CAPUA, PORTA DI
Detta anche Porta delle due Torri, la monumentale struttura fortificata fu costruita per espresso volere di Federico II di Svevia, fra il 1234 e il 1239-1240, dinanzi al ponte Casilino, di epoca romana, che attraversa il fiume Volturno, all'ingresso nord della città di Capua (l'antica Casilinum), considerata l'avamposto più settentrionale del Regno di Sicilia, ai confini con lo Stato della Chiesa. Fatta demolire nel 1557 dal viceré spagnolo di Napoli, l'imponente costruzione era caratterizzata dalla presenza di due massicce torri ‒ di cui resta in piedi il basamento poligonale ‒ collegate fra loro da un corpo di fabbrica intermedio, forse un po' meno alto delle torri stesse, attraversato sul piano stradale da una sorta di androne voltato in muratura. Abbellivano il monumento, specie sulla fronte settentrionale, numerose sculture, molte delle quali sono oggi conservate nel Museo Provinciale Campano di Capua.
L'imperatore, dopo aver siglato direttamente il progetto della Porta per approvazione (manu propria consignavit), come ricorda Riccardo di San Germano nel suo Chronicon (ad annum MCCXXXIV), nominò Niccolò da Cicala direttore dei lavori, mettendogli a disposizione come mano d'opera gli abitanti dei territori compresi fra Capua e Mignano. Si trattò di un intervento architettonico di tale rilievo da capovolgere, nell'ambito della stessa città campana, il rapporto fino allora esistente fra il nevralgico Castrum lapidum di fondazione normanna, passato ormai in secondo ordine, e il ponte Casilino che con la Porta a mo' di castello divenne il punto urbanistico di maggiore riferimento, un punto di forza di straordinaria efficacia difensiva che assicurava il controllo della Via Appia e contribuiva a rendere la città un'autentica piazzaforte. Oltre a questi aspetti, il monumento deve la sua straordinaria importanza al fatto che sul piano storico-artistico costituisce una tappa fondamentale del percorso dell'arte federiciana che culmina in Castel del Monte, mentre sul piano storico-ideologico, come si vedrà più avanti, si configura come il più esplicito e sorprendente manifesto politico del sovrano committente.
Le testimonianze storico-letterarie, i disegni dei secc. XV-XVII, i ruderi superstiti abbinati alle indagini archeologiche condotte tra il 1928 e il 1936, riprese poi nell'ultimo decennio del Novecento, nonché le sculture conservate al Museo Campano hanno consentito agli studiosi di formulare ipotesi ricostruttive dell'intera Porta in termini complessivamente attendibili, nonostante alcune incertezze nei dettagli. Durante i restauri più recenti, condotti dalla Soprintendenza ai Beni ambientali architettonici artistici e storici di Caserta, si è pure proceduto ad effettuare un minuzioso rilievo architettonico computerizzato del complesso, a cui sarebbe opportuno affiancare un rilevamento analitico di tutte le murature interne ed esterne che ne evidenziasse le alterazioni subìte, distinguendoli ad esempio i blocchi di marmo e di tufo originari da quelli aggiunti, talora molto arbitrariamente, nei molteplici interventi del passato, a partire già dal 1557.
Tra la letteratura artistica, si rivelano particolarmente utili la descrizione del monumento che Andrea d'Ungheria (1882) inserì nel resoconto della spedizione di Carlo d'Angiò in Italia meridionale composto intorno al 1272, i Gesta Romanorum (1872) del 1472 circa, la biografia di Braccio da Montone del vescovo umanista Giovanni Antonio Campano (1929) e il manoscritto degli Annali della Città di Capua scritto nel 1571 da Scipione Sannelli, di cui è copia nell'Archivio Storico del Museo Campano di Capua.
