Potere
(XXVIII, p. 117)
Non tutto ciò che il linguaggio comune definisce potere è tale per le scienze sociali. In primo luogo, non lo è la capacità di disposizione e di manipolazione di beni e risorse naturali. Il cosiddetto p. sulla natura non interessa gli studi sul p. se non quando, e solo quando, incide sulle relazioni di p. fra gli uomini. In secondo luogo, non ogni capacità di perseguire i propri fini è catalogabile come potere. La capacità di perseguire i propri fini è, piuttosto, un possibile sinonimo di libertà, non di potere. Definiamo libero (anziché potente) quell'individuo che è in grado di perseguire i propri scopi in assenza di coercizione esercitata da altri individui (von Hayek 1960). Da queste due 'esclusioni' discendono due conseguenze: il p. di cui si occupano le scienze sociali è una relazione fra individui, in taluni casi diretta e in taluni casi mediata, filtrata, da organizzazioni e istituzioni; inoltre, il p. è connesso alla libertà nel senso che, essendo incorporata nel p. un'ineliminabile componente coercitiva (Bourricaud 1961; Chazel 1992), l'esercizio del p. comporta sempre una riduzione della libertà altrui. Se prendiamo, per es., la definizione di M. Weber secondo cui il p. designa la possibilità di imporre, in una relazione sociale, la propria volontà "anche di fronte a un'opposizione", ne consegue che colui su cui il p. è esercitato viene privato della libertà di comportarsi come si comporterebbe se l'esercizio del p. non si fosse manifestato. Adattando una distinzione di T. Parsons (1963), il p. in senso stretto corrisponde, in questa prospettiva, al 'potere su' (altri individui), mentre la libertà corrisponde al 'potere di' (fare ciò che si vuole).
Da queste prime battute risulta che il p. è assimilabile a una relazione causa-effetto: il comportamento di A (colui che esercita il p.) causa il comportamento di B (colui su cui il p. si esercita). Questa relazione di causa-effetto è solo modificata, ma non annullata, in presenza del fenomeno delle 'reazioni previste'(Friedrich 1963): l'aspettativa di B che A lo punirà se non si comporterà come (egli, B) presume che A desideri. In questo caso, la causa del comportamento di B non è un comportamento di A ma un'anticipazione mentale di B sui desideri di A.
Quattro sono i modi più comuni di distinguere i diversi tipi di potere. Il primo è quello che li differenzia in ragione del grado di istituzionalizzazione delle relazioni sociali in cui si incarnano. Distingueremo così fra p. stabilizzati (istituzionalizzati), veicolati da istituzioni, e p. instabili che danno vita a relazioni sociali transitorie (Popitz 1986). Una seconda distinzione fa leva sulle ragioni dell'obbedienza: tale è la tipologia weberiana del p. legittimo. Una terza distinzione utilizza come criterio tipologico le risorse del p.: tale è la classificazione (Russell 1938) che distingue p. economico, politico e culturale. Infine, tipi di p. diversi possono essere individuati in ragione dell'ambito su cui si esercitano. Il p. di A su B può riguardare una limitatissima porzione delle attività di B oppure può dilatarsi - come avviene nelle cosiddette istituzioni totali - fino a includere ogni aspetto della vita e delle azioni di B.
Le antinomie del potere
Nella letteratura sul p. si confrontano concezioni assai diverse tra loro. Le principali divisioni possono essere ricondotte a due dimensioni.
a) Potere come relazione fra individui vs. potere 'strutturale'. Questa divisione si sovrappone, anche se non del tutto, a quella che separa l'individualismo e l'olismo metodologici. Secondo l'interpretazione individualistica, il p. è esclusivamente una relazione fra individui. Essa è tale anche nei casi in cui sono coinvolti gruppi, istituzioni, Stati ecc.: in questi casi, nell'impostazione individualistica, il p. è sempre e comunque esercitato da individui, che operano 'in rappresentanza ', o 'a nome', di gruppi, istituzioni, Stati ecc., su altri individui. La definizione di Weber sopra citata, così come le interpretazioni degli autori che a essa si richiamano, per es. R. Dahl (1963), si inscrive, per lo più, nella tradizione individualista.
