PORTO (fr. port; sp. puerto; ted. Hafen; ingl. harbour, haven)
È uno spazio di mare più o meno ampio e protetto, dove le navi possono accedere con ogni tempo e sostare in tutta sicurezza, sia per trovare ricovero durante le tempeste o per effettuare urgenti riparazioni di avarie sofferte, sia per compiere le operazioni commerciali inerenti allo svolgimento dei traffici marittimi.
Varie specie e forme di porti. - A seconda della precipua loro finalità nei riguardi della rispettiva utilizzazione, i porti assumono nomi diversi, e precisamente:
Rada (o ancoraggio) si denomina uno spazio più o meno vasto di mare, atto a offrire un ricovero, dove le navi possano con ogni tempo gettare l'ancora e sostare in sicurezza, al riparo dei venti e delle agitazioni provenienti da determinate direzioni. Le rade si distinguono in naturali e artificiali, a seconda che il riparo sia dato da elementi naturali (rilievo delle coste, isole, banchi) oppure, in tutto o in parte, da opere artificialmente costruite. In italia sono rade naturali quelle de La Maddalena, di Golfo Aranci, di Messina, di Siracusa, ecc.; sono rade artificiali quelle de La Spezia, di Augusta, di Taranto, di Brindisi, ecc.
Le rade si dicono protette quando sono riparate da tutte le direzioni, come gli estuarî dei fiumi, e come le rade artificiali dianzi citate: si chiamano invece foranee, quando non offrono che un limitato riparo da talune direzioni (in Italia le rade di Vado, di Santo Stefano, di Gaeta, di Siracusa, di Manfredonia, di Tremiti, ecc.).
Porto di rifugio si dice un porto che adempie essenzialmente all'ufficio di offrire un sicuro asilo alle navi, generalmente di piccola mole, sorprese non lontano da terra da fortunale o da avaria. In vista di questo specifico compito, i porti di rifugio si susseguono in genere a non grande distanza lungo la costa, mentre le relative difese vengono sistemate in guisa che i velieri e le piccole navi da cabotaggio possano afferrare l'imboccatura con qualunque vento.
In Italia sono numerosissimi i piccoli porti creati a scopo di rifugio o che al rifugio particolarmente si prestano anche se previsti in origine per scopi di commercio locale, o come porti da pesca: Porto Maurizio, Portofino, S. Margherita Ligure, Porto Santo Stefano, Port'Ercole, Ponza, Forio d'Ischia, Procida, Nisida, Santa Venere, Scilla, Sciacca, Mazzara del Vallo, Arbatax, Bosa, Alghero, Otranto, Tricase, Mola di Bari, Vasto, Pescara, S. Benedetto del Tronto, Senigallia, Fano, Pesaro, Rimini, Cesenatico, ecc.
I porti di rifugio sono provvisti di qualche opera interna di approdo, nonché di adeguati mezzi per soccorsi e riparazioni di urgenza: inoltre, come le rade, richiedono la presenza di fondali non superiori a 25 o 30 m. e di un fondo buon tenitore sul quale le ancore possano far presa (argilla, sabbia marnosa, fango compatto). In caso contrario, per l'ormeggio si ricorre alle boe galleggianti.
Porti militari sono quelli destinati ad assolvere alle necessità della marina da guerra, sia in pace sia nei periodi di azioni belliche. Per questo loro specifico scopo, l'ubicazione dei porti militari viene scelta anzitutto con particolare riferimento al probabile campo d'azione delle unità navali, che in essi hanno la loro base. Inoltre, richiedono amplissimi bacini completamente protetti dalle agitazioni del mare, nonché dalle offese nemiche, e allo scopo vengono quasi sempre situati al fondo di adatte rade. Per quanto riguarda la consistenza tecnica delle principali opere che li costituiscono (difese, approdi, arredamenti), i porti militari non differiscono sostanzialmente dai porti di commercio: presentano naturalmente anche degli apprestamenti strettamente connessi alla speciale destinazione, come: gli sbarramenti subacquei, fissi o mobili, gli arsenali, gli speciali depositi, ecc.
Porti di commercio si denominano quei porti, i quali, oltre ad assicurare l'accesso e lo stazionamento delle navi, sono dotati di specchi acquei e di bacini dove le navi stesse possono con facilità e speditezza procedere alle operazioni commerciali.
Tali bacini offrono pertanto banchine d'approdo e adeguati mezzi e impianti per il carico, lo scarico, il deposito e il transito delle merci, per l'imbarco e lo sbarco dei passeggeri e della posta, per la riparazione e l'approvvigionamento delle navi, con un complesso di opere e di apprestamenti che si presenta oggi, specie per i maggiori porti, addirittura imponente per importanza e varietà degli elementi costitutivi: dai muri di sponda ai mezzi meccanici specializzati; dalle imponenti stazioni marittime per passeggeri agli enormi bacini da carenaggio richiesti dai moderni colossi del mare.
I porti di commercio presentano nella loro struttura e conformazione aspetti diversissimi, a seconda delle diverse caratteristiche, morfologiche, idrografiche, ambientali delle località dov'essi sorgono.
Una prima grande distinzione si deve fare anzitutto nei porti, a seconda che essi siano situati nei mari interni, dove la marea ha uno sviluppo molto limitato (da qualche centimetro a pochi decimetri), oppure sugli oceani o sui mari che direttamente e ampiamente con questi comunicano, dove la posizione del livello liquido può variare nello spazio di poche ore, in relazione alle varie fasi della marea, anche di parecchi metri. Mentre, infatti, nel primo caso il fenomeno non importa soggezione alcuna nello svolgimento delle operazioni commerciali, in quanto non altera sensibilmente durante le operazioni stesse la posizione altimetrica della nave rispetto alle banchine, nel secondo caso tali spostamenti si verificano in misura tale (anche 8 o 10 e più metri in 6 ore) da ostacolare gravemente le operazioni o da renderle praticamente impossibili, oltre a richiedere per le opere d'approdo sistemazioni complesse e costosissime. Si ovvia all'inconveniente in tal caso, disponendo gli approdi entro bacini a livello costante (livello dell'alta marea) comunicanti con gli specchi a livello variabile per mezzo di sostegni a conca, attraverso i quali le navi possono entrare o uscire in qualunque momento. Soltanto in via eccezionale, nei cosiddetti porti di velocità, toccati da linee transatlantiche celerissime, qualche approdo viene eretto negli specchi acquei soggetti a tutta l'escursione di marea, e ciò per evitare alle navi che servono tali linee la perdita di tempo inerente alle operazioni d'ingresso nei bacini a livello costante. Ciò è reso possibile anche dal fatto che tali navi sono adibite quasi esclusivamente al trasporto di posta e passeggeri, onde le operazioni commerciali si riducono all'imbarco e allo sbarco di questi, che si compie in ogni caso con rapidità, e quali che siano le condizioni della marea, senza bisogno di grandi mezzi.
Altra grande distinzione è da fare nei porti, per quanto riguarda la loro posizione rispetto al litorale, sotto il quale punto di vista si dividono precisamente in esterni ed interni.
I porti esterni sono formati per conquista sul mare, come la quasi totalità dei maggiori porti italiani, e per essi assumono importanza grandissima le opere rivolte alla difesa dello specchio portuale dalle agitazioni del mare. Spesso per rendere più completa e più facile tale difesa, il porto commerciale viene stabilito nell'interno di una rada, ove le navi possano sempre e con ogni tempo accedere e trovare una sicura sosta, sia in attesa di recarsi agli approdi, sia per compiervi anche quelle più semplici e spedite operazioni commerciali che non comporterebbero la perdita di tempo necessaria per accedere ai bacini interni (in Italia: Brindisi, Taranto, Siracusa, La Spezia, ecc.). Per raggiungere tali scopi, in molti casi, ove manchino nella costa vere e proprie rade, si provvede a munire il porto, all'esterno, di un avamporto; specie di rada artificiale ottenuta con opere di difesa opportunamente disposte (in Italia: Genova, Napoli, Civitavecchia, ecc.).
I porti interni possono, alla loro volta, essere stabiliti: entro lagune o paludi marine (Venezia, Porto Corsini, ecc.), sui tronchi inferiori di corsi d'acqua naturali o artificiali (Viareggio, Fiumicino, Pescara, Senigallia, Ravenna, ecc.) ovvero essere scavati entro terra (Porto del Calambrone a Livorno e Porto Marghera a Venezia). Caratteristica comune a tutti i porti interni è quella di essere naturalmente protetti dalle agitazioni: onde le opere di difesa assumono per essi assai minor rilievo che non per i porti esterni. Al massimo è sufficiente difendere opportunamente la bocca di comunicazione fra gli specchi e il mare, con lo scopo di facilitare le manovre delle navi in ingresso e in uscita e di sottrarre la bocca stessa al pericolo dell'interrimento.
Nei riguardi dei porti stabiliti sui tronchi inferiori dei corsi d'acqua è da osservare come essi presentino caratteristiche sostanzialmente diverse a seconda che si trovino aperti in mari a piccolo o a grande sviluppo di marea. Nel primo caso infatti (porti canali), essi risultano quasi sempre d'importanza molto modesta, in relazione alla limitatissima profondità che caratterizza le foci dei fiumi o dei canali nei mari non soggetti a marea; nel secondo caso, invece, per il giuoco stesso delle fortissime correnti generate dal periodico flusso e riflusso delle acque, i tronchi inferiori dei fiumi si mantengono per diecine e diecine di chilometri larghissimi e profondi, così da consentire la navigazione delle maggiori navi e quindi lo stabilirsi in essi, a distanze anche ragguardevoli dalla costa, di porti grandiosi (Londra, Liverpool, Amburgo, New York, ecc.).
Elementi per lo studio di un porto. - Elementi essenziali per lo studio del progetto di un porto sono: da un lato, le caratteristiche quantitative e qualitative del traffico che si può prevedere per il porto stesso; dall'altro, le caratteristiche topografiche, idrografiche e meteorologiche della località dove il porto deve sorgere.
Dalla natura e quantità del traffico, determinabili entrambe a priori soltanto attraverso uno studio accurato della zona d'influenza del porto, nei riguardi specialmente delle industrie e dei commerci, dipendono infatti: l'ampiezza stessa del porto e l'entità dei fondali, lo sviluppo delle calate e dei terrapieni, la quantità e le caratteristiche dei mezzi meccanici e degli arredamenti in genere.
Alle caratteristiche fisiche dell'ambiente, sono poi strettamente legate: la disposizione delle opere di difesa; la forma, le dimensioni e la struttura delle difese stesse e delle opere interne.
Per quanto riguarda le relazioni che normalmente intercedono fra le caratteristiche del traffico che fa capo a un porto e quelle dei suoi bacini commerciali, v. appresso. Circa gli elementi fisici ambientali che particolarmente debbono essere considerati nello studio di un porto essi sono in massima: natura e andamento del fondo marino; regime dei venti; moto ondoso; maree.
Natura e andamento del fondo. - Nello studio sia delle forme e delle strutture da adottare per le opere esterne ed interne dei porti, sia degli scavi d'approfondimento degli accessi e dei bacini interni, è necessaria la conoscenza della natura del fondo in superficie e negli strati inferiori, attraverso la preparazione di adatti profili geognostici.
Se il materiale costituente la superficie del fondo è sciolto, può bastare, ad accertarne la natura, lo stesso piombo dello scandaglio, munito, alla sua base inferiore, di una cavità unta di sego; se è più consistente, bisogna ricorrere alle taste; e in ogni caso, poi, per gli strati inferiori, conviene ricorrere alla trivella, analoga a quella che comunemente s'adopera in terraferma e montata su galleggianti. Naturalmente i campioni estratti con la trivella essendo triturati e quindi alterati nella loro struttura, dànno bensì la natura o composizione del materiale, ma non ne indicano la compattezza, per avere un'idea della quale è necessario fare altre prove indirette.
La peggiore specie di fondo è, sotto ogni aspetto, rappresentata dal fango, il quale si può trovare in strati di grande spessore. Generalmente la resistenza del fango aumenta con la profondità; onde, trattandosi di fondare su esso qualche opera, come moli e muri di sponda, il problema essenziale è quello di riconoscere la profondità alla quale il fango presenterà la necessaria resistenza (in massima da 1 a 1,50 kg. per cmq.). Tale determinazione, quando si tratti di profondità limitate, può farsi in via approssimativa mediante l'infissione di pali d'assaggio, deducendo dal rifiuto la resistenza, attraverso le varie formule pratiche.
In particolare, appositi esperimenti eseguiti nel porto mercantile della Spezia, dopo avvenuto lo sprofondamento di alcune opere, ed in occasione dello studio di un progetto d'ampliamento, hanno permesso di stabilire alcuni coefficienti che, applicati alle ordinarie formule per il calcolo della resistenza delle palificate, consentono di dedurre dati abbastanza sicuri sulla resistenza del fondo. Detti esperimenti hanno mostrato che il fango presentava la necessaria resistenza ovunque il suo spessore non superava, fra il piano di fondazione dell'opera e lo strato fangoso avente la voluta resistenza specifica (nel caso in questione, 1 kg. per cmq.), l'altezza di m. 1,50.
Talvolta conviene, per dare più sicura base ad opere da erigere sul fondo fangoso, scavare in precedenza quest'ultimo per uno strato più o meno alto, a seconda dei casi, sostituendo il materiale scavato con una gettata di sabbia pura (notevoli esperienze in proposito sono state di recente compiute a La Spezia, dal generale del genio navale Barberis).
Per quanto riguarda la configurazione del fondo, nelle grandi linee e per le zone più prossime alla costa, essa si trova già rappresentata dalle carte idrografiche, le quali, generalmente, dànno anche con le quote del fondo, l'indicazione della natura di quest'ultimo, facendo seguire alla quota l'iniziale del nome del materiale che lo costituisce (r = roccia, s = sabbia, f. = fango, a = alghe).
Ai rilievi di dettaglio si procede con metodi e strumenti diversi, a seconda delle circostanze. In ogni caso i rilievi vengono in Italia riferiti, quando si tratta di opere marittime, al livello medio del mare, salvo solo il caso delle lagune venete, ove è antica consuetudine riferirli al medio livello delle alte maree, ossia alla comune alta marea (c. a. m.) detta anche localmente comune marino (c. m.).
Il rilievo comprende due distinte operazioni: l'individuazione dei punti e la misura della corrispondente altezza d'acqua. Se la zona da rilevare è al largo e molto lontana dalla riva, si adopera, per la determinazione dei punti, il circolo a riflessione; ma, nella generalità dei casi, il rilievo di dettaglio non occorre che in vicinanza della riva e delle opere, e si effettua allora sopra una rete più o meno fitta di punti, che s'individuano o mediante l'incrocio di allineamenti predisposti a terra, o, più comunemente, con semplici allineamenti, secondo i quali si distende in mare una cordicella, o sagola, divisa da fiocchi di cuoio, fettuccia o spago e da sugheri, che in pari tempo sono destinati a farla galleggiare. I sugheri sono generalmente disposti di 10 in 10 o di 20 in 20 metri, e portano impresso il corrispondente numero di decametri o doppî decametri; i fiocchi sono distribuiti negl'intervalli, distinguendo con diverso colore o numero di capi le divisioni di 5 in 5, o di 2 in 2 metri. La sagola deve sempre misurarsi bagnata. Essa è tenuta distesa in mare mediante una barca, al cui conducente è affidata la cura di mantenerla sempre sull'allineamento posto a terra, mentre l'operatore, incaricato di rilevare le altezze d'acqua in corrispondenza alle varie divisioni della sagola, ne percorre la linea su un'altra barca.
Se la zona da rilevare è attraversata da correnti tanto forti da non permettere di mantenere la sagola sufficientemente tesa, è meglio ricorrere all'incrocio di allineamenti disposti a terra ovvero procedere a individuare i punti da terra mediante due o tre stazioni di teodoliti. In quest'ultimo caso, l'operatore percorre la zona da rilevare sopra una barca, scegliendo i punti, e facendo dai medesimi un segnale alle stazioni dei teodoliti, perché gli osservatori leggano gli angoli. Se il rilievo deve farsi nella zona circostante a un punto, quale la sporgenza di uno scoglio o secca, o la testata d'un molo, possono seguirsi degli allineamenti radiali, sui quali la sagola viene mantenuta mediante segnali dati da un osservatore situato in quel punto e munito di cannocchiale.
La seconda operazione, che si chiama scandagliare, si effettua mediante strumenti di varia forma detti scandagli. Scandaglio è anche il nome dato all'altezza d'acqua rilevata. Se la profondità da scandagliare non supera i 4 ÷ 5 metri, basta un'asta graduata, munita alla sua estremità inferiore di un piatto metallico, destinato a impedirle di affondare, ove il terreno sia di natura cedevole. Per profondità maggiori, sino a 30 metri o poco più, si adopera come scandaglio una funicella munita di piombo e suddivisa da nastri o fiocchi di vario colore e numero di capi, in modo da assicurare una facile e rapida lettura dei multipli e delle frazioni di metro, ovvero una catenella di ottone, suddivisa mediante targhette recanti incisa la misura. Per profondità maggiori, raramente interessanti il campo delle costruzioni portuali, si adopera un filo d'acciaio avvolto su tamburo, che direttamente indica, in rapporto al numero di giri, la lunghezza filata.
Durante le operazioni di rilievo occorre prendere nota dei tempi, e corrispondentemente osservare le variazioni di livello delle acque alla scaletta idrometrica (ove non si disponga di un mareografo) per correggere gli scandagli, riportandone il riferimento al livello medio del mare.
La rappresentazione del rilievo eseguito si fa mediante sezioni, o planimetricamente. In quest'ultimo caso, che è quello dei piani dei porti e delle opere, il punto vale da virgola, nella misura delle altezze d'acqua, fra i metri e i decimali. Assai spesso però la configurazione del fondo viene nei piani rappresentata da curve di livello, o isobate, che si ottengono congiungendo i punti di eguale profondità. Se in un piano si debbono indicare altre quote, oltre alle profondità, quelle del rilievo del fondo si indicano entro parentesi, premettendo alle stesse il segno - o +, secondo che si tratti di punti posti sotto o sopra il livello medio del mare. Generalmente basta l'indicazione della cifra, senza parentesi né segno.
Regime dei venti. - La conoscenza dei venti è importante, per il progettista e il costruttore di opere portuali, anzitutto perché ai venti è dovuto il moto ondoso (dei cui effetti diremo in seguito), poi per altri varî notevoli aspetti.
In primo luogo, e indipendentemente dall'agitazione che i venti sollevano, può essere necessario tener conto della loro direzione nello studio della disposizione delle opere di difesa dei porti, per riguardo agli effetti che essi possono direttamente esercitare contro i fianchi delle navi, in entrata e in uscita, date specialmente le grandi dimensioni e soprattutto la grande altezza fuori acqua delle navi moderne.
Per la stessa ragione, in parte, e in parte per l'agitazione che i venti possono in qualche caso generare entro gli stessi specchi portuali interni, molestando od ostacolando le operazioni commerciali, può essere necessario adattare al locale regime dei venti anche la disposizione delle opere interne. Ad es.: a Trieste si sono dovute disporre le calate del nuovo porto di S. Andrea in guisa da non essere investite in pieno dalla bora, la quale soffia con tale violenza da impedire persino il movimento delle piccole imbarcazioni; e analogo criterio è stato seguito nel progetto di ampliamento del porto di Fiume, fatto studiare, prima della fine della guerra mondiale, nel 1917, dal governo ungherese. A Marsiglia, nel Bassin National, eccessivamente esteso in direzione di nord-ovest, ogni operazione è gravemente ostacolata quando soma il mistral; e così, a Genova quando soffia la tramontana, nello specchio fra il molo nuovo e il ponte Paleocapa.
