POSSESSO
. Antico Oriente. - Nei diritti dell'Asia occidentale antica di solito non si fa distinzione tra il possesso e la proprietà, tra il semplice possessore e il proprietario. Tanto il primo quanto il secondo suole essere chiamato bēlu "signore, padrone". Il termine per possesso, ṣibtu o ṣibittu, dal verbo ṣabātu "afferrare, prendere, tenere", può designare anche la proprietà. In qualche documento giuridico babilonese però si fa netta distinzione tra il proprietario, sha "di", dell'argento e colui che lo detiene, lo "ha davanti", ina pān. Col semplice possesso di una cosa non se ne acquista anche la proprietà: secondo il diritto babilonese chi viene trovato in possesso di una cosa smarrita è sospettato di averla rubata e deve quindi giustificare il suo possesso. Chi prende possesso di uno schiavo fuggitivo non ne diventa per ciò stesso proprietario, ma il proprietario può sempre rivendicarlo. Secondo il diritto sumero colui che abita per tre anni in una casa senza obbiezioni da parte del proprietario e ne paga l'imposta durante questo periodo, diventa, dopo scaduto questo termine, proprietario della casa. Il possesso si acquista con l'afferramento fisico della cosa, ṣabātu e lo si trasferisce con la consegna materiale, nadānu "dare" della cosa stessa. Quando si tratta d'immobili il possesso si trasferisce mediante la consegna puramente simbolica di questi. Nella compra-vendita il trasferimento del possesso dell'oggetto non è l'elemento decisivo per il passaggio della proprietà da un soggetto all'altro. Nell'azione di rivendicazione di una cosa al possessore spetta la parte del convenuto secondo il diritto in vigore nel periodo della prima dinastia di Babele. La prova del diritto di proprietà incombeva in un periodo più antico al convenuto, ma più tardi passò all'attore.
Bibl.: G. Furlani, La civiltà babilonese e assira, Roma 1929, pp. 396-494; e la bibl. alle voci babilonia e assiria: Diritto; proprietà.
Diritto greco. - È difficile cogliere nella terminologia giuridica greca un concetto del possesso, come istituto nettamente separato dalla proprietà e produttivo di conseguenze proprie: i verbi ἔχειν "avere", κρατεῖν "dominare", κυριεύειν "signoreggiare" indicano normalmente la proprietà in atto, nella pienezza del suo godimento e della sua protezione giuridica. Tuttavia gli stessi verbi, specialmente ἔχειν, possono variare di significato secondo i complementi che li accompagnano: quando, per es., un oratore distingue fra l'aver le cose proprie (ἔχειν τὰ αὐτῶν) e l'aver le cose altrui (ἔχ. τὰ ἀλλότρια), è chiara nel suo spirito la differenza fra signoria di diritto e signoria di fatto, cioè, traducendo nella terminologia romana e attuale, fra proprietà e possesso.
Comunque, tutti i tentativi della dottrina moderna per ritrovare in Grecia un regime giuridico del possesso anche vagamente analogo al romano possono dirsi falliti: l'aver cose altrui non è preso in considerazione che come fatto antigiuridico, perseguibile eventualmente con azioni penali o contrattuali e in ogni caso eliminabile attraverso quella rivendicazione bilaterale che porta il nome di diadicasia. Non solo non si è potuto provare che azioni speciali servissero a tutelare il possessore come tale contro l'ingiustificata aggressione, ma neppure si vede riconosciuto al possesso quell'effetto che nel diritto romano evoluto è il più elementare, cioè il privilegio di attribuire nella lite di proprietà la funzione di convenuto, sostenendo chi non possiede, la parte di attore col congiunto onere della prova: è singolare che qualche spunto in quest'ordine d'idee si trovi soltanto in legislazioni delle città greche d'Occidente (ad es. in quella di Zaleuco), ma in genere nella diadicasia i pretendenti si trovano processualmente in situazione di assoluta parità, qualunque sia lo stato di possesso. Manca infine un istituto corrispondente all'usucapione romana, acquisto della proprietà mediante il possesso: l'aver avuto lungamente la disposizione della cosa è soltanto un argomento per convincere il giudice, in mancanza di titolo esibito dalla controparte, che il possessore sia nel suo buon diritto; in progresso di tempo, sorge l'istituto della prescrizione, ma soltanto come uno fra i tanti casi di decadenza dall'azione per il lungo tempo lasciato trascorrere senza esercitarla.
Una distinzione fra proprietà e possesso, ma in diverso senso, la si può cogliere nel vario regime delle terre. In massima, mentre il cittadino della πόλις ha sul fondo assegnatogli e sulle costruzioni relative una signoria illimitata paragonabile al romano dominium ex iure Quiritium, nei paesi soggetti, e successivamente nelle monarchie ellenistiche, la proprietà appartiene alla città dominante o al sovrano, e i singoli non godono che di una signoria più o meno limitata: ad essa appunto i Romani, quando per parte loro adottarono il sistema nel regime fondiario delle provincie, diedero il nome di possessio, trovando nella negazione della proprietà un punto di contatto con la signoria di mero fatto alla quale avevano sempre dato lo stesso nome. Per la bibliografia e per varî fra i problemi qui accennati vedi proprietà.
Diritto romano. - La nozione romana del possesso è stata vivamente discussa, dopo la magistrale opera del Savigny in questa materia, nella letteratura del secolo scorso e del nostro. Il perpetuarsi e l'aggravarsi della disputa derivano dall'aver voluto considerare immutata questa nozione nel corso del tempo, dalle origini di Roma alle compilazioni giustinianee. La nozione della possessio, invece, come quella degli altri istituti romani, deve essere ricostruita nelle diverse fasi storiche dal diritto romano attraversate.
Anticamente il possesso, indicato dalle parole usus, ususfructus, possessio (il primo termine è il più antico; l'ultimo il più recente), esprime una signoria di fatto, non importa se illimitata o limitata nel tempo, contrapposta al mancipium o dominium che è signoria giuridica. La prima applicazione sociale dell'istituto è da ravvisarsi nella concessione dell'ager gentilicius che il pater gentis faceva alle persone che si erano raccolte intorno a lui e che glielo richiedevano (precario rogantes). E, come la signoria giuridica del pater sul territorio della gens era una signoria di natura politica, cioè sovranità piuttosto che proprietà, così la signoria di fatto era una potestà sovrana di fatto. Scomparve il carattere politico di questo potere e si affermò il suo contenuto economico, quando nel dominium romano si accentuò il suo significato economico e si oscurò il suo significato politico. All'istituto gentilizio del precarium corrisponde il più tardo istituto della concessione dell'ager publicus fatta dalla civitas: concessione, che durava "dum populus senatusque romanus vellet", come il precario durava "tamdiu quamdiu is qui concessit patitur".