Relativamente ai disegni più antichi, godono fama di maggiore veridicità i due schizzi attribuiti a Francesco di Giorgio Martini, entrambi siglati con la scritta "porta di Chapoua", eseguiti nel 1480, ovvero prima della distruzione del monumento, e ora conservati agli Uffizi (Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, nrr. 333Ar e 322Ar), mentre il disegno di anonimo, degli inizi del 1500 ca., alla carta 51v del ms. 3528 della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna, e il disegno del tutto approssimativo di Fabio Vecchioni, conservato nell'omonimo manoscritto, del 1655, presso il Deutsches Historisches Institut di Roma (ms. 46), sono documentativi solo di qualche generico dettaglio. Il primo dei due schizzi di Francesco di Giorgio mostra la facciata settentrionale della Porta divisa in tre registri tramite due cornicioni disposti orizzontalmente. Nel primo registro si apriva l'arco del portale d'ingresso riccamente decorato, inquadrato da due colonne addossate al muro con capitello corinzio sostenente un busto umano. Ai lati dell'imposta dell'arco due leoni su mensole sporgevano dalla parete. Sopra l'arco si disponevano tre clipei, o nicchie circolari, entro cui erano collocati tre busti. Nel registro mediano campeggiava, in posizione centrale, la statua dell'imperatore, affiancata da due figure di minori dimensioni. Nel registro più alto, infine, si estendeva una serie di sei archetti cuspidati entro due archi a tutto sesto che si disponevano ai lati. Meno prodigo di particolari appare invece il secondo schizzo degli Uffizi che rimanda alla parete compresa fra le torri rivolta verso la città, dove si apriva un sobrio portale timpanato, di sapore classico, il cui disegno sembra anticipare il portale di Castel del Monte e quello del castello di Prato.
Quanto alle ipotesi di ricostruzione grafica, quella effettuata a china da Andrea Mariano nel 1928, conservata al Museo Campano, riveste un indubbio valore storico e critico, poiché ad essa sembrano rifarsi, sia pure con alcune varianti, la più nota restituzione grafica di Shearer (1935) e quella di Bucher (1953), abbinata normalmente agli studi di Willemsen (1953 e 1977). Più recentemente anche Silvia Tomei (2003) ne ha proposto un'altra versione che, pur rifacendosi esclusivamente alle fonti storiche, intende escludere l'idea, avanzata da Shearer, del cortile a cielo aperto fra le torri e suggerire visivamente la presenza di un corpo di fabbrica compreso fra le due torri, identificandolo con il regium cubiculum del quale Campano ci ha lasciato memoria nei suoi scritti e rispetto al quale, però, sembra estraneo lo schizzo che nel foglio 333Ar di Francesco di Giorgio compare nella parte alta, a sinistra (Pane, 2000). Tuttavia, no-nostante le varie ipotesi fino ad oggi avanzate, risultano ancora problematici alcuni aspetti della Porta, quali la determinazione dell'altezza complessiva delle torri, la ripartizione della cubatura compresa tra le torri stesse, il collegamento fra le due torri alla quota di copertura, l'esatta collocazione di alcune sculture della facciata settentrionale, l'articolazione della facciata rivolta verso la città, la presenza o meno di un ponte levatoio e la sua esatta collocazione (Scaglia, 1981; Pane, 2000). In ogni modo appare certo che i prospetti frontali che facevano parte dell'interturrio dovevano ergersi maestosi, come vere e proprie quinte architettoniche riccamente articolate, con un coronamento merlato che, secondo la descrizione di Vecchioni, veniva ripreso anche sulle torri contigue (Paeseler-Holtzmann, 1956). Sicuramente presentava queste caratteristiche la fronte settentrionale rivolta verso lo Stato della Chiesa, dove un tipo di architettura fittizia, fatta di nicchie, arcate, timpani e loggiati ‒ chiusi o aperti che fossero ‒ finalizzati principalmente ad accogliere l'apparato decorativo, sembrava giustapporsi e interagire con la struttura architettonica reale creando vibranti effetti prospettici e luministici. Così appare certo che la Porta nel suo insieme, pur avendo una sua precisa collocazione nel tracciato dell'arte federiciana, proprio in virtù delle sue caratteristiche doveva configurarsi come un unicum nel panorama delle strutture fortificate dell'epoca.
