Populismo
di Bruno Bongiovanni
Il termine 'populismo' corrisponde alla parola russa narodničestvo, la quale, a sua volta, deriva da narod, ovverossia 'popolo'. La parola russa cominciò a essere utilizzata intorno al 1870, e ancor più intorno al 1875. Nello stesso periodo si diffuse in Russia anche il termine narodnik, ovverossia 'populista'. Negli anni settanta dell'Ottocento, d'altra parte, il movimento cui faceva riferimento la nuova parola, sino ad allora un insieme senza nome di vigorose personalità, di agguerrite teorie politico-sociali e di realtà oggettive dotate di un peculiare profilo strutturale, assunse con forza una visibilità e una vitalità che lo rendevano in qualche modo al suo interno omogeneo, distinguendolo con nettezza dal restante movimento socialista europeo. Prima di quella particolare congiuntura si era parlato, a proposito dei personaggi che saranno poi storiograficamente ricompresi appunto nel narodničestvo, di democratici, di radicali, di socialisti, di comunisti, e addirittura di 'nichilisti' (o 'nihilisti'): un termine, quest'ultimo, che ebbe una gran fortuna internazionale, e non solo politica, ma ancor più psicologico-culturale, e talvolta fuorviante rispetto al significato originario, dopo la pubblicazione, nel 1862, del romanzo di Turgenev Padri e figli.
Gli anni settanta, quelli che dettero un nome al fenomeno, si aprirono del resto proprio con la morte di Herzen, l'uomo che, nell'esilio, aveva rappresentato il movimento democratico e socialista russo; proseguirono poi con il compimento, in ambito processuale, del torbido affare Nečaev, con la sconfessione di quest'ultimo e con il conseguente isterilirsi della tentazione meramente settario-cospirativa; con il grande movimento dell''andata al popolo' e con la propaganda degli studenti nelle campagne (1874-1877), fenomeni che contribuirono di fatto a diffondere in modo capillare la parola e a trasformarla in un concetto politico e in un appello all'azione pratica. Si arrivò poi, proprio nell'anno della morte di Bakunin (1876), alla formazione della prima organizzazione rivoluzionaria panrussa, la Zemlja i volja; in seguito, nel 1879, avvennero la scissione che la lacerò e la nascita della Narodnaja volja, la cui febbrile deriva terroristica culminò nel 1881 con l'uccisione di Alessandro II, lo zar 'liberatore'. Questo avvenimento, a causa della repressione che ne seguì, provocò una crisi profonda nel movimento rivoluzionario russo, concludendone di fatto un'intera stagione.
Franco Venturi, storico insuperato delle idee, dei programmi e dell'intera parabola storica dei populisti russi, ha giustamente retrodatato la vicenda storica del populismo al 1848. Nella sua persuasiva e ormai unanimemente accettata periodizzazione del fenomeno l'intero scenario evocato dal termine narodničestvo si estende elasticamente nel tempo in due direzioni, vale a dire all'indietro appunto verso il 1848, e in avanti verso i nuovi sviluppi del movimento socialista russo, un movimento segnato profondamente, e per sempre, anche nella fase bolscevica, nonostante le roventi polemiche e le aspre ripulse, dall'esperienza populistica. La fortuna del termine in questione, a partire dal terreno strettamente semantico-lessicale, è stata infatti tenuta in vita e ulteriormente dilatata, dopo l'eclisse dei primi anni ottanta, proprio dalla critica di quei socialisti russi, talvolta riparati in Occidente, che facevano riferimento ai programmi politici della socialdemocrazia europea e che si trovavano tuttavia costretti a confrontarsi, e a venire inevitabilmente a patti, con i problemi ineludibili, e di fatto insormontabili, posti dalle tutt'altro che esaurite ragioni sociali e strutturali che avevano disegnato l'originale fisionomia del movimento populista russo. Tali ragioni, malgrado l'ormai iniziata industrializzazione in aree limitate dell'immenso Impero, avevano pur sempre a che fare con l'estesissima arretratezza precapitalistica, complicata e non sanata dall'emancipazione dei servi del 1861, con la persistente centralità assoluta del mondo rurale, e con la forma "semi-asiatica e semi-feudale", secondo la definizione di Marx, del sistema zarista di potere e di controllo sociale.
È comunque con il fallimento in Occidente delle rivoluzioni democratiche del 1848-1849 che si può far datare l'inizio di un approccio 'populistico' allo sviluppo delle idee rivoluzionarie in Russia, un approccio che sempre, sul terreno culturale come su quello politico, è stato innescato da una risposta alle sfide vincenti (lo sviluppo), o anche alle sfide abortite (l'avvento della democrazia), delle aree geoeconomiche considerate storicamente più evolute. Dopo aver letto i risultati, pur animati da forte spirito conservatore, del viaggio-inchiesta in Russia del barone prussiano Haxthausen, e dopo aver ritenuto praticamente esaurita, nel 1849-1850, la spinta propulsiva della dinamica democratica e socialista in Occidente, fu Herzen che cominciò a individuare nel patrimonio comunitario dei contadini russi, vale a dire nella comune rurale spontaneamente e non artificialmente collettivistica (l'obščina), il punto di partenza della rigenerazione sociale - e morale - in Russia. Nell'Impero zarista la strada verso la redenzione doveva così restare, rispetto all'Europa occidentale, rigorosamente autonoma e rispettosa della propria specificità. Poteva anzi essere la Russia, e non viceversa, a indicare al mondo sviluppato, pur superiore quanto a risorse materiali, la via della soluzione democratica e popolare della questione sociale: ex Oriente lux.
Ed ecco profilarsi i fondamenti essenziali dell'identità del movimento socialista-populista russo, un'identità in gran parte costruita nell'ambito del confronto-contrasto con la realtà economico-industriale europea e con il panorama sociale proletarizzato che ne era scaturito. La presunta arretratezza non era realmente tale: per i populisti rivoluzionari, che si trovavano per questo aspetto in sintonia con l'orgoglio 'grande-slavo' o addirittura panslavista dei pur reazionari 'slavofili', si trattava di una differenza strutturale e di una via peculiare che poteva e doveva, tra l'altro, consentire di evitare le forche caudine e le peripezie sociali dello sviluppo capitalistico, quello sviluppo che per i socialisti occidentali si poneva invece come una tappa intermedia ineludibile, nonché produttrice di enorme ricchezza collettiva e anche di irrinunciabili spazi di libertà. Il territorio da cui far partire la battaglia per un'emancipazione futura, che equivaleva di fatto alla restaurazione della pienezza del comunismo rurale, non era la città, ma la campagna, non l'industria anonima e spersonalizzante, ma il mondo patriarcale e fortemente coeso della produzione rurale associata.