Corrispondente al possesso del precarista è il possesso del creditore pignoratizio, che ha presso di sé una res propria del pignorante fino al momento del soddisfacimento del suo credito, e il possesso del sequestratario che ha presso di sé una res sulla quale verte una lite, fino al momento della decisione della lite stessa. Sono, tutti codesti, esempî di possessio revocabile.
Altra applicazione sociale della possessio si aveva nel caso in cui il paterfamilias alienasse una res mancipi senza le forme richieste per l'alienazione di queste res: cioè senza mancipatio o cessio in iure. Ma questa applicazione è diversa dalle precedenti, perché qui la possessio non è revocabile (contro l'alienante, che esperisca la rei vindicatio, l'acquirente può opporre una exceptio: se vi fu vendita, l'exceptio rei venditae et traditae) e conduce, o può condurre, dentro il biennio o dentro l'anno, a seconda che si tratti di res soli o di ceterae res, all'usucapione, cioè all'acquisto del diritto di proprietà.
La possessio revocabile non conduceva all'usucapione, ma fu la prima ad essere difesa mediante interdetti (v.), sprovvista - com'era - di ogni altra giuridica tutela, e inidonea - com'era - all'usucapione.
Sul finire dell'età repubblicana un grande avvenimento sociale opera nel campo del possesso. La possessio dell'ager publicus si consolida e si trasforma in dominium ex iure Quiritium. Quando questa possessio scompare, il posto tenuto dalla possessio revocabile diventa un piccolo posto. La possessio del fondo provinciale (degli agri stipendiarii o tributarii) non era soggetta a revoca, come non soggetta a revoca era la possessio di chi aveva acquistato una res mancipi senza mancipatio o cessio in iure: così la possessio, che in questa età emergeva e dominava, era la possessio che nasceva senza nessun limite, neppure teorico, di tempo, la quale dapprincipio conduceva all'usucapione e successivamente fu anche difesa dagl'interdetti. Allora la possessio del precarista, del creditore pignoratizio, del sequestratario, apparvero come species di un genus scomparso: esse sopravvivono come anomalie. Ma, in questo momento, un altro avvenimento rilevante non va dimenticato. La possessio, che prima era indifferentemente indicata dalle parole usus, usufructus, possessio, ora è indicata soltanto da quest'ultima: ususfructus e usus sono termini che designano particolari iura in re (il diritto reale di usufrutto e il diritto reale di uso).
Per tutta l'età classica, da Quinto Mucio Scevola a Paolo, la possessio è veramente quel concetto e quel rapporto di fatto che ci si presenta nella dottrina del Savigny e del Bonfante: rapporto di dominazione di fatto, nel quale si detiene la cosa con l'intenzione di possederla per sé e di disporne, senza limite alcuno neppure di tempo, così come farebbe il dominus: rapporto difeso dagl'interdetti, atto a trasformarsi, quando abbia determinati requisiti, in signoria giuridica mediante l'usucapione. Contrapposto della possessio è l'esse in possessione, il detinere, il tenere, il morari in fundo. Il regime del possesso rispecchia la natura di fatto di questo rapporto: acquisto, conservazione, perdita del possesso sono regolati movendo dal presupposto che il possesso è una res facti: e così, perché il possesso si acquisti, la res deve essere almeno in praesentia; il procurator rappresenta il dominus nel possesso, perché questo non è un diritto (non riconosciuta dai Romani è la rappresentanza nell'acquisto dei diritti); il pupillo può acquistare il possesso senza l'auctoritas tutoris; il coniuge donatario possiede la cosa donatagli dall'altro coniuge benché la donazione sia nulla; l'erede non possiede le cose ereditarie attraverso la semplice adizione, mentre con l'adizione omnia iura ad heredem transeunt, né il ius postliminii restituisce il captivus nel possesso, perché il ius postliminii concerne i diritti, e non una res facti, come il possesso è.
Quando l'età classica del diritto romano si chiude, comincia un'altra fase nella storia del possesso: scompare ogni distinzione tra fondo italico e fondo provinciale e la possessio degli agri tributarii e stipendiarii si trasforma anch'essa in proprietà: si riduce immensamente, così, il territorio della possessio disgiunta dalla proprietà e alla proprietà contrapposta, e la possessio accompagnata alla proprietà assume in questo momento storico la maggiore espansione e il più vivace rilievo. Anche questo avvenimento non poteva compiersi senza conseguenze sul concetto del possesso che viene svolgendosi nell'età successiva. La vera possessio è nell'età del Basso Impero e nella legislazione di Giustiniano quella di colui che è il dominus della cosa o in buona fede crede di esserlo; la possessio di colui che non ha diritto sulla cosa, la possessio che non ha un giusto titolo o che è di mala fede, è accomunata con la detenzione. Dei due elementi costitutivi del possesso (l'animus possidendi e la disponibilità fisica della cosa) si esalta il primo e si deprime, fino a farne a meno, il secondo. E il primo è inteso dai Giustinianei come animus domini, dai Bizantini come ψυχὴ δεσπόϑοντος. E così il possesso si acquista senza la materiale consegna e perfino senza la materiale presenza della cosa: il filiusfamilias e il servus acquistano al dominus ignorante anche non ex re peculiari. Esso si conserva se la disponibilità fisica manca (possiedono animo il captivus, l'assente, il dominus del servus fugitivus, il dominus spogliato della cosa sua dal rappresentante infedele). Anche la possessio non animo domini (detta corporalis o naturalis) è difesa dagl'interdetti; ma, quando la lite si imposta tra i due, tra chi ha la possessio naturalis o corporalis nel senso giustinianeo e chi ha la possessio animo o iure, è quest'ultimo che ottiene la prevalenza.
Si distingue tra possessio iusta o non vitiosa e iniusta o vitiosa: tra possessio ex iusta causa e possessio ex iniusta causa; tra possessio naturalis e possessio civilis; tra possessio bonae fidei e possessio malae fidei.
