pure dal fatto che non tutte le consonanti germaniche subiscono la 2ª mutazione, non è difficile convincersi che quella formula fu ottenuta commettendo due errori: non distinguendo la lettera dal suono di cui è simbolo, e confondendo sotto una denominazione unica le consonanti aspirate (p. es. ph, bh, th, dh), le spiranti (quali f, þ, ted. ch), le affricate (z = ts e pf) e la semplice aspirazione (h). E poi il concetto che noi abbiamo del consonantismo indoeuropeo è diverso, in parte, da quello che ne aveva il Grimm. Tutto considerato e tenuto conto della scoperta di K. Verner (Zeitschrift für vergl. Sprachforsch., XXIII, 1876-77) che spiegò un'intera serie di esempî ribelli alla "legge Grimm", le mutazioni germaniche delle consonanti indoeuropee (sempre facendo astrazione da particolari situazioni) si possono descrivere così: 1. Lee originarie occlusive tenui, semplici (p, t, k,) e aspirate (ph, th, kh), si mutarono in spiranti sorde (f, þ, χ) nel germanico comune. 2. ("Legge Verner"). Successivamente le spiranti sorde germaniche (f, þ, χ, s) divennero spiranti sonore (b, d, γ, z) ogni volta che, trovandosi nell'interno o in fine di parola, non erano precedute immediatamente dalla vocale su cui cadeva nella fase pregermanica l'accento della parola. 3. Le cosiddette medie aspirate indoeuropee (bh, dh, gh), di cui non sappiamo il preciso valore fonetico, sono altresì rappresentate in germanico da spiranti sonore (???, ß, γ). 4. Le originarie medie (b, d, g) si mutarono in germanico nelle tenui corrispondenti (p, t, k). Nelle singole lingue germaniche talune delle consonanti sorte da questi processi subirono ulteriori mutazioni che la grafia tradizionale non sempre riflette. Le mutazioni più numerose si ebbero nell'alto-tedesco, dove appunto si può parlare di un "secondo spostamento". Concludendo, è vero che le lingue germaniche hanno modificato profondamente il sistema delle consonanti indoeuropee, e che le modificazioni si svolsero con rigorosa precisione; però si tratta di processi fonetici che non si possono ridurre a una formula unica.
Si tentò di spiegare in varî modi l'origine e le cause della Lautverschiebung. Alcuni pensarono a un influsso dell'ambiente fisico sull'attività degli organi vocali (per es., H. Meyer-Benfey, in Zeitschr. f. deutsches Alt., XLV, 1901 e ultimamente J. Pokorny, in Wörter u. Sachen, XII, 1929). Altri (a cominciare da J. Grimm, Geschichte der deutschen Sprache, Lipsia 1848) vollero trovare la ragione del fatto fonetico nella psicologia del popolo germanico. Coloro i quali credono che il germanico sia un dialetto indoeuropeo adottato da una popolazione alloglotta sono indotti a vedere nella Lautverschiebung una reazione esercitata sul germanico dalla lingua (non indoeuropea) dei Protogermani (così per es., A. Meillet, Caractères généraux des langues germaniques, Parigi 1917, 3ª ed. 1926). Si può anche pensare a una reazione indiretta della lingua straniera sulle consonanti, ammettendo che da quella sia passato nel germanico l'accento d'intensità, da cui probabilmente dipende una parte delle mutazioni consonantiche (H. Hirt, Gesch. d. deutschen Sprache, Monaco 1919, 2ª ed. 1925 e T. . Karsten, op. cit.). Non occorre che i varî processi da noi compresi nella definizione di Lautverschiebung dipendano da una causa unica.
Il sistema vocalico era relativamente semplice nel germanico primitivo, causa la confusione di ŏ con ă e di ā con ō, la riduzione del dittongo ei a ī, e lo sviluppo di ŭ dalle nasali e liquide sonanti. Esso comprendeva le vocali a e ē i ī ō u ū ē2 (quest'ultima, d'origine oscura, rivelata dal trattamento diverso da quello dell'indoeuropeo ē nelle lingue nordiche e nelle occidentali) e i dittonghi ai, au, eu. Astraendo dalle sorti che vocali singole subiscono nelle varie lingue, la storia del vocalismo germanico presenta alcuni fatti d'ordine generale: eliminazione (o modificazione) di vocali atone determinata dall'accento intensivo della sillaba iniziale modificazioni per influsso della consonante seguente; modificazioni dovute all'azione assimilatrice esercitata dalla vocale di una sillaba vicina. Fatti che si svolgono diversamente nelle diverse lingue, ma che rispondono a tendenze risalenti al germanico comune.
In tutte le lingue germaniche l'accentuazione ha carattere fortemente espiratorio (accento d'intensità) e l'accento principale della parola, fuorché nei composti verbali, cade generalmente sulla prima sillaba. Che questo stato di cose abbia radici profonde nella storia, risulta, oltre che dall'accordo fra le lingue viventi, dal trattamento che subirono le vocali delle sillabe non iniziali, e riceve una conferma dalla metrica della più antica poesia germanica. L'accento indoeuropeo, invece, aveva carattere prevalentemente musicale, cioè consisteva in un'elevazione della voce in una data sillaba della parola: non era quindi propriamente un accento, ma un tono. E la sua posizione era libera, cioè non legata alla quantità d'una determinata sillaba, né vincolata dal numero delle sillabe componenti la parola. La legge Verner dimostra che l'accento germanico manteneva la posizione del tono indoeuropeo nel tempo in cui le spiranti sorde divennero, in parte, sonore. Al tono indoeuropeo il germanico dunque sostituì un accento di qualità ben diversa; e questo accento subì nel corso dei tempi uno spostamento di sede. Non è necessario che mutamento di qualità e spostamento si siano verificati contemporaneamente e per effetto d'una stessa causa; anzi è probabile che tra l'uno e l'altro fatto sia trascorso un notevole intervallo di tempo. Infatti, se l'aspirazione delle originarie tenui (che rappresenta l'inizio del processo che le ridusse a spiranti) fu determinata, come pare, dall'accento intensivo, questo era sorto in un tempo in cui le tenui erano ancora intatte. D'altra parte la legge Verner ci dà la certezza che la retrazione dell'accento sulla sillaba iniziale fu posteriore alla mutazione delle spiranti sorde in sonore. Essa poté essere, e verosimilmente fu, anteriore alla mutazione delle originarie medie in tenui, che da un complesso d'indizî ci appare come l'ultimo atto del "primo spostamento fonetico".
Morfologia. - La declinazione indoeuropea appare semplificata già nelle lingue germaniche antiche. Soltanto quattro casi (nominativo, accusativo, genitivo, dativo) sussistono in tutte; il vocativo è parzialmente conservato in gotico, lo strumentale nell'alto e basso tedesco antico; tracce di locativo serba l'antico inglese. I tre generi grammaticali sono conservati; dei tre numeri il duale, scomparso dalla declinazione dei nomi, sopravvive ancora nei pronomi di 1ª e 2ª persona. Sussistono le pnncipali classi dei temi nominali uscenti in vocali (temi in -o- > germ. -a-, in -ā- > germ. -ō-, in -i- e in -u-). I temi uscenti in nasale hanno avuto un largo sviluppo, mentre le altre serie dei temi consonantici sono scarsamente rappresentate. La riduzione delle forme nominali si accentuò nel corso dei tempi in tutte le lingue germaniche più o meno; così che, mentre il tedesco serba ancora le linee essenziali della declinazione, questa è quasi scomparsa dal moderno inglese. Uno dei tratti più caratteristici della morfologia germanica consiste nella creazione d'una speciale declinazione dell'aggettivo, in due forme che J. Grimm distinse coi nomi di "forte" e "debole". Questa segue il paradigma dei temi nominali uscenti in nasale; quella segue la declinazione dei temi vocalici modificata per l'innesto di alcune desinenze pronominali, come si può vedere dal seguente paradigma gotico (dove il corsivo indica le forme che serbano il tipo nominale, il maiuscoletto quelle con desinenze pronominali, e il tondo quelle con desinenza indifferente):
Nel verbo germanico il sistema dei tempi è ridotto all'opposizione tra presente e passato. Il futuro si forma perifrasticamente o si esprime per mezzo del presente. Dei modi indoeuropei sussiste, accanto all'indicativo e all'imperativo, l'ottativo sotto il nome di congiuntivo. Forme della voce media si conservarono, però con valore di passivo, soltanto in gotico e nel solo tempo presente. Nel solo verbo gotico sopravvive il duale. Tutti i verbi germanici - tranne pochi irregolari - si distribuiscono in due grandi gruppi, la cui differenza essenziale consiste nel diverso modo di formare il preterito e il participio passato. Il preterito dei verbi che da J. Grimm in poi si dicono "forti" corrisponde, per la forma, al perfetto indoeuropeo (salvo che, nel germanico occidentale, la 2ª persona singolare si forma da un tema di aoristo). Il participio passato si forma col suffisso -na- 〈 indoeur. -no-. La caratteristica dominante della coniugazione forte è la gradazione vocalica (apofonia). Per la diversa distribuzione dei gradi vocalici nel paradigma i verbi forti si distinguono in varie classi, di cui possono dare un'idea i seguenti esempî presi dalla lingua gotica (dove ei = ī, aí = ĕ, e aú = ŏ):
Una settima classe comprende un certo numero di verbi che in gotico formano il preterito col raddoppiamento (senza oppure con variazione di vocale): p. es. haitan (ted. heissen) pret. haíhait; lētan (ted. lassen) pret. laílōt. Nelle altre lingue germaniche il preterito dei verbi corrispondenti è caratterizzato da uno speciale grado vocalico la cui origine ha dato occasione a svariate ipotesi. Il preterito dei verbi "deboli" ha per esponente una dentale: p. es. got. sōkjan pret. ind. sōkida (ted. suchen suchte), salbōn salbōda (ted. salben salbte). È un tipo morfologico ignoto alle altre lingue indoeuropee, la cui storia forma uno dei più discussi problemi della linguistica germanica. La sua più probabile spiegazione è questa: che al tema verbale si sia associata e saldata una forma preteritale del verbo germanico corrispondente al ted. tun. La medesima dentale riappare nel part. pass. (got. sōkiþs, salbōþs, tema sōkida-, ecc.), dove essa rappresenta il suffisso d'aggettivo verbale (germ. -ßa- da indoeur. -tó-). In tutte le lingue germaniche esiste un certo numero di verbi che si dicono "preteriti-presenti" perché usano col valore di presente un antico perfetto, al quale hanno dato un nuovo preterito che segue la coniugazione dei preteriti deboli: p. es. got. witan "wissen", pres. ind. 1ª e 3ª pers. sing. wait, 1ª plur. witum, pret. ind. 1ª sing. wissa, ecc.; ant. isl. vita veit vitom vissa; ant. a. -ted. wizzan weiz wizzum wissa (wista) ecc. In questi verbi anche il germanico occidentale mostra nella 2ª persona sing. pres. ind. non una forma aoristica, ma il grado vocalico del perf. sing. e la desinenza -t, p. es. ant. ingl. wást, ant. sass. wêst, ant. a. -ted. weist.