Il soggetto rivoluzionario per eccellenza era di conseguenza costituito dai contadini, che si identificavano in toto appunto con il popolo e con la virtuosa morale comunitaria che lo contraddistingueva, e non dagli operai, consustanziali - tanto da esserne il prodotto più clamorosamente visibile - con il processo capitalistico-borghese, un processo che corrompeva i costumi imborghesendoli con miraggi mercantili, divideva la comunità, degradava il tessuto sociale, creava individui e individualismi, allontanava dalle radici profonde, e naturali, della vita collettiva. Il socialismo, o il comunismo, non erano l'esito più o meno inevitabile, il rovesciamento-inveramento, da attuarsi con le riforme o con la rivoluzione, della dinamica capitalistica giunta alla sua feconda maturità, ma esistevano da tempo nell'organizzazione sociale e nel grembo antico delle istituzioni comunitarie russe, tanto da esserne diventati una sorta di codice genetico. Il che fare non consisteva, infine, nell'assecondare lo sviluppo storico, presunto alleato nell'Occidente della causa dell'emancipazione operaia, in attesa della conquista della democrazia da parte dell'immensa maggioranza proletarizzata (e quindi potenzialmente e a posteriori socialista), ma nel liberare l'immensa maggioranza contadina, già socialista a priori, dalle sovrastrutture parassitarie, in primo luogo dallo zarismo autocratico-liberticida e dall'aristocrazia fondiaria, con il risultato di lasciar spontaneamente scorrere in superficie il libero fiume incorrotto di un universo contadino e popolare messo finalmente nelle condizioni di obbedire, invece che a padroni esogeni e dispotici, alla propria natura.
Se lo sviluppo industriale era dunque in Occidente l'alleato dell'emancipazione operaia e della marcia verso il socialismo, nell'Europa orientale, per i populisti, esso era considerato la possibile causa di un deragliamento strutturale che, con esiti irreversibilmente antisocialistici, avrebbe potuto anche inquinare e nel tempo demolire il comunismo contadino autoctono. A questo proposito, anche se in chiave decisamente critica, e non certo apologetica, Jules Michelet - in un passo pubblicato nel 1854 all'interno delle Légendes démocratiques du Nord, ma scritto nel 1851, immediatamente dopo la lettura di Herzen - confermava che l'essenza della vita russa, in virtù della distribuzione della terra da parte della comunità rurale, era "il comunismo", un comunismo sorvegliato e promosso dall'autorità del signore feudale: la forza della Russia, per Michelet, analoga per certi versi a quella degli Stati Uniti, consisteva in una "specie di legge agraria", ossia nella "distribuzione della terra a tutti i sopravvenienti". Il confronto con gli Stati Uniti, del resto, non era certo una novità, e lo stesso concetto di populismo uscirà ulteriormente approfondito e reso più complesso, alla fine del XIX secolo, dall'esperienza americana. Non solo Tocqueville, infatti, nella celebre chiusa della prima parte de La démocratie en Amérique, aveva profetizzato (in America nella libertà, in Russia nella schiavitù) un vitale destino di contiguità tra le due nazioni 'popolari' per eccellenza, ma lo stesso 'slavofilo' Kireevskij, amico di Herzen, nel 1830, cinque anni prima di Tocqueville, aveva identificato nei Russi e negli Americani, in quanto popoli giovani e non logorati, i soli due soggetti dello scenario internazionale salvatisi dal generale rilassamento dei costumi subìto dall'umanità civilizzata.
L'esaltazione del popolo, racchiuso in una sorta di fissismo sociale che predisponeva forme di resistenza contro l'invadenza traumatizzante della storia, nonché erede e depositario della forma organica e armonica per eccellenza della convivenza, richiedeva tuttavia la predicazione, o anche l'agitazione rivoluzionaria introdotta dall'esterno, da parte di un ceto sociale largamente presente in Russia, non di rado privo di un'occupazione stabile, spesso frustrato (soprattutto dopo la Rivoluzione francese) e psicologicamente attratto-respinto dall'Occidente, vale a dire l'intelligencija, parola nata significativamente negli anni sessanta, con qualche anticipo sul termine narodničestvo. Il popolo contadino, infatti, in ragione dell'oppressione che subiva e delle condizioni miserevoli in cui, anche sul piano spirituale, si trovava, era comunista e non sapeva di essere tale. Non aveva cioè conoscenza dell'enorme potenziale di liberazione imprigionato nell'obščina, e cioè in quelle istituzioni che pure costituivano la forma della sua vita sociale quotidiana.
Occorreva accostarlo, trovare un linguaggio comune, risvegliarlo, indirizzarne nella giusta direzione le pulsioni di rivolta, scuoterlo con azioni esemplari, non esclusa, nei momenti di particolare disperazione, l'arma estrema del terrorismo. Occorreva insomma convincerlo che il comunismo era lì, non restava che afferrarlo. Narodnik, populista, non era del resto l'uomo del popolo, vale a dire il contadino russo, la cui autoevidenza 'popolare' non aveva infatti bisogno di ulteriori specificazioni, ma il militante proveniente dalle file dell'intelligencija che incitava il popolo a diventare consapevolmente ciò che esso già era. Emergeva qui una costante di ciò che sarà, in contesti certo diversi, il pur variegato concetto di populismo, un costrutto concettuale che aveva e ha tuttora a che fare non tanto con le presunte caratteristiche specifiche del popolo, quanto con la relazione che si viene a creare tra tali caratteristiche (esposte come fatti e come valori) e i soggetti esterni, o anche interni (ma autonomizzatisi), i quali, con motivazioni diverse, intendevano e intendono valorizzarle, portarle alla luce, rappresentarle, organizzarle, mobilitarle. Il protobolscevismo leninista, all'inizio del XX secolo, senza volgere formalmente le spalle allo schieramento socialdemocratico internazionale, seppe, universalizzandola, e riferendola al proletariato, dare sostanza teorico-politica proprio a questa relazione.
D'altra parte, un'aporia di partenza, probabilmente ineliminabile, risiede nel concetto stesso di 'popolo', nell'accezione in cui questo termine viene comunemente inteso e usato. I Romani, com'è noto, avevano escogitato la formula Senatus Populusque Romanus, a testimonianza del fatto che il popolo era una delle due componenti, quella plebea, della Respublica romanorum. Tale componente era naturalmente di gran lunga la più numerosa e il principato, dopo il crepuscolo della repubblica, fu anche la risposta cesaristica alle lacerazioni generate dall'antagonismo tra le due componenti. Nel mondo moderno e contemporaneo, tuttavia, il 'popolo' sin nelle stesse costituzioni - frutto, queste ultime, dell'istituzionalizzarsi della sfida lanciata dal liberalismo e dalla democrazia - diventerà la totalità della popolazione, resa compatta in taluni casi dal concetto forte di 'nazione', e il luogo sociale-universale da cui, legittimando il potere, verranno fatte scaturire la sovranità e la rappresentanza. Esso non smarriva però, neppure sotto il profilo semantico-lessicale - soprattutto in talune circostanze, e in taluni contesti storici - la sua originaria parzialità, la sua dimensione assiologica, il suo passato e il suo presente di generica subalternità, e infine la sua aprioristica e compatta organicità, contrapposta alla complessità policlassistica delle società moderne e nel contempo alle formazioni oligarchiche germinate dal potere politico-amministrativo e dal denaro.
