popolo
Complesso degli individui di uno stesso Paese che, avendo origine, lingua, tradizioni religiose e culturali, istituti, leggi e ordinamenti comuni, sono costituiti in collettività etnica e nazionale. Durante l’Età antica, esso fu identificato innanzitutto nel demos greco: a Micene era l’insieme degli «uomini non schiavi, dediti all’agricoltura e all’allevamento»; in Omero, anche nell’accezione di esercito composto dall’intera comunità; in Solone, Erodoto e Tucidide, il termine individuava non già l’intera popolazione, ma solo la parte più numerosa di essa, esclusa dalla gestione del potere. Tale accezione fu enfatizzata con le riforme introdotte da Clistene ad Atene (508-507 a.C.), con cui si ridusse l’autorità delle tribù gentilizie, legando l’iscrizione a una tribù non più all’appartenenza a una famiglia, bensì al luogo di residenza, al villaggio in cui ciascun cittadino viveva. Il termine demos indicò tale villaggio, che nel nuovo assetto istituzionale assumeva il ruolo di cellula fondamentale della società. Nel 5° sec., sotto Pericle il termine prese a indicare l’assemblea generale della città ma anche la totalità della popolazione che attraverso tale assemblea esercitava la demokratia. Di qui quella sorta di identificazione del demos con la polis, che si diffuse nei secoli successivi. Anche nella dottrina romana il p. si andò configurando come una persona giuridica nella sostanza uguale allo Stato stesso, pur con le notevoli distinzioni tra il populus romano dell’Età arcaica, il ruolo del populus nella Roma repubblicana e la trasformazione del p. in «sudditi» in Età imperiale. Durante il Medioevo, il p. continuò a indicare la comunità residente in un luogo nella sua totalità. Nei comuni medievali italiani, la designazione di p. fu data alle organizzazioni di cittadini reclutati su base professionale (come le corporazioni) o territoriale (come le società armate nelle quali si raggruppavano gli abitanti delle stesse zone); tali organizzazioni in alcuni comuni (Firenze, Bologna) si unirono in società generali dotate di organi propri: consigli allargati, ristretti, come gli anziani, che ne costituirono il governo stabile, un capitano del p. eletto a imitazione del podestà del comune. In alcuni centri urbani le associazioni di p. accrebbero il loro potere di condizionamento della vita politica cittadina affiancandosi agli organismi del comune e giungendo in taluni casi a esautorarli. Nel p. stesso si fece però strada una articolazione interna tra il «p. grasso», rappresentante le Arti maggiori, più prestigiose e redditizie, un «p. minuto», composto dalla piccola borghesia (le Arti minori), e il cosiddetto «p. magro», consistente nel proletariato di braccianti e lavoratori salariati (per es. i Ciompi, cardatori della lana), privi di ogni rappresentanza. Nella Dichiarazione dei diritti (1789) elaborata durante la Rivoluzione francese il termine p. designa tutti coloro che non sono «privilegiati»; in seguito la Costituzione giacobina del 1793, riprendendo le idee di J.-J. Rousseau, collocò la sovranità nel p. e anche Napoleone fece riferimento più volte a questa fonte di legittimità. Nei Paesi confinanti con la Francia i richiami al p. si diffusero in un primo tempo all’unisono con quelli francesi; la rielaborazione di queste formule, tuttavia, venne fatta in funzione antifrancese, in Germania, nei primi decenni dell’Ottocento. Qui vennero delineandosi due accezioni di p.: la prima intende il p. come una continuità ininterrotta di stirpi, unite dalla comunità di linguaggio e di costumi. Analoga, anche se con fondamenti culturali diversi, è l’ideologia della scuola storica del diritto, per la quale il p. è un’«unità naturale». Altra accezione ha il termine p. nei pensatori convinti che l’unificazione politica sia il bene più alto, e che essa debba essere conseguita attraverso l’impegno diretto delle masse popolari. Nella mentalità politica italiana del 19° sec. l’idea di p. ebbe un notevole peso, infatti la fede nell’esistenza di un solo p. era la premessa per negare la legittimità del frazionamento territoriale e del sistema politico che lo reggeva. Mazzini fece del p., inteso come universalità degli uomini che compongono la nazione, il «dogma» della sua azione politica. I primi sviluppi di una scienza della società imposero di guardare al p. in tutt’altra prospettiva, fino a chiedersi se il p. fosse stato realmente una forza di progresso. La diffusione del socialismo scientifico di K. Marx e F. Engels contribuì a indebolire il concetto generico di p. come era stato inteso fino a quel momento; con l’insurrezione operaia di Parigi (1848) p. divenne sinonimo di proletari o di operai. Il concetto di p. ha ormai perso la sua unitarietà e questo termine non serve più come nome collettivo. Per Lenin p. era sinonimo della «massa degli sfruttati», e nei soviet egli vedeva lo strumento dell’iniziativa del p.; tuttavia il termine, in questo contesto, ha un uso sempre più ridotto e si parla, in suo luogo, di masse. Le teorie, o ideologie, sul p. confermano che il termine designa una base prepolitica in procinto di, o che dovrebbe, diventare politica; ma anche che esso è un corpo che aspetta di ricevere forma, di essere compreso, riconosciuto, rigenerato. Nel significato di p. come idea-forza sono compresi almeno tre connotati, cioè la partecipazione, la forza e la permanenza, che conducono quasi sempre a due valori: l’unità del p. e l’eguaglianza in dignità dei suoi membri. In quasi tutte le ideologie popolari, anche in quelle che non predicano la rivoluzione, è presente una forte carica antiautoritaria; ma c’è, al tempo stesso, un’altrettanto forte carica cesaristica, nel senso che chi si appella al p. lo fa per contestare un’oligarchia governante che ne usurperebbe i diritti, prospettando, in alternativa, un rapporto più diretto tra base e vertice (➔ populismo).