Posizione del gruppo germanico entro la famiglia indoeuropea. - Il concetto d'una più stretta connessione fra germanico e slavo, espresso da J. K. Zeuss (Die Deutschen u. die Nachbarstämme, Monaco 1837) e da J. Grimm (Geschichte, ecc., 1848), trovò un deciso assertore in A. Schleicher (dal 1850 in poi). Allo Schleicher si deve la prima classificazione generale delle lingue indoeuropee, e in essa il germanico e il baltoslavo figurano come due rami usciti dal tronco "nordeuropeo". A. Fick (Vergl. Wörterbuch d. indog. Sprachen, Gottinga 1870-71) ammette pure una "unità slavo-tedesca" di cui cerca di ricostruire il lessico. Anche J. Schmidt (Die Verwandtschaftsverhältnisse d. indogerm. Sprachen, Weimar 1872), mentre dava, com'è noto, una nuova impostazione al problema delle relazioni tra i varî gruppi indoeuropei, non dubitava di affermare che "lo slavolettico a nessun'altra lingua europea è così prossimo parente come alla tedesca". Questo concetto è insostenibile: non perché ad accoglierlo formi un ostacolo insuperabile il fatto che nella distribuzione di tutte le lingue indoeuropee, secondo la dottrina corrente, in due vastissimi aggruppamenti lo slavo e il baltico rientrano fra le "lingue satem" e il germanico fra le "lingue kentum", ma per le notevoli divergenze che esistono fra i due tipi linguistici e soprattutto per l'assenza di concordanze significative, come dimostrò in una celebre monografia A. Leskien (Die Declination im Slavisch-Litauischen u. Germanischen, Lipsia 1876). Vanno dunque considerate soltanto le possibili relazioni del germanico con gli altri due gruppi indoeuropei dell'Europa occidentale: celtico e italico.
Le concordanze fra germanico e celtico si limitano quasi esclusivamente al lessico. In gran parte si tratta di prestiti celtici al germanico, che risalgono a un'epoca relativamente tarda (cioè al tempo della massima espansione e potenza dei Celti, fra il sec. V e il III a. C.) e rispecchiano un influsso culturale di Celti su Germani di cui serba il ricordo anche la storia. Rientrano qui: got. reiks "signore" (celt. *rīgs in Vercingetorīx, Caturīges e simili), got. andbahts, ant. ted. ambaht "servo" (gall. ambactos); got. eisarn, ant. isl. e ant. ted. īsarn "ferro" (gall. isarno, irl. iarn). Anche le numerose concordanze nell'onomastica dei due popoli sono il riflesso di contatti non molto antichi. Spesso è impossibile distinguere tra imprestito e parentela originaria. Del resto anche le voci che si presumono derivate al germanico e al celtico dal comune fondo indoeuropeo non bastano a dimostrare un più intimo nesso linguistico fra Celti e Germani in età preistorica. Innovazioni grammaticali comuni alle due lingue non si riscontrano o si riducono a qualche fatto isolato e perciò privo d'importanza. Tutto sommato, non si hanno elementi sufficienti a stabilire una particolare affinità germano-celtica. H. Hirt (Indogerm. Grammatik, I, Heidelberg 1927, p. 58 seg.) segnalò tra irlandese e germanico un certo numero di concordanze fonetiche, di cui la più caratteristica consiste nell'accento fortemente espiratorio e fisso sulla sillaba iniziale; ma tali concordanze, verificatesi senza dubbio in un tempo in cui tra le due lingue non esisteva alcun contatto, si spiegano meglio come effetto d'una reazione esercitata indipendentemente nell'uno e nell'altro territorio da un medesimo substrato alloglotto.
Più numerose e significative sono le concordanze fra germanico e italico. Le equazioni etimologiche (nuovamente raccolte e vagliate da H. Hirt, Etymologie der neuhochdeutschen Sprache, 2ª ed., Monaco 1921, p. 106 seg.) sono invero poco più numerose di quelle che furono segnalate tra germanico e celtico. Si notano però alcune formazioni caratteristiche, come il composto lat. commūnis, got. gamains, ted. gemein, e i numerali collettivi derivati per mezzo del suffisso -no- da avverbî moltiplicativi (*dwis, *tris): lat. bīnī, ternī, ant. isl. tuennr "duplice", þrennr "triplice" (cfr. ted. Zwirn, propriamente "doppio filo"). Né mancano concordanze nella struttura grammaticale, p. es. nella formazione del perfetto con raddoppiamento (lat. tetigi, tutudi, got. taítok, staístaud) o senza (lat. fūdi, fūgi, conīvi, verti, vīci, got. gaut, baug, hnaiw, warþ, waih) o con allungamento della vocale radicale (lat. ēdimus, ēmimus, sēdimus, vēnimus, got. ētum, nēmum, sētum, qēmum; lat. scābi. got. skōf); nei temi verbali uscenti in -ē- (lat. tacēre, got. þahan, ant. alto ted. dagên, lat. silēre, got. anasilan, lat. habēre, got. haban, ant. ted. habên); nel pronome lat. is, ea, id, got. is ija [acc. f.], ita. Queste e altre coincidenze che si potrebbero ricordare (v. p. es. Hirt, Indogerm. Gramm., I, 56 seg.) non bastano a dimostrare una preistorica unità linguistica germano-italica; ma si può senza temerità affermare che a nessun altro gruppo indoeuropeo il germanico si rivela così vicino come all'italico. Tuttavia il prohlema deve essere riesaminato anche in relazione con quello delle presunte affinità italo-celtiche, che da qualche tempo è divenuto oggetto di nuova discussione (v. celti).
Origine del germanico. - La sostanziale identità nella struttura grammaticale e nella formazione delle parole dimostra che le lingue germaniche si svolsero da una base comune, di cui la comparazione ci permette di ricostruire le linee fondamentali. Da un linguaggio, che possiamo chiamare germanico comune o primitivo (urgermanisch), dovevano differire ben poco le favelle parlate dalle varie stirpi germaniche negli ultimi secoli a. C. e all'inizio dell'era volgare. E poiché tutto ciò che sappiamo dei più antichi movimenti di quelle stirpi ci porta a collocare le più antiche sedi del popolo germanico in un territorio che comprende il nord dell'odierna Germania dall'Elba all'Oder (o al più dal Weser alla Vistola), l'odierna Danimarca e la Scandinavia (escluse le parti settentrionali), dobbiamo pensare che ivi il germanico sviluppasse le sue caratteristiche e iniziasse il suo differenziamento.
La comparazione insegna che il germanico è la continuazione d'un dialetto indoeuropeo, cioè derivato dallo stesso ceppo da cui si svolsero il latino, il greco, lo slavo. l'indiano e molte altre lingue d'Europa e d'Asia. Tra il germanico e il "pregermanico" (come chiamiamo il dialetto indoeuropeo destinato a divenire il germanico) non si può tirare una linea di confine. Possiamo convenire di chiamare germanica la lingua dei Germani a partire da un punto in cui aveva già acquistato il suo aspetto caratteristico. Si può ritenere che verso il 500 a. C. questa condizione fosse già raggiunta.