L'ambiguità derivava dal fatto che il 'popolo' era, insieme, la collettività dei cittadini (un concetto giuridico-politico che privilegia l'inclusione di tutti i soggetti della 'nazione') e la collettività dei produttori (un concetto sociopolitico, si pensi al Terzo stato di Sieyès, che può fondarsi sull'esclusione degli 'oziosi', ma anche, talora, dei cosiddetti parassiti, dei politicanti, degli intellettuali, dei 'borghesi', soprattutto di quelli che vivono della mediazione, come, in un noto stereotipo, gli ebrei, ecc.). Non sempre, ovviamente, le due collettività poterono identificarsi. Il 'popolo' fu così, di volta in volta, o contemporaneamente, il 'tutto' e la 'parte', tanto che chi non veniva identificato con il popolo - concetto dotatosi nel romanticismo e in genere nel XIX secolo di una dimensione religiosa o addirittura mistica - poteva essere ritenuto estraneo, straniero, alieno e anche nemico. Il populista, così, poté essere talora colui che, in nome dei valori originari e preesistenti del popolo, enfatizzava prima la percezione che il popolo aveva di se stesso come 'parte' larghissimamente maggioritaria e purtuttavia insidiata nelle sue prerogative e addirittura nella sua identità, valorizzava poi la protesta collegata a tale percezione e spingeva infine la 'parte' ad autoconsiderarsi come 'tutto' e a sentirsi integrata con le proprie istituzioni originarie, con i programmi diffusi dal populista stesso, o anche, in talune esperienze novecentesche, con lo Stato e con le élites al potere, soprattutto con quelle recenti di origine 'plebea'.Tutto ciò, pur partendo dall'esperienza russa, ha tuttavia a che fare con la deriva che ebbe il concetto di populismo in generale, identificabile, in quanto tale, non con una dottrina sistematizzata una volta per tutte, ma piuttosto con un atteggiamento politico, e mentale, cangiante nel tempo e nelle diverse realtà territoriali.
Che cosa fu invece il populismo russo realmente esistito? Che cosa rappresentò nella storia della Russia? Numerose e autorevoli sono state le risposte fornite dalla storiografia a queste domande. Per Venturi e per Berlin esso fu sostanzialmente un'occasione mancata, e anche autoritariamente soffocata (dallo zarismo e dal bolscevismo), tanto da rappresentare la possibilità non realizzatasi di uno sviluppo democratico e liberale del movimento socialista russo, parte integrante, pur nella sua specificità, del movimento socialista europeo del XIX secolo. Per Gerschenkron, invece, che fece della sua conclamata differenza una sorta di modello esemplare, il populismo russo fu un fondamentale e 'rivelatore' capitolo della storia delle ideologie in una situazione di arretratezza. Per altri ancora, come Strada (v., 1971), esso fu il movimento che conferì una "logica", cui si affiancò la "storicità" marxiana, al successivo movimento rivoluzionario russo, e in particolare al bolscevismo di Lenin. La questione della continuità (oggettiva) o della discontinuità (soggettiva e oggettiva) tra populismo e bolscevismo è d'altra parte, da tutti i punti di vista, assolutamente ineludibile.
Diverse furono, del resto, le anime del populismo russo: aristocraticamente liberale e democratica quella di Herzen; anarco-ribellistica e antitedesca quella di Bakunin; democratico-utopistica e letterariamente 'realistica' quella di Belinskij; legata a intellettuali di rango sociale declassato e portatori di radicalità crescente quella di Černyševskij e di Dobroljubov (i cosiddetti 'nichilisti'); neogiacobina quella di Tkačëv; internazionalistica quella di Lavrov; e così via, sino al tenebroso Nečaev, agli intransigenti, ai terroristi, ma anche, dopo la crisi del 1881, sino ai populisti liberali o 'legali' (Daniel'son e Michailovskij) da una parte e, dall'altra, al raggruppamento Čërnyi peredel, sorto nel 1879. Quest'ultimo, favorevole all'azione politica, costituirà il punto di partenza che anni dopo consentirà a una componente del movimento populistico, grazie al ruolo inizialmente giocato da Plechanov, di confluire nel POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico Russo), formatosi nel 1894 e, a partire dal 1903, pienamente 'occidentalista', vale a dire non coinvolto nel particolarismo populistico-slavofilo, solo, e non sempre, con la frazione menscevica. Tutte le sfaccettature, e le propensioni, del pensiero democratico e socialista occidentale sono state comunque recepite dal populismo russo, il quale ha mantenuto la propria fisionomia e la propria fedeltà al comunitarismo rurale autoctono, ma ha mutato le strategie e le forme organizzative, sospinto certamente dall'evoluzione storico-sociale della Russia e tuttavia anche grazie alle suggestioni assorbite dalla cultura filosofica, politica e letteraria occidentale. Il populismo non poté dunque emanciparsi dall'Occidente.
Il socialismo 'occidentalizzato' russo, quello che si autodefiniva socialdemocratico, non poté, a sua volta, emanciparsi dal populismo. Lo stesso Lenin, del resto, pur individuando nel populismo l'ideologia del "piccolo produttore" utopista e reazionario, intriso di "romanticismo economico", e pur riconoscendo come ormai irreversibili gli sviluppi dei rapporti capitalistici di produzione in Russia, ebbe a considerare la socialdemocrazia russa come la sola erede legittima del populismo rivoluzionario e dei combattenti della Narodnaja volja.
Il bolscevismo al potere, invece, soprattutto alla fine degli anni venti, dopo la proclamazione della teoria del socialismo in un paese solo, farà di tutto, cancellando d'autorità ogni dibattito storiografico, per rimuovere persino la memoria di tale eredità, divenuta ora doppiamente imbarazzante con la collettivizzazione delle campagne e con la terribile repressione-deportazione dei contadini, annientati nella loro residua autonomia e nella loro capacità di resistenza. Il kolkhoz e il PCUS, intrecciati nelle campagne in una sintesi politico-sociale da cui scaturiva un socialismo che poteva apparire una sorta di populismo totalitario di Stato, avrebbero potuto infatti essere interpretati come due entità perversamente complementari, atte a riprodurre in modo allargato e onnipervasivo il sodalizio dispotico-orientale - da Marx in molte occasioni denunciato - che, sino al 1861 e anche oltre, aveva fatto della comune rurale e dello zarismo autocratico due facce di una medesima medaglia.