Rifacendoci alle parti superstiti della Porta sul ponte, si constata che l'interno di ciascuna delle torri era collegato tramite una doppia scala a un ambiente sotterraneo, ricavato sotto il piano stradale, nel quale era sistemata una cisterna che, grazie a un sofisticato sistema idraulico, poteva essere alimentata dalle acque del Volturno. Vista dall'esterno, la parte inferiore delle torri, rivestita di pietra calcarea a bugne regolari e di buon taglio, poggia su uno zoccolo di tufo a forma di ferro di cavallo e termina con eleganti pennacchi prismatici posti in corrispondenza degli spigoli, con la funzione di raccordare dinamicamente la struttura poligonale di base con quella sovrastante di tipo circolare. Gli elementi di raccordo, conclusi ai lati da graziose volute e originariamente abbelliti al vertice da erme o antefisse riproducenti perlopiù visi umani, non solo sembrano assecondare il passaggio dalla struttura poligonale a quella circolare, ma attenuano nel contempo il contrasto cromatico che si viene a creare fra il basamento in calcare chiaro e il resto delle torri, costruito con grossi conci di tufo grigio scuro. Il gusto per la bicromia, mediato verosimilmente dalla tradizione locale attestata nel campanile della cattedrale cittadina risalente al vescovo normanno Erveo (1073-1081) e, pressoché contemporaneamente, nella torre campanaria della non lontana abbazia desideriana di S. Angelo in Formis (1072-1087), dove alla pietra calcarea del basamento segue il cotto della parte alta, trovò immediata eco in un'altra struttura fortificata federiciana, ovverosia nel grande mastio circolare inserito, tra il 1240 e il 1250, nel castello di Caserta Vecchia a opera di uno dei fedeli vassalli di Federico, il conte Riccardo di Lauro che nel 1246 ne sposò la figlia Violante (D'Onofrio, 1969). È da rilevare poi come la Porta capuana a motivo della perfezione tecnica del paramento murario e per la presenza di alcuni segni lasciativi dai lapicidi, già segnalati a suo tempo da Shearer (1935), trovi un plausibile riscontro, sempre in Terra di Lavoro, nel cantiere imperiale di Rocca Ianula (1230-1239), dove l'esterno del torrione è apparecchiato con estrema cura in blocchi di calcare rifiniti con la martellina e dove pure affiorano numerosi marchi lapidari, benché differenti epigraficamente da quelli di Capua (Pistilli, 1999).
Prescindendo dai dettagli, la tipologia della Porta in questione sembra ricalcare nell'insieme il modello delle antiche porte urbane romane, munite di torrioni ad andamento quadrato o circolare. In particolare le maestranze al seguito di Federico dovettero ispirarsi, più che altrove, alle porte del genere che si aprivano nelle mura aureliane di Roma, quali ad esempio la Porta Appia e la Porta Ostiense (Meredith, 1994). Ma la valenza celebrativa del manufatto, evidenziata dal ricco corredo delle sculture, impone un logico riferimento, almeno sul piano dell'idea, anche agli archi trionfali dell'antichità, posti perlopiù in punti urbanistici strategici e arricchiti anch'essi di sculture e scritte commemorative. Tra gli archi di trionfo romani assunti orientativamente a modello possono essere indicati in particolare l'arco di Rimini, del 27 a.C., che Federico II ebbe modo di vedere nell'anno 1235, e l'arco di Costantino a Roma (ibid.). L'accostamento fra la porta di accesso alla città e l'arco trionfale, realizzato con particolare enfasi a Capua, sia pure in assenza di un preciso pretesto di vittoria da celebrare sul territorio, sarà ripreso successivamente nell'iconografia trionfalistica quattrocentesca, come è dato vedere nell'arco d'ingresso a Castel Nuovo di Alfonso V d'Aragona a Napoli (Hersey, 1973), di cui il disegno cosiddetto "Boymans", relativo a un progetto per l'arco trionfale dello stesso castello napoletano, costituisce una variante (Pane, 2000). Altri aspetti della Porta, come ad esempio il particolare collegamento con il ponte, suggeriscono infine il rimando a una tradizione caratteristica della giurisdizione feudale del tardo Medioevo, rappresentata significativamente dal cosiddetto Steinerne Brücke sul Danubio a Ratisbona: iniziato nel 1135, questo ponte era cadenzato da tre torri, di cui la centrale mostrava la statua in trono di Filippo di Svevia (accompagnata dalla scritta Philippus Rex Romanorum), il più giovane dei figli di Federico Barbarossa che assunse la corona di Germania dal 1198 fino alla sua morte avvenuta a Bamberga nel 1208 (Sauerländer, 1994). Il posizionamento di una porta fortificata in prossimità della città e a ridosso di un ponte riprende peraltro un modello di difesa avanzata già noto nell'antichità (Brenk, 1991).