In che modo il germanico si svolse dall'indoeuropeo? Le risposte date a questa domanda si possono ridurre a due tesi fondamentalmente opposte. Da una parte si dice che il germanico è un dialetto indoeuropeo parlato da gente i cui progenitori parlavano un diverso linguaggio, e che al fatto di essere stato adottato da stranieri esso deve gran parte delle alterazioni cui andò soggetto. Gli argomenti che si adducono in favore di questa tesi - che oggi conta fra i più convinti sostenitori A. Meillet (op. cit.) e S. Feist (Indogermanen und Germanen, Halle 1914, 3ª ed. 1924) - sono principalmente: le profonde innovazioni fonetiche (accento intensivo e iniziale, mutazione consonantica); le gravi alterazioni del sistema grammaticale; il gran numero di vocaboli che non si spiegano con etimi indoeuropei. Su questo ultimo punto insiste particolarmente il Feist, il quale afferma che circa un terzo del lessico germanico non trova riscontro nelle lingue sorelle e rileva che in gran parte si tratta di voci relative a condizioni naturali, voci di cui facilmente si comprende la sopravvivenza nell'ambiente locale. La dottrina che spiega l'origine del germanico da sovrapposizione o mescolanza di lingue è suscettibile di sviluppi diversi. Ai Protogermani, razza nordica stanziata da tempi remoti nell'Europa boreale, il linguaggio indoeuropeo fu trasmesso, secondo il Feist, in epoca non molto antica (probabilmente nella prima metà del 1° millennio a. C.) da un popolo non identificabile storicamente né archeologicamente, che a sua volta lo aveva appreso da altri. Secondo il Karsten (op. cit.) genti indoeuropee raggiunsero l'Europa settentrionale non meno di 3000-2500 anni a. C., e vi trovarono una popolazione alloglotta a cui imposero la propria lingua. Questa, pur modificandosi per reazione della lingua soffocata, serbò il tipo originario, mentre dalla fusione dei due popoli si formò una nuova individualità etnica, quella che si dice germanica. H. Güntert (Wörter u. Sachen, X, 1927) pensa che il popolo indoeuropeo portatore del dialetto onde poi si svolse il germanico, migrando da oriente in direzione di nord-ovest, abbia incontrato differenti nuclei di autoctoni europei, le cui influenze sulla lingua sarebbero rispecchiate in diversi momenti dello "spostamento fonetico". Anche H. Hirt (Gesch., cit.) ritiene che talune alterazioni del germanico non si possano spiegare se non per influenza straniera, anche se non si riesce a precisare chi tale influenza abbia esercitato. Crede, per altro, che i Germani siano Indoeuropei rimasti in quelle che secondo lui furono le loro più antiche sedi, ma poi venuti in contatto e mescolatisi con genti alloglotte e forse anche assoggettati per alcun tempo da altri popoli, però di lingua indoeuropea. A tutte queste opinioni contrasta la tesi che afferma essere i Germani un popolo indoeuropeo che mai cambiò lingua. Questa si sviluppò per processi interni secondo una linea costante, serbando invariato il tipo originario; e gli elementi estranei nel lessico germanico non sono più abbondanti che in quello di altre lingue, poiché una sottile analisi etimologica scopre la radice indoeuropea di molti vocaboli creduti di provenienza straniera. I primitivi Indoeuropei, invece, avrebbero assorbito elementi etnici diversi e solo con riferimento a quelli si può parlare di un substrato allogeno (E. Prokosch, in Indogerm. Forsch., XXXIII, 1914 e in Germanic Review, I, 1926).
Come si vede, siamo ben lontani da un accordo fra gli studiosi, anche sul terreno puramente glottologico. Ma il problema linguistico s'intreccia al problema storico-archeologico e antropologico. E tutto il complesso problema delle origini germaniche s'inserisce poi nel più vasto problema delle origini indoeuropee e non può essere approfondito se non in relazione con quello (v. indoeuropei).
Bibl.: Opere generali: Un'enciclopedia germanistica in cui si fa larga parte alla storia delle lingue è il Grundriss der germanischen Philologie, fondato da H. Paul (Strasburgo 1891-93; 2ª ed. 1900-09; con la 3ª ed., iniziata nel 1911 sotto forma d'una serie di volumi indipendenti). Copiose informazioni anche filologiche ed etnografiche fornisce il Reallexikon der germanischen Altertumskunde, compilato sotto la direzione di J. Hoops (Strasburgo 1911-18).
Collezioni: Germanische Bibliothek, fondata da W. Streitberg (Heidelberg, dal 1896; comprende grammatiche scientifiche, dizionarî etimologici, studî monografici, edizioni di testi, ecc.): Sammlung kurzer Grammatiken germ. Dialekte, fondata da W. Braune (Halle, dal 1880: grammatiche storiche ricche di materiale, compendî gramm. e trattazioni varie); Quellen u. Forschungen zur Sprach- u. Kulturgeschichte d. germ. Völker, a cura di B. ten Brink, W. Scherer ed E. Martin (Strasburgo 1874-1918; sono 124 fascicoli su varî argomenti).
Storia della filologia germanica: R. v. Raumer, Geschichte d. germ. Philologie, Monaco 1870; H. Paul, con lo stesso titolo (nel vol. I del suo Grundriss); R. Bethge (e altri), Ergebnisse u. Fortschritte d. germanistischen Wissenschaft im letzten Vierteljahrhundert, Lipsia 1902. Da un punto di vista strettamente glottologico: W. Streitberg, Germanisch (di cui finora è uscita postuma, a cura di V. Michels, soltanto la prima metà), Berlino 1927. Circa gli studî linguistici più recenti informano C. Karstien, V. Michels e W. Horn nel volume in onore di W. Streitberg, Stand u. Aufgaben d. Sprachwissenschaft, Heidelberg 1924.
Sulle lingue e sui popoli germanici in generale: T. E. Karsten, Die Germanen, Berlino 1928; trad. franc. di F. Mossé, Les anciens Germains, Parigi 1931; R. Much, Deutsche Stammeskunde, 3ª ed., Berlino 1920. Ricordiamo pure, sebbene invecchiato: E. Förstemann, Geschichte d. deutschen Sprachstammes, Nordhausen 1874-75. - Sulla classificazione delle lingue germaniche: R. Loewe, Die ethnische u. sprachliche Gliederung der Germanen, Halle 1899.
Grammatica comparata e lessico: J. Grimm, Deutsche Grammatik, Gottinga 1819-37; nuova ed. curata da W. Scherer (I-II, Berlino 1870-78). G. Roethe ed E. Schroeder (III-IV, e Gütersloh 1890-98); W. Streitberg, Urgermanische Grammatik, Heidelberg 1896; F. Dieter (ed altri), Laut- u. Formenlehre d. altgerm. Dialekte, Lipsia 1900; R. Loewe, Germanische Sprachwissenschaft, Lipsia 1905; 3ª ed., Berlino 1922-24; R. C. Boer, Oergermaansche Handboek, Haarlem 1918; 2ª ed. 1924; H. Hirt, Handbuch des Urgermanischen, Heidelberg 1931-32; A. Noreen, Abriss d. urgerman. Lautlehre, Strasburgo 1894. - Della copiosissima letteratura relativa alla Lautverschiebung ha fatto un'esposizione critica W. S. Russer, De germansche klankverschuiving, Haarlem 1931. - Sulla vessata questione del preterito debole: H. Collitz, Das schwache Präteritum u. seine Vorgeschichte, Gottinga 1912; J. Sverdrup, in Norsk Tidss. f. Sprogvidenskap, II, 1929. - Importanti saggi di sintassi comparata germanica lasciò B. Delbrück, Synkretismus, Strasburgo 1907, e Germ. Syntax, Lipsia 1910-19.
Il lessico germanico antico è studiato nel suo complesso da A. Torp e H. Falk, Wortschatz d. germ. Spracheinheit, Gottinga 1909; forma il vol. III del Vergl. Wörterbuch d. indog. Sprachen di A. Fick, 4ª ed. - Sull'onomastica germanica secondo le fonti classiche e sulle voci penetrate in latino: M. Schönfeld, Wörterbuch d. altgerm. Personen- u. Völkernamen, Heidelberg 1911; J. Brüch, Der Einfluss. d. germ. Sprachen auf das Vulgärlatein, ivi 1913.
Sui prestiti germanici alle lingue finniche, dopo che la via giusta fu segnata all'indagine da V. Thomsen (Den gotiske Sprogklasses indflydelse paa den finske, Copenaghen 1869; trad. ted. di E. Sievers, Über den Einfluss d. germ. Sprachen auf die finnisch-lappischen, Halle 1870), le ricerche si moltiplicarono, sì che E. N. Setälä poté redigere un ampio Bibliographisches Verzeichnis der in der Literatur behandelten älteren germ. Bestandteile in den ostseefinn. Sprachen, Helsingfors 1913. Indichiamo soltanto i principali lavori dello stesso Setälä, (Zur Herkunft u. Chronologie d. älteren germ. Lehnwörter in den ostseef. Sprachen, Helsingfors 1906), di K. B. Wiklund (in Le Monde Oriental, V, 1911 e Indog. Forsch., XXXVIII, 1917; Lappische Studien, Upsala 1927) e di T. E. Karsten (Germanisch-Finnische Lehnwortstudien, Helsingfors 1915; Fragen aus dem Gebiete d. germ.-finn. Berührungen, ivi 1922; ed in Acta philol. Scand., I, 1926 e Germ.-rom. Monatss., XVI, 1928), e per il loro carattere informativo altri due scritti del Karsten (Germ.-rom. Mon., VI, 1914) e del Wiklund (Indog. Jahrbuch, V, 1918). Due brevi scritti vanno pure segnalati, l'uno come indice di reazione alle idee correnti (A. Senn, in Journal of E. a. Germ. Phil., XXX, 1931), l'altro in quanto esprime un'idea del tutto nuova (S. Feist, in Donum natalicium Schrijnen, Nimega 1929). - A. Senn, Germanische Lehnwortstudien, Heidelberg 1925, trattò anche i prestiti alle lingue baltiche e slave. - Sui più antichi prestiti germanici allo slavo l'opera fondamentale è ormai quella di A. Stender-Petersen, Slavisch-germ. Lehnwortkunde, Göteborg 1927.
Mitologia e religione.