Intanto nel 1891, a Cincinnati, negli Stati Uniti, era stato fondato il People's Party, noto poi come 'partito populista'. Si trattava di un partito che per un certo periodo ebbe dimensioni ragguardevoli e che sorse come reazione dei piccoli contadini (farmers), e in genere dei piccoli e piccolissimi proprietari, contro lo strapotere, denunciato come giugulatorio, del sistema bancario e della grande finanza plutocratica. Già nei primi anni del Novecento, tuttavia, il People's Party vide contrarsi drasticamente la propria capacità di penetrazione e i propri consensi. Nel 1912 il partito non esisteva più. A partire dal 1893, comunque, dopo che nel 1892 era stato steso a St. Louis il preambolo alla piattaforma del partito, aveva cominciato a diffondersi sui giornali, ma anche nell'ambito della pubblicistica politica, il sostantivo populism: che sarà poi esteso, anche retroattivamente, allo stesso populismo russo. Il People's Party fu peraltro, nei primi anni novanta, il punto terminale, concretizzato in un'organizzazione politica, di una assai vasta protesta agraria, originata negli ultimi tre decenni del secolo dalla crisi sociale e morale succeduta nel Sud alla guerra civile, ma anche - e forse soprattutto - dagli effetti della 'grande depressione', che tra il 1870 e il 1897 era stata accompagnata, negli stessi Stati Uniti, da un calo quasi continuo dei prezzi agricoli. Si può anzi dire che quando il partito nacque le ragioni che avevano surriscaldato l'agitazione agraria stavano per assopirsi, attenuando di conseguenza, negli anni a venire, l'intensità dell'agitazione stessa.
Le aree geografiche in cui si insediò il partito populista, che ha rappresentato nella storia americana il tentativo forse più serio di spezzare il tradizionale duopolio del sistema politico statunitense, furono peraltro quasi esclusivamente quelle più colpite dalla crisi, e cioè il Sud, ovverossia gli ex Stati confederati, e il Middlewest. I militanti del nuovo partito - una meteora politica che intercettò umori e malumori destinati a sopravvivere a lungo nella società americana, ben oltre la sua scomparsa, e in realtà mai tramontati - si proponevano di combattere il monopolio delle compagnie ferroviarie, la grande proprietà anonima della terra, le tariffe protezionistiche, il monometallismo aureo che rendeva scarso il denaro liquido e potentissimi i possessori del medesimo, insomma il grande capitale industriale e finanziario che aveva il suo centro nell'Est, in particolare a Wall Street, e i tentacoli dappertutto. Non solo il big business e il money power, che dividevano la nazione in poveri laboriosi e in milionari corruttori e parassiti, venivano tuttavia avvertiti come nemici, ma era considerato tale anche il nascente melting pot. Avversari dichiarati, e odiatissimi, erano infatti - e ancor più per la base che per i dirigenti - gli ebrei, gli immigrati più recenti, gli stranieri, e naturalmente i neri. Con non pochi sospetti venivano inoltre considerate le tortuose persone istruite, cui veniva contrapposta la semplice e rettilinea etica dell''uomo comune', del piccolo produttore onesto, dell'individuo cioè che, solidarmente con i propri simili, percepiva la propria piccola proprietà rurale - una microcomunità di lavoro e di destino - come autonomia di vita, come fatto insormontabile, come valore irrinunciabile, persino come missione religiosa. La ricchezza, si sosteneva, doveva appartenere a chi la produceva; per ostacolare questo elementare principio erano sorti ovunque intrighi e giganteschi complotti. In particolare, negli stessi documenti programmatici del People's Party, veniva denunciata "una vasta cospirazione contro l'umanità, organizzata su due continenti e ormai dilagante nel mondo intero".
Il termine populism, tuttavia, pur sollecitato dalla comparsa della nuova realtà politica, non servì solo per descrivere oggettivamente la fisionomia del nuovo partito. Esso si autonomizzò progressivamente dal contesto specifico, come forse era inevitabile, e cominciò ad assumere, nella lingua inglese, sfumature negative. Tali sfumature erano destinate, negli anni successivi, a persistere, e anzi ad ampliarsi, tranne qualche vistosa eccezione, in tutte le lingue occidentali. Già nella seconda metà degli anni novanta alla parola in questione venivano infatti associati significati che tendevano a connotare il populismo come un fenomeno accostabile al paternalismo e alla demagogia. E se in russo il termine narodničestvo, criticato o meno che fosse il movimento, veniva sempre collegato a una forma di socialismo (magari 'romantico', o 'utopistico', o, per usare un termine della storiografia sovietica, 'democratico-rivoluzionario'), ora il termine populism - sebbene il movimento americano venisse sottoposto dopo il 1945 a un lungo dibattito storiografico sulle sue componenti 'di sinistra' e 'di destra' - si discostava nettamente dal socialismo e in una qualche misura si bipartiva in due realtà senza dubbio contigue, ma differenziate per referente e per significato.
Per un verso, infatti, sul versante oggettivo, dal punto di vista della sociologia della modernizzazione (si pensi a Barrington Moore o anche agli studi di Gino Germani sull'America Latina), esso stava a significare una sorta di sindrome che si impadroniva della 'piccola gente' - strutturalmente difforme nei vari paesi - in una situazione di disagio economico accentuato o nel corso della difficile transizione da un'economia prevalentemente agrario-contadina, largamente fondata sull'autoconsumo, a un'economia permeata nelle stesse campagne da un'industrializzazione e da una finanziarizzazione crescenti. Il populismo, in altre parole, rappresentava una forma di resistenza e una risposta autoreferenziale, ma di massa, alle difficoltà e ai traumi, anche psicologici, di un dirompente mutamento sociale. Questa sindrome poteva accomunare due situazioni pur diversissime come quella della Russia precapitalistica, dove la resistenza si concentrava sulla sostanza naturaliter socialista della comune agraria, e quella degli Stati Uniti capitalistici, dove la resistenza, attingendo al patrimonio agrario jeffersoniano e all'individualismo della frontiera, si concentrava, cercando invano di sottrarsi ai 'politicanti' di Washington, sulla piccola proprietà dei farmers e dei coloni.
Il populismo, insomma, sarebbe una sorta di attaccamento nei confronti di ciò che, causando grandi disagi, sta per tramontare, un attaccamento che non sembrerebbe tuttavia avere una funzione disperatamente e inutilmente conservatrice, ma parrebbe poter essere utilizzato - difficile dire con quale tasso di redditività - come ammortizzatore e come anticorpo in grado di attutire gli inevitabili contraccolpi generati dai passaggi più rudi della trasformazione in atto.Per un altro verso, sul versante soggettivo, dal punto di vista della sociologia della conoscenza (Wissensoziologie, termine introdotto nel 1909), il populismo rientra a pieno titolo nella storia delle ideologie.