Tra le sculture superstiti del corredo decorativo, oggi esposte al Museo Campano di Capua, s'impone il torso acefalo e privo degli avambracci che doveva rappresentare l'imperatore in trono. Questa statua, collocata in posizione dominante sulla fronte principale, nella nicchia maggiore dell'interturrio, ritrae il sovrano quasi a grandezza naturale, vestito di toga e pallio, fissato all'altezza della spalla destra da un fermaglio. Oltre a essere acefala e monca, essa si presenta oggi anche con una frattura longitudinale che la divide in due metà. Decapitazione e mutilazione furono eseguite durante l'occupazione francese del 1799; ma alcuni anni prima lo scultore Tommaso Solari, su commissione dello storiografo napoletano Francesco Daniele, ebbe modo di eseguire un 'calco' in gesso della testa, tuttora conservato nella Biblioteca del Museo Campano. In effetti è verosimile che il cosiddetto gesso Solari riproduca ‒ sia pure in termini idealizzati ‒ la testa coronata della statua imperiale, sia a ragione della testimonianza trasmessa da Séroux D'Agincourt, che nel 1823 mandava alle stampe un disegno della fine del XVIII sec. in cui la statua appariva ritratta per intero (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 9840, c. 50; Séroux d'Agincourt, 1823), sia a motivo delle affinità riscontrabili con l'immagine di Federico II presente sui sigilli e su altri ritratti regali dell'epoca (Claussen, 1990 e 1995; Speciale, 1999). Comunque l'esigenza per Federico di vedersi in una statua-ritratto rispondeva anche a una finalità politica di autocelebrazione, come attesta fra l'altro Andrea d'Ungheria in occasione della sua visita alla Porta trionfale capuana: "Ibique suam imaginem in eternam et immortalem memoriam sculpi fecit" (1882, p. 571). La statua del sovrano era affiancata da due nicchie di minori proporzioni, nelle quali forse dovevano trovare posto ‒ quasi a suggerire un intenzionale accostamento di antico e moderno ‒ due spolia d'età romana reimpiegati: alla sinistra una statua di Diana cacciatrice o Diana Tifatina, probabilmente la stessa che si conserva acefala sempre nel Museo Campano e di cui il disegno di Francesco di Giorgio sembra fornire qualche vago particolare, e alla destra una statua raffigurante Apollo, non meglio documentata (Scaglia, 1981; Meredith, 1994). Se la statua alla sinistra rappresentava Diana, il cui culto era diffuso nella zona, quella alla destra avrebbe potuto rappresentare il fratello di Diana, il dio Apollo appunto, secondo una corrispondenza iconografica che si ritrova nei tondi dell'arco di Costantino a Roma e che era già presente nell'anfiteatro di Capua (Meredith, 1994). L'abbinamento sarebbe apparso appropriato agli occhi di Federico II, dal momento che le due divinità erano considerate i patroni delle sue principali occupazioni di corte, la caccia e le attività intellettuali (ibid.). Tuttavia risulta difficile considerare pertinente alla Porta quest'allusione agli otia di Federico, soprattutto se si pone mente al fatto che il programma figurativo ivi espresso appare improntato a una iconologia di marca giuridica particolarmente severa (Esch, 2001).