Possessio iusta o non vitiosa è il possesso conforme al diritto, cioè nec vi nec clam nec precario: bastava anticamente l'assenza di questi vizi perché il possesso fosse idoneo all'usucapione. Ma, come i requisiti del possesso atto all'usucapione crebbero (all'assenza di vizî si aggiunsero la iusta causa e la bona fides), il significato di possessio iusta si dilatò. Per la difesa interdittale non importa che la possessio sia vitiosa adversus extraneos: basta che non sia tale di fronte all'adversarius.
Possessio naturalis è nel diritto classico la mera detenzione, cioè l'elemento fisico del possesso scompagnato dall'elemento spirituale. Possessio senza alcuna aggiunta è la detenzione con animus possidendi, cioè il possesso interdittalmente difeso; possessio civilis è il possesso fondato su una iusta causa. Nel diritto giustinianeo la tripartizione si riduce a una bipartizione, in cui possessio naturalis esprime così la detenzione come il possesso o senza giusto titolo o in mala fede che non può condurre all'usucapione, possessio civilis è il possesso che ha tutti i requisiti per fare acquistare attraverso l'usucapione la proprietà.
Possessio malae fidei è il possesso di colui che sa di ledere il proprietario; possessio bonae fidei è quello di colui che crede di essere il dominus. Quest'ultima distinzione è la distinzione fondamentale che domina nel diritto giustinianeo. In questo diritto si scambiano da un lato le espressioni possessio bonae fidei, possessio civilis, possessio animo, possessio iure; dall'altro le espressioni detentatio, κατοχή, possessio naturalis, possessio corporalis.
È necessario che la cosa sia capace di possesso: deve avere una propria individualità, cioè non essere parte di un'altra, ed essere in commercio. I Romani non ammisero la possibilità di possedere cose incorporali, cioè diritti: gli ultimi giureconsulti classici affermano ancora che possideri possunt quae sunt corporalia; o dicono che possideri non intellegitur ius incorporale. L'estensione del concetto di possesso ai diritti è opera del diritto postclassico giustinianeo. In questo diritto si configura il possesso là dove c'è l'esercizio di fatto di un diritto reale: sorge, così, la quasi possessio o possessio iuris. Ed è, anche, facile comprendere come e perché questa possessio nell'età postclassica si affermi. Nel diritto classico si accordavano in via utile gl'interdetti possessorî a chi era, o si comportava, come usufruttuario e con speciali interdetti si proteggeva l'esercizio di fatto (usus) di una servitù, fosse - o non - questo esercizio accompagnato al diritto di esercitarlo. Nell'età del Basso Impero, scomparsa ogni distinzione tra interdictum directum e interdictum utile, male afferrandosi la distinzione tra la protezione di un esercizio di fatto, chiamato possessio, e un esercizio di fatto, chiamato usus, i Bizantini scorgono nell'esercizio dell'usufrutto e delle servitù una quasi possessio, che poi più decisamente si dice senz'altro possessio: cioè possessio iuris (v. quasi possesso).
Il possesso è difeso mediante interdetti, che nell'età giustinianea diventano actiones. Si distinguono interdicta retinendae possessionis, che difendono il possesso in caso di turbativa o molestia recata al possessore, o anche solo tenuta: interdicta recuperandae possessionis in caso di spoglio qualificato. Gli interdicta retinendae possessionis sono due: l'interdictum uti possidetis per i fondi, e l'interdictum utrubi, originariamente per gli schiavi, poi per qualunque cosa mobile. Essi hanno nome dalle parole con cui incomincia il testo edittale. Con l'interdictum uti possidetis il possessore è mantenuto nel possesso attuale, non vizioso di fronte all'avversario, e consegue la cessazione delle turbative e la riparazione dei danni subiti. Con l'interdictum utrubi nel diritto classico la vittoria era attribuita non al possessore attuale, ma a chi aveva posseduto più tempo nell'anno precedente all'interdetto; nel diritto giustinianeo anche questo interdetto è stato assimilato all'interdictum uti possidetis.
Interdicta recuperandae possessionis sono nel diritto classico l'interdictum de vi cottidiana e de vi armata, concessi a chi sia stato violentemente spogliato di un fondo, senza le armi o con le armi: il primo ammetteva la exceptio vitiosae possessionis di fronte all'avversario; il secondo, no. Nel diritto giustinianeo vi ha un solo interdetto unde vi, che non contiene la exceptio vitiosae possessionis come il classico interdetto de vi armata, ed è esperibile contro chiunque ha compiuto in proprio nome, o in nome altrui, o ha ordinato lo spoglio Il possessore consegue, oltre la restituzione del possesso, il risarcimento dei danni. Per la reintegrazione nel possesso di cose mobili serviva nel diritto antegiustinianeo l'interdictum utrubi; nel diritto giustinianeo il possessore spogliato, che non esperisca la rei vindicatio, può giovarsi delle azioni di furto e di rapina, dell'actio ad exhibendum, della condictio possessionis, ma non ha un vero rimedio possessorio.
Gl'interdetti sono esperibili entro l'anno. Dopo l'anno l'invasore non risponde, almeno nel diritto giustinianeo, se non di ciò che ha ottenuto dallo spoglio: i suoi eredi, almeno. nel diritto giustinianeo, non rispondono mai al di là di questo limite.