A partire dall'esperienza americana - la quale però 'rivela' nell'identità del lessico aspetti presenti nell'esperienza russa - il concetto si carica di significati particolari che mirano a individuare nell'atteggiamento populistico, come si è visto, il paternalismo (moderatore) o la demagogia (estremizzatrice) di chi, per fini propri, di ordine politico o sociale, utilizza, organizza o mobilita la sindrome ravvisata sul versante oggettivo. Successivamente, nella critica che, con intenti antitetici, ne fanno sia i liberali che i socialisti, il populismo diventa anche, e forse prevalentemente, sulla scorta delle suggestioni letterarie (si pensi, per restare in Russia, all''umilismo' e al 'dolorismo' di Dostoevskij o al misticismo panico di Tolstoj), sinonimo di vago umanitarismo e di atteggiamento sentimentale e velleitario davanti ai problemi sociali, ritenuti solubili grazie all'amore per il popolo. Vi sarebbero dunque, per riassumere sinteticamente i significati 'negativi' che la parola tende a incorporare, un populista demagogico, che approfitta di una particolare situazione e che in sostanza inganna a proprio vantaggio il popolo realmente esistente, e un populista sentimentale che, pur in buona fede, idealizza il popolo e non riesce quindi in modo concreto, e soprattutto in modo radicalmente risolutivo, a lenirne i disagi.
Nel frattempo, stimolata dalla precedente comparsa della parola inglese, nel primo decennio nel Novecento compariva in francese la parola populiste, e non solo come corrispettivo del termine di origine americana, ma anche, e soprattutto, al fine di tradurre il russo narodnik, ovverossia, come recitava il Larousse mensuel illustré del 1907, il "membro di un partito che in Russia sostiene tesi di tipo socialista": un partito che era evidentemente quello socialista rivoluzionario, largamente maggioritario, appunto in Russia, rispetto alla socialdemocrazia, e incontestabilmente collegato con la stagione eroica del populismo. Nel 1912, ne La Russie moderne di Alexinsky, un testo divulgativo destinato a un buon successo, compariva finalmente in francese il sostantivo populisme. Il libro veniva tradotto l'anno successivo in inglese, ottenendo sempre un buon successo, e il populisme francese si saldò allora con il populism angloamericano.
La stessa parola veniva dunque ormai usata per significare cose certamente assai diverse, ma tra loro accorpabili, come si è visto, in ragione di qualche affinità. Ed è proprio su queste affinità che ha lavorato negli anni il lessico politico, con il risultato di estrarre-elaborare un concetto dotato di un incerto e mobile statuto semantico, ma anche di un'ampia e multidirezionale utilizzabilità pratica. Si pensi, d'altra parte, che il libro di Alexinsky conobbe in Francia una nuova edizione aggiornata nel 1917, dopo la Rivoluzione di febbraio, quando l'interesse per le cose di Russia, e per quelle rivoluzionarie in particolare, era comprensibilmente cresciuto, e destinato a crescere a dismisura in seguito all'Ottobre bolscevico.
In tedesco la parola utilizzata, e proveniente dall'esterno, fu Populismus. Parola tipicamente tedesca - e in qualche modo inquietante, visto l'uso che ne venne fatto da parte dell'estrema destra tra Repubblica di Weimar e Terzo Reich - fu però völkisch. Questo termine ebbe gran fortuna soprattutto negli anni venti, in particolare nell'ambito della cosiddetta "rivoluzione conservatrice", acquistando un significato plurimo dove l'elemento nazionale, quello popolare e quello razziale si compenetrano con forza, alludendo a una complessa fisionomia nordico-germanica che tende a racchiudere in sé razza, popolo, stirpe, lingua e natura. Il termine völkisch, nei contesti a valenza filosofico-politica, in genere non viene tradotto perché, dato il suo carattere insieme composito ed evocativo, è considerato intraducibile. Volgerlo in 'populista' sarebbe certo unilaterale e fuorviante, ma qualche elemento di affinità, anche in questo caso, potrebbe essere rintracciato.
I cosiddetti Völkischen, comunque, per il fatto di richiamarsi direttamente a ciò che è originario, sono stati considerati da Armin Mohler il primo dei cinque raggruppamenti essenziali che concorrono a formare la nebulosa della "rivoluzione conservatrice". Gli altri sono i Jungkonservativen, i Nationalrevolutionäre, i Bündischen e la Landvolkbewegung. L'elemento 'popolare' o 'populista' compreso nel völkisch precede comunque, in quanto natura e spirito, la realtà meramente artificiale dello Stato, e resta ontologicamente ed eticamente al di sopra di essa: rappresenta infatti il patrimonio primigenio, e non scalfibile, dello 'stare assieme' proprio dei Tedeschi.
In Italia il termine populismo, a quanto sembra, penetrò dopo la prima guerra mondiale e in modo particolare all'inizio degli anni venti. Il 3 dicembre 1921, con in calce la firma Baretti Giuseppe (in realtà Piero Gobetti), comparve su "L'Ordine Nuovo" un articolo sul tema in questione. Avrebbe fatto da tramite, seguendo alcuni dizionari, la lingua inglese, dove il termine, adottato tra l'altro per fornire di significato un fenomeno autoctono e non straniero, si era effettivamente sedimentato da un maggior numero di anni; ma è possibile che anche il francese sia stato determinante: si pensi, a questo proposito, a quanta letteratura russa, prima dell'attività delle edizioni torinesi Slavia, curate, tra gli altri, da Alfredo Polledro e da Leone Ginzburg, fosse arrivata in Italia, sino appunto agli anni venti, tradotta dal francese.
È un fatto, però, che Piero Gobetti, eccellente conoscitore e traduttore della lingua russa, nel Paradosso dello spirito russo, uscito postumo nel 1926 (ma scritto nel 1925 e comprendente anche articoli del quinquennio precedente), scrivesse, a proposito ovviamente del movimento russo, 'popolismo' invece che 'populismo'. La grafia non ancora consolidata, e così evidentemente e volutamente 'italiana' del termine (senza cioè anglicismi, o francesismi, o anche latinismi), conferma che il termine stesso era di conio abbastanza recente e di non frequentatissimo utilizzo. Per Gobetti i populisti realmente esistiti, la polemica contro i quali si affiancava a quella contro l'intelligencija, erano stati sognatori e agitatori illusi e sentimentali. Ma la sua argomentazione, invero originale e anche francamente paradossale, non si fermava qui. Le idee populistiche, infatti, soprattutto sul terreno economico, intrise com'erano di "grossolano progettismo" e di declamazione rousseauiane, affondavano le loro radici in un mondo rurale arcaico.
Di questo mondo i populisti, i veri egualitari, i veri collettivisti-comunisti della storia russa, avevano voluto preservare i caratteri fondamentali. Per questo si erano proposti come portatori di un'ideologia sentimentale, primitiva, teocratica e reazionaria quanto e più di quella slavocentrica e imperial-zarista. Il bolscevismo, invece, nelle peculiari e non esportabili condizioni russe, era un movimento 'realisticamente' liberalrivoluzionario e intimamente, in virtù del primato accordato all'azione, anticollettivista e anticomunista. Era insomma, in antitesi con il nullismo socialistico dei populisti, e soprattutto grazie ai soviet, l'espressione della modernità dispiegata e della formazione, in terra d'Asia, contro ogni comunitarismo livellatore e oscurantistico, del libero individuo autoconsapevole. Il bolscevismo, in rebus ipsis, volente o no, si sarebbe piegato alla propria stessa energia e avrebbe favorito in Russia l'inevitabile sviluppo del capitalismo, formazione sociale che, tra libertà politica e liberismo economico, rappresentava per Gobetti il capolinea della storia economica del mondo moderno e contemporaneo. Il populismo, invece, complice di fatto dello zarismo 'asiatico', aveva fornito sino all'irrompere del bolscevismo, insieme alle altre forze del passato, un contributo decisivo all'azzeramento della possibilità stessa di una rivoluzione liberale in Russia.