In secondo luogo, la conoscenza della direzione e della forza dei venti, messa in relazione con le variazioni di pressione e temperatura, può spesso permettere di prevedere il tempo che farà, e quindi di prendere tutte le possibili precauzioni per non esporre a gravi danni, se non le opere in corso, almeno i mezzi d'opera. I danni alle opere in corso non si possono evitare che limitando i lavori alla stagione propizia, e, sino ad un certo punto, anche mediante la giudiziosa scelta dei tipi costruttivi.
Dal regime locale dei venti, cioè dal modo come i venti spirano in un dato paraggio, nelle varie stagioni dell'anno, dipendono le cosiddette stagioni lavorative; e analogamente ne dipendono, in queste ultime, le ore lavorative. Sotto quest'aspetto le condizioni delle diverse coste variano fra limiti molto ampî. Lungo le coste italiane, non si può generalmente contare su più di 150 giorni lavorativi all'anno; in qualche caso anche 200, ma in altri poco più di 100. Sulle coste battute dagli alisei e dai monsoni non si ha quasi mai calma sufficiente per lavorare a mare aperto con gli ordinarî mezzi. Generalmente, la migliore stagione per lavorare a mare è l'estate; ma molto spesso nei mesi estivi soffiano regolarmente durante parte del giorno dei venti locali detti d'imbatto, che interrompono il lavoro. Sulle coste italiane è il maestrale che regolarmente s'alza qualche ora prima del mezzogiorno, per non cadere che verso sera. Così in molti porti si debbono sospendere i lavori sott'acqua, in mare aperto, fra le 10 e le 11 del mattino.
Infine, alla forza dei venti deve essere proporzionata la resistenza di alcune opere, come le torri per i fari, i ponti girevoli e anche alcuni arredamenti meccanici.
Nei riguardi delle opere marittime, i venti si distinguono secondo la diversa loro direzione, frequenza e forza. Rispetto a un determinato punto della costa, si chiamano venti di terra quelli che soffiano dall'interno della costa verso il mare; venti di mare, o foranei, o del largo quelli che soffiano dall'aperto mare verso la coste. I venti che con maggior frequenza soffiano in un determinato periodo di tempo si dicono regnanti. La frequenza generalmente si riferisce al periodo di un anno, ovvero, distintamente, alle quattro stagioni, e si hanno allora i venti regnanti, rispettivamente in inverno, in primavera, in estate ed in autunno. I venti che soffiano con maggiore violenza si chiamano dominanti; quelli che, per la loro frequenza combinata con la forza raggiungono in definitiva, entro un determinato periodo di tempo, che solitamente è l'anno, il massimo effetto, si chiamano prevalenti. L'effetto generalmente considerato è quello del trasporto dei materiali lungo la riva: effetto determinato dalla direzione e forza dei venti. Spesso i venti dominanti sono anche i prevalenti; ma in qualche caso sono i venti di minor forza, che per la loro frequenza molto maggiore, risultano prevalenti.
Le stesse denominazioni si adoperano per le agitazioni sollevate dai venti; e pertanto si chiamano mari regnanti quelli sollevati con maggior frequenza, dominanti quelli di massima violenza e prevalenti quelli che raggiungono i massimi effetti.
Spesso le direzioni dei venti e delle agitazioni più frequenti, o più forti o più efficienti, coincidono, ma in qualche caso ciò non si verifica. Per es.: lungo il litorale di Venezia sono regnanti tanto i venti quanto i mari dalle direzioni intorno a NE. e SE.; ma mentre sono dominanti i venti da ENE., sono dominanti i mari da SE.; a Genova sono dominanti i venti di SO. e dominanti i mari da SSO. Ciò dipende dall'estensione e profondità del mare nelle varie direzioni, le quali possono influire sull'intensità dell'agitazione assai più che la violenza del vento.
Per un punto O (fig.1), situato sul contorno di un'insenatura MON, i venti capaci di sollevare le più forti agitazioni sono generalmente quelli spiranti dal largo entro il settore MON. Ma spesso non è che da una parte di quel settore, che per l'andamento della costa ai lati dell'insenatura e per la conformazione del mare antistante, possono provenire venti capaci di sollevare temibili e pericolose agitazioni. Tale parte di settore si dice settore di traversia, e così lo si chiama perché i venti e le agitazioni provenienti dalle direzioni in esso comprese, e che a loro volta si dicono traversieri, tendono a gettare le navi di traverso alla costa. Generalmente però non è che da una porzione di questo settore che provengono i venti e i mari più forti; onde a tale porzione si dà il nome di settore di traversia principale, o di massima traversia, per distinguerlo dalla rimanente parte, che delimita la cosiddetta traversia secondaria. Inoltre è da tener conto del vento nei riguardi della sua utilizzazione nella navigazione a vela, così da assicurare ai velieri, in ogni caso, il facile ingresso ai porti.
A tale proposito è da osservare che il veliero può utilizzare il vento anche sotto angolo minore di 90° verso prua, ma non può stringere il vento che sino ad un certo punto, oltre il quale la nave, anziché avanzare, scade di fianco, ossia scarroccia, come suol dirsi in termine marinaresco. Tale limite è dato dall'angolo di 67°30′, e si dice in tal caso, che la nave corre con vento di bolina.
L'entrata di un porto deve essere dunque orientata in modo che la nave non si trovi mai obbligata ad una rotta facente con la direzione del vento un angolo verso prua minore di 70° circa.
Per classificare i venti secondo la loro intensità si usano speciali scale che fanno corrispondere un determinato intervallo di velocità. La scala normalmente usata in Italia è la seguente:
Moto ondoso. - (Per la trattazione generale v. onde). Elemento fondamentale per lo studio della forma e della struttura delle opere di difesa di un porto è la preventiva conoscenza del cimento cui le opere stesse dovranno sottostare, allorché, in relazione al loro precipuo scopo, risulteranno investite dalle massime onde verificantisi nella località.
Indagini sperimentali, studî teorici, esami obiettivi del fenomeno, com'esso si verifica in differenti circostanze, non hanno però consentito fin qui di risolvere questo problema in forma generale, così che non si è in grado di determinare, in base alle caratteristiche dell'onda superficiale (lunghezza, altezza, forma e periodo: elementi direttamente apprezzabili) e a quelle della configurazione del fondo marino nella località, la precisa natura ed entità del movimento della massa liquida nei diversi punti e, tanto meno, l'azione esercitata dalla massa stessa contro un ostacolo fisso, qual'è un'opera di difesa.
Attraverso i notevoli studî compiuti sull'argomento si può soltanto rendersi conto, e in linea essenzialmente qualitativa, del diverso modo di comportarsi delle onde, allorché esse giungono in contatto con un ostacolo (in particolare una diga o un molo), che ad esse presenti una fronte inclinata a scarpata più o meno ripida, oppure una parete sensibilmente verticale, almeno fino a una certa profondità (circa il doppio dell'altezza dell'onda).
Nel caso dell'ostacolo con fronte inclinata, l'onda procedendo sul suo cammino risale la scarpata, finché, giunta in fondali troppo ridotti rispetto alla sua lunghezza, rompe, dando luogo al frangente con proiezione in avanti di masse liquide animate da una velocità superiore a quella di propagazione dell'onda nel momento della rottura. Il frangente può quindi esercitare sulle strutture destinate ad arrestarlo (muraglione o sovrastruttura nel caso delle opere di difesa con profilo a scarpata) un cimento molto notevole (anche 20 o 30 tonnellate/mq. per onde di 7 od 8 m. di altezza), se non si provvede a diminuire progressivamente la velocità e l'energia dell'onda originaria mentre essa risale la scarpata, e ciò sia dando alla scarpata stessa un conveniente sviluppo, anche fuori acqua, e un'adatta inclinazione, sia limitando questa superiormente secondo una superficie discontinua con anfrattuosità e sporgenze notevoli, che risultino di ostacolo al propagarsi dell'onda.
Nel caso dell'ostacolo (e in particolare, dell'opera di difesa) a parete verticale, se la profondítà al piede della parete è tale da non ingenerare il frangente, l'onda non vi eserciterà oltre alla pressione statica cui sono sottoposte le particelle, altre pressioni dinamiche che quelle corrispondenti alle velocità orbitali (sempre molto limitate) da cui le particelle stesse sono animate, e quindi di gran lunga inferiore a quelle dovute al frangente.
Così, ove la formazione del frangente di fronte a una diga a pareti verticali potesse assolutamente escludersi, all'opera potrebbero assegnarsi dimensioni trasversali assai modeste, in quanto lo sforzo esercitato dalle onde si ridurrebbe, come dimostra anche l'esperienza pratica, a una sovrapressione non eccedente la pressione idrostatica corrispondente all'altezza dell'onda al largo della parete.
Non si può escludere, però, in maniera assoluta la formazione del frangente, ond'è che a tale cimento in linea generale, deve essere commisurata la resistenza dell'opera a parete verticale, sia pure contenendo il calcolo del cimento stesso nei limiti delle massime onde prevedibili, ma con un coefficiente di sicurezza che tenga adeguatamente conto di quel più largo margine che, in materia di effetti del mare e di straordinarie manifestazioni della sua potenza (mare lungo proveniente da lontane tempeste, onde generate da movimenti sismici, ecc.), bisogna lasciare all'imprevisto.
Nello studio della disposizione delle opere di difesa di un porto occorre considerare, non soltanto le onde dirette dal largo, ma anche i fenomeni di espansione e di riflessione che, in corrispondenza delle opere stesse, le onde dirette possono generare.
Le onde vive, penetrando in uno specchio acqueo ridossato da una o più opere di difesa, si espandono nello specchio stesso, aprendosi a ventaglio, e vi si propagano come onde di espansione, perdendo a mano a mano di lunghezza e d'altezza; correlativamente diminuisce l'agitazione. Potere riduttore di un porto si chiama il rapporto fra l'altezza H dell'onda viva sull'imboccatura e quella h dell'onda d'espansione nello specchio ridossato, alla distanza D dal centro dell'imboccatura. Esso è tanto più elevato, quanto più simmetricamente distribuita, rispetto alla bocca, è la superficie dello specchio portuale, quanto più uniforme è l'andamento del fondo nelle varie direzioni, dalla bocca verso le rive, e quanto meglio queste ultime si prestano a spegnere l'agitazione, senza dar origine a movimenti riflessi. Lo Stevenson, partendo da osservazioni fatte in alcuni porti di forme similari, nei quali le dette condizioni erano pressoché in egual grado soddisfatte, ha dato, per il potere riduttore dei porti, la formula empirica:
in cui b è l'ampiezza della bocca e B quella del bacino interno, nel punto dove si fa l'osservazione, misurata dall'arco di cerchio descritto facendo centro nel punto di mezzo della bocca, con raggio D. Avuto riguardo all'origine della formula e dato ch'essa si fonda esclusivamente sul rapporto fra ampiezza d'imboccatura e ampiezza di specchio ridossato, i risultati da essa ricavabili non possono avere che un valore largamente indicativo, e in ogni caso occorre, per poterne far uso, che le suindicate condizioni si trovino più o meno completamente soddisfatte, e che la direzione delle onde poco si scosti dalla normale all'imboccatura.
Oltre all'onda propriamente riflessa, altri movimenti si generano sulle fronti degli ostacoli investiti dalle onde, vive o di espansione, scomponendosi ivi il moto, da cui sono animate le particelle liquide, in tre diversi movimenti. Il Cornaglia, partendo dal concetto del flutto di fondo (v. onde), assume appunto tale flutto come movimento originario, e dal relativo meccanismo deduce i seguenti tre movimenti riflessi: 1. il flutto riflesso, agente lungo la fronte dell'ostacolo, e diretto nel senso stesso della propagazione dell'onda, sotto il suo dorso e in senso opposto sotto il cavo, con intensità crescente dall'origine all'estremità del tratto d'ostacolo colpito dal dorso e dal cavo, e che di conseguenza si manifesta al termine dell'ostacolo, con un movimento volto nello stesso senso di quello da cui è animata l'onda, aumentandone l'energia. La velocità del flutto riflesso è tanto maggiore quanto più energica è l'onda incidente e quanto più prossima all'angolo di 45° è l'inclinazione di questa rispetto alla linea dell'ostacolo. Pertanto, nello studio delle difese di un porto, occorre evitare, per quanto possibile, le lunghe fronti rettilinee, specie se orientate in guisa da essere colpite dalla traversa sotto un angolo ottuso verso la loro testata; 2. la risacca trasversale, o semplicemente risacca, agente sulla fronte dell'ostacolo in un piano verticale e manifestantesi, in corrispondenza al dorso dell'onda, in forma di getto, che si slancia verso l'alto, fuori della massa liquida, e in corrispondenza al cavo, in forma di chiamata verso il basso, che tende a scalzare il piede dello stesso ostacolo, il quale effetto è poi aumentato dal ricadere del getto entro la massa liquida. L'intensità della risacca aumenta con l'angolo d'incidenza dell'onda sulla fronte dell'ostacolo, raggiungendo il massimo per l'angolo di 9°, e, viceversa, diminuisce con l'aumentare dell'inclinazione di detta fronte sull'orizzontale, annullandosi per la fronte verticale. Analoga genesi può assumersi per quei getti interni che si determinano talora sui fianchi dei banchi sommersi, e la cui energia può giungere sino a travolgere e spezzare l'onda superficiale; 3. la risacca longitudinale, agente in direzione normale alla fronte dell'ostacolo e che, tendendo nel movimento diretto (dorso dell'onda) a repellere il liquido tutto in giro a ciascuna particella, e in quello inverso (cavo dell'onda) a richiamarlo tutt'intorno, si aggiunge, sia al flutto riflesso (limitatamente però, nel movimento diretto, agli estremi del tratto di fronte in cui il flutto stesso agisce), sia alla risacca trasversale. Come per questa, l'intensità del movimento aumenta con l'angolo d'incidenza dell'onda, ma aumenta altresì con l'inclinazione della fronte dell'ostacolo sull'orizzontale. Così è che nei bacini aperti a onde vive o di espansione, le fronti murate aumentano l'agitazione (fenomeno comunemente chiamato, nel suo complesso, risacca), mentre le rive a dolce pendio (minore di 45°) contribuiscono efficacemente a estinguerla. In ogni caso, massima cura si deve porre, nello studio del piano di un porto, affinché le onde vive non possano mai colpire le fronti interne delle opere di difesa, e affinché né le onde vive, né quelle di espansione possano altrimenti generare alcun movimento riflesso atto ad aumentare l'agitazione nello specchio da difendere.
Maree (v. marea, XXII, p. 266 segg.).
Opere esterne o di difesa. - Definizioni. - Prendono il nome di opere di difesa di un porto quelle strutture che, limitando il bacino verso il mare aperto, sono destinate ad arrestare il cammino dei flutti provenienti dal largo, così da assicurare la tranquillità delle acque nel bacino stesso, e insieme la possibilità, per le navi, di compiere con sicurezza le manovre d'ingresso o d'uscita.
In alcuni casi il compito delle opere di difesa si estende anche alla protezione del bacino dagl'interrimenti.
In relazione alle loro diverse caratteristiche, le opere di difesa, che pure potrebbero, dato il loro ufficio, raccogliersi tutte sotto il nome di dighe, sogliono essere distinte con nomi diversi, e precisamente si denominano: dighe, le opere distaccate da terra o comunque non accessibili, per conformazione o per destinazione; moli, le opere radicate a terra, sulle quali l'accesso è non solo possibile, ma necessario, in vista, per es., di un' utilizzazione della fronte interna per l'ormeggio delle navi; moli guardiani, i moli (accessibili) che armano la bocca dei porti-canali; frangionde o frangiflutti, le dighe, isolate o no, destinate semplicemente a spezzare le onde, in modo che queste ricadano infrante, al disopra dell'opera, sullo specchio interno; antemurali, le dighe isolate disposte a protezione davanti alle bocche d'accesso dei porti.
Disposizione delle opere di difesa. - La disposizione delle opere esterne dei porti dipende da un gran numero di circostanze e, principalmente, dall'essere i porti stabiliti all'interno, ovvero all'esterno delle coste, dalla conformazione e natura di queste ultime, dalla esposizione del paraggio, dalla maggiore o minore importanza del porto, ecc.
I porti stabiliti entro lagune o paludi marine e i porti-canali generalmente s'aprono sopra spiagge: il loro accesso va quindi difeso, oltreché dalle agitazioni, dal pericolo d'interrimento. Tale difesa si ottiene di regola mediante due dighe, o moli guardiani, fra loro paralleli e protendentisi verso il largo, in direzione normale, o poco diversa dalla normale, alla riva, sino a raggiungere fondali commisurati alle esigenze della navigazione (fig. 2). Per i piccoli porti-canali, frequentati solo da barche da pesca e piccolo naviglio, bastano generalmente fondali di 2-3 m. e una larghezza di canale da 20 a 40 m.; ma dove, a mantenere sgombra la foce da interrimenti, non soccorrano efficaci correnti di riflusso (come a Cesenatico e a Porto Corsini) occorre, a misura che la spiaggia si protende, prolungare i due moli e, solitamente, integrarne altresì gli effetti con periodiche escavazioni. Pei grandi porti, con ampiezza di canale non minore generalmente di 200 m., i moli debbono sin dall'origine spingersi al di là della linea neutrale, o sino a quel maggior fondale che sia richiesto dalla navigazione (porti di Lido, Malamocco e Chioggia). Dei due moli, conviene che quello sopraflutto, rispetto ai mari dominanti, sopravanzi alquanto l'altro, nel duplice scopo di meglio proteggere la nave in entrata e di attenuare la propagazione dell'agitazione nel porto interno. Nei mari a grande sviluppo di marea, dove, nelle fasi di riflusso, si possono ottenere potenti correnti di cacciata, naturale o artificiale, spesso si dispongono i due moli fra di loro convergenti, così da racchiudere un vasto specchio acqueo, atto a servire da avamporto (Tynemouth, Ymuiden, ecc.). Pei porti esterni, le varie disposizioni delle opere di difesa si possono ricondurre a 5 tipi fondamentali.
1. Moli convergenti e bocca rivolta alla traversia (fig. 3). - Particolarmente adatta a combattere gl'interrimenti nei mari a grande sviluppo di marea, la disposizione può, nei mari interni, trovar conveniente applicazione soprattutto quando si voglia assicurare la più facile entrata coi mari più violenti, ed il settore di traversia sia ampio e aperto verso l'uno e l'altro lato della costa. Occorre in tal caso che la bocca sia rivolta il più possibile in direzione dei mari più pericolosi, e ridotta alla minima ampiezza compatibile con la sicurezza della navigazione (150 a 250 m., in generale, per i grandi porti), e che proporzionalmente ampio sia il bacino racchiuso tra i due moli, al fine di ridurre sufficientemente l'agitazione nello specchio interno. È questa la disposizione che meglio comporta l'applicazione della formula già indicata per la determinazione del potere riduttore, nei limiti d'attendibilità ivi indicati.
2. Moli convergenti e bocca protetta da antemurale (fig. 4). - La disposizione è intesa ad assicurare a tutto il bacino racchiuso tra i due moli (specie quando sia di limitata estensione) l'ufficio di porto interno, mentre lo specchio direttamente ridossato dall'antemurale può funzionare da avamporto, accessibile, secondo la direzione del mare e del vento, dall'una o l'altra delle due bocche (Palermo, Licata, i vecchi porti di Livorno e Civitavecchia, ecc.). Tale tipo può riuscire particolarmente opportuno, per porti di modeste proporzioni (Ténès, Némours, ecc.), o anche a scopo di difesa militare (Biserta).