Bibl.: La letteratura sul possesso romano è immensa. Tengono il primo posto l'opera di C. F. v. Savigny, Das Recht des Besitzes, 1803 (7ª ed. con appendici del Rudorff, Vienna 1865), e quelle di R. v. Jhering, Über d. Grund des Besitzssechutzes, 2ª ed., Jena 1869 e Der Besitszwille, ivi 1889 (trad. fr. col titolo Du role de la volonté dans la possession, 1891). Accanto ad esse sono da ricordare principalmente: I. Alibrandi, Teoria del possesso, Roma 1870 (in Opere, I, Roma 1886, p. 217 segg.); V. Scialoja, Il possesso del precarista, in Studi per l'VIII centenario dell'Università di Bologna, Roma 1888; F. Ruffini, l'actio spollii, Torino 1889; S. Riccobono, La teoria del possesso in diritto romano, in Arch. giur., L; id., Zur Terminologie der Besitzeverältnissen, in Zeitschr. d. Sav. St. (r. Abt.), XXXI (1910), p. 321 segg.; id., Vecchi e nuovi problemi intorno alla terminologia del possesso, in Scritti dedicati a G. P. Ghironi, Torino 1915, I, p. 222; P. Bonfante, Il punto di partenza nella teoria del possesso, parte 1ª: Corso di diritto romano, Pavia 1906 (ampl. e aggiorn. nel Corso di dir. romano, III, Roma 1933, dove a pp. 130-31 è richiamata un'ampia bibl.); E. Albertario, La possessio civilis e la possessio naturalis nelle fonti giustinianee e bizantine, in Filangieri, 1912; id., Il possesso, Lezioni di diritto romano dell'anno 1912-13 e 1913-14, Camerino 1914; id., Appunti per una critica sulla terminologia del possesso, Pavia 1915; id., La terminologia del possesso nella compilazione giustinianea e nelle fonti bizantine, in Bull. Ist. dir. rom., 1915; id., D. 41, 2, 8 e la perdita del possesso nella dottrina di Giustiniano, in Annali Univ. Macerata, V, 1929 (trad. franc. in Revue histor. de droit fr. et étr., 1931); id., I problemi possessori relativi al servus fugitivus, in Pubblicazioni Università cattolica, Milano 1929; id., Il possesso romano, in Bull. Ist. dir. rom., XL (1932), p. 5 segg.; G. Rotondi, La funzione recuperatoria dell'azione di manutenzione e la dottrina del possesso "solo animo", in Riv. dir. civ., 1918 (Scritti giuridici, III, Milano 1922, p. 257 segg.); id., Possessio quae animo retinetur, in Bull. Ist. dir. rom., 1921 (Scritti giuridici, III, p. 94 segg.); G. Donatuti, Iusta possessio, in Atti Ist. ven., 1921; F. Bozza, Sull'origine del possesso, in Annali Università Macerata, VI (1931), p. 189 segg.
Diritto barbarico e feudale. - L'istituto del possesso, con le caratteristiche e i requisiti romani, fu ignoto al diritto germanico che conosce, invece, il concetto di Gewere (fr. saisine) o investitura di diritto.
Prescindendo dal periodo più arcaico in cui la Gewere appartiene più al gruppo familiare che all'individuo, essa si estende a qualunque rapporto di fatto o diritto sulla cosa: il che, se porta a ignorare nel diritto germanico la fondamentale distinzione romana fra tutela possessoria e petitoria, implica un'estensione maggiore del rapporto rispetto alla possessio romana, in quanto applicabile anche a cose incorporali.
Fra i Longobardi e altri barbari residenti in Italia il concetto di possesso si svolge lentamente attraverso il concetto di Gewere o investitura: nelle fonti dell'epoca essa sta a indicare sia l'atto di immissione nel godimento della cosa, sia il diritto corrispondente al godimento, sia infine il godimento stesso (P. S. Leicht, Il dir. privato preirneriano, Bologna 1934 p. 118 segg.). In un primo tempo richiede una giustificazione obiettiva (possessio absque titulo non valet) e si attua non solo col godimento della cosa in modo economicamente autonomo (enfiteuta, vassallo, livellario, precarista), ma anche con la corrispondente detenzione fisica della cosa. Si giunge alla concezione di una pluralità di investiture e alla concorrenza di diritti parzialmente gravanti la stessa cosa (giurisdizioni, censi, rendite, decime): concezione e concorrenza ben caratteristiche della società feudale nell'alto Medioevo.
Successivamente si ammettono però (certo per influenze romanistiche e per la pratica necessità di una più efficace protezione) un concetto di possesso e una sua difesa indipendenti da ogni ricerca relativa al diritto e da ogni presunzione di legittimità.
È di origine germanica la concezione secondo la quale, considerandosi eredi solamente quelli del sangue, e trapassando in costoro naturalmente la personalità giuridica del defunto, anche i beni passavano ad essi senza bisogno di alcuna formalità o investitura (intesa la Gewere come diritto a possedere e a mettersi in possesso).
Diritto moderno.
Il risorgere del diritto romano si trovò di fronte ai nuovi rapporti che sorgevano dalle concessioni feudali, enfiteutiche, livellarie, ai nuovi istituti giuridici che la Chiesa veniva elaborando, alle nuove condizioni generatesi dalle vicende politiche ed economiche della società medievale.
I glossatori, costretti a piegare e adattare i testi romani, pur attraverso molteplici contraddizioni, alle esigenze dei tempi, orientano la disciplina del possesso verso una più ampia formulazione. Già nei documenti preirneriani il concetto di possesso viene esteso anche a prestazioni e servigi. Questo successivo processo si compie sotto l'influenza del diritto canonico: il lievito di ogni evoluzione ed estensione del concetto di possesso è dato dalla necessità pratica di reprimere la violenza sotto ogni sua forma. I due motivi predominanti del diritto giustinianeo in materia di possesso, quello di spiritualizzarne la nozione e a un tempo stesso di generalizzarla fino a comprendervi anche la mera detenzione, vengono ripresi e sviluppati. Ma la più travolgente e antiromana concezione del possesso (lo spunto è però pur sempre in embrione nella iuris possessio del diritto romano) si fa strada per quanto riguarda l'estensione del possesso, riconoscendosi idonei oggetti di esso e quindi di tutela, gli uffici ecclesiastici, i benefici, le prebende, le cariche onorifiche, i diritti di supremazia su comunità, chiese, conventi; i diritti di decime, di elezione, di patronato, di giurisdizione; lo stato, i diritti, le qualità familiari in genere, e matrimoniali in specie; le obbligazioni, i servigi, le prestazioni personali, insomma ogni specie di beni o diritti incorporali, di situazioni, di qualità, di dignità. Vero è che rispetto a taluni diritti si evita di parlare di possessio (così rispetto ai diritti di credito per cui si usa il termine status percipiendi), ma è il concetto più che il nome che importa; vi ha possesso laddove vi ha godimento (F. Ruffini, L'actio spolii, Torino 1889, p. 423 segg.). Successivamente sorge nei postglossatori la figura di possesso avente per sé la presunzione di proprietà (la cosiddetta possessio legitima, iusta ac non vitiosa) e si sviluppa il concetto di una possessio civilis intesa come possessio ficta vel intellectualis, come possessio solo animo. Questo processo di spiritualizzazione, già iniziatosi fin dal diritto giustinianeo, porta a ritenere nel diritto comune che il vero possesso (come la vraie saisine del diritto consuetudinario francese) non si perde con l'espulsione, sempre che il titolare conservi l'animo di possedere. Si va consolidando l'insegnamento, per autorità del Domat e del Pothier, che il possesso richieda almeno un indizio di giustificazione e che non meriti in conseguenza il nome di possesso quello dell'usurpatore. Accettata dai glossatori e postglossatori, adottata in molti statuti, si afferma sulle tracce del diritto germanico, la massima che mortuus facit vivum possessorem sine ulla adprehensione.