Sul terreno letterario, tuttavia, il termine ebbe, quantomeno in Francia, qualche risonanza positiva. Nel 1929 venne infatti steso, da André Thérive e Léon Lemonnier, il Manifeste du roman populiste, che intendeva aprire la letteratura, e la forma-romanzo in modo particolare, all'universo popolare, alle condizioni di vita e di lavoro del popolo delle città e dei paesi, ai sentimenti degli operai, degli artigiani e dei piccoli commercianti, abbandonando nel contempo da una parte lo sterile cerebralismo delle iperintellettualistiche avanguardie letterarie e dall'altra l'esasperato psicologismo del romanzo 'borghese'. C'era chi, come per esempio Henry Poulaille, o anche il pacifista anarchico Marcel Martinet, avrebbe preferito l'aggettivo 'proletario' piuttosto che 'populista', ma il Manifeste, e ancor più la letteratura che a esso in qualche modo si ispirò, erano assai lontani, con la loro attenzione per il mondo degli umili e con il loro realismo 'magico' impregnato di forte e insieme malinconico lirismo, dalla poetica staliniano-zdanovistica che sarà poi nota, nell'URSS e fuori, come 'realismo socialista'. Il romanzo 'populista' più famoso, e destinato a maggior successo, fu Hôtel du Nord (1929) di Eugène Dabit, la cui versione cinematografica, ad opera nel 1938 di Marcel Carné, contribuì in modo decisivo ad ampliarne la fama.
E fu proprio il cinema francese della seconda metà degli anni trenta, con le sceneggiature di Prévert, a incarnare al meglio l'indirizzo artistico che non aveva temuto di autoproclamarsi 'populistico'. Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, in una nota del 1931, intervenne su questi movimenti letterari francesi "verso il popolo", definendoli tendenze appunto populiste, oltre che idealizzanti, e interpretandoli ruvidamente come "ripresa del pensiero borghese che non vuole perdere la sua egemonia sulle classi popolari e che, per esercitare meglio questa egemonia, accoglie una parte dell'ideologia proletaria". Quest'interpretazione esprimeva bene, a sua volta, l'ostilità della teoria comunista - mirante a difendere il primato della 'classe' - nei confronti del concetto stesso di populismo, interclassista e sentimentalmente idealistico, cui veniva contrapposta, per citare ancora Gramsci, "la potenza politica e sociale del proletariato e della sua ideologia" (Quaderno 6, § 168). In modo più descrittivo, e assai meno ideologico, Gramsci, su questo tema, e partendo sempre dall'ambito letterario, intervenne ancora nel 1934, ricordando che Francesco De Sanctis nell'ultima fase della sua vita rivolse la sua attenzione al romanzo 'naturalista' o 'verista'. Questo romanzo (Gramsci pensava probabilmente a Zola) era stato l'espressione intellettuale del più generale movimento di chi si proponeva di "andare al popolo", e cioè del populismo professato da alcuni gruppi intellettuali nell'ultimo scorcio del secolo, allorquando la democrazia quarantottesca era tramontata e le città avevano accolto, per lo sviluppo della grande industria, grandi masse destinate a infoltire i ranghi della classe operaia (Quaderno 23, § 1).
Il populismo, in questo caso, sarebbe l'atteggiamento, oggettivistico e sociologizzante (e quindi non sentimentale), assunto dalla "classe dei colti", nell'età del positivismo maturo, davanti al fenomeno dell'irruzione delle masse popolari - e della classe operaia in particolare - sulla scena della città moderna.Quanto al regime fascista italiano, pur ponendo esso al centro delle proprie sistematizzazioni teorico-politiche la nozione e la realtà del 'popolo', vale a dire del protagonista della mobilitazione totalitaria, ovviamente non si definì mai 'populista'. Saranno la storiografia e la pubblicistica politica della seconda metà del secolo a definire in qualche occasione 'populistici' alcuni aspetti dei fascismi - non solo di quello italiano - e taluni corposi aspetti della destra 'rivoluzionaria' novecentesca, così diversa da quella 'controrivoluzionaria' del primo Ottocento e da quella 'conservatrice' del secondo Ottocento. L'aura negativa addensatasi sulla parola, soprattutto per quel che riguarda il lessico politico, ne sconsiglierà d'ora in poi l'utilizzo autodefinitorio.
Il popolo, per i fascisti italiani, costituiva comunque, dovendo sintetizzare le diverse e anche difformi prese di posizione, un'unità genetica che consentiva a ogni appartenente di uscire dalla sua singolarità per ritrovarsi in una realtà che lo includeva: ciò si verificava tuttavia solo in presenza di una forte e carismatica spinta politica atta a indirizzare e a far sviluppare la volontà del popolo di esistere come tale. Emergeva così, in una esperienza storica che era diventata un regime politico, un carattere che poi la scienza politica contemporanea e la stessa storiografia ravviseranno come tipico dei populismi del XX secolo, presenti in America Latina e in varie aree con problemi di sviluppo: il plebiscitarismo permanente e il rapporto diretto tra le masse e il capo, rapporto che impone la mediazione politica molecolare, la pressione ideologica e la pratica clientelare da parte del partito politico al potere e dei suoi apparati. Il concetto di fascismo, peraltro a sua volta assai variegato e polimorfo, e il concetto di populismo, fornito, come si è visto, di più radici storiche e di più diramazioni, in nessun modo s'identificano. Possono però, rispettando l'irriducibile autonomia semantica di ciascuno, e senza eccedere nelle comparazioni, illuminarsi reciprocamente.
La scienza politica e le analisi storiografiche, come si è già avuto modo di anticipare, hanno ritenuto di definire populistici, pur con le opportune distinzioni, un buon numero di regimi politici presentatisi nel panorama storico dell'America Latina del XX secolo. Dopo i populismi-movimenti si avevano dunque i populismi-regimi, anche se, in genere, gli studiosi che effettuavano una tale tipologia unificante avvertivano che tali esperienze ben poco avevano da spartire con il populismo russo e con quello nordamericano, se non il fatto, certo centrale, di sorgere e di strutturarsi in aree di arretratezza relativa (rispetto all'estero in Russia e in America Latina, rispetto a zone più 'moderne' del paese negli Stati Uniti) e all'interno di una difficile transizione economico-sociale.
