portafoglio
Il portafoglio in economia e finanza
Nell’economia e nella finanza è un termine di largo uso. Indica un aggregato di elementi omogenei, rilevanti per le attività di un’impresa. La casistica è molto ricca. Si va dal portafoglio ordini, che è l’insieme degli ordini della clientela di un’azienda di produzione in attesa di esecuzione, al portafoglio progetti, che definisce il complesso dei progetti potenzialmente realizzabili da un’impresa; dal portafoglio clienti, che considera tutti i clienti di un’azienda o di una sua branca o filiale o agenzia, al portafoglio prodotti, che indica l’intero assortimento dei beni che un’impresa produce o è in grado di vendere agli acquirenti; dal portafoglio crediti, come complesso dei crediti di una banca o di una sua filiale o agenzia, al portafoglio titoli, ovvero l’insieme dei titoli detenuti da un singolo investitore o da un intermediario finanziario.
Nella teoria della finanza, il portafoglio è un insieme ordinato di numeri, q1,q2,…,qi,…,qn di somma 1, che descrivono le quote in cui è ripartita fra varie attività la ricchezza di cui un soggetto economico dispone per investimenti futuri (portafoglio ex ante) o come esito di quelli passati (portafoglio ex post). Quote positive (negative) corrispondono a posizioni lunghe (corte). La selezione di un portafoglio ex ante avviene in 3 passi: la scelta o la presa d’atto della somma globale da investire, la scelta e l’etichettatura (numerica o alfabetica) di tutti i titoli da considerare, la percentuale del valore globale del portafoglio attribuita a ogni singola attività selezionata. Il portafoglio ex post è, invece, individuato dalla ricognizione delle quote del valore globale del portafoglio attribuito alle singole attività. Nei modelli dinamici, a ogni epoca, eccetto quella iniziale, si parte dal portafoglio ex post, che è usualmente autofinanziante, ovvero fornisce, senza che vi siano prelievi o versamenti addizionali, le risorse da investire nel periodo successivo; ove necessario, il portafoglio viene ribilanciato disinvestendo alcuni titoli e investendo il ricavato in altri, al fine di seguire la strategia di allocazione ottimale. Fino alla metà del 20° sec., tale scelta ex ante si basava su procedure informali e sul fiuto e il senso degli affari dei responsabili degli investimenti; le cose cambiarono completamente con il rivoluzionario approccio matematico proposto da H.M. Markowitz (➔), che ricevette per questo nel 1990 il premio Nobel per l’economia. Egli propose di scegliere le quote, cercando di contemperare due obiettivi non necessariamente coerenti: la massimizzazione del valore atteso del rendimento e la minimizzazione della sua varianza (o della deviazione standard), considerate rispettivamente come misure sintetiche della profittabilità e della rischiosità del portafoglio e dunque i due parametri chiave del problema decisionale. Questa scelta metodologica è universalmente nota come ‘approccio media-varianza’ alla selezione del portafoglio, ancora oggi alla base delle strategie di gestione dei fondi comuni di investimento e, più in generale, della grande maggioranza degli investitori istituzionali.
La teoria del portafoglio è basata sulla distinzione fra portafoglio efficiente in media-varianza e portafoglio ottimale. Questo si dice efficiente in media-varianza, se ogni altro portafoglio ammissibile ha almeno un parametro strettamente peggiore (profittabilità più bassa e/o varianza più alta). Fra i portafogli efficienti va poi selezionato quello ottimo, sulla base di un funzionale di utilità dei parametri di media e varianza (tipico quello U(E,V)=E−λV, ove compare la costante positiva λ, coefficiente di penalizzazione della rischiosità ed espressione sintetica ingenua dell’avversione al rischio dell’investitore).