Caratteri generali e fonti. - Lo studio della religione e della mitologia germanica abbraccia, in senso largo, le credenze religiose di tutte le popolazioni di razza germanica innanzi la loro conversione al cristianesimo: esso comprende pertanto anche tutto quell'insieme di miti e di leggende, sviluppatisi indipendentemente presso i popoli scandinavi, che vanno sotto il nome di mitologia nordica. Conviene peraltro stabilire subito la differenza profonda che passa tra questa e la mitologia che potremo dire comune. Mentre in passato era usuale attingere largamente ai numerosi e cospicui documenti letterarî che conservano le tradizioni immediate della mitologia nordica, come a fonti genuine per la ricostruzione delle credenze del paganesimo germanico, l'indagine scientifica degli ultimi tempi ha dimostrato che codesti documenti non offrono se non un esiguo corredo di credenze popolari autentiche, e che tutto il rimanente non è che elemento d'importazione straniera, cristiano o classico, elaborato dai poeti degli ultimi anni del paganesimo o anche dei primi tempi dopo la conversione. Per comprendere come ciò abbia potuto avvenire, conviene ricordare che il cristianesimo non penetrò simultaneamente in tutte le regioni dell'abitato germanico, ma, mentre i Franchi erano già nominalmente cristiani alla fine del sec. V, il capitolare di Paderborn del 785 stabiliva la pena di morte per quei Sassoni che non volessero accettare il battesimo; si giunse poi al sec. XI prima che la Norvegia e l'Islanda abbracciassero ufficialmente la nuova fede, mentre intorno a quel tempo in Svezia era ancora in piedi in tutto il suo splendore il tempio pagano di Upsala. Colà pertanto le credenze e le concezioni primitive poterono non solo evolversi ulteriormente, ma arricchirsi di tutti quegli elementi che senza dubbio pervenivano a quelle genti dai contatti che, fin dal tempo di Carlo Magno, i Vichinghi avevano coi popoli già convertiti delle coste della Francia e dell'Inghilterra. Oltre a ciò, bisogna ancora riflettere al modo con cui fu, nelle diverse regioni germaniche, esercitata la propaganda cristiana e compiuta la conversione. Dove la predicazione venne esercitata indipendentemente da qualsiasi fine politico, come fu presso gli Anglosassoni e gli Scandinavi, essa procedette lenta e con la massima transigenza, quasi con l'assidua cura di non urtare troppo violentemente contro le credenze e le usanze pagane. Nei paesi, invece, ove la propaganda cristiana si era associata, integrandola, all'opera di soggezione politica, come segnatamente fu presso i Frisî e i Sassoni, ivi ogni cosa che appartenesse alla religione primitiva venne distrutto o soffocato con la massima energia. Questi due fatti spiegano come le fonti, sulle quali noi possiamo oggi ricostruire la religione e la mitologia germanica, abbiano nelle varie regioni ricchezza, purezza e attendibilità così diverse.
Le principali tra queste fonti sono anzitutto le opere degli scrittori dell'antichità, Cesare, Tacito, Plutarco, Appiano, Svetonio, Orosio, Ammiano Marcellino e altri; ma le notizie che tali fonti ci offrono mancano spesso di precisione e sono molte volte superficiali, essendo l'interpretatio romana delle divinità stabilita di regola sulle esteriorità del culto o, nel migliore dei casi, sulla somiglianza della rappresentazione complessiva. I documenti diretti, cioè i reperti archeologici dell'epoca precristiana, come sarebbero gli altari e le pietre votive, hanno scarso valore, perché ciò che vi si può leggere è spesso oscuro e si presta alle più svariate interpretazioni. Non sempre attendibili sono le opere degli scrittori cristiani, cioè le Vitae dei missionarî, S. Colombano, S. Gallo, S. Bonifacio, ecc., che talvolta si occupano particolareggiatamente delle usanze pagane, perché sono composte da uomini ostili per principio al paganesimo e quindi esposti a esagerare o a tacere; e lo stesso si dica delle leggi ecclesiastiche, delle ordinanze dei concilî, delle bolle papali, delle prediche, delle formule di abiura, ecc.; come pure non sempre sono in tutto degni di fede gli storici cristiani delle stirpi germaniche, Giordane, Gregorio di Tours, Paolo Diacono, Beda, ecc. A quasi nulla poi si riducono per i Germani Occidentali le notizie dirette, poiché i documenti letterarî a noi pervenuti, i quali conservino la veste e lo spirito del paganesimo, si esauriscono con qualche formula magica e con qualche espressione di significato controverso. Di fronte a queste stanno le ricchissime fonti dirette della mitologia nordica, cioè tutta la letteratura poetica e prosaica dell'antico nordico, le canzoni della cosiddetta Edda (v.) e la poesia degli Scaldi, l'Edda in prosa di Snorre Sturluson, le saghe e la storiografia, in cui si trova sviluppata organicamente una complessa saga divina ed è pur fissata una compiuta dottrina cosmogonica ed escatologica. Ma, come si disse, per l'età relativamente recente di alcuni fra i più importanti di tali documenti, che in passato si ritenevano antichissimi, e per numerose altre prove che ne dimostrano la contaminazione, la materia in essi contenuta è da ritenersi in gran parte una speciale formazione, costituita da sviluppi poetici dei motivi antichi, mescolati ai più varî elementi stranieri, affatto indipendente perciò dalle credenze comuni e anche da quelle popolari del popolo nordico.
Per l'ampiezza del territorio geografico e del periodo cronologico ch'esso abbraccia, e per le diverse vicende della storia nei primi dieci secoli dell'era nostra, il paganesimo germanico presenta dunque un quadro di straordinaria varietà nello stato delle credenze e nello sviluppo dei miti, spesso scarsamente o erroneamente testimoniato; onde il generalizzare è sommamente pericoloso; nella storia di nessuna religione, forse, sono così pochi i dati accertati.
Gli dei. - Poche idee religiose i popoli germanici hanno conservato dall'antichità aria; e forse tre sole figure possiamo dire con certezza che fossero comuni a tutto il ceppo germanico: un dio celeste del tuono, che poi si sdoppiò in due distinte figure, Ziu e Donar, e una divinità femminile; tutto il rimanente pare essere stata formazione separata delle singole popolazioni a riflesso dei loro diversi destini nell'età delle migrazioni. Al pari della più antica poesia, anche la fede germanica ha, in generale, un carattere eminentemente guerriero, come quella di genti la cui vita veniva continuamente decisa dalle sorti delle battaglie, e la cui storia presenta per secoli un quadro tragico di sconvolgimenti e conflitti. Più tardi, e solo in certi paesi, alcune divinità appaiono pacifiche e ausiliatrici degli uomini dediti all'agricoltura e alle industrie tranquille.
È da ritenere che gli dei germanici fossero dapprima immaginati immortali, non potendosi generalizzare la concezione puramente nordica della loro fine nel cosiddetto crepuscolo, la quale è connessa con la fine del mondo per mezzo del fuoco, concetto d'origine straniera. Come in tutte le religioni, gli dei germanici sono dotati di molte qualità umane; la loro vita trascorre come quella degli uomini in terra, nelle medesime occupazioni, con gli stessi dolori e le stesse gioie; la loro sede è generalmente il cielo o le alte montagne. Ma intorno alla loro eternità e all'attività creatrice di taluno di essi è necessario osservare che la più antica tradizione germanica non sa nulla di una creazione del mondo nel senso della Genesi ebraica. Secondo il mito pagano la materia è sempre esistita: gli dei sono piuttosto gli ordinatori che i creatori del mondo, essi stanno non già al principio della creazione, bensi all'inizio della storia, e sono i fondatori della civiltà germanica. Quanto alla loro potenza, abbiamo notizie disparate: essi sono talvolta indipendenti dal destino, personificato talora nella Wurd e nel settentrione nelle tre Norne (v.), manifesta imitazione delle Parche; ma talvolta essi pure vi sono sottomessi al pari di qualunque mortale; i loro rapporti sono insomma simili a quelli delle divinità greche con la Moira.
Anche per quanto riguarda la gerarchia divina, abbiamo notizie diverse, poiché nel corso dei secoli e presso le varie popolazioni il primo posto non fu sempre attribuito alla medesima divinità.
La denominazione comune della divinità nelle lingue germaniche (gotico gud, antico nordico god, gud, anglosass. god, antico alto-ted. got, ecc.) non ha avuto una sicura spiegazione del suo significato etimologico; secondo alcuni forse al vocabolo non è estranea una radice gheu, ghu, usata nel sanscrito e nell'avestico in senso sacrale per indicare l'implorazione degli dei, poiché il culto era indivisibile dall'idea della divinità. Il vocabolo era dapprima di genere neutro e indicava il numen in generale; quando poi l'idea della neutralità scomparve e fu sostituita dal genere maschile, avvenne pure la formazione del femminile; la parola per "dea" si trova peraltro solo presso i Germani occidentali; nel nord essa ha pure il significato di sacerdotessa. Un altro nome collettivo degli dei, comune a tutte le lingue germaniche, è Asi, parola identica al gotico ansiz, che lo storico Giordane traduce con semidei: e significava, in origine, dio o dea, ma poi nella poesia settentrionale venne ad assumere il senso di una particolare classe di dei, contrapposta a quella dei Vani. Il numero degli dei fu dai poeti del settentrione fissato ora a 8 ora a 14 o 12: quest'ultimo numero è certamente una derivazione straniera, o prodotto dal sistema dodecalogico dell'antichità, o, più probabilmente, dal numero degli apostoli o dei mesi. La mitologia comune originaria non sa nulla di un qualsiasi numero fisso, benché numerose testimonianze ci parlino di tre divinità principali, che sembra venissero venerate dalla maggior parte delle popolazioni germaniche.
Già Tacito fa menzione del culto di tre dei, ai quali egli dà il nome di divinità romane corrispondenti per alcuni attributi, cioè Mercurio, Giove e Marte; e delle tre stesse divinità parla pure una formula di abiura sassone della fine del sec. VIII, che contiene i nomi degli dei a cui i catecumeni dovevano rinunciare ricevendo il battesimo: Thuner ende Wôde ende Saxnôte, cioè Donar, Wodan e Ziu.