I populismi più noti furono il varghismo brasiliano (1930-1945, da Getulio Vargas), che riuscì, tra colpi di Stato e virate autoritarie, con l'ideologia dell'Estado novo e con una struttura sindacale di tipo corporativo, a stringere in un blocco sociale la borghesia industriale, le classi medie e settori del proletariato di fabbrica urbano; il peronismo giustizialista argentino (1945-1955, da Juan Domingo Peron), il più vicino, per certi aspetti ideologici, al fascismo, ma in grado di promuovere, in una congiuntura favorevole per le esportazioni (gli anni immediatamente successivi alla guerra), una politica sociale che gli garantì il sostegno dei descamisados e di un forte movimento nazionalsindacale; l'aprismo, dall'APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana, partito fondato in Perù nel 1924 da Victor Raúl Haya de la Torre), mai andato in realtà al potere, indigenista e vero prototipo ideologico del populismo latinoamericano; il Movimiento Nacionalista Revolucionario, fondato nel 1941 in Bolivia da Victor Paz Estenssoro, più volte al potere e promotore di un processo (1952-1956) che portò alla nazionalizzazione delle miniere e a un tentativo di riforma agraria. E così via. Con la possibilità di includere l'esperienza protopopulistica di Yrigoyen in Argentina (1916-1922 e 1928-1930), alcuni governi colombiani, naturalmente la parabola progressista-conservatrice del Partito rivoluzionario istituzionalizzato del Messico, persino, dilatando lo spettro ideologico, il castrismo cubano, inizialmente populistico, e poi diversificatosi a causa in un primo tempo dello scontro frontale - quindi senza processi osmotici - della guerriglia con la classe dirigente locale, e poi a causa della chiusura degli Stati Uniti, che costrinse il nuovo governo di Cuba a chiedere udienza e sostegno a Mosca.
Alcune caratteristiche comuni hanno contraddistinto tutte queste realtà, tanto che il populismo latinoamericano ha designato, di volta in volta, nelle indagini e nelle tassonomie che ne sono state fatte, un universo ideologico, un movimento, un insieme di partiti, un insieme di regimi politici. Il 'populismo', in altre parole, è stato un passepartout concettuale applicabile, con efficacia esplicativa, a fasi particolari delle realtà latinoamericane. Le caratteristiche in questione hanno avuto comunque e innanzitutto a che fare, come è già stato messo in luce, con la transizione dall'economia agricola all'economia industriale, il che, tra l'altro, è stato sostenuto, da studiosi come Gellner e Hobsbawm, anche al fine di situare l'eziologia storica degli stessi concetti di 'nazione' e di 'nazionalismo'. Il populismo, del resto, fu sempre anche nazionalistico (in una realtà postcoloniale e ispanolusitana dove le 'nazioni' hanno ovviamente, sullo stesso piano territoriale, un tasso di artificialità elevatissimo), talvolta volto a esaltare la tradizione antichissima di un popolo (non escluse le origini inca o azteche), talvolta, almeno ideologicamente, antistatunitense, antimperialista e antiplutocratico.
A differenza che in Russia e negli Stati Uniti, il populismo latinoamericano è stato però fatto iniziare, in sintonia con la dinamica strutturale del subcontinente, nel periodo della prima guerra mondiale, il che lo differenzia nettamente dal caudillismo ottocentesco, dai diversi bonapartismi 'straccioni' e da esperienze iperpresidenzialistiche e dittatoriali come l'oligarchismo latifondistico di Porfirio Diaz in Messico. Fu infine, sempre in antitesi ai movimenti russo e nordamericano, un fenomeno essenzialmente urbano, che coinvolse masse di recentissima immigrazione nelle città. Si trattava di masse ovviamente non tutelate sino a quel momento da alcun sindacato, prive di qualsivoglia integrazione sociale e di qualsivoglia protezione politica, ma certo ormai lontanissime psicologicamente dal mondo rurale di provenienza e ben disponibili ad ascoltare gli appelli di chi si proponeva di mobilitarle ricorrendo a un messaggio ideologico schiettamente populistico (non nel senso 'storico', ma nel senso del bricolage proposto dalla scienza politica), centrato cioè sull'apologia dei valori che il popolo credeva propri e sul rapporto il più possibile diretto, non mediato cioè da strutture istituzionali intermedie, tra le masse e il leader. La conclamata e sempre osannata supremazia della volontà popolare, sintesi del raggrumarsi policlassistico di segmenti diversi di una realtà prevalentemente urbana, e la fascinazione plebiscitaristica diventarono così il cuore, e il nerbo, dello sfondo ideologico e politico del populismo latinoamericano.
Anche in altre aree del pianeta, contrassegnate dai problemi di un difficile decollo economico e da un panorama sociale traumatizzato, sono state ravvisate da una parte una sindrome, e dall'altra una mobilitazione ideologica che potrebbero essere etichettate come populistiche. Si pensi all'Indonesia di Sukarno, all'Egitto di Nasser e a diversi aspetti ideologici, complicati dalle contrapposizioni della guerra fredda, del cosiddetto 'non allineamento' e anche del 'terzomondismo'. La determinante, e per certi versi quasi esclusiva, presenza dei contadini in tanti processi di decolonizzazione e anche in grandi rivoluzioni che pure si sono proclamate 'socialiste', come la cinese e la vietnamita, ha potuto inoltre far pensare a una deriva populistica di enorme portata lungo tutto il XX secolo. Il mancato realizzarsi della previsione formulata dal movimento socialista ottocentesco, vale a dire la non avvenuta trasformazione socialistica nelle aree 'forti' dell'industrialismo capitalistico, ha spostato l'attenzione sulle rivoluzioni autoproclamatesi socialiste del XX secolo, verificatesi tutte, Russia compresa, nelle aree dell'arretratezza, del sottosviluppo, della ridottissima presenza operaia, della prevalente e schiacciante presenza contadina. Si è potuto così pensare anche a una grandiosa rivincita-resurrezione del populismo, rurale e nel contempo autonomo promotore autoritario di sviluppo extrarurale, nei confronti del socialismo 'occidentalistico' del XIX secolo, urbano e realizzabile solo al termine dello sviluppo promosso dall'antagonista capitalistico.
Nello stesso sionismo politico, d'altra parte, e ancor più nella forma-kibbutz, affine per certi versi all'obščina, è stata intravista, in questo caso con molte buone ragioni filologiche, l'eredità specifica del populismo russo. Si pensi infatti, oltre al messianismo e all'attesa di redenzione politica e sociale, alla provenienza geografica di tanta diaspora ebraica. Tuttavia il dilatarsi del concetto ha rischiato, come sempre, di attenuarne, o vanificarne, la carica esplicativa, di renderlo cioè generico. Nella stessa America Latina, del resto, la spinta definita populistica è sembrata essersi esaurita: prima, tra gli anni sessanta e settanta, a causa di svolte autoritario-reazionarie promosse da organismi oligarchici e dittature militari in sintonia con interessi stranieri e nordamericani, pronti a irrigidire la presa sul subcontinente in parallelo con il contemporaneo ripiegamento nel Sudest asiatico e nel mondo arabo; poi, negli anni ottanta, a causa di una riproposta certo importante - anche se non sempre limpida, considerato lo scenario sociale attraversato da macroscopiche diseguaglianze - della democrazia rappresentativa e del riformismo.