Diverso è l'orientamento della scuola olista. In questo caso, il p. è il frutto di un'azione impersonale, esercitata da strutture sociali, che 'costringe', vincola, i comportamenti umani e che distribuisce in modo ineguale le risorse dell'influenza sociale. Dell'impostazione olistico-strutturale si danno molte varianti. C'è, innanzitutto, quella marxista. Nella concezione, per es., di N. Poulantzas (1968), il p. sociale si manifesta per il tramite di strutture (il regime di proprietà privata dei mezzi di produzione) che creano una permanente disuguaglianza, sia di libertà d'azione sia di influenza sociale, fra gli uomini. Nella versione neomarxista di S. Clegg (1974), il p., modalità di interazione sociale, va distinto dal dominio, che dipende dal modo di produzione. Le strutture di dominio decidono delle risorse che gli attori possiedono e, quindi, delle possibilità di farne uso in relazioni di potere. Anche al di fuori della tradizione marxista si hanno esempi di concezioni olistico-strutturali del potere. Per es., di questo tipo sono, nel campo delle relazioni internazionali, le concezioni, peraltro fra loro diversissime, di K. Waltz (1979) e di S. Strange (1988). Per Waltz, la potenza relativa degli Stati è inscritta nella struttura del sistema internazionale, di cui elemento centrale è, appunto, la diseguale distribuzione di potenza. Per Strange, il p. internazionale dipende da quattro fondamentali strutture: la struttura della produzione, la struttura della sicurezza, la struttura finanziaria, la struttura della conoscenza.
Ancora, a questa impostazione va ricondotta la teoria delle 'non decisioni'. In polemica con la teoria decisionale del p. (Dahl 1961), P. Bachrach e M.S. Baratz (1970; v. anche Lukes 1974), hanno sostenuto che il p. che conta, quello che maggiormente condiziona, plasma le relazioni sociali, non si esercita direttamente ma, indirettamente, tramite strutture che fungono da filtro e impediscono che nella 'agenda politica' della comunità entrino quelle decisioni che potrebbero sconvolgere le gerarchie sociali date.
Talora, impostazione individualista e impostazione olista vengono combinate. Un esempio di questo tipo si deve a M. Mann (1986), per il quale dobbiamo distinguere fra 'autorità' e 'p. strutturale'. L'autorità è, in senso weberiano, il p. politico legittimo, ed è esercitata, per il tramite di organizzazioni e istituzioni, da individui su altri individui. Il p. strutturale, invece, è una forma impersonale di p. esercitata da istituzioni (e non da individui). Sfruttando questa distinzione, Mann ha sostenuto che la società moderna (in particolare, occidentale) ha contemporaneamente assistito a un vistoso declino dell'autorità (sotto l'impatto della secolarizzazione, dell'emergere della democrazia di massa, della corrosione delle antiche gerarchie sociali, del venir meno della disponibilità da parte dei cittadini all'obbedienza incondizionata ai comandi impartiti dalle pubbliche autorità) e all'impetuosa crescita del p. strutturale, del controllo e del condizionamento sulla vita di quegli stessi cittadini (avviluppati in fittissime, labirintiche reti di leggi e regolamenti di ogni tipo), esercitati da impersonali, anonime agenzie burocratiche. Anche A. Giddens (1984), con la sua teoria della 'dualità', dell'interazione fra azione e struttura, si colloca all'incrocio delle due tradizioni: Giddens, come i neomarxisti, sostiene che il p. (relazione fra individui) va distinto dal dominio (inscritto nelle strutture), ma, al contrario di loro, non riduce la struttura a una forma di dominio economico né postula una dipendenza unilaterale del p. dal dominio.
b) Potere come dominio vs. potere come scambio. In questo caso, più che a una divisione secca fra due contrapposti blocchi di teorie del p., conviene pensare a un continuum. A un estremo collocheremo le teorie che trattano il p. come pura relazione di comando-obbedienza sostenuta da risorse coercitive. Potremo parlare di p. come 'dominio': il p., in questa prospettiva, è una relazione sociale che dà luogo a giochi a somma zero. Gli elitisti classici - V. Pareto, G. Mosca, R. Michels, ma anche Weber nei suoi scritti di sociologia politica - o neoelitisti come Ch. Wright Mills (1956) o, più di recente, sulla sua scia, G. Miglio (1988), hanno proposto questa concezione del potere.