3. Moli convergenti e bocca protetta dal molo principale (fig. 5). - È la disposizione più diffusamente adottata per i porti nei mari interni, specie quando una naturale prominenza della costa offra già un certo ridosso contro i mari dominanti e il settore di traversia si trovi massimamente aperto dalla parte della stessa (Savona, Genova, Napoli, Salerno, Bari, Ancona, Livorno, Civitavecchia, Catania, ecc.). Dei due moli, l'uno, principale o sopraflutto, va disposto in modo da proteggere interamente il porto dalla traversia principale; l'altro, secondario o sottoflutto, va eretto, al ridosso del primo, contro la traversia secondaria e disposto in guisa da lasciare fra la sua estremità e l'opposta fronte interna del molo principale, un varco d'entrata al bacino racchiuso fra i due moli, costituente il porto interno, mentre lo specchio esterno al molo secondario, direttamente protetto dal principale, costituisce l'avamporto. Generalmente, e soprattutto se il paraggio sia soggetto a interrimenti sotto l'azione dei mari dominanti, conviene condurre il molo principale, con un primo braccio, dalla prominenza della costa normalmente alle linee di livello del fondo, in guisa da raggiungere col minimo percorso il richiesto fondale massimo e la richiesta distanza dalla riva, ripiegandolo poi in direzione per quanto possibile parallela a quest'ultima, direzione generalmente coincidente con quella delle isobate, al di là della sporgenza, e con la normale alla direzione dei mari dominanti. Conviene poi disporre ìl molo secondario in guisa che l'allineamento condotto per l'estremità delle due opere raggiunga possibilmente il limite verso terra della traversia secondaria, affinché nessuna agitazione esterna possa direttamente penetrare nel bacino interno, contemperando tale esigenza, sia con l'estensione che si vuole assegnare allo specchio interno (avendo altresì cura che, per il suo orientamento, in nessun caso possa il detto molo generare movimenti riflessi verso l'accesso al porto interno), sia con l'ampiezza dello specchio libero richiesto per la più sicura rotta delle navi.
Se il porto fosse minacciato da interrimenti anche dal lato della traversia secondaria, dovrebbe anche il molo sottoflutto essere disposto in guisa da sorpassare con la sua estremità la linea neutrale corrispondente a quella traversia.
Ad accrescere la tranquillità delle acque nel porto interno può talora giovare la costruzione di un pennello, radicato alla fronte interna del molo principale, di contro all'estremità del molo secondario, in modo da ridurre l'ampiezza dell'accesso a quel bacino, evitando però d'invadere il necessario canale di rotta.
4. Molo unico radicato alla riva (fig. 6). - La disposizione può tornare particolarmente opportuna quando il settore di traversia sia poco aperto e raccolto tutto da un lato della costa (Santa Margherita Ligure, Pozzuoli, Scilla, Villa S. Giovanni, Reggio Calabria, Gallipoli, ecc.). Nel caso di porti aperti su spiagge mobili, e quindi soggetti a interrimenti, si è talora conformato un primo tratto di molo, presso la radice, a guisa di viadotto, nell'intendimento che le correnti attraversanti le luci valessero a mantenere il bacino a tergo dello stesso spazzato dall'interrimento. Il provvedimento assolutamente non giova, anzi raggiunge effetto opposto, salvo che non possa farsi assegnamento su correnti litorali assai vive, come se ne hanno nei mari a grande sviluppo di marea (per es., il porto di Rosslare in Irlanda), ma che generalmente mancano nei mari interni.
5. Unica diga isolata parallela alla riva (fig. 7). - Originariamente adottata nel caso di coste rocciose, fronteggiate da acque profonde ed esposte a un ristretto settore di traversia raccolto intorno alla normale alla riva (Marsiglia, Porto Vittorio Emanuele III a Trieste, ecc.), la disposizione è venuta poi applicandosi sempre più diffusamente, anche in circostanze diverse, come quella che meglio di ogni altra si presta a successivi graduali ampliamenti, generalmente disponendo le opere al ridosso della diga in guisa da costituire, all'una o all'altra o ad entrambe le estremità, la disposizione a moli convergenti con bocca protetta dal molo principale (Genova, bacino Vittorio Emanuele III e bacino Mussolini; Napoli, porto dei Granili; ecc.).
Forma e struttura delle opere di difesa. - Nei riguardi della forma assunta dalla rispettiva sezione trasversale, le opere di difesa dei porti si distinguono in tre grandi categorie: opere del tipo a gettata, costituite da ammassi di blocchi lapidei naturali o artificiali eretti direttamente sul fondo, secondo il tracciato stabilito, con sezione all'incirca trapezia le cui dimensioni sono essenzialmente determinate dalla necessità che l'onda annulli la propria energia risalendo la scarpata verso il largo; opere del tipo verticale, costituite da vere e proprie muraglie aventi struttura omogenea e compatta, erette ancora direttamente sul fondo, e con sezione pressoché rettangolare, così da offrire, all'impeto dei flutti, come indica il nome, una parete sensibilmente verticale, in corrispondenza alla quale, secondo i risultati degli studî teorici confermati dalla diretta esperienza, se il fondale è sufficiente rispetto alla lunghezza delle onde, queste si limitano a oscillare senza rompere, esercitando sull'opera sforzi relativamente modesti; opere del tipo misto, formate da una gettata di base che giunge fino a una certa profondità sotto il pelo liquido, sormontata da una struttura a pareti verticali, col concetto di realizzare così i peculiari vantaggi dei due tipi, anche al di fuori di quei limiti, che per ciascuno risultano abbastanza nettamente stabiliti da considerazioni sia di carattere tecnico sia di carattere economico.
Gettate di massi naturali o scogliere. - Tipo primordiale ispirato alle spiagge naturali, di costruzione e manutenzione assai semplici e facili, ma generalmente assai onerose, per il grande volume di materiali di cui esige l'impiego e per la rapida usura sotto l'azione dinamica delle onde (fig. 8). Oggi se ne limita generalmente l'impiego al caso d'opere di media o modesta importanza in paraggi poco esposti e in limitati fondali, soprattutto in presenza di fondo cedevole e quando la località non offra inizialmente alcun ricovero per mezzi d'opera galleggianti, sempre che si possa disporre di abbondante materiale di natura appropriata, cioè di elevato peso specifico e adeguata grossezza, e resistente alle azioni atmosferiche e marine (rocce sedimentarie compatte; calcari e arenarie; rocce plutoniche in genere). Alla scarpata interna di regola si assegna pendenza a 45°; quella esterna va profilata in relazione, da un lato, al peso specifico e grossezza delle pietre, dall'altro alla violenza dei flutti. In ogni caso, diminuendo la potenza dei flutti dalla superficie verso il fondo, può inversamente variare la pendenza della scarpata. In generale, e sempre che si disponga di massi di sufficiente grossezza per il rivestimento della scarpata, conviene assegnare pendenze da 1/2,5 a 1/3 fuori d'acqua, da 1/1,5 a 1/2 entro acqua sino a profondità di 5 a 10 m., secondo la minore o maggiore violenza del mare, e a 45° al disotto.
Ad aumentare la compattezza della gettata, e quindi la resistenza al logorio dei materiali, particolarmente necessaria se l'opera sia munita di coronamento murario, giova mescolare, nel corpo della gettata, i materiali delle varie grossezze, per ridurre al minimo il volume dei vani, pur riservando i più grossi ai rivestimenti, e salvo, nel caso di fondo fangoso, costituire i primi strati con solo materiale minuto, per meglio ottenerne il costipamento, o addirittura interporre tra la scogliera e il fondo, se questo sia di fango molle su grande o indefinita altezza, uno strato di adeguato spessore di sabbia pura.
Alla formazione delle gettate si può procedere, sia per diretta avanzata da terra, a sezione completa, sia per successivi tronchi e strati successivi, con versamento dei materiali da pontili provvisorî, ovvero mediante l'impiego di mezzi di trasporto galleggianti: quest'ultimo metodo è sopra ogni altro preferibile, consentendo il migliore impiego del materiale. Se l'opera deve servire da semplice frangiflutti, la gettata si protende fuori acqua quanto occorre perché le onde ricadano infrante nello specchio interno: in paraggi mediamente esposti, m. 3 di emergenza e larghezza in sommità da 5 a 10 m. Se l'opera è munita di coronamento murario, formante banchina interna d'ormeggio (larghezza 3 ÷ 6 m.) o d'approdo (larghezza secondo destinazione) con relativo muraglione di difesa, occorre che la gettata esterna si protenda di tanto fuori d'acqua, da evitare la fronte del coronamento, e in ogni caso provvedere a proteggere il piede di questo contro lo scalzamento.
Gettate di massi artificiali. - Concepito nel duplice scopo di sopperire alla mancanza di massi naturali e di ridurre il volume della gettata, impiegando elementi artefatti atti a sostenersi su scarpate più ripide, il tipo si presta, come il precedente, a una facile costruzione e facile manutenzione, ma quest'ultima risulta d'ordinario assaî onerosa, per il rapido logorio cui sono soggetti i massi, sotto l'azione dei flutti che s'insinuano negli ampî vani, e i conseguenti scoscendimenti e cedimenti, particolarmente pericolosi se la gettata sia munita di soprastruttura muraria (diga Curvilinea di Livorno, fig. 9).
Per tali effetti, alcune opere di questo tipo hanno subito veri disastri (moli di St. Jean e Bilbao). Ad aumentarne la stabilità giova affondare i massi (di forma generalmente parallelepipeda) con la loro dimensione maggiore trasversalmente all'opera, impiegare massi di vario volume, e possibilmente frammischiarvi pietre atte a meglio colmarne i vani. Valgono, del resto, le condizioni e regole indicate per le scogliere.
Gettate di massi naturali con rivestimento di massi artificiali. - Il rivestimento, applicato alla sola scarpata esterna o ad ambe le scarpate, e spinto a profondità più o meno notevole, o anche sino al fondo, può essere formato con massi gettati alla rinfusa, ovvero collocati in opera a filari regolari sovrapposti a gradinata. Nella prima forma (parte nel molo San Vincenzo a Napoli, molo Orientale di Catania - fig. 10 - e molo Foraneo di Bari) il tipo presenta gli stessi pregi e difetti delle gettate di massi artificiali. In certi casi si è tentato di assicurare maggiormente la compattezza e la stabilità del rivestimento, formandolo con uno o più strati di massi adagiati in piano sulla scarpata della scogliera, secondo la sua stessa inclinazione (molo Kait Bey di Alessandria), con che, peraltro, venendo a mancare, con le asperità della scarpata, l'annientamento dell'energia delle onde infrante, si rende necessario, o di estendere maggiormente la gettata emergente affinché i getti perdano sufficientemente di violenza prima di raggiungere il coronamento, ovvero di costituire questo in forma molto più robusta.
Molto più numerose in Italia sono le applicazioni del tipo nella sua seconda forma (moli Galliera - fig. 11 - e Giano a Genova, diga frangiflutti a Livorno, prolungamento nord dell'antemurale di Civitavecchia, molo S. Vincenzo a Napoli, moli di Salerno, Cagliari, Barletta, ecc.), intesa, oltre che a ridurre maggiormente il volume della gettata e a meglio proteggerla contro la penetrazione dei flutti, ad assicurare ai massi del rivestimento maggiore stabilità, in grazia del mutuo loro contrasto e sovraccarico. Ma la compagine del rivestimento non può a meno, col tempo, di dissestarsi, per effetto del progressivo rassettarsi della scogliera su cui parzialmente appoggiano i varî strati di massi artificiali, aprendo così la via alla penetrazione dei flutti, con conseguenze analoghe a quelle che si verificano con i rivestimenti alla rinfusa, ma più difficilmente riparabili. Entrambe le forme, tuttavia, possono dar buoni risultati nei paraggi poco esposti, non in quelli molto esposti, come dimostrano i disastri subiti da numerose opere (molo Galliera di Genova, frangiflutti di Livorno, antemurale nord di Civitavecchia, molo orientale di Catania, Crotone).
Tipo verticale. - Inteso, anziché a frangere, a riflettere semplicemente le onde, riducendo a un minimo la loro azione dinamica, e a ridurre insieme a un minimo il volume dell'opera, il tipo consiste in una specie di muraglia direttamente eretta sul fondo del mare, che deve essere assolutamente stabile, così sotto l'azione del peso come sotto quella della risacca. Data la struttura muraria di calcestruzzo (versato entro casseri provvisorî o tra pareti di massi artificiali, ovvero di soli massi artificiali, o di muratura eseguita in aria compressa), il tipo non si presta che per fondali relativamente limitati, minori all'incirca di 15 m., quindi solo applicabile in mari a grande sviluppo di marea, dove il fondale ad acque basse solitamente non supera quel limite (Dover - fig. 12 -, Sunderland, Aberdeen, Tynemouth, Calais, Dieppe - fig. 13 -, ecc.).
Qualora la struttura esiga il preliminare spianamento del fondo roccioso, questo di regola si effettua mediante l'impiego di grandi sacchi di calcestruzzo plastico, accuratamente distesi e livellati.
Tipo misto. - È il tipo più largamente applicato oggidì nella costruzione di importanti opere di difesa. Costituito di una gettata d'imbasamento sorreggente un'infrastruttura a pareti verticali, esso dà mezzo di estendere il tipo verticale a quelle opere che, per l'eccessiva profondità o per la natura cedevole del fondo, non ne comporterebbero l'applicazione. Pertanto occorre: 1. che la gettata offra all'infrastruttura una base sufficentemente stabile; 2. che la base dell'infrastruttura sia spinta a profondità sufficiente a impedire che le onde delle massime dimensioni prevedibili frangano innanzi ad essa, e a sottrarre il piede della muraglia ad ogni pericolo di scalzamento per effetto sia della risacca, dal lato esterno, sia delle lame d'acqua scavalcanti l'opera, dal lato interno. Tuttavia, occorre, soprattutto quando si tratti d'opere fortemente esposte, su mari vasti e profondi, adeguare la resistenza della muraglia al caso del frangente che possa essere determinato, sia da un improvviso eccezionale colpo di vento, sia dall'investimento d'onde di dimensioni eccezionali, ed assegnare adeguata larghezza alle risberme della gettata, proteggendole altresì dal lato esterno, con un cordone di grossi massi artificiali o naturali regolarmente disposti, addossato al piede della muraglia, e dal lato interno con un analogo, se pur meno importante, rinfianco, specialmente necessario, se l'opera debba funzionare da semplice frangiflutti. In via approssimativa può assumersi come quota di base dell'infrastruttura, una profondità pari al doppio dell'altezza delle massime onde di tempesta, ed una larghezza in sommità della gettata, da 2 a 2,5 volte lo spessore dell'infrastruttura; 3. che l'infrastruttura, pur offrendo la massima compattezza, presenti l'elasticità necessaria per poter seguire, durante e dopo la sua costruzione, gl'inevitabili indefiniti movimenti di assestamento della gettata. In tale riguardo giova, soprattutto quando la gettata d'imbasamento sia molto alta, costruire l'infrastruttura e il soprastante coronamento per strati e a periodi successivi, in modo da graduare il carico sulla gettata.
Per la muraglia si possono adottare le seguenti strutture:
a) Struttura omogenea di ordinarî massi artificiali (da 20 a 50 mc.), specialmente adatta per paraggi poco o mediamente esposti, disponendo i massi, sia a strati sovrapposti con giunti sfalsati, messi in opera mediante pontoni a biga o gru galleggianti (antemurale di Napoli - fig. 14 -, molo di Castellammare di Stabia, molo della Colombaia a Trapani, ecc.) sia a strati inclinati (moli di Karachii, Madras, Colombo, Bengasi - fig. 19), il che consente di dare in opera i massi, anziché con mezzi galleggianti mediante gru-titano, e quindi con minore soggezione allo stato del mare, ma esige la formazione dell'infrastruttura con avanzata a sezione completa, anziché per strati successivi, e quindi in modo non scevro da particolari pericoli, quando si abbia una gettata d'imbasamento molto più alta e però soggetta a facili e più notevoli cedimenti.
I massi debbono essere in ogni caso di forme perfette, al fine di assicurare il combaciamento delle loro facce, in ogni senso.
b) Cassoni, sia di lamiera, sia di conglomerato, armato o non armato, abbraccianti l'intera sezione trasversale dell'infrastruttura, affondati sulla gettata d'imbasamento, e successivamente riempiti di calcestruzzo (moli di Bilbao, Valenza, Biserta, Zeebrugge, Tuapse, Valparaiso - fig. 15). Il sistema consente di realizzare una struttura monolitica su tutta l'altezza dell'infrastruttura e però atta a offrire grande resistenza, oltreché suscettibile di assai rapida esecuzione; ma presenta in genere complessità d'impianti e difficoltà d'applicazione assai notevoli, oltreché pericoli assai gravi durante l'affondamento e il riempimento dei cassoni, tanto maggiori quanto più estesi siano questi ultimi nel senso longitudinale dell'opera: ragioni per cui esso è stato talvolta (Valenza, Valparaiso) abbandonato in corso d'opera e sostituito con altro sistema. Coronato in alcuni casi da successo, specialmente in paraggi poco esposti, ha dato luogo in altri (Zeebrugge, Tuapse, Biserta) a danni gravissimi o a veri disastri, essenzialmente attribuiti a insufficiente compattezza e stabilità della gettata, aggravate da eccessiva lunghezza dei cassoni e da insufficiente profondità assegnata alla base dell'infrastruttura.
c) Piloni contigui formati di massi cellulari o ciclopici. - Di rientranza pari allo spessore della muraglia e di limitata larghezza (4 a 6 m. nel senso longitudinale dell'opera), sovrapposti e successivamente riuniti a formare tanti monoliti, mediante il riempimento con calcestruzzo dei pozzi risultanti dalla sovrapposizione dei vani interni (fig. 16). I massi cellulari (diga dei Granili a Napoli, parte delle nuove difese di Genova) permettono a parità di peso, di assegnare agli elementi maggiori dimensioni trasversali, a vantaggio della stabilità e rapidità di costruzione; ma l'ampiezza delle celle esige per il loro riempimento un volume di calcestruzzo assai notevole e dà luogo, quando il pilone sia investito da mareggiata nel corso della sua formazione, a violenti movimenti riflessi, nell'interno delle celle stesse, che facilmente possono determinarne la rovina; ragioni per cui il sistema si può prestare più particolarmente quando la gettata d'imbasamento sia di piccola altezza e già bastantemente assestata per poter su di essa erigere l'infrastruttura, anziché per strati successivi, per avanzata a sezione completa.
Nei massi ciclopici (parte delle nuove difese a Genova, diga sulla bocca del porto di Napoli, nuovo molo foraneo di Bari - fig. 17), tali inconvenienti sono eliminati, essendo le celle ridotte a dimensioni molto minori, o addirittura ai soli limiti richiesti per l'applicazione dell'apparecchio di sospensione. In qualche caso i pozzetti sono stati adattati a questo unico ufficio, o addirittura soppressi (fig. 18), con rinuncia a ogni collegamento verticale tra i massi di ciascun pilone, ciò che si può ammettere per opere in paraggi poco esposti (diga sulla bocca del porto di Palermo), ovvero provvedendovi in modo parziale, e però di limitata efficacia, sia mediante risalti tronco-piramidali e corrispondenti incavi nelle due basi dei massi, sia (prolungamento del molo Principe Umberto a Genova) limitatamente ai due massi superiori di ciascun pilone, mediante tenoni costituiti da opposte cavità circolari di piccola profondità, aperte nelle facce sovrapposte dei due massi e riempite, successivamente al collocamento in opera di questi, di calcestruzzo sottile con malta di calce o pozzolana arricchita di un'alta dose di cemento. Precipuo scopo di tali parziali provvedimenti è quello di poter risalpare i massi se si produca, nella formazione dei piloni, qualche dissesto; ma evidentemente essi implicano la rinunzia a realizzare un vero e proprio collegamento verticale tra i massi sovrapposti e a tutta quella maggior resistenza allo scorrimento trasversale e alle sottopressioni che può essere offerta dai nuclei di calcestruzzo formati col riempimento dei pozzi. Non trascurabile vantaggio di questi ultimi è anche quello di accelerare, per effetto dell'aerazione interna, la stagionatura dei massi.