Il più antico è certo Ziu, nella formula soprannominato Saxnôt "portatore di spada", e che nel Nord fu detto Tyr. È l'originario dio celeste dell'antichità aria, comune (come dimostra la concordanza etimologica) a tutti i popoli indoeuropei; ma il suo culto fiorì presso i Germani in tempi più remoti di quelli dai quali ci pervennero notizie storiche: nel consorzio degli dei germanici noi lo troviamo allorché egli ha già ceduto la primitiva sovranità ad altra divinità di formazione più recente, ed ha assunto i caratteri e gli attributi di un dio della guerra, per cui l'interpretatio romana lo rese con Marte e in tutte le lingue germaniche il vocabolo corrispondente a "martedì" è formato col suo nome. Al tempo di Tacito, che lo chiama regnator omnium deus, egli godeva tuttavia un culto particolare presso i Tencteri e i Semnoni; anche gli Ermunduri e i Catti lo veneravano e gli offrivano sacrifici, e i Goti appendevano le armi conquistate agli alberi del boschetto a lui sacro. Del suo culto presso i Frisî fa fede un reperto archeologico scoperto nel 1883 a Housesteads, presso il vallo d'Adriano in Inghilterra, ove era una colonia militare formata in gran parte da Frisî (cuneus Frisiorum), i quali dedicarono al dio alcuni altari su cui si legge: deo Marti e deo Marti Thingso; Thingsus pare derivato da thing "riunione", e sarebbe quindi da intendersi come epiteto del dio nella sua qualità di protettore della colonia militare. Nel settentrione è figlio di Hymir, più tardi di Odino stesso, ed è rappresentato insieme come oltremodo valoroso e sapiente.
Tacito rammenta ancora l'adorazione di Ercole, cioè Donar (v. thor), identificato nell'interpretatio romana posteriore con Giove (tutte le lingue germaniche formarono col nome di Donar il vocabolo per "giovedì") e menzionato in un Indiculus superstitionum et paganiarum, del sec. VIII, dove sono elencate le azioni esteriori del culto pagano, alle quali dovevano fare attenzione i missionarî: de sacris Mercurii vel Iovis. Signore del tuono, che largisce la pioggia fecondatrice, esso divenne il dio patrio e familiare, protettore della casa, della proprietà e della nazione. Presso i Germani del mezzogiorno egli occupò sempre un posto secondario e fu dapprima inferiore a Ziu, quindi a Wodan. Ma nel nord, ove ebbe il nome di Thor, esso diventò il più grande e il più potente, e nella Svezia fu superiore anche allo stesso Odino. Nel tempio di Upsala, secondo Adamo da Brema, il simulacro di Thor occupava il primo posto fra Wodan e Freyr. Come simbolo ed arma porta un martello a manico corto che irresistibilmente schiaccia; quand'egli lo brandisce non v'è gigante, per quanto immane ed astuto, non v'è dio malefico, per quanto potente, che non debba soccombere. Donar è la personificazione della forza materiale usata in difesa dei deboli e congiunta a una rude e paziente bontà; la sua figura è quella di un bell'uomo alto e robusto e dalla lunga barba rossa, sempre pronto ad accorrere ove il bisogno lo chiami. È il più germanico di tutti gli dei, quello che anche nel settentrione, dove pure sono così numerosi gli elementi venuti più tardi dal difuori, ottenne la sua massima idealizzazione senza gli arabeschi della cultura straniera. Fedele dio del popolo comune, egli forma un netto contrasto con Odino, ch'è il dio sapiente, aristocratico e cavalleresco.
Presso i popoli della Germania propriamente detta il primo posto fu certo tenuto da Wodan, il terzo dei sommi dei menzionati da Tacito, il quale lo identifica con Mercurio. Esso è originariamente una divinità del turbine, la divinizzazione di quel più antico demone Wode, il condottiero, che, avvolto nel mantello e coperto di un ampio cappello, guida nelle notti di tempesta la caccia selvaggia, cioè la schiera delle anime dei trapassati, e le riconduce quindi nel grembo delle montagne. Troneggia in cielo accanto alla moglie Frija ed è anche il dio delle battaglie che largisce la vittoria. Nel settentrione ebbe il nome di Odino e intorno a lui si sviluppò un ricco complesso di leggende che lo rappresentano come dotato di grande sapere, di scaltrezza, di smania di avventure, di spirito poetico. Signore della guerra, egli accoglie, come suoi figli adottivi, i morti in battaglia nel meraviglioso Valhalla ove s'intrattengono lietamente in esercizî guerreschi e in sontuosi banchetti, allietati dal sorriso delle Valchirie. Il suo nome restò in quasi tutte le lingue germaniche nella parola "mercoledì". La mancanza di un termine simile presso i Germani del mezzogiorno fa supporre che, al tempo dell'introduzione dei nomi latini, essi non conoscessero una divinità corrispondente a Wodan.
Fra le divinità femminili, in generale creazioni posteriori agli dei, occupa il primo posto Frija che sembra però avere la sua origine in epoca pregermanica. Simbolo dapprima della femmina amante degli dei, divenne in seguito la compagna e moglie del dio supremo, cioè di Ziu (Tyr, Tiuz) e quindi di Odino, del quale condivide la potenza e la sapienza. Essa godeva certamente venerazione presso tutti i popoli germanici, dacché il nome per "venerdì" è ovunque formato col suo nome. Nel settentrione è chiamata Frigg ed è la dea della felicità maritale, la signora della casa. Un'altra dea il cui culto restò limitato al settentrione è Freyja sorella di Freyr, la quale appare talvolta al posto di Frigg come sposa di Odino. Il suo principale attributo è un prezioso collare detto Brisingamen, che è però comune anche a Frigg; e comune alle due è anche il carattere della fornicazione, il quale però, data l'abituale austerità e costumatezza delle dee della mitologia germanica, è probabilmente d'importazione straniera e derivato dalla Venere latina. Freyja e Freyr sono figlie di Njord e non appartengono alla stirpe degli Asi, ma dei Vani, stirpe altrettanto potente, sebbene più barbara e rozza, con la quale gli Asi vennero a guerra. In base alle concordanze linguistiche, Njord ha certamente rapporto con la dea Nerthus, menzionata da Tacito, la quale rappresenta la Madre Terra; essa aveva un suo santuario in un'isola deserta dove era custodito il carro su cui essa veniva portata in giro con grandissima solennità: con rito analogo si onorava Freyr nella Svezia.
Pochissimo ci è dato di conoscere intorno ad altre divinità femminili, i cui nomi si trovano negli scrittori latini o in antiche iscrizioni, come la marsia Tanfana, il cui tempio, secondo Tacito, sarebbe stato raso al suolo da Germanico nell'anno 14, la frisa Baduhenna a cui, secondo lo stesso storico, nell'anno 28 sarebbe stato sacro un boschetto; le due Alaisiagae, Beda e Fimila, di cui parla l'iscrizione di Mars Thingsus (v. sopra), la dea Hludana, di iscrizioni romane trovate presso il basso Reno; Nehalennia, di cui si ritrovarono altari sulla costa batavica e nell'isola di Wacheren, e che è forse quella da Tacito identificata con Iside.
Anche presso i Germani, come presso molti altri popoli, troviamo accenni di un culto rudimentale delle anime, più sviluppato nel settentrione, che s'immaginavano abitare nella profondità delle acque o nelle caverne dei monti, oppure negli spazî dell'aria: in determinate epoche, si credeva udire la schiera di queste anime passare rombando sotto la guida di Wodan; e parte importante nelle credenze popolari hanno numerosi e varî esseri soprannaturali di natura demoniaca, che si possono dividere nelle due categorie dei Giganti e degli Elfi: personificazione i primi delle forze naturali nemiche, mentre i secondi, nani, gnomi e coboldi, rappresentano in generale le potenze benigne ed ausiliatrici. Benché i due concetti siano certamente antichissimi, e nella mitologia nordica i giganti concorrano alla formazione del mito divino, poche notizie dirette abbiamo dalle fonti precristiane; ricchissime sono invece quelle della leggenda popolare medievale. Ma nella mitologia nordica, oltre alle divinità principali, il cui culto è stato certamente comune alle altre regioni germaniche, ne ritroviamo altre caratteristiche, la cui origine non può ricercarsi se non in elementi posteriori all'età del paganesimo. La più importante fra queste divinità, che non hanno alcuna attinenza con la religione primitiva, è Balder, il bianco dio, il cui tragico destino è il fatale preludio della fine del mondo e degli dei, e il cui mito ha forse origine, più che in un mito solare delle stagioni, in una primitiva leggenda eroica a cui si sovrapposero più tardi i motivi della vita di Cristo. Creazioni particolari e relativamente recenti della mitologia nordica sono pure Widar, che nella battaglia finale vendica il padre Odino, uccidendo il lupo Fenrir, Wali che vendica Balder abbattendo Hodr; Hönir che è presente con Odino alla creazione del mondo e che è fra i pochi che risorgono dopo la catastrofe finale: figura strana e difficilmente spiegabile, al pari di quella di Heimdall, il guardiano del ponte celeste che conduce dalla terra al cielo; Bragi, dio dell'arte poetica, figlio di Odino e marito di Idun, il quale è forse una divinizzazione dell'antico scaldo norvegese Bragi Boddason, vissuto intorno all'800.
Agli Asi benigni si oppone, nella mitologia nordica, Loki, dio e demone nello stesso tempo. Egli è però una pura creazione dell'arte settentrionale, intimamente connessa con la fine del mondo, certo una derivazione di Lucifero, sotto l'influenza del quale sta tutto il suo mito. Una divinità che personificasse il genio del male non conoscevano i Germani prima della conversione al cristianesimo; nella citata formula di abiura sassone la parola "diavolo" è data nella forma latina, evidentemente per la mancanza di una corrispondente voce volgare, e il vocabolo unaholda, con cui le Glossae Keronis del sec. VIII rendono il latino diabolus, è termine generico e significa anche "strega". Figlia di Loki è Hel, dea della morte e del mondo sotterraneo, a cui tutti gli uomini e gli dei stessi, concepiti come mortali, dovevano giungere, prima che si creasse per i morti di ferro il Walhalla, in base al concetto che non la vita e le opere compiute, ma la specie della morte decideva del destino delle anime.