Le codificazioni del sec. XIX e XX. - Il codice napoleonico si mantiene in tema di possesso sulle stesse direttive tradizionali del diritto canonico e del diritto romano giustinianeo: è posta chiaramente l'antitesi fra il possesso considerato quale mera detenzione e il possesso considerato come presupposto della prescrizione: quanto all'oggetto, la definizione del possesso abbraccia ormai in uno stesso concetto le cose e i diritti, sempre però che questi si possano manifestare con un esercizio esteriore e materiale.
Il modello francese fu pedissequamente seguito nei varî codici degli stati italiani preunitarî e, quanto ai codici stranieri, l'influenza si mantiene prevalente fino allo scorcio del sec. XIX. Specialmente il codice spagnolo del 1889, contrapponendo il possesso civile a quello naturale, nonché accogliendo la dottrina della conservazione del possesso solo animo, è la più espressiva dimostrazione della vitalità della dottrina elaboratasi sulla base del diritto romano comune. Quanto al codice giapponese del 1896, è in esso nitidamente espressa la tendenza a valutare il possesso come un diritto considerato specialmente dal punto di vista dell'animus.
Il codice civile tedesco del 1900 risente nella formulazione del concetto di possesso e, nella sua disciplina, l'influenza della teoria pseudoromana di R. Jhering. Ogni potere di fatto sulla cosa (thatsächliche Gewalt) è possesso: si fa astrazione, quindi, da ogni elemento che consista nella volontà umana e da ogni distinzione fra possesso e detenzione, fondata sull'animus. Anche chi possiede in nome di altri (Fremdbesitz), purché in modo autonomo e indipendente, è possessore; i conduttori, gli usufruttuarî, i depositarî, ecc., sono veri possessori in quanto nell'esercizio del loro potere di fatto sono economicamente indipendenti. Non è più, insomma, la proprietà che attraverso il possesso si vuole proteggere, ma è l'utilizzazione economica della cosa e il valore sociale di essa; si prende in considerazione la causa possessionis, al fine di apprezzare nel suo giusto valore economico la padronanza di colui che è in contatto con la cosa e che merita di essere protetta. Il legislatore tedesco ammette poi anche un possesso a titolo di proprietà o un possesso in nome proprio (Eigenbesitz), ma non ai fini della protezione possessoria, sibbene ai fini dell'usucapione, dell'acquisto per occupazione, dell'acquisto dei frutti. Lo stesso sistema è adottato dal codice svizzero del 1907 che, anzi, con più energia qualifica possessore chiunque abbia anche momentaneamente in suo potere la cosa. Al sistema germanico si ispira altresì la distinzione di possesso diretto o indiretto del cod. brasiliano del 1916.
Se un giudizio complessivo si vuole esprimere sull'opera di codificazione dei secoli XIX e XX in materia di possesso, si può questo esprimere in modo sintetico: abbandono completo della dottrina del diritto romano classico con la sua terminologia rigorosa, con la sua perfetta armonia di costruzione, con la sua duttile logica. È così venuto meno il punto di equilibrio dato dal concetto classico della possessio ad interdicta, intesa come rapporto di mero fatto che si stabilisce con la volontà di tener la cosa in maniera libera ed esclusiva. Smarrito l'antico punto di orientamento, si hanno i più opposti indirizzi legislativi nella nozione del possesso, oscillante da una parte verso un concetto di possesso eticamente giustificato, dall'altra verso una degradazione del possesso ridotto a semplice detenzione. Nell'uno e nell'altro caso siamo fuori dell'orbita del possesso romano inteso come rapporto che implica la relazione fisica con la cosa e la volontà di averla liberamente e ad esclusione di ogni altro, come signoria di fatto sulla cosa che prescinde dalla sua origine giusta o ingiusta ed è solo animata dalla volontà del soggetto di tener la cosa per sé in modo libero e indipendente.
Legislazione italiana. - Il codice civile italiano del 1865 ha avuto il merito di dedicare un titolo apposito al possesso.
a) Nozione e specie. - Quanto alla sua nozione il codice italiano si riallaccia, attraverso il codice napoleonico, all'evoluzione del diritto comune che ha svolto i motivi e gli spunti del diritto giustinianeo. Il concetto stesso da un lato si è degradato sino a comprendere la nozione di detenzione, dall'altro si è innalzato assumendo elementi etici. Il codice civile italiano (art. 685) chiama possesso anche l'esercizio di fatto di qualunque diritto (propriamente di qualunque diritto reale). Il possesso romano, a ben guardare, è sparito: poiché la tutela possessoria, accordata con l'azione di manutenzione (articolo 694 cod. civ.), si riferisce a un istituto che è qualche cosa più del possesso, e col suo epiteto di legittimo rivela il suo riavvicinamento alla sfera dei diritti; e la tutela possessoria, accordata con l'azione di reintegrazione (art. 695 cod. civ.), si riferisce a un istituto che è qualche cosa di meno e abbraccia anche la mera detenzione: non si riferisce mai alla possessio pura e semplice, che era nel diritto romano base degl'interdetti. L'antitesi, che si era affacciata sino dalla glossa, e si era poi fissata nelle opere dei commentatori e dei culti, tra il possesso come stato di fatto e come diritto, si è perpetuata nel nostro codice.
Possesso di cosa. - Tre gradi di possesso conosce il nostro codice:
1. la detenzione (o possesso qualunque esso sia: art. 695): essa è la più embrionale manifestazione del possesso che si attua mediante un rapporto di fatto della persona con la cosa senz'altro elemento intenzionale che quello di una mera affectio tenendi.