I massi d'ogni specie si confezionano di regola con calcestruzzo di pietrisco e malta di calce e pozzolana, addizionata talora a cemento in ragione di 50 ÷ 100 kg. per mc. di calcestruzzo, al fine di accelerarne l'indurimento. Eguale calcestruzzo s'impiega per il riempimento dei pozzi, limitando però l'aggiunta del cemento agli strati estremi, inferiore e superiore, del getto, per sottrarre questo più rapidamente al pericolo di dilavamento. I massi cellulari o ciclopici vanno sovrapposti con l'interposizione di adatta guarnizione (piombo, o semplice cavo di fibra vegetale usato) stesa presso il contorno esterno, al triplice scopo di assicurare il perfetto appoggio di un masso sull'altro, di rendere il giunto stagno, evitando così il dilavamento del calcestruzzo di riempimento dei pozzi, e di ridurre a un minimo l'azione delle sottopressioni idrostatiche ed idrodinamiche.
L'impiego delle guarnizioni di piombo può consentire, previa chiusura del fondo dei pozzi, l'aggottamento di questi ultimi, al fine di assicurare la migliore formazione dei nuclei di collegamento dei massi, l'efficacia dei quali può essere ulteriormente accresciuta annegando verticalmente nel calcestruzzo alcuni tronchi, di vecchie rotaie o barre d'acciaio. La soprastruttura può essere formata di muratura di pietrame o di calcestruzzo; in ogni caso conviene costruirne la parte formante banchina e base del muraglione per tronchi, comprendenti due o al massimo tre piloni dell'infrastruttura, separati da giunti a secco, e costruire poi su questa, a massa continua, il muraglione.
Palafitte imbottite di scogliera. - Particolarmente adatte al caso d'opere esposte a moderate agitazioni, in piccole pro10ndità su fondo mobile, consistono in due o più file di pali, di legno o di cemento armato, disposti, nelle fronti, quasi a contatto, e collegati da filagne, traverse, controventi e tiranti, formanti una specie di gabbia, riempita poi di pietrame e coronata da una soprastruttura muraria. La fronte esterna viene generalmente protetta, addossandovi una gettata di pietre più grosse. Il tipo riesce soprattutto conveniente nella costruzione dei moli guardiani dei porti canali aperti su spiagge sottili (moli di Porto Corsini, fig. 20).
Ad attenuare grandemente la deleteria azione che i sali contenuti nell'acqua marina esercitano sulle ordinarie malte di cemento (tanto più pericolosa quando si tratti di conglomerato armato) giova l'aggiunta di pozzolana accuratamente vagliata e finemente macinata, in proporzione di circa 2/10 del peso del cemento, o, meglio ancora, l'impiego di cemento pozzolanico.
Opere interne. - Disposizioni generali. - Disposizioni tipiche dei bacini portuali sono: un unico bacino, lungo il cui contorno gli approdi sono sistemati in forma di sole calate di riva, o di calate di riva alternate a ponti sporgenti (porti di Genova, Civitavecchia, Napoli, Palermo, Cagliari, Bari, Ancona, ecc.); un bacino principale e di evoluzione, nel quale sboccano altri bacini, cui si assegna di preferenza forma rettangolare (Livorno, Venezia-Stazione marittima); una serie di sporgenti fra di loro paralleli e radicati ortogonalmente, o meglio obliquamente (50°÷ 60°) a una calata di riva (disposizione a pettine), intercalati fra darsene sboccanti in un comune bacino di accesso e di evoluzione (Marsiglia; Genova, nuovi bacini occidentali; Livorno, nuovo porto del Calambrone; Napoli, nuovi approdi ai Granili; Venezia, Porto Marghera; Trieste; Fiume; ecc.).
Specchi acquei o bacini speciali possono richiedersi, all'infuori di quelli adibiti alle operazioni commerciali: per stabilimenti di raddobbo delle navi (bacini di carenaggio, fissi o galleggianti, con annesse officine di riparazione e calate d'allestimento), per il traffico di materie infiammabili (petrolî e benzine), per navi da diporto, per naviglio peschereccio, per galleggianti di servizio, per battelleria fluviale, per linee di navigazione aerea; tutti da situare fuori e lontano dalle zone acquee e terrestri di maggior traffico. Si esige di più: per i bacini da carenaggio acque perfettamente tranquille; per il traffico delle materie infiammabili, bacini isolabili mediante chiusura galleggiante; per gli approdi adibiti ai servizî postali, il più diretto e facile accesso, così per via d'acqua come per via di terra; per quelli in servizio del traffico carboniero o di altre materie atte a produrre abbondante polverino, ubicazione scelta col dovuto riguardo alla direzione dei venti (Genova, Livorno, Messina, Napoli, Palermo, Venezia, ecc.).
La profondità dei bacini è determinata dall'immersione a pieno carico delle navi, aumentata di opportuno "franco" (0,50 ÷ 1 m. nei bacini ad acque tranquille). Per le grosse navi da carico può oggi ancora bastare una profondità di 9 m. sotto le acque basse, ma data la moderna tendenza verso l'aumento della pescagione, conviene fondare le opere di approdo (muri di sponda e pontili) in guisa da consentire l'ulteriore approfondamento dello specchio acqueo sino a m. 10 almeno; per le grandi navi transoceaniche adibite a servizî postali, la profondità richiesta può anche raggiungere e superare i 12 m. Ampiezza dei bacini d'evoluzione: m. 300 per le grosse navi da carico, e più nei porti frequentati da grandi transatlantici; ampiezza delle darsene fra sporgenti (o calate) paralleli: m. 150 o più, se si renda opportuno utilizzare per l'accosto di navi da carico anche la calata di fondo, e ampiezza ancora maggiore se il bacino debba servire come stazione di raccordo fra navigazione marittima e navigazione interna (Venezia, Livorno).
Sui terrapieni a tergo delle fronti d'approdo trovano sede ed ubicazione: le vie d'accesso terrestri, gl'impianti, le aree e gli edifici per lo sbarco e l'imbarco, la sosta e il transito delle merci e dei passeggeri; gli edifici e gl'impianti richiesti dai varî servizî inerenti all'esercizio portuale, capitaneria di porto, pubblica sicurezza, sanità, dogana, poste, telegrafo e telefono; uffici di gestione e di spedizione; spogliatoi, refettorî, bagni e altri locali per gli operai e per i relativi attrezzi; cantieri di manutenzione; centrali di produzione o trasformazione d'energia; impianti di distribuzione di energia, luce, acqua, ecc.
Lunghezza media di fronte d'approdo richiesta per grosse navi da carico, m. 150 per ogni accosto. Il rendimento medio generale delle fronti d'approdo di un porto a traffico misto, fornito di calate convenientemente arredate, in un regime regolare di esercizio, è di 600 tonnellate annualmente sbarcate e imbarcate su ogni m. di calata. Esso può scendere sensibilmente sulle calate esclusivamente adibite alle merci varie, e più ancora su quelle in servizio esclusivo delle grandi navi postali, che generalmente trasportano piccolissime quantità di merci; può invece raggiungere e oltrepassare le 1000 ÷ 1500 tonn. sulle calate specializzate e riccamente arredate, soprattutto se adibite al traffico di merci alla rinfusa (carboni, minerali, grani, olî, ecc.). Rendimenti medî generali superiori possono facilmente dar luogo a dannosi congestionamenti.
Rapporto medio generale fra superficie acquea dei bacini portuali e sviluppo di fronti d'approdo, 1 ettaro per 100 ÷ 250 m. di calata. Rapporto medio fra superficie di terrapieni e sviluppo di fronti d'approdo, 1 ettaro circa per 100 m. di calate, donde una larghezza media generale, per le calate, di circa m. 100.
Nei porti di limitata importanza e d'interesse essenzialmente locale, possono bastare calate larghe 10 ÷ 15 m., se non occorrono aree di deposito, e 25 ÷ 30 m. nel caso contrario. Nei grandi porti, le calate destinate all'approdo delle navi di carico debbono disporre di aree di deposito, di capacità adeguata a quella delle navi (da 20 a 50 mc. di merci per ml. di nave delle comuni dimensioni) e offrire adeguata sede alle vie di comunicazione, ordinarie e ferroviarie, per l'accesso, sia direttamente alle navi, sia alle aree di deposito, nonché ai mezzi meccanici per lo scarico e il carico delle merci.
In totale, esclusi i magazzini di deposito e i parchi ferroviarî, occorre nei grandi porti una larghezza di m. 60 ÷ 100 per le calate di riva e di 120 ÷ 200 per gli sporgenti. Larghezza alquanto minore occorre generalmente per le calate adibite ai servizî postali, anche nel caso delle grandi stazioni marittime.
Nelle moderne stazioni marittime, in servizio delle grandi linee transoceaniche, lo sbarco e l'imbarco dei passeggeri si effettua al piano superiore, sistemando in questo anche i varî servizî inerenti, e raccordandolo mediante viadotto alle strade ordinarie di accesso (Genova).
I raccordi ferroviarî debbono essere ottenuti per mezzo di scambî, ricorrendo solo eccezionalmente alle piattaforme girevoli; il raggio delle curve non deve scendere al disotto di 150 m. I parchi di raccolta e riordino dei carri e i fasci di ricevimento e spedizione dei treni, distribuiti, nei grandi porti, per gruppi di calate, debbono avere lunghezza non minore, possibilmente, di m. 600. Lo sviluppo totale dei binarî nei porti con transito ferroviario elevato (Genova, Livorno, Civitavecchia, Ancona, Venezia, Trieste, ecc.) varia da 8 a 10 volte lo sviluppo delle fronti d'approdo.
Muri di sponda. - Sono costituiti generalmente di muratura, e hanno lo scopo di offrire una fronte d'accosto alle navi e contemporaneamente sostenere il terrapieno a tergo, formante il piano di calata. La fronte è verticale; l'emergenza varia, nei mari interni, fra 2 e 3 m. sul livello medio del mare, secondo la mole delle navi. Il calcolo statico viene fatto sostanzialmente come quello di un muro di sostegno delle terre, tenuto presente che il sovraccarico sul terrapieno può valutarsi da 2 a 4 tonn. per mq. I muri di sponda sono realizzati secondo differenti tipi: elemento, spesso decisivo, nella scelta del tipo è la natura del fondo, che può essere stabile e incompressibile (roccia), o incompressibile ma mobile (sabbie e ghiaie), o compressibile e mobile (argille molli e fango). Nel caso di fondo costituito su grande o indefinita altezza di fango molle, un solido piano d'appoggio può ancora essere assicurato al muro, sovrapponendo al fondo naturale, o al cavo in esso aperto, un banco d'adeguata altezza di sabbia pura. Influiscono altresì, a parte circostanze minori, e in vario modo, secondo che l'opera sia da costruire entro terra o entro acqua: la possibilità di costruire il muro all'asciutto, entro cavo od al riparo di ture, o la necessità di costruirlo in presenza dell'acqua; la natura dei materiali da costruzione più convenienti disponibili in luogo, e l'eventuale disponibilità di particolari impianti di cantieri e mezzi d'opera.
a) Muri eseguiti all'asciutto (figura 21). - Sistema applicabile opportunamente quando la natura del terreno consenta di mantenere il cavo, o il recinto, facilmente asciutto mediante aggottamento. Esso assicura il perfetto impiego dei materiali costruttivi e permette di profilare il muro secondo la forma del solido di uniforme resistenza. La costruzione entro cavo formato (a pareti verticali) presenta di più il vantaggio di ridurre sensibilmente il volume dei movimenti di terra e quello altresì che il massiccio di terra rimasto in posto a tergo del muro eserciterà su questo spinta minore che non un corrispondente prisma di rinterro. Il muro si può costruire sia di muratura di pietrame, sia di conglomerato, fondandolo direttamente sul suolo, se questo presenti la necessaria resistenza, ovvero su palificata.
b) Muri di calcestruzzo colato in acqua entro casseri (fig. 22). - Sistema ammissibile soltanto per opere di limitata importanza da erigersi in piccole profondità (non più di 6 ÷ 7 m.) e su fondo sicuramente resistente. Occorre adoperare paratie perfettamente stagne e indeformabili (di regola rivestite verso l'interno di tela olona) ed evitare con appropriati mezzi ogni dilavamento del conglomerato, che all'uopo deve essere altresì ottimamente manipolato prima del suo impiego.
c) Muri di massi artificiali (fig. 23). - È la stnuttura più diffusamente applicata nei porti del Mediterraneo; di costruzione semplice e sicura, formata dalla sovrapposizione, a pile contigue e indipendenti, di massi, generalmente di calcestruzzo, costruiti in cantiere e posti in opera per mezzo di pontoni a biga, direttamente sul fondo, se di adatta natura, ovvero su scanno di scogliera. La rientranza dei massi può essere variata, dalla base alla sommità, profilando la fronte posteriore del muro a riseghe, in modo da avvicinare, anche con questo tipo, la sezione trasversale dell'opera a quella del solido di uniforme resistenza. In ogni caso, data la discontinuità della struttura, conviene aumentare alquanto, in confronto del calcolo, lo spessore del muro, e occorre poi addossare alla sua fronte interna una gettata di pietrame, atta ad impedire il risucchio del terreno attraverso i giunti fra i massi.
d) Muri a cassoni (figura 24). - L'impiego dei cassoni di conglomerato cementizio, armato o no, nella costruzione dei muri di sponda, ha avuto recenti ed estese applicazioni con modalità diverse (Rotterdam e porti delle Indie Olandesi, Copenaghen, Marsiglia, Yokohama, Venezia, Napoli, Cagliari, Genova), le quali vengono generalmente determinate da circostanze speciali. Queste sono: la natura dei materiali costruttivi localmente disponibili a condizioni più vantaggiose (sabbia, ghiaia e cemento), la particolare urgenza della costruzione, la mancanza di adatte sufficienti aree per cantieri, la disponibilità di mezzi che siano adatti per la costruzione e il varo dei cassoni.
I cassoni hanno generalmente lunghezza da 20 a 60 m. e sono internamente divisi mediante pareti longitudinali e trasversali in più compartimenti stagni, così da potere, dopo l'affondamento, esaurire questi successivamente e riempirli di calcestruzzo gettato all'asciutto.
e) Muri eseguiti in aria compressa (fig. 25). - Il sistema, che consiste in una applicazione del consueto metodo di costruzione in aria compressa, è per sé stesso assai costoso, ma può riuscire particolarmente opportuno quando la fondazione debba, per raggiungere il banco sodo, penetrare nel terreno sino a notevole profondità (Anversa, Le Havre, Nantes, Bordeaux). Eventualmente può anche riuscir conveniente l'utilizzare cassoni mobili o sospesi, localmente disponibili (Genova, Livorno, Napoli, Palermo, Venezia), cassoni, questi che non si prestano, però, se non per affondamenti nel terreno assai limitati.
f) Muri con fondazioni a pozzi (fig. 26). - In presenza di terreni affioranti, o di poco emergenti sul livello delle acque, e di natura sciolta e non compressibili, può riuscire particolarmente conveniente la struttura a massi cavi autoaffondanti, che elimina il bisogno di vasti cantieri, fuor della sede stessa dell'opera, e presenta inoltre tutti gli altri vantaggi dei muri eseguiti all'asciutto entro cavo armato, tranne quello di poter dare al muro il profilo del solido di uniforme resistenza. I massi, che misurano, in genere, da 10 a 15 m. di lunghezza, vengono formati sul posto stesso del loro affondamento, sopra un anello di base munito di tagliente, mediante la sovrapposizione di successivi anelli di calcestruzzo costruiti fuor di opera, e con la progressiva elevazione in luogo della muratura, sia di pietrame, sia di calcestruzzo.
g) Muri discontinui (fig. 27). - Quando per la natura del fondo, le fondazioni debbano essere spinte sino a raggiungere il banco sodo, a profondità più o meno notevole, può tornare opportuno, per ragioni di economia, costruire il muro in forma discontinua, costituendolo di una serie di pile, fondate con l'uno o l'altro dei sistemi indicati, o anche erette su palificate, e impostando poi su esse archi e piattabande, a sostegno del piano di banchina (Amburgo, Bordeaux, Nantes). Analogamente tale tipo può tornare opportuno in un bacino ad acque non sufficientemente tranquille, al fine di attenuare la risacca lasciando i tratti di sponda fra le pile profilati a scarpata.
h) Muri e pontili di calcestruzzo. - Si prestano particolarmente nei terreni sciolti, in cui si possono facilmente infiggere i pali. Raramente usate nella costruzione, in limitati fondali, di muri a fronte continua (fig. 28) formata di pali o pali-palancole battuti a contatto e ancorati in varia guisa nel retrostante terrapieno (Porto Marghera e Porto del Calambrone), le strutture di cemento armato trovano la loro più naturale e conveniente applicazione, per opere d'approdo in fondali elevati (non però maggiori di 10 ÷ 12 m.) nella costruzione di pontili (fig. 29), sia in forma di sporgenti (Vado, Cornigliano Ligure, Bagnoli, Napoli, Trieste) sia in quella di calate di riva (Gand, Porto Marghera, ecc.). Nel caso degli sporgenti conviene, per la soggezione all'urto di fianco delle navi, che la struttura non sia né troppo rigida né troppo elastica, al qual fine giova concentrare massimamente la massa dell'opera nell'impalcato e limitare la regione delle controventature alla sola parte superiore dei pali.
Per quanto riguarda la parte emergente dei muri di sponda, essa è uguale per tutti i tipi. Può essere di muratura o di calcestruzzo, di spessore 2 ÷ 3 m., a paramento esterno formato da sol¡do rivestimento, con zoccolatura (al bagna-asciuga) e coronamento di ottima pietra da taglio (preferibile, per il coronamento, il granito, in conci di 0,8 ÷ 1 m. di larghezza e 0,4 m. di altezza). I muri debbono essere muniti: di scale di approdo ricavate nello spessore del muro, larghe m.1 ÷ 1,5 situate preferibilmente in punti non utilizzabili per l'accosto di fianco delle navi; di scalette d'ormeggio a pioli, incassate nel paramento e distribuite a distanza di 30 m.; di prese d'ormeggio, distribuite a distanza di 20 ÷ 30 metri, preferibilmente consistenti in bitte a filo di muro per le calate di approdo, e in colonne d'ormeggio, piantate a 1,5 ÷ 2 m. dall'orlo per le banchine d'ormeggio, oltre ad anelli di ferro applicati entro nicchie.
In genere internamente al muro, corre un cunicolo accessibile per il collocamento di condutture varie. All'esterno i muri sono generalmente muniti di parabordi di legno per proteggere il muro e i fianchi delle navi in caso di urti.
Arredamento delle calate. - Generalità. - Elementi essenziali ne sono: le aree e gli edifici adibiti al deposito temporaneo o in transito delle merci; i magazzini per il deposito a lunga giacenza, durante il quale la merce può anche venir negoziata (magazzini generali) ed eventualmente lavorata o trasformata (depositi franchi); gl'impianti meccanici fissi e mobili per lo scarico, il carico e il trasferimento delle merci. Si riportano qui solo alcune notizie di carattere generale, rimandando alle relative voci per le trattazioni particolari.
a) Luoghi di deposito. - Bastano aree scoperte per le merci non deperibili e di basso valore (carboni, minerali, legnami comuni, materiali da costruzione, e simili); occorrono tettoie, capannoni e magazzini per quelle deperibili e di alto valore. Convengono le tettoie, a ragione del loro minor costo e del minimo ingombro dovuto ai sostegni della copertura, quando l'intensità del traffico sia limitata, ovvero si disponga di aree assai profonde e di basso costo a tergo delle banchine; generalmente però si sviluppa la capacità del deposito ricorrendo ai capannoni a due o più piani a struttura generalmente di cemento armato. Le disposizioni più comuni sono: lunghezza non maggiore generalmente di 100 ÷ 150 m., altezza dei varî piani sopra terra 4-6 m., e più, se si deve far posto ad apparecchi meccanici sospesi per la manipolazione e la sistemazione delle merci; altezza degli scantinati m. 3; solai calcolati per sovraccarichi non minori di 2,5 t./mq. per il piano terreno, tonn. 2 per i piani superiori e tonn. 1 per la copertura, se conformata a terrazza utilizzabile per metci non deperibili, o altrimenti tonn. 0,25-0,5 (più l'eventuale sovraccarico per neve); pavimento del piano terreno a livello della calata, con piano caricatore se predomini il movimento ferroviario (a m. 1,05 sul piano del ferro) su entrambe le fronti o su di una sola, largo 1,50 ÷ 3 m.; ampiezza delle campate nei capannoni (nei due sensi) non minore di 5 ÷ 6 m., che si tende ora ad aumentare per diminuire l'ingombro dei sostegni e facilitare l'impiego dei mezzi meccanici per la manipolazione delle merci (nei capannoni più recenti a Genova, Napoli, Venezia, Trieste, si hanno campate al piano terreno sino a m. 6 per 10 e m. 8 per 15 circa, raddoppiate talora nel piano sottoposto alla copertura).