Spostandoci lungo il continuum, incontreremo, nella zona intermedia, quelle teorie per cui il p., quando si incarna in relazioni sociali istituzionalizzate (stabilizzate), presuppone sempre una condizione di relativa 'reciprocità': l'esercizio del p. presuppone un consenso di massima da parte di coloro che lo subiscono, una qualche forma di figurato (e revocabile) pactum subiectionis. Per G. Ferrero (1942), il p. può anche esercitarsi sfruttando solo la paura, come avviene nei regimi dispotici, ma la sua stabilità presuppone sempre il consenso. E il consenso dipende dall'esistenza di un accettato e condiviso principio di legittimità (ciò che Ferrero definisce i Geni invisibili della città). Per J. Ortega y Gasset (1921), il p. sociale presuppone sempre il consenso dell'opinione pubblica, venendo meno il quale qualunque p. è destinato a decadere e a essere abbattuto. Condizione di esercizio del p. stabilizzato (diverso dal p. esercitato una tantum, per es., da un rapinatore armato) è il consenso dei subordinati.
All'altro estremo del continuum troveremo le teorie che assimilano il p. a una relazione di scambio (Blau 1964). La relazione resta asimmetrica: nello scambio esercita più p. chi può ottenere anche altrove le risorse di cui l'altro dispone, mentre quest'ultimo (la parte più debole nel rapporto) ha vitale necessità delle risorse controllate dal primo. Ma, in tal caso, la relazione di p. non è assimilabile a un puro esercizio di comando e di obbedienza. Anche chi è in posizione subordinata esercita, entro limiti più o meno ristretti, p. nei confronti del sovraordinato. In tale prospettiva, le relazioni di p. diventano giochi a somma variabile. In versioni estreme (Leoni 1997), l'accentuazione della dimensione dello 'scambio' può arrivare fino a eliminare del tutto, dalle relazioni di p., la componente coercitiva.
Ancorché non del tutto coincidente, la distinzione fra il potere-dominio e il potere-scambio si interseca infatti con un'altra distinzione: quella fra le teorie che enfatizzano il ruolo della coercizione e le teorie che lo minimizzano. Se le prime vanno ricondotte al mainstream, ossia alla tradizione del realismo politico, che da N. Machiavelli a Th. Hobbes, passando per gli elitisti, arriva alle più sofisticate elaborazioni contemporanee (Wrong 1979), le seconde si collocano in posizione più eccentrica. Nell'ambito di una più generale teoria della politica (antirealistica), che recupera e rielabora categorie della classicità greca, H. Arendt (1958), per es., assume il p. come fondato sull'opinione e lo definisce "capacità di agire di concerto" (1970). Anziché una relazione verticale, e asimmetrica, fra chi comanda e chi ubbidisce, il p. diventa il 'mezzo circolante' di relazioni orizzontali di cooperazione sociale. Coerentemente, esso viene rigidamente separato non solo dalla violenza (vista come l'antitesi del p.) ma anche dalla forza. Viene, in sostanza, eliminata la dimensione coercitiva del potere.
Dimensione coercitiva e non coercitiva vengono infine combinate nella teorizzazione di T. Parsons (1963; ma v. anche Deutsch 1963 e Luhmann 1975). Qui la distinzione è fra gerarchia di autorità, cui pertiene l'esercizio (o la minaccia) della coercizione, delle sanzioni, e il p. - assimilabile a moneta circolante, del cui valore di scambio è garante la gerarchia di autorità - concepito da Parsons come strumento di mobilitazione degli impegni in vista di scopi collettivi.