Ne sono escluse solo le forme di apprensione momentanea e transitoria non qualificate nemmeno dall'intenzione di tener per sé la cosa (ad es., la detenzione del domestico, del commesso, dell'ospite); vi è invece compreso il rapporto di chi possiede a titolo di custodia o di chi possiede nel proprio interesse (usufruttuario, conduttore) o nell'interesse altrui (depositario, mandatario), ma nomine alieno, e in genere di tutti coloro che hanno un possesso precario (creditore anticretico, creditore pignoratizio, avente diritto a ritenzione), i quali tutti, pur possedendo in nome altrui, per questo son privi di un possesso proprio in corrispondenza al contenuto del diritto che pretendono esercitare sulla cosa.
2. il possesso generico: è una detenzione qualificata dall'intenzione di esercitare sulla cosa una potestà di fatto per sé e a proprio esclusivo profitto; comprende ogni possesso di fatto quantunque vizioso, purché soccorra l'intenzione di tenere la cosa e godere il diritto come un bene nella sfera della propria disponibilità.
3. il possesso legittimo (686 cod. civ.): è il possesso che ingenera la presunzione del diritto (la possessio legitima, iusta ac non vitiosa dei postglossatori). Il nostro codice, a differenza del codice austriaco, non richiede perché vi sia possesso legittimo l'esistenza di una iusta causa; richiede per altro che il possesso sia "continuo, non interrotto, pacifico, pubblico, non equivoco e con l'animo di tenere la cosa come propria". Pertanto si esclude che gli atti ambigui, quelli meramente facoltativi (v. facoltativi, diritti), gli atti di semplice tolleranza possano far sorgere il possesso legittimo.
Non un grado di possesso, ma una specie a sé di possesso, è quello di buona fede, cioè tenuto on la credenza da parte di chi possiede di avere il diritto corrispondente (opinio domini); con la credenza, cioè, di non ledere il diritto di alcuno. È richiesta l'esistenza effettiva di un titolo (iusta causa di acquisto) abile a trasferire il diritto, quantunque per vizî, ignorati dall'acquirente, non si sia operato di fatto il trasferimento. Si esclude in conseguenza che il titolo putativo possa dar fondamento al possesso legittimo. La buona fede in materia di possesso è sempre presunta; chi allega la mala fede deve darne la prova; basta la buona fede al momento dell'acquisto (art. 702 cod. civ.; diversamente il diritto canonico che è rimasto fedele al principio: mala fides superveniens nocet: cod. iur. can. c. 1512). Il possesso richiede la capacità giuridica del soggetto e altresì quella dell'oggetto (art. 690 cod. civ.); né ciò è in contrasto con la natura di res facti del possesso perché, se il possesso non è un diritto, è però un rapporto produttivo di diritto.
b) Compossesso: il possesso non può appartenere contemporaneamente a due o più titolari in solidum; il diritto moderno si uniforma in questo punto ai principî del diritto romano; la coesistenza sulla stessa cosa di possessi di natura distinta ha solo l'apparenza di una compossessio.
c) Acquisto, conservazione e perdita del possesso: il possesso si acquista corpore et animo. Quando possa ritenersi verificato l'acquisto è problema che va deciso più con criterî economico-sociali che giuridici. È necessario, perché si attui l'acquisto, che l'agente sia in tal relazione con la cosa che tutti possano riconoscere che essa è di fatto nella sua esclusiva disponibilità. L'acquisto del possesso per diritto moderno, come per diritto romano, deve considerarsi sempre originario, dovendosi escludere la possibilità di una vera successione giuridica nel possesso.
Per il cosiddetto acquisto derivativo del possesso, e per la trattazione del principio dell'art. 707 che pone la regola: "in fatto di mobili il possesso vale titolo", v. tradizione.
Il possesso è perduto, quando è perduta la possibilità di mantenersi con la cosa in quella relazione di fatto che costituisce la visibilità del possesso: il che avviene soprattutto in seguito all'occupazione altrui. Come il possesso può acquistarsi anche a mezzo di rappresentante, così esso si perde anche a mezzo di rappresentante quando venga meno in lui l'animus procuratoris. Non è possibile conservare il possesso solo animo.
Possesso del diritto. - Il nostro codice, pur parificando in apparenza nell'art. 685 al possesso di cosa la possessio iuris, non accoglie la dottrina del diritto comune, contro la quale già l'Alciato e il Fabro e poi il Savigny ebbero a reagire. L'espressione "godimento di un diritto" contenuta nella definizione del possesso non vuole altro significare che godimento di una cosa corporea, il cui contenuto corrisponde a un diritto; non è quindi il diritto, come potrebbe apparire, l'oggetto immediato del possesso, ma la cosa: il diritto non ha che una funzione di limite. Il possesso dei diritti così delimitato nel nostro sistema non si diparte dalla categoria dei diritti reali (usufrutto, uso, servitù, enfiteusi, superficie). Quanto ai rapporti obbligatorî l'inammissibilità di un possesso non è smentita dall'estendersi della tutela possessoria (azione di spoglio) al conduttore, al commodatario, al depositario, ecc.: tutelato in simili casi non è il diritto obbligatorio a essi spettante, bensì e solo la detenzione della cosa che ciascuno di essi mantiene per sé. La coscienza giuridica moderna è aliena dal concepire possesso dei diritti di credito (sia pure aventi esercizio continuativo) o, per lo meno, non ne sente la necessità, provvedendo ai bisogni pratici le azioni che sono concesse al creditore per ottenere dal debitore l'adempimento delle assunte obbligazioni (la giurisprudenza ha, e con ragione, costantemente negato possesso tutelabile a favore dell'utente nei contratti di somministrazione di forza motrice di acqua, di energia elettrica). Quanto al diritto di famiglia, sebbene sia anche legislativamente adottato il concetto di "possesso", sia con riguardo allo stato di coniuge, sia a quello di figlio legittimo (art. 118, 171 cod. civ.), siamo di fronte a un concetto che presenta solo apparentemente affinità col possesso; in verità si ha qui l'esercizio di uno status personale preso in considerazione per una funzione accertativa, con efficacia probatoria dell'esistenza dello status. Quanto al diritto successorio, il possesso dell'eredità di cui all'art. 925 cod. civ. si risolve nel possesso delle cose ereditarie: anche il possesso da parte dell'erede apparente (art. 933) non è possesso del diritto ereditario, ma dei singoli beni che costituiscono il compendio ereditario.