I locali per i servizî inerenti alla gestione dei depositi e le scale si sistemano di regola a una o a entrambe le estremità dell'edificio.
Analoghe disposizioni valgono per i magazzini di deposito a lunga giacenza per le merci varie, salvo che per essi si esige una più frazionata suddivisione in sezioni, dalla base al tetto, non solo per il più facile isolamento dei reparti in caso d' incendio, ma per provvedere al separato immagazzinamento delle merci di diversa natura. L'area delle sezioni varia normalmente fra 250 e 600 mq. Disposizioni speciali si esigono per i magazzini destinati al deposito di particolari merci affluenti ai porti in quantità ingenti, o a carichi completi, e che per la loro natura richiedono speciali dispositivi per l'introduzione, l'immagazzinamento e l'estrazione, come i magazzini a silo per grani, semi oleosi e sali; i magazzini frigoriferi per carni e altre vettovaglie congelate; i depositi di olî minerali e vegetali, ecc.
b) Arredamento meccanico. - L'impiego dei mezzi meccanici, riducendo la durata e il costo delle operazioni di scarico, carico e trasferimento delle merci, aumenta il rendimento delle navi, delle opere d'approdo, dei luoghi di deposito e dei mezzi di trasporto terrestri; esso influisce quindi direttamente sul costo delle merci. La natura dei mezzi varia con quella dei traffici: predominano, in generale, per le operazioni fra nave e calata, le gru, che ottimamente si prestano per le merci varie e possono, operando da sole (20 ÷ 30 operazioni all'ora) o in combinazione coi picchi di carico e col sussidio di carrelli a mano, o meglio automotori, per il trasferimento su calata, raggiungere facilmente uno scarico e introduzione a deposito di 100-120 tonn. di merci per boccaporto e per giornata di 8 ore; mentre nel caso di carichi omogenei, per forma, volume e peso, come carboni, minerali, sali, grani, petrolî, legnami, carni congelate, merci in sacchi e cassette, speciali apparecchi elevatori e convogliatori possono fornire discariche sino a 400 tonn. e più, per boccaporto e per giornata.
Le gru, che meglio rispondono al servizio delle calate, sono quelle mobili, con incastellatura a portico, scorrevole su binarione disposto a cavallo del primo binario, a mare, ovvero a mezzo portico, e verso terra su rotaia elevata, applicata alla fronte dei capannoni o tettoie, in modo da lasciare in ogni caso libera, al disotto, la circolazione dei veicoli.
Le gru più diffusamente impiegate sono oggi, per le merci varie, quelle elettriche a corrente continua (400 ÷ 600 volt), che assicurano un consumo di energia sensibilmente proporzionale al carico da sollevare, e a sbraccio variabile (senza spostamento verticale del carico durante la variazione) che allarga la zona di calata servita dall'apparecchio e facilita la penetrazione del braccio fra le soprastrutture della nave, e quindi anche il simultaneo impiego di più gru attraverso un medesimo boccaporto.
Disposizioni normali: altezza della puleggia di testa del braccio, in relazione a quella delle soprastrutture delle navi e del più elevato piano di deposito da servire; sbraccio massimo 13 ÷ 18 m.; potenza di sollevamento 1500 ÷ 3000 kg.; velocità di sollevamento 0,75 ÷ 1,5 m./sec., di rotazione (all'estremità del braccio) 1,5 ÷ 2,5 m./sec., di traslazione 0,5 ÷ 1,5 m./sec.; scartamento del binarione di scorrimento m. 4; distribuzione media delle gru sulle calate in ragione di un apparecchio ogni 30 ÷ 40 m. di fronte d'approdo (numero medio di boccaporti sulle navi, 4, e in quelle maggiori 6, e anche 8). Per colli di peso maggiore di 3 tonn. può, in determinate circostanze, convenire ancora l'impiego di gru mobili, di potenza sino a 5 ÷ 6 tonn. e anche oltre, aumentando in tal caso lo scartamento del binarione (m. 8, a cavallo di due binarî); ma generalmente si ricorre, per i grandi pesi, a gru fisse, installate in punti opportunamente scelti, o meglio, per evitare lo spostamento delle navi, a gru galleggianti, o pontoni a biga, di portata generalmente da 30 a 60 tonn.
Apparecchi varî s'impiegano per l'introduzione e l'estrazione, la manipolazione, l'accatastamento e il trasferimento delle merci nell'interno dei luoghi di deposito: gru a ponte dei depositi scoperti; e per quelli coperti: gru esterne a mensola, ordinarî montacarichi, doccioni e piani inclinati, lisci, diritti o a chiocciola (pendenza sino a 25°) e piani inclinati a rulli (pendenza 2° ÷ 3°) per il trasferimento da un piano all'altro; gru sospese scorrevoli su monorotaia, ovvero a ponte, con carrello semplice o munito di braccio rotante, disposte talora in guisa che il braccio, sporgente attraverso le porte fuori dell'edificio, possa egualmente servire per l'introduzione e l'estrazione della merce, convogliatori a nastro orizzontali o inclinati (sino a 20° se lisci, e a 30° se con traverse), sovente in sezioni portatili, montate su ruote, lunghe 5 ÷ 20 m. ciascuna, utilizzabili in serie, animati da motore elettrico; carrelli semplici e carrelli elevatori a motore.
Per i carichi omogenei sono specialmente in uso: per lo scarico di carboni, minerali, e in generale di merci sciolte ponderose alla rinfusa, elevatori a ponte scorrevoli su binarione, con carrello semplice (il ponte si prolunga fuori banchina, con mensola sollevabile) o meglio a gru girevole scorrevole sul ponte (sporgente, a mensola, fuori banchina per 2 ÷ 3 m.) e benna prensile. Scartamento del binarione 30 ÷ 50 m., altezza libera sotto il ponte circa m. 12, portata del carrello o gru 5 ÷ 7 tonn., capacità della benna 3 ÷ 4 mc., sbraccio utile fuori filo di calata 10 ÷ 15 m., capacità oraria di scarico 40 ÷ 70 tonn.; per lo scarico dei grani alla rinfusa, elevatori a tazze o pneumatici. Gli elevatori a tazze sono più economici come spesa d'impianto e consumo di energia, ma esigono notevole e pesante lavoro di paleggiamento del grano nella stiva (non meno del 70 ÷ 80% del carico) per portarlo alla base della noria, sollevando molta polvere, mentre con gli elevatori pneumatici, il grano viene direttamente aspirato da ogni punto delle stive e, di più, aereato e liberato della polvere, né occorre, come nei primi, regolare la posizione dell'elevatore a misura che la nave si vuota. Potenza normale di ogni noria o tubo aspiratore, 70 ÷ 100 tonn./ora; per lo scarico delle carni refrigerate, convogliatori a nastro, entro passerelle chiuse, e a catena a ganci, sospesa a monorotaia, con potenza di scarico da 250 a 500 quarti di bue per convogliatore e per ora.
V. tavv. IX e X.
Organizzazione, traffico e regime giuridico.
L'attrezzatura moderna dei porti risale nelle sue grandi linee alla seconda metà del sec. XIX. Diffusa la sicurezza sui mari, l'isolamento comincia ad apparire non soltanto inutile ma anche dannoso. Il perfezionamento continuo della tecnica navale, difatti, dopo l'adozione della propulsione a vapore e dei materiali metallici, consente lo sviluppo delle grandi portate, riduce la durata delle traversate che rende più regolari, abbassa notevolmente il costo dei trasporti marittimi. D'altra parte la progressiva industrializzazione dei paesi europei ed extraeuropei, l'aumento demografico e specialmente il grande sviluppo della rete stradale e ferroviaria creano, a tergo dei porti, grandi mercati di consumo e di produzione di materie prime e alimentari. I trasporti via mare, caratterizzati fino alla fine del sec. XVIII dalle droghe e coloniali, dai tessili, dal cotone, ecc., s'inturgidiscono di grandi masse di prodotti a basso costo trasportati alla rinfusa. L'industria zolfifera, ad es., che in Sicilia aveva avuto le sue origini, già nel 1857 richiamava negli approdi di Licata e Agrigento gran numero di navi straniere; e il crescere e il prosperare di essa, divenuta poi d'importanza nazionale, induce i Borboni a ordinare, nel 1859, l'elaborazione di progetti per la costruzione di porti in quelle località. Nel 1869 e nel 1862, rispettivamente, partono i primi carichi di granaglie dalla California e dall'Australia per l'Inghilterra; nel 1877 l'Argentina prende posto fra i paesi esportatori di cereali; nel 1841 cominciano le stabili esportazioni di guano; nel 1880 il primo carico di carne congelata di montone dall'Australia arriva in Inghilterra; nel 1886 entra in servizio la prima nave cisterna: la tedesca Glückauf. Aumentano pure le spedizioni di carboni, altri minerali, legnami, cotoni, ecc. I trasporti marittimi hanno quindi bisogno di essere allacciati con quelli per terra, per distribuire rapidamente nell'interno le merci che vengono dal mare e per raccogliere quelle che devono essere avviate via mare. Lo sviluppo del fenomeno rende necessaria la concentrazione, in pochi punti del litorale di ogni paese (gradualmente dotati d'immensi impianti portuali e di adeguati raccordi), della massa degli arrivi e delle partenze.
Il porto, da una funzione unica e primaria va passando ad una sempre più decisamente centripeta e multipla, tendendo a diventare area assiale dei commerci e delle industrie di un popolo. Allora esso mira a rispondere a tre esigenze che il De Rousiers (di cui è opportuno seguire ancora la classificazione) chiamò "funzioni": 1. regionale, 2. industriale, 3. commerciale.
1. Un porto risponde alla funzione regionale quando esso è il punto più vantaggioso di congiunzione dei trasporti per mare con quelli per terra. Così, ad esempio, le granaglie americane arrivano ad Anversa o ad Amburgo per diffondersi nelle regioni retrostanti che non ne coltivano a sufficienza e lo zucchero cecoslovacco scende l'Elba per imbarcarsi ad Amburgo. La funzione del porto è quindi legata alle forze produttive e al potere di consumo del retroterra, del quale espleta le importazioni e le esportazioni. È opportuno accennare che spesso il retroterra geografico non coincide con quello economico; il primo corrisponde a tutto il territorio più vicino a un determinato porto e che avrebbe quindi, in teoria, "la necessità di servirsi del suo naturale, unico sbocco marittimo. La vicinanza è determinata: a) dalle coordinate geografiche (distanza matematica); b) dalla natura dei terreni adiacenti (distanza chilometrica); naturalmente altra è la vicinanza geografica e altra quella data dalla configurazione delle coste e dalla plastica dei luoghi" (Michieli). Il retroterra economico è invece rappresentato da tutta la zona che indipendentemente dalla vicinanza geografica ha l'opportunità e la convenienza di servirsi sempre, o nella maggioranza dei casi, di quel dato porto, in base alla legge del minimo sforzo. Il retroterra geografico non è destinato, almeno nelle linee generali, a mutare; quello economico "dipendendo da una serie di coefficienti più che variabili, segue fatalmente le loro vicende". Tra questi coefficienti sono da elencare lo sviluppo delle vie di comunicazione terrestri e fluviali; l'efficienza e rapidità dei mezzi di trasporto e dell'arredamento portuale; le tariffe cumulative ferroviarie e marittime e le barriere doganali; le condizioni della marina mercantile; i noli e il costo della mano d'opera.
Nei tempi moderni il retroterra economico d'un porto si può enormemente allargare, poiché esso, in definitiva, è formato "da tutti i fattori economicamente influenzabili; il raggio di questa influenza dipende da elementi intellettuali e morali non meno che da quelli fisici". Cosicché nella lotta per il primato d'un porto decide in primo luogo "l'importanza mercantile della piazza, cioè la somma di capitale, di volontà energica e d'intelligenza economica che è in essa radunata".
2. Una serie di merci (quelle, specialmente, pesanti e ingombranti: le cosiddette "rinfuse") affluiscono nel porto per subire trasformazioni industriali nelle vicinanze ed essere poi rispedite sotto forma di articoli finiti. Il porto compie allora una funzione industriale.
3. La funzione commerciale è espletata mediante il trasbordo di merci (che non penetrano quindi nell'interno) fra una nave e l'altra. Il porto è in questo caso legato ai vantaggi della situazione geografica marittima e all'organizzazione del mercato locale.
Per quanto una qualsiasi delle funzioni predette possa eventualmente prevalere in un dato scalo, secondo le speciali caratteristiche dei suoi traffici, le tre esigenze in genere coesistono nei grandi porti moderni.
I mezzi tecnici esistenti in uno scalo moderno: opere destinate a ricovero delle navi; arredamento meccanico e costruzioni edilizie adibite a carico, scarico e deposito delle merci e al transito dei passeggeri; impianto di produzione e trasmissione di forza motrice; stabilimenti industriali, dànno luogo a speciali gestioni ed esigono l'intervento del lavoro umano in forma direttiva e manuale. Ora, perché l'attività economica dello scalo si svolga in modo proficuo e senza che l'impiego di tante svariate iniziative abbia a riuscire d'intralcio reciproco, occorrono una buona organizzazione dei servizî e una buona amministrazione. In uno scalo bene organizzato occorre che siano assicurati i seguenti servizî:
a) Servizio di polizia giudiziaria, per la sicurezza delle persone e delle merci.
b) Servizio di polizia marittima e portuale; esso ha il fine di disciplinare il funzionamento dei fari e segnalamenti marittimi; entrata e uscita, ormeggi, movimento, soste e riparazioni delle navi; il pilotaggio (talvolta obbligatorio) e i rimorchi, quasi sempre facoltativi; imbarco e sbarco delle merci e dei passeggeri; le precauzioni contro gl'incendî e altri eventi pericolosi; la circolazione delle chiatte e dei battelli in porto e dei natanti addetti a navigazione interna, e tutto quanto concerne la polizia del porto. Tali funzioni si esplicano principalmente mediante l'emanazione di regolamenti e ordinanze e l'impiego di mezzi di coercizione atti ad assicurarne l'osservanza.
c) Servizio di polizia sanitaria; ha lo scopo di difendere lo scalo, e con esso tutto l'organismo sociale, dalle eventuali insidie che gli scambî con paesi infetti possono presentare per la salute pubblica.
d) Servizio doganale: cioè la vigilanza sulle merci per l'applicazione delle relative disposizioni doganali (v. dazio e dogana; esportazione e importazione; fisco).
e) Servizio tecnico, per costruzione, miglioramento, manutenzione delle opere, arredamento, raccordi ferroviarî, binarî di calata, edifici e depositi, ecc.
f) Servizio commerciale, per la gestione degl'impianti e l'arredamento degli edifici e delle stazioni destinati al transito passeggeri; per la regolamentazione delle merci a bordo e nei depositi e per la disciplina delle operazioni di credito e delle transazioni nel porto; per il coordinamento del movimento interno con quello esterno per ferrovia, automezzi, vie acquee; per l'elaborazione delle statistiche, ecc.
g) Servizio di disciplina del lavoro. La mano d'opera occupata nei grandi porti comprende notevoli masse costituite da elementi eterogenei. Si prescinde, per ovvie ragioni, dal considerare i lavoratori adibiti alla costruzione, manutenzione e riparazione dei mezzi tecnici dei quali il porto dispone: opere ed edifici, navi; è necessario invece soffermarsi sui lavoratori effettivamente addetti al traffico marittimo, che sono quelli che più interessa conoscere nello studio dei porti e ai quali, in genere, ci si riferisce quando si parla di ordinamento del lavoro portuale.
Le normali operazioni richieste dal traffico si ripartiscono in due gruppi: il primo si riferisce a quelle eseguite a terra, l'altro alle operazioni effettuate a mare, sia sui galleggianti sia sulle navi. Del primo gruppo fanno parte le operazioni di ammassamento, messa in fila, movimento, prelevamento, carico su veicoli, trasporto a spalla o a braccia, pesatura, misurazione, imbarco su galleggianti o direttamente sulle navi. Del secondo gruppo fanno parte le operazioni di stivaggio nei galleggianti, trasporto a mezzo di essi, tiraggio e stivaggio sulle navi, trasbordo, bunkeraggio.
Per lo scarico e il deposito di alcune merci in grandi masse: carboni, cereali, olî minerali, ecc., esiste un arredamento speciale (v. sopra) con apposito personale operaio. Per le rimanenti merci (merci varie), le operazioni di sbarco s'iniziano a bordo, col tiraggio che comprende il trasporto dei colli dalle varie zone della stiva fino sotto il boccaporto; il loro sollevamento compiuto con i mezzi di bordo o di terra; la consegna della merce al ricevitore "sotto paranco" ossia al limite della coperta. Di qui la merce può essere direttamente sbarcata nella calata oppure su chiatte, modo più rapido, ma più dispendioso. Lo sbarco a terra si può effettuare sia deponendo in via provvisoria la merce sulla banchina, sia immettendola direttamente nei depositi o nei vagoni ferroviarî, quando la vicinanza del binario di calata lo consenta. Per il carico si segue, in senso inverso, la via predetta.
A ciascuna operazione attendono, così per lo sbarco come per l'imbarco, diverse categorie di operai. Al tiraggio e stivaggio (in alcuni porti consentito ancora al personale di bordo) sono adibiti stivatori; al ricevimento delle merci sulle chiatte, alla manovra e all'ormeggio di esse e alla consegna delle merci, chiattaioli, barcacceri, barcaioli. Alle operazioni di carico e scarico fra calate, chiatte e nave vengono adibiti caricatori e scaricatori; operai manovratori operano i congegni meccanici; misuratori e pesatori determinano il volume e la quantità delle merci sbarcate, nell'interesse dell'armatore o del ricevitore. Le operazioni accessorie richieste nelle calate o nei depositi, quali il prelevamento di campioni, l'imballaggio e la custodia delle merci, vengono compiute da cassai, barilai, imballatori, guardiani, ecc.
Tale distinzione qualitativa della mano d'opera non è soltanto dovuta alla necessità di una divisione di lavoro, ma dipende molto, anche, dalla specializzazione che ognuna delle predette operazioni può richiedere. Specializzazione che "proviene da una forza fisica molto sviluppata o dall'abitudine o da una certa pigrizia nel mutare la località di lavoro; in una parola, sia da elementi psichici sia da fattori fisiologici connaturati" (Malègue). Alcune categorie richiedono una specializzazione più raffinata: così, per es., gli stivatori. Si aggiunga che la differenziazione non è soltanto basata sul lavoro da compiere, ma anche sulla qualità della merce da trattare; si distinguono difatti ordinariamente gli scaricatori di carbone minerale, di carbone vegetale, di cereali, di legnami, di sale, ecc., dai rimanenti scaricatori di merci varie. Anche qui la specializzazione deriva più che altro dall'abitudine; mentre essa impedisce al lavoratore di uscire dalla propria categoria, non ostacola gli operai di mestieri affini dal penetrarvi. Si possono infine verificare raggruppamenti "topografici" per quelle fra le categorie predette che risultano più numerose e possono essere richieste in zone diverse del porto.