Escatologia e cosmologia. - Quest'idea di un luogo sotterraneo che accoglie le anime dei trapassati e al quale conduce un lungo cammino è antica e comune a tutte le popolazioni germaniche, come attestano i numerosi vocaboli, documentati dai diversi dialetti, connessi con la voce hel; ma essi hanno però solamente il significato locale come gehenna, infernus, ᾅδης, mentre nel mito settentrionale prevale il senso personale, che è indubbiamente posteriore. Antico è forse anche il concetto di una resurrezione dopo la morte, se prestiamo fede alla notizia di Appiano, secondo cui i Germani di Ariovisto combattevano con tanto valore, perché speravano di rinascere; né mancano, nella letteratura del settentrione, accenni alla fede in una rinascita nel senso della metempsicosi.
L'infiltrazione straniera nella mitologia nordica appare ancor meglio nelle teorie cosmogoniche e sulla fine del mondo, le quali non sono spiegabili con le rappresentazioni mitologiche pagane, ma sono quasi interamente trasformazioni di motivi stranieri, adattati alle condizioni locali e rivestiti della lingua mitica degli scaldi.
Anche gli altri popoli germanici antichi ebbero certamente delle vaghe e indeterminate idee sull'origine degli dei e delle stirpi. Tacito stesso racconta che i Germani dei tempi suoi celebravano il dio aborigeno Tuisto che aveva generato Mannus, padre dei tre capostipiti degli Ingevoni, Erminoni, Istevoni; ma codeste idee sono naturalmente ben lungi da quelle che vennero sistemate nel settentrione. Nessun cenno sicuro poi si ritrova nelle fonti germaniche di una determinata cosmogonia, e nessun parallelo si può stabilire sicuramente con la concezione nordica della fine del mondo, che è quella che conferisce alla mitologia di quei popoli una particolare grandiosità. In tale mitologia, per opera in parte del popolo, in parte dei poeti, le idee della creazione e della fine del mondo formano una vera e propria dottrina teogonica ed escatologica compresa in un grande quadro che contiene i singoli miti, come singole azioni dello spaventoso dramma universale. In questo quadro però sono innumerevoli gli elementi ornativi stranieri e addirittura stridente è il concetto di un nuovo mondo di pace, di un Dio onnipossente che appare all'ultimo giudizio; figurazioni rimaste sempre estranee al destino degli dei del paganesimo germanico.
Nel principio del tempo era il caos, lo spazio vuoto; all'estremità settentrionale di esso si formò il paese della nebbia e del gelo, Niflheim, al sud il regno del fuoco e della luce, Muspelheim. Nel Niflheim era una fontana, onde si riversavano dodici fiumane che si agghiacciavano a mano a mano che si allontanavano dalla sorgente; così sorsero i ghiacci immani che riempirono la metà settentrionale dell'immenso caos. Ma il vento caldo che soffiava dal Muspelheim disciolse il ghiaccio e nacque una figura umana, Ymir, il padre di una stirpe di giganti del gelo. Dal ghiaccio nacque ancora la vacca Audumbla, che col suo latte nutrì Ymir. Essa si nutriva a sua volta leccando i massi del ghiaccio, che erano salati; e il primo giorno uscirono dal ghiaccio i capelli di un uomo, il secondo giorno la testa, il terzo giorno un uomo intero. Questi è Buri che generò Bor, il quale ebbe tre figli, Odino, Vili e Ve, cioè i primi Asi. I figli di Bor uccisero l'antico Ymir e crearono con esso il mondo: con la carne la terra, col sangue il mare, con le ossa le montagne, coi denti le pietre, col cranio il cielo, coi capelli gli alberi, col cervello le nuvole; con le scintille provenienti dal Muspelheim fecero gli astri e li posero in cielo. La terra rotonda era circondata da un mare profondo, alla cui riva abitavano i giganti; per proteggere da questi la terra, fabbricarono la fortezza di Midgard. Sulla riva del mare i tre Asi fratelli trovarono un giorno due alberi: li animarono e fecero i due primi uomini, Ask ed Embla. Gli Asi stessi fabbricarono per sé nel cielo il castello di Asgard, legato alla terra per mezzo del ponte Bifröst; nel cortile di questo castello, Idafeld, gli Asi convenivano a consiglio e a banchetto. Per lungo tempo vissero gli Asi una vita di gioie nell'età dell'oro; ma un giorno arrivarono in Asgard tre giovani gigantesse, oltre ogni dire potenti, e col loro apparire si chiude la bella età della gioia e della pace. Dopo l'episodio della Gullweig, la splendida Vana maltrattata dagli Asi, viene la guerra di questi coi Vani e quindi degli Asi coi giganti, le oscure potenze avversarie, sempre vigili contro il consorzio celeste e gli uomini, nella speranza di poter ricondurre nel mondo il primitivo caos. Finita la guerra coi Vani e pattuita la pace, gli Asi fanno bensì ricostruire dal gigantesco architetto il loro splendido Asgard, ma il loro destino si offusca dal giorno in cui Loki ottiene con l'astuzia la morte del giusto Balder. Allora gli eventi precipitano verso il crepuscolo degli dei (v.), la catastrofe finale che si conclude con una furibonda battaglia, con la morte degli dei e con l'incendio del mondo, dopo il quale soltanto Balder e pochi altri privilegiati risorgono mentre dall'alto giunge l'onnipossente Signore al giudizio supremo.
In queste teorie cosmogoniche ed escatologiche, ove qualche cosa è veramente ed indiscutibilmente figurazione comune germanica, come i tratti fondamentali della struttura dell'universo, la denominazione di Midgard data alla terra, l'attività organizzatrice degli dei, la sede di questi nel cielo, importerebbe stabilire quanto è puramente nordico, e quanto è invece straniero e sorto per l'influsso del cristianesimo, come ad esempio l'intero mito di Balder. Specialmente la creazione degli uomini da parte delle tre divinità animando i due alberi, precisamente un olmo e un frassino, è una copia fedele di elementi cristiani: Odino è il dio padre; Vili "voluntas, velle", come gli scrittori ecclesiastici chiamarono Cristo; Ve "santo", è lo Spirito. Come i membri della Trinità cristiana nella creazione dell'uomo infondono, il Padre lo spiraculum vitae, Cristo l'intellectus, e lo Spirito santo il calor, la vis quae omnia inspirando vivificat et ornat, così gli dei nordici conferiscono le medesime qualità dell'atto della creazione, come si legge nella Völuspá. La vacca che lecca i massi di ghiaccio, da cui esce il progenitore di una stirpe di giganti, il mondo costruito con le membra di un gigante primitivo, e altri episodî della cosmogonia, hanno tutta l'apparenza di speculazioni orientali diffusesi col cristianesimo, mentre riflettono altresì le note speculazioni sui rapporti fra macrocosmo e microcosmo. Pagano, anzi nordico, è il riferimento della fine alle divinità anziché agli uomini e la concezione stessa della fine come un giorno di battaglia, ma la maggior parte delle figurazioni del crepuscolo degli dei sono inesplicabili con lo spirito delle credenze pagane: il disegno generale del quadro e i motivi principali, specialmente l'incendio universale, la resurrezione e la comparsa del Dio onnipotente, sono figurazioni imitate dalle idee giudaico-cristiane sulla fine del mondo.
L'imitazione tuttavia non è servile; la mitologia nordica si è appropriata gli elementi stranieri fondendoli coi proprî in un insieme che non potrebbe essere più armonico, e la poesia che la rispecchia rimane pur sempre di straordinaria freschezza e sublimità ed è "la fine che corona splendidamente la storia dello sviluppo della fede pagana". Forse a ragione afferma taluno che la forza creatrice della fantasia settentrionale appare ancor maggiore, ammettendo che ciò a cui essa ha così bene trasfuso il suo spirito e che ha così convenientemente rivestito del suo abito tradizionale è il prodotto di una cultura straniera. Solamente non bisogna credere che una così complicata e conchiusa leggenda divina fosse comune anche ai Germani del mezzogiomo, presso i quali le idee religiose restarono assai più semplici e primitive, soffocate, molto prima che nei paesi settentrionali, dalla religione cristiana.
Il culto. - Le cerimonie del culto degli antichi Germani, su cui si sa poco, erano semplicissime, come semplici erano in origine i templi, che in remota età perfino mancavano, praticando essi la venerazione dei loro dei nell'ombra dei sacri boschi: come ci informa Tacito: ceterum nec cohibere parietibus deos, neque in ullam humani oris speciem assimulare ex magnitudine caelestium arbitrantur: lucos ac nemora consecrant, deorumque nominibus appellant secretum illud, quod sola reverentia vident (Tac., Germ., 9). Dunque in origine non avevano nemmeno immagini sacre, benché lo stesso storico, parlando della dea Nerthus, dica che il suo sacerdote deam templo reddat, e della dea Tanfana racconti che templum... solo aequatur, e si trovino qua e là testimonianze di rozzi idoli di legno, come presso i Goti del sec. IV, in cui Atanarico fece condurre in giro una statua sopra un carro con l'ordine che tutti dovessero inginocchiarsi davanti a essa offrendo sacrifici; e, al dire dell'autore della Vita di Willehado, i Frisî avevano lapides, simulacra muta et surda. Né si può ammettere che esistesse dovunque una casta costituita di sacerdoti e di sacerdotesse, come più tardi nel settentrione, dove anche l'arte della fabbricazione dei templi si sviluppò talmente, che i santuarî giunsero a vera e propria magnificenza esteriore e interiore. Un esempio ne abbiamo nel tempio di Upsala, di cui racconta Adamo da Brema essere stato totum ex auro paratum, e sussisté, col suo germanico albero simbolico e la sua misteriosa fontana dove venivano immersi i cadaveri delle vittime offerte agli dei, fin oltre il sec. XI. Anche il culto delle immagini degenerò siffattamente nel settentrione, che verso la fine del paganesimo, cioè nel sec. X, non si faceva più distinzione alcuna tra divinità e immagini, adornate con grandissimo lusso d'oro e d'argento. Dagli scritti dei missionarî apprendiamo anche che a certi idoli, come a quello di Thor in Hunthrop, si ponevano davanti i cibi affinché li mangiasse, e che l'immagine dello stesso dio a Raudsey andava, secondo la credenza dei pagani, a passeggiare fuori del suo tempio e attaccava perfino battaglia col Dio dei cristiani. Sebbene codeste notizie siano state esagerate dagli scrittori cristiani, esse denotano tuttavia a qual punto fosse giunto il culto degli antichi tempi, quando il sacro boschetto era tempio alla divinità invisibile e intangibile, ma di cui s'indovinava la presenza nello stormire delle foglie.