Con questo termine si allude alla separazione del procedimento decisionale in due fasi: nella prima, si individua un certo numero di (almeno due e anzi spesso proprio due) cosiddetti fondi comuni. Essi sono portafogli efficienti ben definiti nelle quote (di somma 1), assegnate a ciascun titolo facente parte del portafoglio. Nella seconda, ogni decisore sceglie il proprio paniere, combinando nella maniera per lui ottimale i fondi comuni. In certi casi la separazione è intesa in senso rafforzato, perché i fondi comuni sono separati nel senso che non hanno titoli in comune. I teoremi di separazione precisano condizioni necessarie e/o sufficienti a garantire la proprietà di separazione. Capostipite delle riflessioni sui teoremi di separazione fu, verso la fine degli anni 1950, J. Tobin (➔), che individuò nella normalità della distribuzione congiunta dei rendimenti una condizione sufficiente a garantire la proprietà di separazione in due soli fondi comuni, uno dei quali composto esclusivamente dal titolo non rischioso e l’altro da uno specifico portafoglio composto da tutti e soli i titoli a rendimento aleatorio presenti sul mercato (portafoglio di mercato). Per estensione, nella pratica si definisce portafoglio di mercato, con riferimento a una particolare borsa, quello composto da tutti i titoli negoziati nella borsa con quote pari al rapporto fra il valore di capitalizzazione di borsa di ciascun titolo e la capitalizzazione totale. Gli studi di Markowitz e Tobin furono la base per modelli di equilibrio su mercati dei capitali ‒ famosissimo il CAPM (➔) di W. Sharpe (➔) ‒, ove operano investitori guidati dal criterio media-varianza. Se indichiamo con le etichette 0 e M, il titolo non rischioso e il portafoglio di mercato, ogni portafoglio efficiente ha parametri di valore atteso E e deviazione standard s del rendimento che soddisfano l’equazione E=E0+σ(EM−E0)/σM. Il rapporto (EM−E0)/σM è detto prezzo unitario di mercato del rischio per portafogli efficienti; esso è crescente con l’avversione al rischio che caratterizza gli operatori del mercato. Nel 1970, D. Cass e J.E. Stiglitz estesero i teoremi di separazione in due fondi comuni al caso in cui non esiste un titolo a rendimento certo. Ulteriori generalizzazioni riguardano proprietà di separazione in K>2 fondi comuni. Esse costituiscono la base teorica dell’attività pratica dei fondi di fondi (➔ fondo comune di investimento). A livello teorico, l’ampliamento del numero dei fondi comuni si rende necessario quando, nel mercato, sono presenti più fonti di rischio indipendenti o poco correlati, sia in problemi uniperiodali sia in versioni dinamiche multiperiodali o continue. Nel contesto dinamico, per es., R.C. Merton (➔), nella prima metà degli anni 1970, suggerì che un terzo fondo comune fosse necessario per fronteggiare il rischio di cambiamenti aleatori nell’insieme delle opportunità disponibili in futuro. Un’altra cornice nella quale entrano in gioco proprietà di separazione in 3 fondi è quella in cui, oltre a media e varianza, anche l’asimmetria è argomento della funzione di utilità.
Più in generale, in modelli dinamici ha interesse chiedersi quando valga una proprietà detta di miopia (➔). Essa garantisce l’ottimalità sequenziale di strategie miopi, cioè che generano le stesse scelte che sarebbero ottimali, anche se l’orizzonte fosse uniperiodale e quindi ogni decisione fosse l’ultima.
Altri modelli si sono basati sulla riduzione del numero delle informazioni necessarie per la soluzione di un problema nella cornice media-varianza. Capostipite di questi modelli è il modello diagonale di Sharpe, che esprime l’eccesso di rendimento realizzato dal titolo i-esimo rispetto al rendimento dell’attività non rischiosa come trasformata lineare aleatoria dell’eccesso di rendimento realizzato dal portafoglio di mercato. Notevole successo hanno avuto i cosiddetti modelli multifattoriali, caratterizzati dalla presenza di un certo numero di fattori di rischio, che si ritiene possano spiegare la variabilità dei rendimenti dei titoli negoziati su un certo mercato.