Il lavoro manuale nei porti è caratterizzato dalle continue fluttuazioni nel numero dei lavoratori occupati, nonché dalla brevità dell'occupazione che ogni operaio ha, di solito, presso uno stesso imprenditore. Ciò dipende dal fatto che le operazioni d'imbarco e sbarco delle merci sono necessariamente sottoposte a frequenti e violente oscillazioni. Le navi partono e arrivano in modo intermittente; devono rimanere in porto il tempo strettamente necessario; la richiesta di mano d'opera fluttua in base anche ai particolari bisogni di ogni nave. Né tali fluttuazioni possono essere tempestivamente prevedute dato l'influsso, sugli arrivi, delle condizioni meteorologiche. E in aggiunta alle incessanti oscillazioni giornaliere (dovute in alcuni porti anche alle maree) e settimanali, peculiari al traffico portuale, si mettano le fluttuazioni periodiche o stagionali (Lascelles e Bullock), derivanti dai raccolti o da altre cause. "L'importazione di generi come legname per miniere, banane, lana, causa l'aumento stagionale del lavoro in alcuni mesi dell'anno; il congelamento delle acque nei porti baltici causa un periodo di languore stagionale nei porti del Regno Unito per i quali il relativo traffico si incanala".
Appunto per questa ragione i datori di lavoro hanno sempre seguito il sistema di arruolare alla giornata tutta la mano d'opera necessaria, o almeno la massima parte, licenziandola quando più non occorre. Naturalmente il sistema presuppone la presenza, in ogni porto, di una massa di lavoro sufficiente a rispondere alle maggiori richieste, con l'ovvio risultato che nei giorni di magra un'eccedenza di mano d'opera rimane disoccupata sul mercato.
Si aggiunga che quando le altre industrie sono depresse o, comunque, nei periodi di espansione del traffico portuale, lavoratori affluiscono da altre località o da altri mestieri, aumentando la massa della mano d'opera disponibile; a questo risultato concorre anche la continua intensificazione dell'arredamento meccanico.
Tale instabilità dell'occupazione e i pericoli che ne derivano hanno, da tempo, indotto a studiare i mezzi per limitare le maestranze portuali a quelle che, in condizioni normali, si reputano sufficienti ai bisogni del traffico. Il mezzo migliore, escogitato nei grandi porti, è stata l'istituzione di "ruoli", nei quali sono iscritti nel numero massimo stabilito, i lavoratori permanenti o fissi; essi hanno diritto di precedenza nella chiamata al lavoro e, quindi, una certa garanzia di continuità. Resta poi la mano d'opera avventizia, inscritta in ruoli supplettivi, che risponde alle esigenze anormali, lavorando soltanto quando siano esauriti i ruoli dei permanenti. Viene infine la mano d'opera occasionale.
Tale disciplina della mano d'opera si riferisce in genere al lavoro portuale mondiale. In Italia è stata attuata, nel dopo guerra, una legislazione profondamente innovatrice. La disciplina del lavoro, già contemplata in modo generico dall'art. 163 del codice per la marina mercantile, che dà all'autorità marittima l'incarico di regolare e vigilare l'imbarco, lo sbarco, il deposito delle merci, ha avuto più efficace sviluppo in base al r. decr. legge 15 ottobre 1923, n. 2476, che attribuì al governo la facoltà di limitare il numero delle persone addette ai servizî d'imbarco, sbarco e trasporto delle merci nell'ambito dei porti; d'inscrivere le persone suddette in appositi ruoli, determinando le tariffe e gli orarî di lavoro; di regolare la distribuzione della mano d'opera fra i diversi datori di lavoro e di limitare il numero degl'imprenditori di operazioni di carico e scarico. Il r. decr. legge 1° febbraio 1925, n. 232, ha provveduto poi alla costituzione degli organi (uffici del lavoro portuale) per mezzo dei quali doveva esplicarsi, secondo i principî del precedente decreto, l'intervento dello stato. Tali organi, istituiti presso le capitanerie e gli uffici di porto, ebbero anche poteri giurisdizionali nelle controversie riguardanti l'esecuzione dei servizî e l'applicazione delle tariffe. In base a tali decreti si attese al disciplinamento della mano d'opera, oltre che nei porti di Genova, Napoli e Venezia, nei quali già esistevano particolari organismi, anche negli altri scali del regno, mediante la graduale istituzione dei ruoli e limitazione degl'imprenditori. Ma un decr. legge del 24 gennaio 1929, n. 166, innovò anche nel campo delle organizzazioni operaie.
Si premetta che il regime dell'associazione aveva messo radici, da tempo, nei porti italiani ed esteri. Antiche corporazioni (per es. quella dei "caravana" l'altra dei "calafati", che risalgono al sec. XIV, quella dei barcaioli, del secolo successivo, a Genova; quella dei porte-faix de Saint Pierre a Marsiglia, ecc.), chiuse e rivestite di speciali privilegi, formarono per lungo tempo la saldezza degli ordinamenti portuali di molte città; in tempi più recenti si aggiunsero le cooperative, le fratellanze, le leghe. Ma queste associazioni portuali non solo non consentivano talvolta di mantenere una salda disciplina fra le maestranze; esse erano anche spesso amministrate con disordine e con sperpero. A non minori inconvenienti davano luogo le associazioni di lavoratori portuali non regolarmente costituite, mentre la disciplina del lavoro non poteva applicarsi ai lavoratori isolati; donde la necessità di creare raggruppamenti più semplici, meno costosi, più facilmente controllabili.
Cardine del citato decreto legge 24 gennaio 1929 è stato la soppressione delle cooperative e di ogni altra associazione di fatto; gli operai furono raggruppati, secondo le diverse specialità, in compagnie dotate di capacità giuridica rispetto alle operazioni di sbarco, imbarco e trasbordo. A capo della compagnia è messo il console, nominato dall'autorità preposta alla disciplina del lavoro; egli disciplina l'esecuzione delle operazioni portuali, distribuendo gli operai in squadre, avvicendandoli al lavoro; amministra il patrimonio sociale. La compagnia, oltre a compiere il lavoro portuale come mano d'opera, è autorizzata a funzionare da impresa in concorrenza con le altre, private. Il successivo decreto ministeriale 19 aprile 1929 detta norme circa l'eventuale riduzione dei lavoratori esuberanti, allo scopo di assicurare alle maestranze residuate un guadagno medio giornaliero adeguato; l'eliminazione è però disciplinata da cautele e garanzie varie. Con l'ordinamento predetto tutti i lavoratori portuali sono stati inquadrati, in ogni porto, in ruoli di permanenti e ruoli di avventizî. Nessun estraneo al lavoro portuale può più quindi intervenire in esso.
h) Servizio finanziario, di contabilità e tesoreria. L'esistenza dei porti giova a tutto il paese e, in modo particolare, allo sviluppo di una o più regioni e ai singoli utenti. Per misura di equità, dunque, le spese occorrenti per la costruzione, manutenzione ed esercizio dovrebbero essere ripartite fra tutti gl'interessati e sostenute: 1. con contribuzioni generali a carico dei contribuenti; 2. con contribuzioni complementari, a carico delle regioni che ne traggono maggior beneficio; 3. con imposizioni speciali da pagarsi dagli utenti.
I contributi imposti agli utenti rappresentano la rimunerazione di quel complesso di servizî indivisibili che navi e merci ricevono nei porti e sono graduati su criterî di giustizia distributiva in modo che le une e le altre paghino in ragione della loro capacità economica misurata, per le navi, in base al tonnellaggio netto; del genere di traffico al quale sono adibite, della provenienza e destinazione; per le merci, in base al valore. Tali contributi sono rappresentati dalle tasse portuali che hanno all'estero varie denominazioni, varie forme e differenti misure; in Italia si ha la sola tassa di ancoraggio (con una sopratassa imposta, in certi casi, a favore di determinati enti). Si aggiungano dovunque i dirittisanitari, le sopratasse di sbarco e imbarco dei passeggeri, i diritti di licenza per i galleggianti, nonché i diritti sulle merci (imposti in varî paesi).
Ma le navi o le merci ottengono altresì, nei porti, servizî divisibili in determinate proporzioni "provocando un costo individuale facilmente calcolabile e che è pagato adeguatamente, volta per volta, con una tassa che molto rassomiglia a un prezzo di tariffa. E in taluni casi, come nei servizî che le navi e le merci chiedono ai magazzini, agli apparecchi da sbarco, ecc., il carattere di tassa è mascherato dal compenso relativo, il quale viene ad essere un vero e proprio prezzo comprendente, oltre il costo del servizio, un profitto per l'impresa che lo compie". Fra tali diritti si annoverano le tariffe di pilotaggio, di rimorchio o di carenaggio; di sosta per le merci in deposito, in relazione allo spazio occupato; di sbarco e imbarco; di disinfezione, ecc.
Il regime amministrativo dei porti differisce non soltanto da un paese all'altro, ma bene spesso anche da porto a porto dello stesso paese. Tali divergenze derivano logicamente dalla varietà delle circostanze e condizioni sulle quali è fondata la politica portuale di ogni stato, da tradizioni storiche e situazioni geografiche, e anche dai principî politici e sistemi amministrativi vigenti.
Ben di rado tutti i servizî precedentemente elencati rientrano sotto una sola amministrazione, né questa, per quanto i porti, assegnati di regola al demanio pubblico, costituiscano proprietà dello stato, deve di necessità rimanere in esso accentrata. Si hanno, invero, due tipi di amministrazione portuaria: quello di stato e quello delle autonomie locali; essi consentono poi innumerevoli forme intermedie, che possono essere sempre assegnate all'uno o all'altro tipo secondo i caratteri che vi predominano.
1. Amministrazione accentrata nelle mani dello stato: "Nel regime di stato questo esercita tutte le funzioni portuarie, fatta eccezione spesso per quelle sole attinenti al traffico sulle quali si riserva però sempre azione regolatrice e moderatrice. Esso dispone pertanto di adatti organi locali, i quali possono fare capo a un solo ramo del potere centrale, oppure, come avviene sovente, a parecchi; dando così origine a due diversi modi di amministrazione: quello dell'unificazione e quello della separazione delle varie funzioni portuarie" (Bettini e Cartechini). L'unificazione si aveva spesso in passato quando, sotto i governi assoluti, il potere era normalmente accentrato nelle mani di pochi ministri. Se ne ha tuttora un esempio tipico nel dominion britannico del Sud Africa, dove i porti sono amministrati dalla Railways and Harbours Administration, sotto un ministro che ha come corpo consultivo un Railways and Harbours Board.
È invece più comune l'assegnazione delle funzioni portuarie a organi dipendenti da più rami del potere centrale; così in Italia, in Francia e in altri stati che fanno intervenire più ministeri nell'amministrazione portuale. In Italia, il Ministero dei lavori pubblici provvede alla costruzione e manutenzione delle opere mediante gli uffici del genio civile, mentre la Direzione generale della marina mercantile (Ministero delle comunicazioni) espleta tutti i servizî di polizia marittima e portuaria, mediante i suoi organi periferici (direzioni marittime, capitanerie di porto, uffici marittimi, delegazioni di spiaggia); disciplina il lavoro in porto per il tramite degli uffici del lavoro (v. sopra). A tali uffici, diretti da ufficiali di porto, è assegnato il compito di tenere i ruoli delle maestranze, di determinare tariffe, orarî di lavoro, ecc. I segnalamenti marittimi sono affidati al Ministero della marina; il servizio sanitario è effettuato di concerto fra amministrazione marittima e Ministero dell'interno; da quest'ultimo dipende la polizia di sicurezza; dal Ministero delle finanze il servizio doganale.
La tutela dell'ordine e del pubblico erario è specialmente affidata alla Milizia portuaria, specialità della M. V. S. N., la quale esplica la sua attività nei principali porti dello stato e provvede al servizio generale di Pubblica Sicurezza nei porti e lungo il litorale e a servizî complementari di polizia militare e polizia ordinaria. (Per il regime giuridico dei porti italiani v. anche appresso).
In alcuni porti italiani (Genova, Venezia, Trieste, Fiume) vige anche il regime delle autonomie.
Anche in Francia, fuorché nei porti autonomi di Le Havre, Bordeaux, Strasburgo, si ha un'organizzazione uniforme, nella quale non soltanto i lavori di ampliamento ma anche quelli di manutenzione delle opere e la gestione del complesso portuale sono nelle mani di organi pubblici, direttamente dipendenti dallo stato.
Lodi e critiche sono state rivolte all'amministrazione statale, in quanto che con essa si ottiene bensì più agevolmente il coordinamento fra gl'impianti portuali e le vie di accesso al porto; è tutelata l'eguaglianza di trattamento per tutti; si ha la possibilità di superare le crisi finanziarie generali e locali, ma, d'altra parte, l'industria e il commercio rimproverano allo stato la mancanza di iniziative, l'importanza, talvolta eccessiva, delle influenze politiche che spingono a iniziare lavori dove non risultano strettamente necessarî o, quanto meno, proporzionali all'incremento economico che ne può derivare.
In questa insufficienza dello stato ad assecondare le accresciute esigenze del traffico è da rintracciare, più ancora che negli altri difetti, la ragione principale della tendenza all'autonomia che, dai primi del sec. XX, si è delineata nei porti di maggiore importanza di varî paesi a regime portuale statale.
In Italia e in Francia, ad esempio, si è all'uopo escogitato un sistema di gestione mista nel quale lo stato interviene fortemente per le questioni principali, lasciando la gestione corrente ad enti appositamente costituiti. Nel 1903 è stato difatti costituito il consorzio del porto di Genova. Altri enti autonomi furono costituiti nel dopoguerra a Imperia, Savona, Voltri, Spezia, Carrara, Livorno, Civitavecchia, Oatia, Napoli, Crotone, Ortona, Ancona, Romini, Ravenna, Messina, Riposto; essi vennero tutti soppressi nel 1923 perché inceppavano l'azione amministrativa degli organi marittimi periferici; avevano preparato grandiosi progetti di ampliamento, incompatibili col traffico prevedibile e con le finanze locali. A Venezia con decr. del 30 gennaio 1919 è stato costituito il Provveditorato al porto; a Trieste funziona l'Azienda dei magazzini generali; a Fiume un'altra Azienda dei magazzini generali ricostituita col decr. reale 29 settembre 1927, n. 2716.
In Francia, le Chambres de commerce maritime, contribuirono dapprima alle spese erariali per i porti; la loro funzione diventò però gradualmente più importante; vennero ad esse attribuite non solo la manutenzione e la gestione dell'arredamento, ma anche funzioni consultive; l'ultimo stadio di questa evoluzione consiste nell'autonomia concessa ai tre porti di Le Havre, Bordeaux, Strasburgo, che sono amministrati (legge 12 giugno 1920) da un consiglio nominato dagli enti locali e da un "direttore del porto" dotato di poteri speciali; elemento coordinatore fra il potere centrale e quello locale.
2. Autonomie locali: Le svariate forme di autonomia, che costituiscono il sistema prevalente nei porti britannici (110 scali sono difatti nel Regno Unito amministrati in questo modo contro 70 a gestione municipale e un certo numero a gestione privata, la gestione statale essendo pochissimo sviluppata) si possono ricondurre a tre tipi:
a) Amministrazione affidata a corpi morali appositamente costituiti: gli harbour boards o port authorities. Tali consigli delle amministrazioni portuarie sono costituiti da un numero svariato - ma notevole - di membri locali eletti dai contribuenti del porto (armatori e commercianti) designati dagli enti pubblici locali e dallo stato. Si può dire che ogni grande porto abbia un proprio tipo di amministrazione. La Port of London Authority, ad esempio, gestisce tutti i docks, ma non tutti i pontili del Tamigi; da essa non dipendono né polizia, né servizio sanitario, né segnalamenti marittimi. A Liverpool, a Glasgow, ecc., le attribuzioni sono differenti. In genere l'autorizzazione del parlamento è necessaria per le nuove opere, per la stipula di mutui, per le tasse da imporre, le concessioni demaniali ed espropriazioni, ecc. Lo stato, in caso di cattiva amministrazione, può anche revocare la concessione che è, sempre da esso, accordata. Ma qui si fermano la sua azione e il suo controllo.
La rappresentazione degl'interessi locali ha indubbiamente notevoli vantaggi nei riguardi della conoscenza specifica dei traffici che interessano il porto. Si rileva però la tendenza dei membri a considerare come predominanti gl'interessi del loro traffico particolare e a subordinare ad esso, consciamente o inconsciamente, gli interessi generali del porto, specialmente se questi ultimi siano, anche contemporaneamente, associati a qualche particolare vantaggio o concessione a un traffico rivale. In secondo luogo, con tanti interessi eterogenei e talvolta in conflitto, possono derivare situazioni senza via di uscita.
Altri tipi di autonomia si trovano negli Stati Uniti, nei quali il consiglio del porto ha attribuzioni molto estese, mentre, però, i suoi reali poteri sono limitati da altre giurisdizioni annesse. Nel porto di New York, ad esempio, accanto alla Port Authority, esistono una Commission of docks, municipale: un captain of the port, statale: un Harbour supervisor dipendente dal Ministero della guerra, mentre il servizio di pilotaggio dipende dai Boards of Commissions degli stati di New York e di New Jersey. A Chicago, non meno di sei separati organi governativi si occupano degli affari portuali.
b) Gestione municipale. In Inghilterra se ne ha un solo esempio importante: Bristol; il sistema è inoltre adottato ad Anversa, a Rotterdam, ad Amburgo, ecc., ed è diffuso negli Stati Uniti. L'amministrazione è generalmente affidata ai consigli comunali; non sempre la gestione portuaria dà origine a un bilancio distinto da quello del comune; spesso anzi non appare neppure una separazione netta fra le entrate e le spese della città e quelle del porto.
Il vantaggio di questo tipo di amministrazione consiste nel fatto che le finanze municipali possono efficacemente venire in aiuto del porto. Per converso, si verificano notevoli inconvenienti; i consigli comunali non sono proclivi a "vedere grande"; essi sono talvolta eletti con programmi che non sempre tengono il giusto conto degli interessi del porto; gli organi municipali sono infine sotto l'influenza dei partiti.
I porti amministrati da più vaste circoscrizioni territoriali sono, in genere, d'interesse locale.
c) Gestione privata. È un sistema tipicamente inglese; in esso rientrano i porti gestiti da compagnie ferroviarie (in tal m0do alcune località di poca importanza si sono potute trasformare, in breve tempo, in centri industriali e commerciali) o da privati. In questo ultimo caso, il gestore tiene presenti le opportunità di guadagnare un dividendo e di limitare la spesa a lavori di carattere rimunerativo.
Diversa dall'autonomia è la franchigia portuale. "Il porto franco" scrive J.-L. Hugot "è una zona di terreno o d'acqua, o d'acqua e terreno contemporaneamente, extraterritorializzata dal punto di vista doganale, nella quale le merci entrano senza pagare diritti e dalla quale escono senza formalità quando sono avviate all'estero. Nell'interno di questa zona, i prodotti possono essere manipolati o anche distrutti; il loro uso non è controllato dalla dogana sotto il punto di vista fiscale". Cosicché il porto franco appare come una piccola frazione del suolo nazionale alla quale si attribuisce convenzionalmente l'extraterritorialità doganale.