Come presso tutti i popoli primitivi, anche presso i Germani si solevano trarre gli auspici e le profezie dal volo degli uccelli, o dal nitrire dei cavalli, o dal sangue delle vittime.
Un'azione di culto che fu comune a tutti i popoli germanici fin nei tempi più remoti fu il sacrificio. Frutta e animali venivano offerti agli dei in epoche prestabilite, per ottenere un buon raccolto, o per il mantenimento della pace, o per il successo in guerra: né mancarono le vittime umane, talvolta, se prestiamo fede agli scrittori cristiani, sacrificate con grande ferocia.
Tacito (Germ., 39), del culto di Ziu presso i Semnoni dice: caesoque publice homine celebrant barbari ritus horrenda primordia; e vi sono antiche testimonianze di sacrifici umani presso i Cimbri, i Frisî, i Sassoni, i Franchi e specialmente presso gli Scandinavi. Di regola venivano sacrificati i prigionieri di guerra o gli schiavi, ma talvolta anche guerrieri o bambini e perfino, come ostia più gradita, sacerdoti e gli stessi regnanti. Il sacrificio dei prigionieri aveva significato espiatorio, in quanto s'immolavano coloro che, secondo la credenza popolare, avevano attirato sul paese l'ira divina; o era risarcimento per coloro cui la divinità aveva, dopo le preghiere, prolungato il termine della vita; o servizio reso spontaneamente per ottenere futuri servigi dal cielo. Le vittime venivano sgozzate, o sepolte in una palude, o decapitate, o impiccate, o precipitate dai monti. In Islanda veniva talvolta ai malfattori spezzata la spina dorsale. Nelle saghe si trova attestato il costume di murare vivo un animale o un bambino. Queste differenti maniere di supplizio avevano, a seconda delle divinità, un carattere simbolico. Gli dei a cui venivano offerti i sacrifici umani erano i principali, Thor, Tyr e segnatamente Odino; ma non di rado anche i minori esigevano d'essere placati e talora gli spiriti stessi delle acque: così, al dire di Procopio, i Franchi gettarono nel 539 le donne gotiche prigioniere nel Po per rendersi benigne le divinità del fiume.
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Diritto.
Periodo germanico. - Scarse sono le notizie sull'antico diritto dei Germani avanti le invasioni, poiché si riducono agli accenni di Cesare, alla Germania di Tacito, scritta sulla fine del sec. I d. C., e a quanto si può indurre sul diritto primitivo dalle più antiche leggi germaniche, tutte posteriori all'invasione, principalmente col raffronto del diritto delle schiatte nordiche, che più a lungo conservarono gli elementi primitivi dell'antico diritto. Per la Germania di Tacito, che, nel complesso, appare esatta, si deve avvertire che qualche giudizio fu dettato, più che da osservazione oggettiva, dal desiderio di far risaltare, per via di contrasto, talune piaghe della vita pubblica e privata romana del tempo.
Carattere fondamentale della costituzione primitiva germanica sembra l'unione in vaste tribù di liberi armati, che decidono in assembla gl'interessi comuni, sotto il potere di capi liberamente scelti, re o duchi. L'attitudine fisica alle armi è premessa della piena libertà, onde l'uomo libero è detto hariman, heermann, homo exercitalis, e il portare le armi è il segno geloso della libertà. I liberi sono legati in famiglie (fara, sippe), che conservano i rigidi vincoli dell'organizzazione primitiva. Sui liberi si elevano alcune famiglie, distinte per privilegi religiosi o d'ufficio, che costituiscono una specie di nobiltà (adalingi), tra cui si scelgono più spesso i capi; mentre sotto i liberi si trovano liberti o semiliberi, detti aldi o liti (leti), che sembrano derivare, per manomissione o per elevazione sociale, dai servi. Questi ultimi non costituiscono una classe, ma sono oggetto del potere assoluto del padrone, mitigato dal costume. La condizione sociale si determina con la nascita; ma s'intravede, anche per i tempi primitivi, la possibilità di movimenti tra le classi, specialmente per il valore dimostrato in guerra.
Nella famiglia domina un potere che si dice mund, mundium, potere d'ordine che appartiene al capo. Tale potere si esercita sulla moglie, sui figli, sui dipendenti, sui servi. Nei gruppi familiari, sembra che i capifamiglia costituiscano un'unione che esige deliberazioni comuni. Il matrimonio si compie per ratto, seguito da una pacificazione, o mediante l'acquisto del mundio da parte dello sposo dalla famiglia della donna.
Risulta da Cesare (Bello gall., IV, 1; VI, 22) che ai suoi tempi i Germani non conoscevano né una proprietà privata, né un godimento individuale del suolo: entro i singoli distretti (gau, pagus), in cui si suddividevano i grandi gruppi popolari, i capi assegnavano alle famiglie e alle comunità gentilizie terreni da coltivarsi e da godersi a gruppi, spostandosi poi, dopo i raccolti, da luogo a luogo. Ai tempi di Tacito (Germ., 26), questa fase primitiva di proprietà collettiva e di godimento comune sembra superata, poiché le varie tribù e le fare avevano preso dimora stabile e si era affermata la proprietà privata delle terre, prima per famiglie, poi, anche con le divisioni, per individui. Tuttavia una parte del territorio veniva lasciata all'uso comune dei pascoli e dei boschi, secondo il sistema dei villaggi (Dorfsystem). Il primitivo diritto germanico era fondato sulla consuetudine, desunta da credenze religiose e da regole morali e perciò considerata come sacra (la legge si disse ewa). Essa veniva talvolta fissata in deliberati (Weisthum); le controversie venivano decise nell'assemblea giudiziaria (ding, thinx) o in tribunali. La comunità proteggeva la pace pubblica (Volksfriede), da cui erano esclusi a titolo di pena gli stranieri o i delinquenti (friedlos). Tutti gli atti della vita civile venivano compiuti con forme esterne e simboliche, che ne precisavano e ne garantivano l'esistenza. Con le grandi migrazioni popolari, dopo la metà del sec. III d. C., i Germani si accostano alla civiltà romana; alcuni gruppi vengono assunti come foederati, altri entrano nell'esercito. Le grandi invasioni del sec. V sconvolgono l'Impero d'Occidente e modificano quello d'Oriente. Sul territorio romano o ai confini di esso si costituiscono i nuovi regni germanici o barbarici; e, a incominciare da allora, i varî gruppi germanici, più o meno profondamente guadagnati alla civiltà romana, si dànno leggi scritte.
Periodo franco. - Si apre così, a incominciare dal sec. V, un nuovo periodo della storia del diritto germanico, che si dice periodo franco, poiché esso è caratterizzato dal predominio che, nel corso dei secoli, fu guadagnato dalle stirpi dei Franchi. Infatti queste stirpi, prima sotto i Merovingi (sec. V-VII), poi sotto i Carolingi, assoggettano la maggior parte dei regni barbarici, finché nel 774, con la vittoria sui Longobardi, conquistano anche l'Italia e si fanno centro della ricostituzione dell'Impero d'Occidente (anno 800). Questo periodo, che s'inizia col sec. V, si chiude con la deposizione dell'ultimo imperatore carolingio (888).
Durante questo periodo il diritto germanico fa larghi progressi, assorbendo una parte almeno della civiltà romana, anche sotto l'influenza del cattolicesimo, a cui la dinastia merovingia, seguita dal suo popolo, si converte fin dal 496, abbandonando l'arianesimo. Questi progressi sono attestati anche dalle leggi germaniche, messe in iscritto tra il sec. V e il sec. IX. Sono dette anche leggi popolari o leges Barbarorum. Esse si applicano col sistema del diritto personale, per cui, entro certi limiti, ogni individuo segue la legge della propria nazionalità. Tenendo conto delle affinità etniche, dell'analogia delle condizioni storiche, e di un criterio cronologico di penetrazione della civiltà latina, le leggi germaniche si dividono in quattro gruppi fondamentali: gotico, franco, svevo, sassone.
Al gruppo gotico, che è il più antico, appartengono le leggi dei Visigoti e dei Burgundi. Per i Visigoti, si ha notizia di edicta emanati dal re Eurico (466-484), dopo la conquista della Spagna, editti che sembrano indicati, un secolo più tardi, nella compilazione del re Leovigildo (568-586), sotto il titolo di antiqua. Quest'ultima compilazione, detta Lex Visigothorum, che forse doveva essere stata preceduta da altre, ha profondamente risentito l'influenza del diritto romano; ed è noto che già, fin dal 506, il re Alarico aveva sentito il bisogno di raccogliere, accanto alla legge dei vincitori, anche le leggi dei vinti romani, nel cosiddetto Breviario alariciano, compilazione dei testi più importanti delle costituzioni romane, accompagnate dalle interpretationes scolastiche. Quanto alla Lex Visigothorum, essa ebbe nuove compilazioni sotto Chindasvindo (641-652) e sotto Reccesvindo (649-672), allorché fu promulgata anche col titolo di Liber iudiciorum, in un testo diviso in 12 libri, in cui le leggi visigote e romane sono ormai fuse e da cui deriva il diritto volgare spagnolo, detto Fuerosjuzgo (v. fuero).