Effetti del possesso. - Oltre la tutela che si attua a mezzo delle azioni possessorie a favore del possessore legittimo molestato o contro il mero detentore vittima di spoglio, vi ha una serie di vantaggi (commoda possessionis) che si ricollegano al possesso (ben 72 ne riuscirono a numerare gli scrittori di diritto comune). Di qui la nota frase: beati possidentes. Ecco i più importanti: la posizione più comoda di convenuto che il possessore assume in giudizio; la minor difficoltà rispetto all'onus probandi potendo il convenuto, in difetto di prova da parte dell'attore, richiamarsi al possideo quia possideo; a favore del possessore si dà luogo al cosiddetto moderamen inculpatae tutelae, oltre che al diritto di respingere la forza con la forza sempre che l'attacco sia ingiusto e attuale (in continenti, non ex intervallo); il possesso, quando è legittimo, porta all'acquisto della proprietà e dei diritti reali, se prolungato per trent'anni; quando poi il possesso è di buona fede e il giusto titolo è trascritto, porta all'acquisto in dieci anni; il possesso di buona fede dei mobili produce l'effetto stesso del titolo; il possessore ha diritto, indipendentemente dalla sua buona o mala fede, all'indennità delle spese sostenute anche per migliorare la cosa, e, se è di buona fede, all'ius retentionis per garanzia del risarcimento; inoltre fa suoi i frutti in base alla sua buona fede iniziale. Il possesso, finalmente, genera una presunzione di proprietà.
Bibl.: Per il diritto italiano v. O. Ruggieri, Il posesso, Firenze 1880; B. Scillami, Sistema generale del possesso e delle azioni possessorie, Genova 1894; G. Cesareo-Comolo, Trattato del possesso e delle azioni possessorie, Torino 1901; B. Dusi, Concetto, estensione e limiti del diritto del possesso, in Studi senesi, XVII-XVIII (1900-1901); E. Finzi, Del possesso dei diritti, Roma 1915; M. Carboni, Il possesso e i diritti reali in genere, Torino 1916; G. Pugliese, La prescrizione acquisitiva, Torino 1921, p. 204 segg.; P. Bonfante-F. Maroi, in B. Windscheid, Pand., Torino 1925, V, p. 762 segg.; L. Barassi, Il possesso, Milano 1932; A. Montel, Il possesso di buona fede, Padova 1934. Per il diritto francese: R. Pothier, Traité de la possession (in Oeuvres, Parigi 1846, IX dell'ediz. Bugnet); W. Belime, Traité de la possession, Parigi 1847; L. Wodon, Traité de la possession, Bruxelles 1886; M. Planiol-G. Ripert-M. Picard, Les biens, Parigi 1926 (vol. III del Traité), p. 154 segg. Per il diritto austriaco: A. Randa, Der Besitz nach öst. Recht, Lipsia 1895. Per il diritto germanico: F. Kniep, Der Besitz des BGB., Jena 1900; R. Saleilles, La théorie possesssoire du cod. civ. allem., in Rev. crit., XXXII-XXXIII (1903-904); E. Rohde, Studien im Besitzrechte, Düsseldorf 1910-13.
Azioni possessorie. - La tutela del possesso è affidata a due azioni, di cui sono diversi i presupposti e gli effetti: l'azione di reintegrazione, e l'azione di manutenzione. Oltre queste esistono altre azioni, che sogliono essere denominate "possessorie" perché il semplice possessore è legittimato ad esercitarle, indipendentemente da ogni prova che il suo possesso corrisponda a uno stato di diritto: tali azioni, che a stretto rigore non possono ritenersi possessorie perché non costituiscono del possesso una speciale difesa, sono le denuncie di nuova opera e di danno temuto (v. opera nuova, denuncia di; danno temuto, azione di, App. II, pag. 158).
L'azione di reintegrazione è accordata a chiunque sia stato violentemente od occultamente spogliato del possesso, qualunque esso sia, di una cosa mobile o immobile (art. 695 cod. civ.) per ottenere di essere reintegrato nel proprio possesso, e costituisce una naturale e immediata derivazione dalla massima canonistica: spoliatus ante onmia restituendus. Poiché tende nella sua essenza a impedire la violenza privata e la frode, difende qualsivoglia possesso, sia esso di buona o di mala fede, "contro qualsivoglia persona, fosse anche il proprietario delle cose di cui è patito lo spoglio" (art. 696 cod. civ.). Per la stessa ragione essa esige una pronta reazione contro l'atto illecito: pertanto il possessore spogliato non può più esercitare la reintegranda dopo un anno dal sofferto spoglio. Infine, sempre coerentemente con la propria natura essenziale, l'azione di reintegrazione è un'azione personale, che spetta cioè soltanto contro l'autore dello spoglio violento o clandestino e non consente di riprendere il possesso della cosa quando questa si trovi presso terzi. L'azione di manutenzione spetta a chi, trovandosi da oltre un anno nel possesso legittimo di un immobile, di un diritto reale o di una universalità di mobili, venga in tale possesso molestato. Egli può, entro l'anno dalla molestia chiedere la manutenzione del possesso medesimo (art. 694 cod. civ.).
Per manutenzione s'intende la cessazione della molestia, e molestia della cosa quando non si sia estrinsecata in uno spoglio violento o clandestino. L'azione di manutenzione non protegge il possesso qualunque esso sia, bensì soltanto il possesso legittimo. E legittimo è, secondo la nostra legge, soltanto quel possesso che sia, insieme, "continuo, non interrotto, pacifico, pubblico, non equivoco, e con animo di tenere la cosa come propria" (art. 686 cod. civ.). Pertanto al convenuto in forza dell'azione di manutenzione è consentita la exceptio vitiosae possessionis, che non solo è esclusa per l'azione di spoglio, ma neppure era ammessa, come assoluta dal diritto romano, il quale ne conteneva l'efficacia soltanto fra le parti (uti... nec vi nec clam nec precario alter ab altero possidetis).
Altra qualifica del possesso, come presupposto dell'azione di manutenzione è la sua durata da oltre un anno nel momento in cui la molestia viene recata. Questo requisito si riconnette, come vedemmo, all'istituto della Gewere, che venne fuso e confuso, nella pratica medievale, con l'interdetto romano uti possidetis, dando vita alla complainte en cas de saisine et de nouvelleté e al mandatum de manutenendo.