La concessione della franchigia non apporta dunque alcuna utilità al traffico di cabotaggio e a quello delle merci esenti da dogana: essa è inutile anche per le industrie che trovano nel retroterra le materie prime occorrenti o che possono essere agevolate mediante il sistema del drawback. La franchigia culmina nell'intensificazione dei trasbordi ed è quindi raccomandabile nei porti a prevalente funzione commerciale, nei quali è possibile impiantare grandi mercati dí deposito e vendita di determinate merci estere; vale a dire nei porti la cui situazione consente un facile accentramento di grandi quantità delle merci predette, che non vi arriverebbero o non darebbero luogo a un traffico importante se dovessero pagare diritti doganali, nell'attesa di distribuirle verso porti secondarî, sia nazionali sia esteri, e verso il retroterra. Più notevoli sono i vantaggi del porto franco quando in esso esistono zone adatte all'impianto di nuove industrie, destinate all'esportazione, ossia zone franche di tipo industriale, nelle quali le materie prime possono essere trasformate senza sottostare al pagamento di diritti doganali o di altri oneri e senza subire controllo. Ma ordinariamente le zone franche sono di tipo misto, rispondendo quindi anche alla funzione commerciale.
Zone franche, punti franchi, depositi franchi (e anche magazzini generali, la cui funzione predominante è, per altro, il credito sulle merci) costituiscono zone più ristrette che, nell'ambito dei porti, consentono di conseguire la franchigia; le legislazioni doganali hanno, inoltre, istituti che dànno modo di ottenere l'esonero dei diritti (importazione temporanea e drawbacks; v. esportazione e importazione). All'estero esistono gl'importanti porti franchi (importanti per la loro estensione, ma che non comprendono per altro tutto l'ambito portuale) di Amburgo, Copenaghen, Barcellona, Singapore, Hongkong, ecc.
In Italia non esiste alcun porto che sia in regime di franchigia assoluta; quello di Fiume è assorbito nella provincia intera del Carnaro, resa franca in virtù del decr. reale 17 marzo 1930, n. 139; lo stesso valga per Zara. Vi sono invece in Italia zone franche più o meno vaste, così i "punti franchi" di Trieste (Porto Vittorio Emanuele III e Porto Duca d'Aosta), il "deposito franco" di Genova, così il porto franco di Napoli.
Diritto italiano. - Alle notizie già date sul regime giuridico dei porti italiani occorre aggiungere quanto segue.
I porti sono annoverati dal codice civile (art. 427) fra i beni appartenenti al demanio pubblico dello stato e rappresentano la categoria più importante dei beni costituenti il demanio marittimo, del quale fanno parte anche i seni, le rade, il lido e la spiaggia del mare. Il carattere demaniale è proprio così dei porti naturali come di quelli artificiali, perché determinato dalla funzione che i porti, qualunque sia la loro origine, esercitano rispetto alla navigazione; ed è proprio, oltreché dei porti marittimi, di quelli lacuali e fluviali, che spiegano la stessa funzione dei primi nei riguardi della navigazione interna. La demanialità si estende, oltre alla parte terrestre, cioè alle sponde del porto, al fondo di esso, alla massa di acqua che vi è contenuta, considerata non nelle singole e mutevoli sue parti, ma nel suo complesso unitario; si estende pure alle opere accessorie del porto, come i moli e le banchine, le darsene e i canali. Questa condizione giuridica importa che i beni siano a disposizione esclusiva dell'amministrazione dello stato: disposizione che, secondo la dottrina più moderna, s'identifica con un vero diritto di proprietà qualificata in senso pubblicistico. In conseguenza di tale condizione, i beni del demanio sono sottratti a qualunque forma di privato commercio, sono cioè inalienabili, imprescrittibili, incapaci di possesso e d' ipoteca (art. 430, 690, 1967, 2113). La tutela dei detti beni contro l'azione di qualunque altro soggetto viene esercitata direttamente dalla pubblica amministrazione, mediante l'esercizio di poteri di polizia e di coercizione: la legge stabilisce, infatti, essere vietato a chiunque di occupare i beni del demanio marittimo o di farvi comunque innovazioni, senza averne ottenuto l'autorizzazione dall'autorità marittima; in caso di trasgressione, l'autorità, salvo l'azione penale, ingiunge all'autore di rimuovere l'innovazione e di sgombrare il bene demaniale entro un termine che sarà da essa stabilito; in caso d'inadempienza, l'autorità può procedere all'esecuzione d'ufficio, a spese del trasgressore, valendosi, ove sia necessario, dell'assistenza del competente ufficio del genio civile (cod. per la marina mercantile, art. 159, e legge 24 giugno 1929, n. 1177). In caso di sommersione nelle acque di un porto, di una nave o di altro galleggiante, il ricupero deve essere eseguito entro un termine assegnato dall'autorità marittima: trascorso inutilmente questo termine, la proprietà della nave passa allo stato, che provvede all'estrazione direttamente, salvo l'eventuale addebito all'antico proprietario delle spese eccedenti il valore degli oggetti ricuperati (cod. per la marina merc., art. 163 seg.).
Le opere pubbliche necessarie per la sistemazione e per la manutenzione dei porti sono regolate dalla legge (testo unico 2 aprile 1885, n. 3095). Ai fini delle dette opere, i porti sono distinti in due categorie principali: la prima di esse comprende quelli che interessano la sicurezza della navigazione generale o servono unicamente o prevalentemente alla difesa militare dello stato; la seconda si riferisce ai porti che servono principalmente al commercio. I porti di questa seconda categoria sono dalla legge suddistinti in quattro classi. 1. Appartengono alla prima classe quelli situati a capo di grandi linee di comunicazione o che, per il loro movimento commerciale, interessante un'estesa parte del regno e il traffico internazionale terrestre, siano d'interesse generale per lo stato; 2. appartengono alla seconda classe quelli il cui movimento commerciale interessa soltanto una o alcune provincie, quando la quantità delle merci nei medesimi imbarcate e sbarcate non sia stata inferiore a 25.000 tonnellate in ognuno degli ultimi tre anni precedenti la promulgazione della legge; 3. sono di terza classe i porti, la cui utilità si estende soltanto a una parte notevole di una provincia, e nei quali la quantità delle merci imbarcate e sbarcate non sia stata inferiore a 10.000 tonnellate in ciascuno dei detti anni; 4. sono di quarta classe tutti gli altri porti, tanto del continente quanto delle isole, non assegnati alle tre classi precedenti (articoli 1, 2). Gli elenchi dei porti, distribuiti secondo tale classificazione, devono essere approvati con decreto reale, proposto dal ministro dei Lavori pubblici di concerto col ministro delle Comunicazioni e, ove occorra, con gli altri ministri interessati, previo parere del consiglio di stato, del consiglio del commercio (oggi sezione del consiglio nazionale delle Corporazioni) e del consiglio superiore dei Lavori Pubblici, e sentite pure le amministrazioni locali interessate.
La stessa procedura deve essere osservata per le variazioni degli elenchi già approvati (art. 3).
Le opere portuali, qualunque sia la categoria e la classe a cui i porti appartengono, sono eseguite a esclusiva cura dello stato e particolarmente del Ministero dei Lavori pubblici e dei dipendenti uffici provinciali del genio civile, salvo la competenza nei congrui casi, dei Ministeri della marina e della guerra. La classificazione influisce, invece, per la ripartizione del relativo onere finanziario. Per i porti di prima categoria, le spese riguardanti la sicurezza dell'approdo e dell'ancoraggio, nonché quelle per la difesa militare, sono a esclusivo carico dello stato. Sono, invece, ripartite fra lo stato e gli altri enti, secondo la competenza stabilita per le classi successive, le spese che per tali porti di prima categoria possono essere necessarie nell'interesse del commercio. Le spese di qualunque natura occorrenti per i porti della seconda categoria, sono corrisposte: 1. per quelli di prima classe, dallo stato, in ragione dell'80%, e dalle provincie e dai comuni, in ragione del 20%; 2. per i porti di seconda classe, dallo stato in ragione del 70 o del 60%, secondo che il movimento fra il 1882 e il 1885 abbia o meno superato le 100.000 tonnellate, e dalle provincie e dai comuni per la rimanente somma; 3. per i porti di terza classe, in ragione del 40% dallo stato e del 60% dalle provincie e dai comuni; 4. per quelli di quarta classe, interamente dai comuni e dai consorzî di comuni, che abbiano interesse alla costruzione, alla conservazione e al miglioramento delle opere: trattandosi, però, di opere straordinarie, tali enti possono ottenere il concorso dello stato e della provincia (art. 6, 7). Nei riguardi dei porti di prima, seconda e terza classe, la distribuzione della spesa fra le provincie e i comuni, per la parte loro spettante, è fatta col criterio seguente: una metà a carico della provincia, in cui il porto è situato, col concorso delle provincie che al medesimo sono interessate; l'altra metà a carico del comune, in cui il porto è situato, col concorso degli altri comuni interessati. A questo effetto, sono da considerare come provincie e comuni che hanno interesse alla conservazione e al miglioramento dei porti, quelli che se ne servono per l'esportazione dei loro prodotti agricoli e industriali e la importazione delle derrate e di qualunque prodotto per uso dei rispettivi abitanti. Le quote a carico di più provincie o di più comuni sono ripartite in proporzione dell'interesse in tal modo determinato. Per i comuni e per le provincie, i contributi alle opere portuali rientrano fra le spese obbligatorie (articoli 8, 15, 19).
La gestione amministrativa dei porti, a prescindere dal comando militare istituito in quelli interessanti la difesa dello stato, appartiene, nei porti amministrati dallo stato, alle capitanerie di porto, uffici dipendenti dai comandi dei compartimenti marittimi e, attraverso questi, dal Ministero delle comunicazioni (direzione generale della marina mercantile). Le attribuzioni dei capitani di porto sono amministrative e giurisdizionali. Le prime si compendiano nell'esercizio della polizia portuale, la quale, oltre al fine della tutela dei beni demaniali, adempie a quello della disciplina dell'uso del porto nell'interesse della navigazione e della sicurezza delle persone e delle cose. Le autorità sono investite di poteri regolamentari, in base ai quali procedono alla diffusione del porto in varie zone, ciascuna delle quali viene assegnata alle diverse categorie di navi, distinte in base al tonnellaggio e al genere dei trasporti, cui sono adibite. Sono minutamente regolati e vigilati: l'ingresso e l'uscita delle navi, gli ormeggi, gli ancoraggi, l'imbarco e lo sbarco dei passeggeri e delle merci, il deposito di queste nei magazzini del porto. L'uso di porti è, inoltre, sottoposto al pagamento di una speciale tassa di ancoraggio e di altri diritti erariali, applicati e riscossi dagli uffici doganali del porto: le disposizioni relative a queste tasse sono state riunite in testo unico, pubblicato nell'occasione della loro estensione ai porti della Venezia Giulia, con r. decr. 11 gennaio 1923, n. 406. Oltre alle disposizioni generali, si deve tener conto di quelle particolari emanate per i diritti erariali da riscuotersi nei singoli porti. La giurisdizione dei capitani di porto si riferisce alle controversie, di valore non eccedente le lire 5000, dipendenti da danni recati alle navi o ad altri galleggianti nei porti e nelle acque territoriali, dai compensi dovuti per soccorsi in mare, dalle mercedi dovute dagli armatori agli equipaggi (legge 31 dicembre 1928, n. 3119, r. decr. legge 25 marzo 1929, n. 494).
Bibl.: P. de Rousiers, Les fonctions économiques des ports maritimes modernes, in Revue économique internationale, dicembre 1904; id., Les grands ports de France, ecc., Parigi 1909; A. A. Michieli, Su la sfera d'influenza dei porti e le carte destinate a rappresentarla, in Atti del settimo congresso geografico italiano, Palermo 1911; S. Malègue, Le travail casuel dans les ports anglais, Parigi 1913; C. Supino, La navigazione dal punto di vista economico, Milano 1913; E. Bettini e F. Cartechini, I porti, Torino 1914; G. M. Jones, Ports of the United States, Washington 1916; J. L. Hugot, Les ports francs, Parigi 1916; E. Brown jr., Shore control and port administration, Washington 1923; E. C. P. Lascelles e S. S. Bullock, Dock labour and decasualisation, Londra 1924; B. Cunningham, Port administration and operation, Londra 1925; Foreign trade zones (or free ports), Washington 1929 (pubblicazione ufficiale); G. Ingianni, Rapport général sur l'administration des ports de commerce, presentato al XV Congresso internazionale di navigazione, Venezia 1931; A. Vitale, Rapport sur l'administration des ports de commerce (in Italia), ibid.; v. anche i rapporti, nello stesso volume, di: A. de Vial e M. P. Levêque (Francia), M. Bunnies (Germania), Bollengier, Zone, Robinson, Van Glebbeke (Belgio), H. Fugl Meyer (Danimarca), G. Brockmann (Spagna), M. Garsand (Stati Uniti), D. Boomsma (Olanda), G. Dieden (Svezia).
I porti nell'antichità.
Fenici e Greci furono nell'antichità i popoli che, facendo del mare il libero campo della loro attività, ebbero primi il bisogno di cercare lungo le coste delle loro terre, o di quelle che essi frequentavano, rifugi sicuri per le navi. Invero le spiagge del Mediterraneo orientale offrivano già nella loro conformazione favorevoli condizioni a questa ricerca: i primi rifugi e i primi ancoraggi furono i seni che le coste presentavano nel loro andamento frastagliato, a ridosso di promontorî o di isole, o le foci dei fiumi; d'altronde il limitato pescaggio e la piccola mole delle primitive imbarcazioni non rendevano necessarî né larghi specchi d'acqua né grandi profondità. L'adattamento o l'ampliamento artificiale dei rifugi naturali venne dopo, con l'intensificarsi e con l'ampliarsi dei bisogni della navigazione, sia commerciale sia di guerra, con il crescere delle dimensioni delle navi, con il sorgere delle grandi città presso o sul mare, anche là dove la natura aveva apprestato minori comodi allo sviluppo di un porto: è allora che si costruiscono porti anche assai vasti, del tutto artificiali. Nei tempi più antichi il porto nasce e si costituisce alcune volte in assoluta vicinanza e contiguità della città; altre volte esso è soltanto l'approdo a un santuario famoso, o lo scalo commerciale di una vasta zona retrostante, e la città si sviluppa accanto ad esso in un secondo tempo; altre volte infine, quando la città, per ragioni di sicurezza o di difesa o per naturale concorso di circostanze, sorge e si estende entro terra, a non grande distanza dal mare, il porto si costituisce sulla costa ad essa più vicina; esso forma allora come un'appendice della città: ne è un elemento integrante e distaccato allo stesso tempo, è quello che i Greci chiamano ἐπίνειον. Gli esempî di epineion sono copiosissimi in tutto il mondo greco, a cominciare da Atene, sulle coste dell'Asia Minore e nelle isole dell'Egeo: l'epineion fa parte politicamente della città, ma è distaccato da essa. Aristotele già notava i pericoli di questo stato prospettando come l'epineion poteva in qualche caso aggravare le lotte cittadine, costituendo un rifugio agli esiliati della città, o salendo talaltra a sì grande importanza e prosperità da assurgere a una posizione preminente rispetto alla città stessa: onde spesso o l'assorbimento dell'una da parte dell'altro o il bisogno da parte della prima di stringere più fortemente, non solo politicamente, ma materialmente, i vincoli che legano a lei il secondo, ciò che avviene collegando e chiudendo l'epineion nelle mura della città.
Ma sia che il porto faccia parte della città, sia che ne costituisca un elemento separato, esso rappresenta sempre nella città un organismo ben definito, e distaccato. Il porto, con l'emporio (v.) che ne forma parte integrante, è spesso considerato agli effetti amministrativi e fiscali fuori della città: spesso i suoi limiti sono anche nettamente ed espressamente segnati: l'emporio costituisce talvolta un punto franco nei riguardi delle merci, e la vigilanza e la giurisdizione ne sono affidati a magistrati speciali.
Come risulta da quanto finora si è detto, non è possibile dare una definizione uniforme della funzione dei porti nell'antichità, come del resto in qualsiasi altro periodo storico, per la varietà delle strutture economiche di cui i porti possono costituire elemento. È lecito solo indicare esempî tipici di funzioni diverse: il mondo antico ha conosciuto porti (Cartagine, Rodi) e in particolare porti franchi (Delo nel periodo di protezione romana), che erano prevalentemente centri di scambio, cioè mercati; altri porti che servivano precipuamente a convogliare determinate merci per l'esportazione da un vasto retroterra (Alessandria d'Egitto); altri che servivano precipuamente all'importazione per un retroterra (Pozzuoli, Ostia). Il collegamento tra il commercio carovaniero e il traffico marittimo era abituale. S'intende che la vastità del retroterra era condizionata dalla difficoltà dei trasporti terrestri. Ma è noto lo sforzo costante di migliorare le strade presso gli stati antichi, culminato nella mirabile rete stradale dell'impero romano.
Le prime opere portuali di cui abbiamo testimonianza monumentale appartengono al periodo greco arcaico: la civiltà cretese-micenea, per quanto dimostri una completa padronanza del mare, non ci ha lasciato alcun ricordo, nemmeno attraverso l'epopea omerica, di costruzioni alzate ad ampliare o a rendere più sicuri gli ancoraggi naturali. Né probabilmente si deve nemmeno far merito ai Fenici, come sovente si è detto, di aver saputo per primi scavare entro terra larghi bacini artificiali, i cosiddetti κώϑωνρς: poiché se da un lato i porti cosiffatti di cui abbiamo memoria, sia sulla costa fenicia d'Asia, sia sulle coste africane, scendono a una età piuttosto tarda, e sembrano rivelare innegabilmente l'impronta dell'ingegneria greca, d'altro lato non pare si debba ritenere di origine semitica il nome, che trova un suo perfetto riscontro nel greco κώϑων, coppa", da cui può essere derivato per analogia di forma fra l'un soggetto e l'altro.
Le prime opere furono naturalmente assai semplici: furono moli destinati a completare la chiusura di baie, che la natura aveva lasciato da una parte aperte ed esposte ai venti, o banchine alzate per rendere più comoda o per ampliare la zona adatta all'ormeggio e allo scarico delle navi. Di tali costruzioni abbiamo avanzi, ad es., a Delo: esse sono fatte assai semplicemente di blocchi di pietra irregolari, gettati in mare a formare una scogliera artificiale, o a completare e a regolare artificialmente una fila di scogli naturali. Altri resti consimili, che si possono datare come questi all'VIII-VII sec. a. C., abbiamo a Eretria, a Cenchree e altrove.
Nell'età classica lo sviluppo da un lato delle città, dall'altro della navigazione, mentre accresce di gran lunga i bisogni dei porti, ne completa la fisionomia e l'attrezzatura con la creazione e lo sviluppo di tutti gli elementi di essi: e cioè l'emporio per il commercio e l'arsenale (o νεώριον) per la costruzione, il ricovero, la manutenzione dei navigli, soprattutto di guerra.
Questo nuovo aspetto e questa nuova importanza vitale del porto consigliano di chiuderlo entro le mura della città stessa: si ha così quello che i Greci chiamano λιμὴν κλειστός porto chiuso". I moli assumono allora un carattere e una funzione non soltanto marinara, ma anche militare: su di essi corrono le due braccia delle mura che chiudono il bacino del porto, e alle loro estremità sorgono di solito le torri che guardano l'ingresso; questo lo si fa stretto, o lo si apre in fondo a un canale fiancheggiato esso stesso da un molo, allo scopo di renderne più agevole la difesa; di notte o in caso di guerra, catene o gomene tese fra le torri laterali ne precludono l'accesso. I moli sono in generale rettilinei, e approfittano, finché possono, dell'appoggio naturale di scogli: non mancano tuttavia esempî di moli interamente artificiali. La loro lunghezza varia naturalmente a seconda dei luoghi e delle circostanze. Essi sono costruiti in opera a sacco, di pietrame con malta di calce idraulica, forse mista a olio, rivestita esternamente, sulle due fronti, da filari di pietre regolari: talvolta questo rivestimento è soltanto sul lato verso l'interno del porto mentre verso il mare aperto si usa ancora il sistema più antico della gettata di blocchi irregolari.