Lo sviluppo legislativo dei Burgundi è simile a quello dei Visigoti, poiché ha una Lex Burgundionum, dovuta al re Gundobaldo (474-516), che raccoglie le leggi dei vincitori germanici già modificate dall'influenza romana, accanto a una Lex romana Burgundiorum che è una compilazione di costituzioni romane per il popolo vinto, promulgate poco dopo l'anno 517 dal re Sigismondo. Ma il regno burgundico cade presto sotto il dominio franco (536).
Carattere più schiettamente germanico hanno le leggi del gruppo franco, ossia la legge salica, la legge ripuaria e altre minori; ma anche queste sono state già penetrate dall'influenza romana, specialmente, come dimostrò il Tamassia, attraverso la Lex Visigothorum, che, diffusa in Occidente, prestò il modello a queste compilazioni barbariche. La lex Salica, indicata nel suo testo più antico come pactus o tractatus legis Salicae, derivata pertanto dalla concorde approvazione del popolo dei Franchi Salî, è tra le più antiche leggi germaniche, poiché, nel suo nucleo più antico, sembra compilata ai tempi del re Clodoveo (488-511), subito dopo la conversione al cattolicesimo (496). Ma il testo da noi posseduto è alquanto più tardo. È diviso in 65 brevi titoli; al testo latino, che ha singolari forme arcaiche, accompagna frequenti parole germaniche, dette glosse malbergiche (mahlberg, assemblea, tribunale). Una redazione posteriore (sec. VIII) dà un testo più ampio, in 99 titoli, purgato dai barbarismi, che si dice lex Salica emendata.
La legge ripuaria è pervenuta in una tarda redazione dell'età carolingia, ma è più antica, perché derivata da un Pactus legis Ripuariae, spettante al sec. VI e corrispondente ai primi titoli della legge (tit. 1-31), a cui si aggiunge, entro lo stesso secolo, un riassunto riformato della legge salica (tit. 32-64). L'ultima parte (titolo 65-79) sembra opera dei tempi di re Dagoberto (628-639). Subì poi una nuova ricompilazione all'aprirsi del periodo carolingio. A questo gruppo appartiene anche la più tarda lex o ewa Chamavarum, legge dei Franchi Camavi, compilata nei tempi carolingi.
Nel gruppo svevo si comprende la legge alamanna e la legge bavara. La lex Alamannorum deriva da un breve nucleo della fine del sec. VI, denominato pactus Alamannorum, e fu compilata poi in 104 capitoli al tempo del duca Lanfredo di Svevia, nella prima metà del sec. VIII. Quella dei Bavari, pur essa del sec. VIII, deriva da un pactus Baiuvariorum, più tardi ampiamente sviluppato.
L'ultimo gruppo, il gruppo sassone, comprende la lex Saxonum, formata nei tempi carolingi, in 66 capitoli, ma contenente il diritto popolare, a cui furono aggiunti i capitolari del periodo carolingio: e la lex Frisonum, tarda compilazione privata delle consuetudini e del diritto regio vigenti presso i Frisî. A questo gruppo appartiene anche una breve lex Anglorum et Verinorun hoc est Thuringorum, compilata nell'età carolingia; e soprattutto le leggi degli Anglosassoni, conquistatori della Britannia, leggi che hanno una notevole importanza, perché redatte in linguaggio germanico, ma che appartengono al diritto inglese, non al diritto propriamente germanico. Forse a questo gruppo si potrebbero, per alcune affinità, ricongiungere le leggi longobarde, a incominciare dall'editto di Rotari, emanato nell'anno 643, come legge del regno costituito dai Longobardi in Italia; ma l'editto di Rotari, insieme con le leggi posteriori di Grimoaldo, di Liutprando, di Rachi e di Astolfo, fanno parte a sé e, per quanto si leghino al diritto germanico, appartengono propriamente allo sviluppo del diritto italiano (v. italia: Storia del diritto). Tutte queste leggi che testimoniano di una stretta affinità dei diversi popoli germanici, costituiscono il nuovo diritto "barbarico", che rappresenta uno sviluppo del diritto primitivo germanico, sotto l'influenza dei residui dell'antica civiltà e sotto la spinta dei nuovi bisogni largamente accresciuti nella formazione dei regni, in gran parte costituiti sui territorî già romanizzati. Tutte queste leggi, salvo quelle degli Anglosassoni, sono in latino, e tutte più o meno hanno sentito direttamente l'influsso del diritto romano.
Il diritto germanico, durante il periodo franco, presenta una costituzione monarchica in via di progressivo accentramento, in cui il potere regio tende ad acquistare una potenza propria, che si esprime nel Reichsrecht o diritto regio, in contrapposto con l'antico diritto popolare (Volksrecht). Il re, che ha il comando dell'esercito, tiene ormai le direttive del potere esecutivo; è circondato dai fedeli (antrustiones, comites), tra i quali vengono scelti i funzionarî principali; nomina i capi dei distretti locali (duces, grafiones, comites); esercita una tutela (mundium regis, mundeburdium), che dà una protezione speciale a coloro che vi sono assunti. Tuttavia il re è ancora assistito dall'assemblea (thinx, conventum), formata dagli uomini liberi armati; ma ormai, anche per l'aumentata vastità del regno, è evidente la tendenza dell'assemblea a diventare una riunione dei grandi e dei fedeli regi, con la semplice assistenza del popolo. Il potere regio è simboleggiato nell'asta e nello scudo, a indicare l'autorità militare e le funzioni di pubblica difesa assunte dal sovrano, come protettore della pace e del diritto. Al sistema dell'elezione regia tende a sostituirsi un principio di successione.
Quando Carlomagno, dopo la vittoria sui Longobardi, sugli Avari e sui Sassoni, si presentò quasi restitutore dell'antica unità dell'Occideme, amico e difensore della Chiesa, nell'anno 800, si rinnova in Roma l'Impero d'Occidente, che diventa il Sacro Romano Impero (v.), prima tra i successori di Carlomagno, più tardi per elezione nei re italici, e finalmente, dopo gli Ottoni, per elezione nei re germanici, che diventano così i titolari dell'Impero romano. Questa posizione dei re germanici contribuisce a favorire l'accoglimento del diritto romano in Germania; poiché l'imperatore germanico si riguarda come successore dei Cesari (Caesar, Kaiser) e il diritto romano è giudicato come un'emanazione diretta dell'Impero. L'organizzazione sociale e giuridica del periodo franco segna notevoli progressi, e s'informa allo sviluppo degli elementi dell'antica civiltà rimasti in vita, oltre che a una naturale evoluzione della società e del diritto germanico. Le classi sociali si complicano: mentre i semplici liberi decadono talvolta in condizioni più umili, s'ingrossano le file dei nobili, che traggono la loro potenza dagli uffici e dal favore del principe, e si elevano le classi dei ricchi mercanti, dei monetieri, degli artigiani. L'amministrazione centrale, in ogni regno, si fonda sul palatium regio, presieduto dal re, e amministrativamente diretto dal conte palatino, per la disciplina interna e per la giurisdizione; dal camerario, per l'ordinamento finanziario, dal gran cancelliere, per gli uffici notarili. L'amministrazione locale è tenuta dai duchi e dai conti, e s'inizia la formazione delle marche di frontiera; mentre sotto i duchi e i conti stanno, nei singoli minori distretti, gli sculdasci, i centenarî, i locopositi. Dal centro vengono inviati messi a controllare l'amministrazione giudiziaria e finanziaria, col titolo di missi discurrentes.
Il diritto penale si svolge dagli antichi elementi, sulla base del potere di banno spettante al re e ai suoi delegati, mentre il processo si svolge con un sistema ordinato, dove, accanto alla prova primitiva dei giudizî di Dio (ordalie, Urtheil), duello e altre forme, si insinuano le prove per testimonî e per documenti. Nel diritto privato la famiglia si scioglie dagli antichi vincoli; la proprietà collettiva cede il posto alla proprietà privata; le forme delle obbligazioni, legate all'antico simbolismo (wadia, launegildo), assumono anche qualche aspetto più semplice, fondato sul consenso prestato in forma visibile (fides facta) e talvolta garantito con la fideiussione come negozio accessorio.
In questo periodo, tra il sec. VIII e il sec. IX, si ha la formazione del feudo (v. feudo), come concessione di un beneficio, costituito da un immobile o da un complesso di diritti considerati come immobili, a cui corrisponde una promessa di fedeltà, che implica l'obbligo militare, e si dice vassallaggio. Con la decadenza dell'Impero carolingio, dopo Carlomagno, e con la necessità di una pronta e costosa difesa militare, si manifesta presso tutti i regni germanici la tendenza a ricorrere alla frequente distribuzione di questi benefici, per assicurarsi la difesa armata, e pertanto il tessuto sociale si fraziona e si dissolve nel feudo, sotto svariatissime forme: feudi in capite, dati direttamente dal sovrano; feudi mediani, dati a minori vassalli, detti valvassori (v.), feudi minimi. I capi di questi feudi si dicono seniores, signori. Sui territorî da essi tenuti, essi svolgono anche un diritto immunitario, che prima è ristretto a privilegi finanziarî, poi si estende anche alla giurisdizione.
Bibl.: v. germania: Diritto.