Infine l'azione di manutenzione protegge soltanto il possesso di beni immobili o di diritti reali sopra immobili altrui o di universalità di mobili. Ne mancano quanti, eccezione fatta per il conduttore (articoli 1581, 1582 cod. civ.), detengano una cosa, nel proprio interesse, ma in nome altrui, come ad esempio il creditore anticretico. Ne mancano, poi, soprattutto i possessori di singoli beni mobili, mentre ne godono i possessori di universalità di mobili. Largamente controverso è il significato che deve attribuirsi a tale espressione in materia possessoria (art. 695 e 707 cod. civ.). Vi ha chi afferma, coerentemente con l'origine storica dell'azione di manutenzione, che il legislatore, alluda, come vi alludeva il Pothier (Traité de la possession, n. 93), alle universitates iuris e più specialmente alle successioni ereditarie mobiliari; vi ha chi, al contrario, pensa che non possano essere considerate che le universitates facti, essendo le universitates iuris inidonee a formare oggetto di possesso (G. Venzi, in Pacifici-Mazzoni, Istituzioni, III, p. 82 segg. ed altri); vi ha infine chi ritiene ammesse alla manutenzione ambedue le specie di universitas (P. Baratono, Azioni possessorie, n. 165, e altri).
L'azione di manutenzione ha carattere reale e non personale, vuole cioè effettivamente e immediatamente proteggere il godimento del possessore, piuttosto che reprimere l'atto di chi lo molesta. Pertanto essa può valere, dove ne esistano i presupposti, come azione recuperatoria anche verso terzi che, pur non avendo eseguito lo spoglio, per il fatto di tenere la cosa molestano il possesso oltreannale e legittimo della parte attrice. Anche per l'azione di manutenzione è richiesta una sollecita reazione al fatto lesivo del possesso: pertanto il possessore decade dall'azione quando non l'abbia esercitata entro l'anno dalla subita molestia.
Le azioni possessorie meritano un particolare esame non soltanto sotto l'aspetto storico e dogmatico, ma altresì sotto quello essenzialmente processuale. Esse godono infatti di un regime tutto loro particolare, il quale è un riflesso logicamente necessario della loro natura e del loro scopo. L'azione possessoria infatti vuol essere un rimedio essenzialmente urgente e provvisorio: esso non tocca i rapporti giuridici tra le parti, che devono rimanere inalterati, ma semplicemente mira a ristabilire una situazione di fatto che merita di essere tutelata o in sé e per sé, o per il modo col quale venne turbata.
Conseguentemente:
1. l'azione si estingue se non venga esercitata, come si vide, entro l'anno dallo spoglio o dalla molestia;
2. per conoscere delle azioni possessorie, e altresì delle denunce di nuova opera e di danno temuto, è giudice competente sempre e soltanto, senza limite di valore, il pretore (art. 82 cod. proc. civ.) che, come giudice unico, e soggetto a minori formalità, più si mostra adatto a un rapido e energico intervento. Inoltre al pretore sono concesse, in materia possessoria, speciali facoltà e speciali imposizioni, che sono sempre rivolte alla rapida reintegrazione dell'ordine giuridico leso o minacciato. Così l'art. 696 cod. civ., dispone che "la reintegrazione deve ordinarsi dal giudice, premessa la citazione dell'altra parte, sulla semplice notorietà del fatto, senza dilazione e con la maggiore celerità di procedura". E gli articoli 938 e 940 del codice di procedura civile consentono persino al pretore, adito con una denuncia di nuova opera o di danno temuto, di provvedere sul semplice ricorso del denunciante inaudita altera parte, salva naturalmente, dopo eseguito il provvedimento temporaneo, la discussione della controversia avanti al giudice competente;
3. è fatto espresso divieto di cumulare o intrecciare la controversia relativa alla spettanza del diritto corrispondente (petitoria).
Il principio classico: separata debet esse possessio a proprietate, è rimasto tenacemente inalterato, anzi rafforzato nella secolare evoluzione, e si trova tuttora sancito dal nostro diritto positivo. "Il giudizio possessorio, dispone l'art. 445 cod. proc. civ., finché non sia stata pronunciata la sentenza e questa non sia eseguita interamente, impedisce al convenuto di promuovere il giudizio petitorio". Colui che ha violato lo stato di fatto deve anzitutto assoggettarsi alla restituzione in integro di esso; ridonando al possessore spogliato o molestato la più favorevole posizione processuale di convenuto: e non gli è consentito di esercitare l'eccezione feci, sed iure feci. Rispettivamente "l'attore in giudizio possessorio, finché questo è pendente, non può promuovere il giudizio petitorio, salvo che rinunci agli atti e paghi o depositi le spese" (art. 445 cod. proc. civ.). E infine: "chi ha istituito il giudizio petitorio non può più promuovere il giudizio possessorio" (art. 443 cod. proc. civ.). Non è impedito, però, l'esercizio cumulativo o alternativo o successivo delle due azioni possessorie contro lo stesso fatto lesivo del possesso.
L'azione possessoria, così come risulta dal sommario profilo che se ne è tracciato, si presenta con un aspetto veramente singolare nel sistema dei diritti. Introdotta a tutela di uno stato di mero fatto, prescindendo volutamente da ogni diritto di possedere che spetti al possessore stesso o ad un terzo, essa appare, infatti, priva di un corrispondente diritto sostanziale. Pertanto essa deve, secondo l'insegnamento del Chiovenda, essere classificata tra le mere mioni tendenti "ad un bene senza che vi sia, o che si sappia se vi sia, alcun altro diritto soggettivo in colui che ha l'azione" (G. Chiovenda, Principî, 3ª ed., p. 51).
Bibl.: cfr. soprattutto per il diritto processuale vigente, oltre i maggiori trattati del diritto processuale, P. Baratono, Delle azioni possessorie, Ivrea 1876; A. Aiello, Le azioni posessorie nel diritto civile italiano, I, Savignano di Romagna 1903; B. Brugi, Azioni possessorie, in Digesto italiano; G. Lomonaco, Delle distinzioni dei beni e del possesso, 1ª ed., Napoli 1891; 2ª ed., ivi 1907; rist. Torino 1922 (nel trattato Il diritto civile italiano, iniziato da P. Fiore).