Non vi è stato cioè più spazio, se non in forme parziali, per la 'terza via' populistica, vale a dire per l'osmosi plebiscitaristico-demagogica tra autoritarismo e riformismo. Vi era spazio solo per l'uno o per l'altro.Ha comunque avuto sostanzialmente ragione Gerschenkron, che ha legato il populismo all'arretratezza, ma non a quella assoluta e immobile del mondo primitivo, bensì a quella relativa e mobile del mondo moderno. Sono infatti state la presa di coscienza dell'arretratezza nel momento della transizione economica, l'insoddisfazione psicosociale che ne è derivata, e la risposta politica che ha prodotto, che hanno rappresentato il comune denominatore di tutti i fenomeni storici che sono stati inglobati, in un modo o nell'altro, nel gran contenitore del populismo.Il termine 'populismo' si era tuttavia ormai autonomizzato dal contesto 'tecnico' degli imperativi della modernizzazione nei paesi arretrati. Destrutturato rispetto ai significati di partenza, e quindi ormai polivalente, si trovava a essere introdotto, con intento sempre polemico, all'interno dei dibattiti culturali e politici.
Nel 1965, ad esempio, per restare al caso italiano, veniva pubblicato l'assai diffuso e discusso Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa, propugnatore del cosiddetto 'punto di vista operaio'. Si trattava di una storia della letteratura, in cui però l'intero gramscismo italiano veniva messo in discussione. Nel Gramsci dei Quaderni, infatti, veniva individuato un epigono di Gioberti, cui in effetti si deve una prima riflessione sui concetti di 'egemonia' e di 'nazionalpopolare'. Una tale eredità non lo poneva evidentemente al riparo, come accadeva a molti intellettuali e scrittori italiani progressisti, dal populismo paternalistico e dalla smania di 'andare al popolo', annegando nell'indistinzione interclassista di quest'ultimo l'irriducibile autonomia della classe operaia, vera matrice dell'innescarsi dei conflitti radicali tipici del mondo industriale.
Meglio, molto meglio, secondo Asor Rosa, il lucido e aspro disincanto degli scrittori a tutto tondo borghesi, che, senza lasciarsi afferrare e distrarre da miti arcaici d'origine contadina o dalla filologia pauperistico-cattolicheggiante del sottoproletariato, aprivano spiragli in direzione di un futuro che la classe operaia, finalmente priva di saccenti maestri e di grilli parlanti immersi nei buoni sentimenti del passato, s'incaricherà di conquistare. Il libro di Asor Rosa si inseriva del resto precocemente, sul terreno storico-letterario, in un clima e in una crisi che nel 1970 Nicola Matteucci, contrapponendo il confuso presente all'operoso scenario del 1945 ancora illuminato dalla presenza della cultura liberale, ebbe a definire "insorgenza populistica". La scena era dominata da un cattolicesimo che aveva smarrito appunto gli anticorpi liberali e da un operaismo a parole rivoluzionario e in realtà pansindacalistico. Si stava scontando duramente il fallimento dell'età delle riforme e del centrosinistra.
Quanto al 'populismo', si avvertiva che esso non andava inteso nel senso storico (ad esempio: il populismo russo), ma nel senso più strettamente sociologico, col fine di cogliere l'apparire di un'atmosfera attraversata da idee semplici e da passioni elementari, da un diffuso antintellettualismo e dalla rivolta contro lo specialista, l'esperto, lo studioso, in nome appunto di sentimenti primitivistici, paragonabili, sul piano formale, a quelli dell'interventismo del 1915 - sorto operando una sorta di aggressiva tabula rasa dei valori dell'Italia liberale - e a quelli del fascismo di sinistra, apologeta delle 'nazioni proletarie' in odio alle 'demoplutocrazie'.La caduta dei comunismi, scompaginando oltre tutto l'ordine arcigno della guerra fredda, avrebbe poi mutato le cose e generato nell'Est europeo, e in particolare nella Russia di El´cin, flussi di partecipazione politica e di arroccamento sociale che sarebbero stati definiti 'nazionalpopulistici'. Il populismo, da questo punto di vista, tornava allora al suo punto di partenza e alla sua patria di elezione. A cavallo inoltre tra il crepuscolo degli anni ottanta e il primo quinquennio degli anni novanta, in concomitanza, in Italia, con la crisi politica e morale del sistema dei partiti che ha posto in difficoltà non solo i partiti stessi, ma anche le forme esistenti della rappresentanza, il termine 'populismo', con significati spesso diversi e modificato in permanenza dal vortice della comunicazione mediatica (che ha devastato, tra l'altro, la parola 'giustizialismo', trascinandola incongruamente dall'ambito dell'ideologia peronista a quello dell'azione giudiziaria), è tornato prepotentemente alla ribalta. Il tracollo disordinato dei canali intermedi di connessione tra il cittadino e il governo, appunto i partiti, su cui per un certo periodo è caduta una sorta di damnatio memoriae, ha favorito, secondo alcuni, lo sviluppo di una deriva plebiscitaria, animata da un'aggressiva videopolitica che è sembrata incarnare una vistosa dimensione populistica.
La platea cui si sarebbe rivolta la nuova democrazia plebiscitaria, diretta e referendaria - surrogato della democrazia rappresentativa in crisi - sarebbe però stata un 'popolo' assai diverso da quello del passato: un 'popolo' non contadino, ovviamente, e neppure, altrettanto ovviamente, operaio di recente formazione, ma il popolo virtuale dei sondaggi e degli ascolti televisivi, costituito in gran parte dal crescente settore del piccolo lavoro autonomo (talvolta ultraliberista), dalle sacche ancora persistenti di lavoro salariato (talvolta neostataliste) e dall'area in aumento della disoccupazione, dell'occupazione precaria e della sottoccupazione. Il 'populismo' sarebbe però diventato in realtà, e non solo in Italia, per usare un orrendo neologismo, 'gentismo', e cioè trionfo dell'indistinto, dell'omogeneo sempre mutevole, del 'senza radici'. Si sarebbe infatti affermato, secondo i sociologi, che già da tempo ragionano di "folla solitaria", il regno della moltitudine, frutto della globalizzazione (o mondializzazione) che fa implodere le masse, affossa le appartenenze, deterritorializza, produce sradicamento e spaesamento. L'ultimo arrivato tra i populismi - forma di resistenza ancora una volta contro l'ennesima transizione, vale a dire contro il cosmopolitismo just in time di un'economia che realizza finalmente la sua antica vocazione internazionalistica - sarebbe così un populismo senza popolo. Un populismo forse perfetto.
(V. anche Demagogia; Intellettuali; Rivoluzione; Socialismo).
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