La testa femminile, di proporzioni colossali, simboleggiante la Iustitia imperialis e denominata talora impropriamente Capua fidelis, campeggiava nel clipeo centrale posto poco sopra l'arcata d'ingresso della Porta, in asse con la soprastante statua dell'imperatore. Il volto, assai eroso dalle intemperie e segnato da profonde cavità orbitali, originariamente riempite da aggiunte materiche, è incorniciato da una ordinata capigliatura ondulata con scriminatura centrale, le cui bande, ornate da un inserto di pampini, si congiungono sulla nuca. La costruzione plastica del viso è sostenuta da una salda intelaiatura lineare che circoscrive lo stacco della chioma, il profilo della mascella e i piani luminosi delle guance, del mento e della canna nasale, mentre la consistenza della bocca è suggerita da un'icastica incisione che ne evidenzia le labbra carnose. L'identificazione della statua si chiarisce in rapporto sia ai busti dei due giudici che erano esposti specularmente nei due tondi laterali posizionati poco più in basso, sia alle iscrizioni in versi che a caratteri cubitali erano di-stribuite, a quanto pare, intorno alle cornici delle nicchie ("Cesaris imperio regni custodia fio / Quam miseros facio quos variare scio / Intrent securi qui querunt vivere puri / Infidus excludi timeat vel carcere trudi"). I due personaggi maschili, per molti versi simili tra loro, entrambi togati, con folta barba e capo cinto d'alloro, vengono tradizionalmente identificati non tanto come Costantino e Carlomagno, come ha suggerito Deichmann (1983), bensì come le effigi simboliche dei due giuristi di corte, amici e collaboratori cari di Federico II, Taddeo da Sessa e Pier della Vigna, quest'ultimo nato a Capua, impegnato fra l'altro a collaborare alla redazione delle Costituzioni di Melfi del 1231. Le loro immagini, oltre che ribadire il senso della giustizia imperiale quale perno dell'intero programma concettuale della Porta, costituivano un monito rivolto a coloro che, accingendosi a entrare nei territori di Federico, oltrepassata la Porta, avessero osato turbare o violare l'ordinamento e la pace del Regno, ambedue fondati sulla giustizia di cui Federico si sentiva in pari tempo servo e signore. La Porta si configurava dunque come una rappresentazione dello stato federiciano, nel momento dello scontro acceso con l'altro potere universale, il Papato. I messaggi centrati sul tema della giustizia riflettevano appunto il clima di conflittualità che, nello specifico, vedeva contrapposti Federico II e Gregorio IX (1227-1241), in seguito alla sesta crociata guidata dall'imperatore e all'invasione del Regno meridionale tentata dal pontefice, precariamente conclusa con la pace di San Germano (1230).
Completano l'elenco delle statue appositamente realizzate per l'intera costruzione e oggi conservate nel Museo Campano: sei antefisse di raccordo tra le basi poligonali e le masse curve delle torri, rappresentanti cinque teste umane e un elegante crochet a forme vegetali; una mensola con viso giovanile, di raffinata esecuzione; una mensola con figura d'aquila dalle ali spiegate; un'altra mensola più aggettante decorata con maschera leonina; una mezza figura di leone del genere di quelli presenti nei portali di Castel Maniace e Castel del Monte; un laterale o bracciolo del trono imperiale in forma di grifo; capitelli e altri frammenti architettonici. Non sappiamo invece se appartenga effettivamente alla Porta la testa virile barbuta considerata tradizionalmente una raffigurazione di Giove, adibita molto probabilmente come chiave di volta, come si evince dal blocco squadrato posto dietro al capo (Mingazzini, 1974). Le testimonianze scritte e figurative non consentono di stabilirne con certezza la collocazione all'interno del programma decorativo del monumento.