La politica come potere
L'identificazione fra politica e p. - talché studiare la politica significherebbe, essenzialmente, studiare il p., le sue modalità di conquista e di esercizio, nonché le configurazioni istituzionali cui le relazioni di p. danno luogo - è una ricorrente tentazione della scienza politica. È questa la tradizione del realismo politico che, in età moderna, ha in Machiavelli la sua principale fonte di ispirazione. Fra gli elitisti italiani è stato soprattutto G. Mosca, con la sua teoria della classe politica, a dare massima dignità teorica, a cavallo fra Ottocento e Novecento, a questa impostazione.
Molti altri autori (per es., Catlin 1930), sulla scia di Mosca, hanno ribadito l'identificazione fra politica e potere. Tuttavia, si tratta di una scelta che lascia aperti troppi problemi (Stoppino 1989).
Il problema principale è che, essendo il p. una componente di tutte le relazioni sociali, la sua identificazione con la politica porta a una dilatazione incontrollata e inarrestabile della politica; si pone quindi il problema di come isolare il p. politico da altri tipi di p. presenti nella società. Si noti che anche la celebre classificazione di Russell (v. sopra) che distingue il p. politico da quello economico e da quello culturale, alla luce delle diverse risorse utilizzate, non è affatto priva di ambiguità. Chi utilizza quella classificazione, infatti, pensa di isolare e di distinguere il p. politico da altre forme di p. assumendo che specifico del p. politico sia il ricorso alla coercizione. Questa assunzione, tuttavia, è problematica, dal momento che la coercizione, come abbiamo visto, è un elemento caratterizzante del p. in quanto tale, non del solo p. politico. Risulta così difficile identificare, semplicemente, p. e politica. Il fatto è che la presenza della coercizione (o della minaccia della coercizione) è condizione necessaria per identificare il p. politico, ma non sufficiente. Altra condizione essenziale per definire la politica è il fatto che le lotte per il p. abbiano per posta decisioni 'collettivizzate', decisioni che si impongono, con forza vincolante, sull'intera collettività.
Fra i teorici della politica che hanno ripreso e rielaborato l'insegnamento degli elitisti italiani è stato soprattutto H.D. Lasswell che ha tentato di dare più spazio possibile al ruolo del p. e, insieme, di sfuggire ai limiti dell'elitismo classico. Lasswell, infatti, nella sua formulazione più matura (Lasswell, Kaplan 1950), identifica il p. politico nella partecipazione alle decisioni più significative per la vita della società. L'élite del p. si definisce per il suo controllo su alcune risorse strategiche (gli strumenti della violenza, i mezzi di produzione, la produzione di simboli politici). Anche Lasswell, tuttavia, in quella che resta pur sempre una delle più interessanti analisi del p. politico, non sfugge, come osserva Stoppino (1989), al rischio di utilizzare concetti troppo generali perché essi siano davvero adeguati alle necessità di una teoria empirica della politica.
Resta il fatto che nella scienza politica l'enfasi sul p. è alla base di studi fecondi sulle élites politiche (Stoppino 1968). In particolare, si deve a questa tradizione l'approfondimento delle caratteristiche dei regimi democratici e di come il p. si distribuisce e si esercita in tali regimi. Il dibattito che, sulla scia di J. Schumpeter (1944), si è svolto fra cosiddetti elitisti e cosiddetti pluralisti (Stoppino 1989), è sicuramente servito a darci un'immagine più realistica, e una conoscenza più approfondita di quella disponibile in passato, del funzionamento delle 'poliarchie' (Dahl 1971), i regimi politici che, in modo necessariamente imperfetto, si ispirano alla formula politica liberaldemocratica.