I moli di Mitilene, nell'isola di Lesbo, che furono accuratamente studiati da R. Koldewey, presentano una particolarità degna di nota: a distanza di una quarantina di metri l'uno dall'altro, attraversano la muratura del molo dei piccoli canali larghi da m. 1.55 a m. 2 e profondi fino a due metri sotto il pelo dell'acqua: quale fosse con precisione il loro scopo non si sa: ma molto probabilmente essi servivano ad agevolare il riflusso delle acque del bacino, come più tardi i Romani fecero con i moli ad arcate. Non è impossibile tuttavia che essi potessero anche dare passaggio alle barche. Simili nella costruzione ai moli sono le banchine per l'ancoraggio delle navi e per lo scarico delle merci.
È principio generale in questo periodo, che si trasmette anche all'età posteriore, la pluralità dei porti: ogni città ha di solito più di un porto, non solo per le diverse esigenze, commerciali o militari, della navigazione, ma anche per il più agevole e più largo rifugio delle navi, con qualsiasi vento: ché i diversi porti hanno, come è naturale, diverso orientamento; quando il porto è formato da un solo unico bacino, in esso si aprono varî bacini minori. Siracusa aveva due porti, uno maggiore fuori delle mura della città, uno più piccolo, chiuso da queste: li divideva l'isola di Ortigia e la diga che congiungeva questa con la terraferma. Due porti egualmente avevano Mitilene e Corinto; ma l'esempio più notevole ci è offerto dai porti di Atene. Nei tempi più antichi la città si era contentata, per il suo sbocco al mare, della piccola baia del Falero, ma quando Temistocle volle di essa fare una grande potenza marittima, un giro di mura venne disteso tutto intorno alla penisola dell'Akté, a chiudere il grande porto (μέγας λιμήν o Κάνϑαρος) e i due porti minori di Zea e di Munichia. Dighe proteggevano l'ingresso dei diversi bacini: sulle rive del bacino maggiore erano l'emporio, i portici, fra cui quello chiamato δεἶγμα, o portico dei campioni, i νεώρια per le navi mercantili, ecc.; nel fondo del bacino si apriva un porticciolo secondario, detto porto sordo o χωϕός. Nel porto di Zea erano i νεώρια per le navi da guerra e la famosa σκενοϑήκη di Filone (v. arsenale). La cinta dell'Akté si congiungeva a sua volta con le Lunghe mura che raccordavano il Pireo alla metropoli.
L'ellenismo amplia e perfeziona i concetti dell'età precedente, dando i primi grandi complessi portuali, in cui, alla soddisfazione delle esigenze pratiche, si accompagna e si aggiunge la ricerca estetica. Lo sviluppo delle città, divenute grandi emporî commerciali e sede di monarchie militari, la loro sistemazione edilizia sulla base di nuovi principî urbanistici, fanno sì che da un lato il porto obbedisca e risponda ai molteplici bisogni della navigazione sia di commercio sia di guerra, d'altro lato che esso si inquadri nel piano regolatore della città, non turbandone le linee, anzi completandolo. D'altronde il perfezionamento della tecnica costruttiva svincola da ogni legame che possa venire dalle condizioni naturali del luogo, dove il porto deve o si vuol far sorgere: i porti si fanno ora anche del tutto o quasi del tutto artificiali, vincendo le difficoltà della natura, o per lo meno superandole momentaneamente: ché invero basterà molte volte che le forze della natura siano lasciate libere, perché l'opera dell'uomo venga annullata e distrutta.
È di questo periodo appunto il primo trattato sulla costruzione dei porti, di Filone di Bisanzio, di cui peraltro non abbiamo che il ricordo.
Gli specchi d'acqua riserbati al rifugio e alla sosta delle navi si fanno ampî, e sono chiusi da moli, che seguono in generale un andamento rettilineo: tutto all'intorno si stendono le banchine, alle quali talvolta, per aumentarne lo sviluppo e dare perciò maggiore spazio all'ormeggio, si dà un andamento a linea spezzata: scale e pietre di ormeggio completano l'attrezzatura delle banchine. Dietro a queste sorgono portici e magazzini per la conservazione e la vendita delle merci; templi ed edifici di carattere decorativo si distribuiscono sui moli, su uno dei quali s'innalza anche, quando migliore posizione non gli offra qualche altura vicina, il faro. Diversi porti, o nello stesso porto diverse parti di esso, sono riserbati a particolari destinazioni: per la marina da guerra, ad es. (e sorge allora presso questo porto l'arsenale), o per l'uso privato dei sovrani.
Il miglior esempio di porto ellenistico ci è fornito da Alessandria. Esso viene sistemato nello specchio d'acqua fra la lingua di terra dove sorge la città e l'antistante Isola di Faro. Una diga lunga sette stadî, donde il suo nome di ἑπταστάδιον, percorsa nella sua parte superiore da una strada, divide a metà lo specchio d'acqua, formando due bacini: quello a levante è il porto grande (μέγας λιμήν), quello ad occidente l'εὔνοστος; due moli, che si dipartono l'uno dalla penisoletta di Lochias, l'altro dalla punta orientale dell'isola di Faro, e si appoggia a una fila di scogli antistante, fra cui è quello dove sorge il faro vero e proprio, restringono notevolmente, fino ad una larghezza di m. 300, l'ingresso del Porto grande: altre dighe a loro volta, a occidente della stessa Isola di Faro, proteggono dai venti di ponente l'εὔνοστος. Un piccolo bacino, detto κιβοτός, si apre in un angolo di questo porto e forma un porticciolo in comunicazione, mediante un canale, con il retrostante lago Mareotide; un altro porto riserbato al re è nell'angolo orientale del porto grande, presso al palazzo reale. Qui presso è un corto molo, detto Timonion, dietro al quale è l'emporio, più in là verso occidente i νεώρια.
Templi di Posidone, d'Iside e di altre divinità sono disseminati lungo tutto i margini dei due porti, dalla parte della città, sull'Isola di Faro, sui moli.
Altro esempio notevole di un complesso portuale, la cui sistemazione deve risalire egualmente a questo periodo ellenistico, è quello di Cartagine. I porti della metropoli punica hanno offerto il campo a molteplici discussioni, ma pare ormai accertato che essi si debbano ricercare nelle due lagune a settentrione della baia del Kram.
Comunque, dalla descrizione di Appiano rileviamo che essi erano formati da due bacini contigui, ambedue scavati completamente entro terra: abbiamo pertanto qui un esempio di bacini del tutto artificiali, quelli che i Greci chiamavano κώϑωνες. Il primo bacino, rettangolare, che comunicava col mare per un'apertura di settanta piedi (m. 20,72), era riservato al commercio; il secondo, retrostante al primo, era circolare e aveva nel mezzo un'isola: esso era il porto militare: tutto all'intorno vi erano dei νεώρια per accogliere fino a 220 navi, e, al di sopra, dei magazzini; avanti ogni navale erano due colonne ioniche che davano al giro del porto e dell'isola l'aspetto di un portico continuo; nell'isola era la sede dell'ammiraglio, dalla quale, al di sopra del porto mercantile, si poteva sorvegliare il mare aperto. Tutto il porto militare con gli arsenali era circondato da mura che ne proibivano l'ingresso e la vista, anche a coloro che trafficavano nel porto mercantile antistante; ambedue i porti, a loro volta, erano dentro le mura della città. Una specie di supplemento ai due bacini interni offriva infine un grande molo quadrilatero (χώμα), costituito da un terrapieno, e appoggiato alla costa subito a settentrione della baia del Kram: ad esso potevano accostare le navi che non volevano entrare nei porti.
Altri porti che in età ellenistica ebbero notevoli ampliamenti o furono anche del tutto rifatti, ma di cui abbiamo meno copiose testimonianze letterarie e monumentali, sono quelli di Delo, di Efeso, di Mileto.
I Romani, che nel periodo repubblicano si erano limitati a costruire il loro sbocco al mare alla foce del Tevere, subendo la ristrettezza dello spazio e gl'inconvenienti non lievi che ogni porto posto alla bocca di un fiume porta con sé, e che per il resto delle coste del Mediterraneo avevano usufruito dei porti che avevano avuto i popoli prima di loro, divengono, con l'impero, grandi costruttori di porti. Essi raccolgono l'eredità dell'ellenismo, ampliandola e portandola, con la loro insuperata perizia costruttiva, padrona ormai di tutti i più progrediti mezzi tecnici, al più alto grado di grandiosità e di audacia.
Sono di età augustea i porti di Pozzuoli, di Cesarea di Mauretania, di Cesarea di Palestina; Claudio costruisce il primo bacino del Portus Romae, cui Traiano ne aggiunge un altro più interno e più ampio; a Nerone si deve il porto di Anzio; Traiano stesso è l'autore dei porti di Centumcellae e di Terracina, per non ricordare che quelli che, per i cospicui resti superstiti, siamo meglio in grado di conoscere. Del secondo secolo, o più probabilmente di età severiana, è il porto di Leptis Magna in Tripolitania.
I Romani ebbero facilitata la costruzione dei moli e delle banchine dalla perfezionata tecnica sia delle malte idrauliche per il conglomerato di opera a sacco, sia delle costruzioni subacquee, per il cui procedimento Vitruvio descrive varî metodi. Da tale progresso essi si sentirono vieppiù spinti a prescindere nell'apprestamento dei porti dalle condizioni naturali, ciò che fece ripeter loro, e su più larga scala, quanto si è già notato per i porti ellenistici. Ma in tale apprestamento essi non seguirono un criterio uniforme; talvolta essi costruirono porti in mare aperto o solo in parte a ridosso di ripari naturali, altre volte essi scavarono artificialmente per intero dei bacini interni, non trascurarono in altri casi di usufruire di lagune o estuarî.
I moli e le banchine furono in generale costruiti su solide fondamenta di opera a sacco, e rivestiti esternamente e superiormente con conci e lastre di pietra da taglio. Nella Campania, e pare soltanto in un breve periodo di tempo che si può restringere all'età augustea, furono usati moli poggiati su arcate, allo scopo certamente di facilitare il flusso delle acque e d'evitare i pericoli dell'interrimento.
Le banchine furono fornite di ormeggi, costituiti di solito da grosse pietre attraversate da un foro orizzontale, entro cui si passava la gomena, o verticale, e destinato in questo caso a ricevere un dritto di legno cui era annodato il cavo.
Sulla punta dei moli che guardavano l'ingresso vi erano in generale torri di vigilanza o, se meglio non poteva disporsi in luogo più elevato, il faro, su tutti i moli e sulle banchine erano templi, portici e monumenti varî, quali vediamo rappresentati nelle copiose figurazioni di porti che abbiamo nei monumenti e cioè nelle pitture sia di Pompei sia di Roma, nei rilievi, nelle monete e in piccoli oggetti d'arte industriale. Per la prima volta i Romani dànno ai moli andamento curvilineo o a linea spezzata, onde i porti assumono forma circolare o poligonale.
Tra i grandi complessi portuali meritano di essere ricordati quelli costruiti per la capitale da Claudio e da Traiano.
L'insufficienza del porto fluviale di Ostia e il progressivo interrimento di esso, causato dagli apporti alluvionali del Tevere, consigliarono Claudio ad apprestare un nuovo ampio bacino, per il quale egli scelse un punto a settentrione della foce del fiume, che solo in parte invero si dimostrava adatto all'impianto di un porto. Questo infatti non ebbe che la base appoggiata alla riva: i due moli furono costruiti per intero artificialmente con andamento in parte rettilineo, in parte curvilineo; lo specchio d'acqua da essi compreso fu di circa 850.000 mq.; tra le estremità dei due moli, a chiudere l'ingresso, o meglio a dividerlo in due bracci, fu costituita un'isola, anch'essa artificiale, per le cui fondamenta fu affondata nel mare la grande barca che aveva recato a Roma l'obelisco del circo di Caligola: sull'isola sorse il faro: è innegabile in tutto questo il proposito d'imitare la disposizione del porto di Alessandria. Una fossa artificiale fu inoltre scavata per mettere in comunicazione il porto con il Tevere, e insieme per agevolare il flusso di questo ed evitare a Roma il pericolo delle inondazioni: è questa fossa quella che costituisce oggi il ramo secondario del Tevere, detto di Fiumicino. L'opera di Claudio, perquanto audace e grandiosa, si dimostrò incapace di offrire alle flotte mercantili, che affluivano da ogni provincia dell'impero a Roma, quel rifugio sicuro che era loro necessario: una tempesta nel 62 causò la perdita di numerose navi che vi erano ancorate. Traiano attuò pertanto l'idea di creare un secondo ampio bacino, interamente scavato nel terreno, retrostante ma indipendente dal primo: ad esso infatti si accedeva da un nuovo braccio della fossa, allungata e in parte modificata da Traiano, di cui poi mantenne il nome (fossa Traiana). Il bacino della superficie di mq. 391.993, ebbe forma esagonale (lunghezza di ciascun lato circa m. 357); tutto all'intorno erano magazzini e costruzioni connesse col porto. Il bacino è ancora oggi riconoscibile, ma completamente interrato.
Sul modello del porto di Claudio fu costruito da Traiano stesso il porto di Centumcellae, con due moli, di varia lunghezza, protesi dalla costa verso il mare, e con l'ingresso chiuso da un'isola artificiale: la quale peraltro fu spostata più verso il largo, e allungata in modo tale da costituire con le sue estremità una protezione alla punta dei moli. A Terracina un solo molo, in parte rettilineo, in parte curvilineo, chiudeva un bacino quasi circolare, con una sola entrata rivolta verso nord-est.
Più antico di questi è, come si è già detto, il porto di Pozzuoli: esso è particolarmente famoso per il molo, lungo m. 372, che lo proteggeva dalla parte di mezzogiorno, e che poggiava su una fila di archi: l'ornavano due archi di trionfo, colonne onorarie ed altri edifici, e costituiva per la città una specie di passeggiata monumentale. Anche alcuni tratti di banchine erano a Pozzuoli sostenuti da costruzioni a duplice fila di arcate, anziché di muratura piena.
A Leptis Magna il porto era costituito da un bacino scavato alla foce del torrente, il cui corso era stato a monte della città deviato e portato a fluire in un torrente vicino. Il promontorio, che difendeva la foce del fiume dalla parte di settentrione, era stato ampliato artificialmente, difeso alla punta da un solido rivestimento a grossi conci e guarnito in sommità, nel punto più stretto, da un muro, che doveva proteggere l'interno del bacino dalle mareggiate di tramontana: sul promontorio era stato alzato il faro. Dalla parte opposta chiudeva l'ingresso un molo quasi del tutto artificiale, sulla cui punta erano una torre e un tempio: che un secondo molo partente da Vuesto verso il mare aperto proteggesse l'ingresso dai venti di levante, così fastidiosi soprattutto nella stagione estiva su questa costa, non è certo. Banchine con ormeggi circondavano all'intorno il bacino.
Al porto di Cesarea di Mauretania, approfittando di un'isoletta posta davanti alla costa, si era data una disposizione un poco simile a quella del porto di Alessandria: nel fondo di esso, un piccolo recesso, chiuso da mura, sembra fosse riservato alla flotta militare.
In Italia e fuori alcuni porti furono invece riservati esclusivamente per la marina da guerra: così il portus Iulius e il porto di Miseno in Campania, quello di Ravenna, quello di Forum Iulii in Provenza.
Il portus Iulius fu costituito da Agrippa nel lago d'Averno, già da prima in comunicazione con il vicino lago Lucrino e da Agrippa stesso, mediante lo scavo di una galleria artificiale, unito direttamente al mare. Ma riconosciuto di troppo difficile accesso, esso fu presto sostituito dal porto di Miseno, formato da un bacino interno o Mare Morto, preceduto da un bacino esterno, al cui ingresso si protendevano dalle rive due moli: ambedue erano, come il molo di Pozzuoli, ad archi, ma quello di mezzogiorno poggiava su due file di archi, con i piloni disposti in modo che quelli della seconda fila venivano a cadere negli spazî fra quelli della prima, così da ovviare al difetto di una scarsa protezione dai danni delle tempeste che i moli poggianti su una sola fila di archi presentavano.
Il porto di Forum Iulii (Fréjus), per quanto interrato, è ancora bene riconoscibile: è costituito da un bacino interno, cui si accedeva dal mare aperto mediante un lungo canale, e che era tutto circondato da mura: due torri guardavano l'ingresso del bacino; il faro era all'angolo sud-ovest di esso. Le banchine erano pure comprese entro le mura, che infatti, dalla parte della città, si allontanavano maggiormente da esse per dar luogo a magazzini e ad altre costruzioni.
Accanto ai porti sul mare, i Romani diedero sviluppo ai porti fluviali, sia a quelli posti alla foce dei fiumi, o poco a monte di essa, come quelli più importanti della Gallia, Arelate, Burdigala, Portus Itius (Boulogne), ecc., sia a quelli interni sulle grandi vie fluviali, costituite dal Reno, dal Danubio, dall'Eufrate. In Italia si possono ricordare, fra i porti fluviali, quello tiberino di Roma, sotto l'Aventino, e quello di Aquileia lungo il corso del Natisone, tornato in luce negli scavi recenti (v. aquileia). Né possono dimenticarsi i porti lacuali, come quello di Genava (Ginevra), costituito da più bacini chiusi e protetti da muri e file di pali.
Come già si è accennato, la città ha spesso per la sorveglianza e l'amministrazione del porto magistrati speciali. Di questi abbiamo ricordo naturalmente soprattutto per i porti maggiori. Al Pireo nel sec. V era una commissione di ἐπιμελούμενοι, da cui dipendevano coloro che erano particolarmente addetti ai νεώρια; nel sec. IV questi sono affidati a dieci epimeleti (ἐπιμεληταί) assistiti da funzionarî subalterni. L'emporio ha a sua volta un altro sovrintendente, detto ora ἐπιμελητής, ora ἐμποριάρχης, ora προστάτης. Altrove si ha menzione di λιμενάρχαι. Con la giurisdizione e la polizia del porto è spesso connessa la cura della riscossione delle dogane (v. grecia: Storia economica e finanziaria).
A Roma per tutta la repubblica la cura del porto di Ostia è affidata al quaestor ostiensis, che sovrintende sia al movimento commerciale del porto stesso, sia al navale militare che in esso ha sede. Con la fondazione del porto di Claudio subentra ad esso il procurator portus Ostiensis, posto alle dipendenze del praefectus annonae: ché l'importanza del porto di Ostia è soprattutto nell'approvvigionamento della capitale. Esso è sostituito nel sec. II da un procurator annonae o ad annonam Ostiis, che nel sec. III cede di nuovo il campo ad un procurator portus utriusque. Dopo Costantino si ha il comes portus assistito da un funzionario subalterno, detto centenarius portus. I magistri o procuratores o dispensatores di determinati porti, che ci ricordano talvolta le iscrizioni provinciali, erano soprattutto addetti alla riscossione delle dogane (v. roma: Storia finanziaria).
Bibl.: Buona opera moderna, che compendia ed esamina criticamente quanto si sa intorno ai porti antichi, è quella di K. Lehmann-Hartleben, Die antiken Hafenanlagen des Mittelmeeres, Lipsia 1923; dello stesso Lehmann-Hartleben è l'art. nella Real-Encycl. di Pauly-Wissowa, s. v. Λιμήν, XIII; M. Besnier, in Daremberg e Saglio, Dict. des ant., ecc., s. v. Portus. Per i porti della Grecia: Georgiades, Les ports de la Grèce dans l'antiquité, 1907; per i porti dell'Italia: Monografia storica dei porti dell'antichità: I, nella Penisola italiana; II, nell'Italia insulare, Roma 1905-06. Per i singoli porti v. alle voci delle città corrispondenti. Notiamo tra le pubblicazioni recenti: per il porto di Aquileia: G. Brusin, Scavi di Aquileia, Udine 1934; per i porti della Gallia: A. Grenier, Archéologie galloromaine, I e II, Parigi 1934; L. Iacono, Un porto duomillenario, in Atti III Cong. St. Rom., Roma 1934, p. 318 segg.