Analizzata dal punto di vista stilistico, la decorazione plastica della Porta, pur suscitando non pochi problemi, presenta senza dubbio un'inconfondibile originalità. Gli orientamenti critici oggi prevalenti attribuiscono questo carattere in parte all'attenzione nei confronti dell'antico, in parte alla conoscenza di nuovi cifrari espressivi di natura gotica. In particolare, il morbido panneggio fluente della statua del sovrano in trono sembra rivelare quella tendenza naturalistica del gotico franco-tedesco di marca classicistica che si rinviene, ad esempio, nei capolavori prodotti nei primi decenni del Duecento a Chartres, Notre-Dame di Parigi, Reims, Amiens, Strasburgo e Bamberga (Gnudi, 1980; Poeschke, 1980; Claussen, 1990), oppure nella grande oreficeria mosano-renana degli anni intorno al 1200 (Pace, 1994). Tuttavia attribuire direttamente la paternità della figura dell'imperatore alla mano di uno scultore del Nord rimane un'ipotesi difficile da verificare: se in quella statua si avverte l'influenza di opere dell'antichità, è proprio lo studio di simili modelli antichi, piuttosto diffuso in più regioni europee, che ne spiegherebbe la somiglianza con opere del Nord (Sauerländer, 1994). Tutta la scultura federiciana del resto appare imbevuta di notazioni classicistiche, sul cui significato e sulle cui forme molti studiosi si sono interrogati a partire da Panofsky (1960), riconoscendovi quasi concordemente un riflesso della civiltà artistica propria dell'Europa del Duecento. Anche l'impianto del volto della Iustitia rimanda a prototipi classici rintracciabili in opere romane tardoantiche (Bologna, 1969 e 1989), oppure di età imperiale (Brenk, 1991; Pace, 1994); cionondimeno, per quanto innovativo esso appaia, lo si può considerare in linea con la tradizione campana, in cui il classicismo è stato persistente durante tutto il Medioevo, traducendosi fra il XII e il XIII sec. in esperienze che vanno dai pulpiti della cattedrale di Salerno a quello della cattedrale di Sessa Aurunca, fino al pulpito della cattedrale di Ravello del 1278 (Sheppard, 1950; Morisani, 1952, 1953 e 1963; Gandolfo, 1999). Improntati a un filone classicistico, sia pure più astrattizzante e rigidamente enfatico, di sapore tardoantico, sono poi i busti dei giudici, ai quali comunque non è dato affiancare la testa detta di Giove, dove l'intonazione straordinariamente più classica ha persino fatto ipotizzare che l'opera fosse una spoglia di età romana proveniente dall'anfiteatro di Capua (Mingazzini, 1974), quando invece la sorprendente vitalità dello sguardo e il corrugamento delle arcate sopraccigliari ne fanno una "delle più moderne opere gotiche federiciane" (Gnudi, 1980, p. 4), in sintonia con la bella mensola riproducente la testa di adolescente recuperata dalla Porta e con il cosiddetto frammento Molajoli di Bari. Di più modesto spessore qualitativo appaiono poi alcune delle antefisse superstiti; tuttavia lo scarto stilistico rispetto al resto dell'arredo scultoreo può essere imputato alla loro posizione di subordine, ovvero alla funzione marginale che esse erano destinate ad assolvere nel contesto esornativo dell'intero monumento. Per questa ragione e per gli esiti formali raggiunti, quelle antefisse potrebbero essere attribuite a scultori di estrazione locale (Cordaro, 1974/1975-1975/1976; Gandolfo, 1999). Ma anche in questo caso l'assenza di documentazione e di elementi più probanti non permette di considerare risolto il quesito dei maestri attivi alla Porta. In effetti a Capua sembra operare una bottega particolarmente composita ed eclettica, formata per esigenze di cantiere da più artisti, e purtuttavia unitaria culturalmente, in cui affiorano ‒ talora intrecciandosi ‒ almeno due tendenze espressive diverse. La prima, di maggiore respiro, attenta al dettaglio descrittivo, tende a rivitalizzare l'eredità classica, svincolandola da ogni pericolo di accademismo e di retorica, grazie a una vena sottilmente naturalistica e acutamente psicologica, derivata da contatti diretti o indiretti con la cultura gotica transalpina, verosimilmente francese. Comunque la sua origine e formazione sarebbero da rintracciare, più che altrove, nell'ambito dei cantieri federiciani di Puglia (a partire da Foggia, Barletta, Gravina e Lucera) nei quali, secondo una teoria critica condivisa solo da pochi studiosi, ebbe a formarsi anche Nicola Pisano (Bottari, 1959; Testi Cristiani, 1987). L'altra, segnata da una vena locale, priva di trasparenza sentimentale, tende invece a far decantare dai modelli antichi ogni gentilezza formale, fin quasi a lasciare il passo a una dura enfasi e a una rigidezza quasi inespressiva delle forme. Entrambe le tendenze rispondevano verosimilmente a un preciso desiderio del sovrano che, pur informando all'antico l'apparato ideologico della Porta, ne voleva declinata figurativamente la classicità in termini di attualità, secondo il moderno linguaggio del gotico europeo filtrato alla luce della cultura artistica diffusa nel Mezzogiorno normanno-svevo. Le connotazioni ideologiche imperiali implicate consapevolmente dal programma decorativo voluto dal committente dovevano trasparire da un linguaggio formale che fosse modellato sull'esempio dell'arte aulica romana e risultasse nello stesso tempo attuale, ossia medievale, non solo a motivo di un'adesione di quel linguaggio ai migliori esiti figurativi d'ispirazione classicistica diffusi allora nelle regioni transalpine e conosciuti in Italia attraverso opere o libri di disegni, ma anche in ordine alla funzione che esso era destinato ad assolvere nel contesto geopolitico proprio del Meridione.
In conclusione, nella solenne Porta di Capua architettura e decorazione scultorea, fra loro intimamente connesse in virtù di una sapiente e fantasiosa elaborazione progettuale, erano finalizzate a formare un tutt'uno di grande suggestione. Ciò non solo per l'indubbio effetto scenografico suscitato dalla disposizione dei vari elementi compositivi e dal recupero della statuaria a tutto tondo, ma anche per il forte impatto comunicativo che retoricamente il manufatto era destinato a suscitare, in linea con i messaggi trasmessi dalle iscrizioni che si coordinavano al ricco programma scultoreo. L'impianto strutturale e il tono generale dell'arredo plastico rimandano indubbiamente ai canoni dell'antico Impero romano diffusi un po' ovunque; ma, almeno per quanto riguarda le sculture più rappresentative, questi canoni appaiono innervati da un sottile e vibrante gusto gotico di probabile ascendenza nordica, mediato probabilmente attraverso la Puglia, particolarmente cara a Federico. Dal punto di vista simbolico la Porta svolgeva un ruolo che in età sveva superava i confini della città in cui sorgeva, rappresentando l'ingresso al Regno e alla sede del giustizierato. Infatti il senso più intrinseco della costruzione, al di là della sua straordinaria valenza architettonica e stilistica, è riposto proprio negli aspetti iconologici del rigoroso programma iconografico, laddove insieme ai temi della giustizia e della glorificazione della persona dell'imperatore, considerata peraltro l'assenza di ogni simbolo cristiano, sembra esplicitarsi il messaggio della contrapposizione formale di un nuovo stato di tipo laico (il Regnum Caesaris, quasi Ecclesia imperialis) a quello tradizionale della Chiesa romana.
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