Modernità e potere politico
Lo studio del p., e del p. politico in particolare, non è fine a se stesso. Studiando i rapporti di p. si vogliono, per lo più, comprendere meglio certi aspetti essenziali del funzionamento e delle trasformazioni delle società moderne. Ci si chiede, pertanto, se con l'avvento della moderna società di massa, democratica, individualista e capitalista, il p. politico si sia rafforzato o si sia indebolito; se siano stati ridimensionati, grazie alla democrazia, peso e ruolo del p. politico rispetto all'età predemocratica, oppure se questo peso e questo ruolo si siano grandemente accresciuti; se la democrazia liberale sia riuscita a vincolare, costituzionalizzandolo, il p. politico, a sottomettere, almeno entro certi limiti, il governo degli uomini al governo delle leggi; ci si chiede, ancora, se lo sviluppo del mercato abbia tolto spazio allo Stato, abbia ridotto, o sia in procinto di ridurre, per questa via, il p. politico, o se, al contrario, lo sviluppo del mercato abbia rafforzato il p. politico aumentando le risorse a sua disposizione. È difficile dare a queste domande risposte univoche. E ciò significa che restano problematici aspetti cruciali della 'modernità', come dimostra, in modo esemplare, l'esame di due importanti teorie, rispettivamente proposte dal filosofo e scienziato della politica B. de Jouvenel e dall'economista e sociologo L. von Mises.
Per de Jouvenel (1945), la storia del mondo moderno è, in larga misura, la storia di un processo di enorme accumulazione di p. politico. Nell'età moderna, con l'emergere dello Stato, il p. politico si procura risorse finanziarie, strumenti di amministrazione e di controllo (burocrazie) e mezzi coercitivi (eserciti permanenti e corpi di polizia professionali) sconosciuti nelle epoche precedenti. Sono i mezzi mediante i quali lo Stato riesce progressivamente a indebolire, e in taluni casi a distruggere, tutti i preesistenti poteri sociali. La marcia del p. politico appare inarrestabile; le continue guerre non fanno che rafforzarlo. Anche le rivoluzioni, sostiene de Jouvenel sulla scia di Ch. de Tocqueville, lo rafforzano. Il costituzionalismo, nell'età liberale, rappresenta un tentativo di imbrigliarlo parzialmente, di frenarne almeno in parte la crescita, ma si tratta, in sostanza, di un fuoco fatuo. Con la democrazia di massa il p. politico si libera degli ultimi residui vincoli: un re è infatti vincolato alla tradizione, ma un ceto politico che si autodefinisce depositario della volontà popolare non conosce limiti o vincoli di sorta. Con lo 'Stato provvidenza' il p. 'democratico' amplia al massimo la sua sfera di intervento. La democrazia di massa tende a convertirsi in democrazia totalitaria, in tirannia delle minoranze in nome e per conto delle maggioranze.
Diversa è la prospettiva di von Mises. Per von Mises (1927), ciò che caratterizza il mondo moderno non è lo sviluppo dello Stato ma quello del mercato. Il mercato è il luogo in cui si realizza la sovranità del consumatore, è lo strumento per eccellenza di una cooperazione pacifica che si realizza tramite la concorrenza. Lo sviluppo dei mercati è alla base della società libera. Libertà politiche e democrazia ne sono indispensabili corollari. Con il passaggio dalle economie di sussistenza all'economia di mercato si è data per la prima volta agli uomini la possibilità di essere liberi, non solo dal bisogno ma anche, ciò che qui più ci interessa, dall'oppressione esercitata dai detentori del p. politico. Con lo sviluppo del mercato e delle connesse libertà politiche, il p. politico è sospinto entro confini più angusti di quelli esistenti nel passato. Al p. politico restano, certamente, fondamentali funzioni: vegliare sull'osservanza delle regole che permettono il funzionamento dei mercati, sanzionare coloro che approfittano della libertà per coartare la libertà altrui, ma nulla più di questo. Anche la guerra, grande 'matrigna' del p. politico, è destinata a perdere importanza in un mondo in cui diventa sempre più facile procurarsi sul mercato quei beni che in passato potevano essere ottenuti solo con i saccheggi e le conquiste militari. Naturalmente, secondo von Mises (1944), la società libera, fondata sul mercato, è costantemente minacciata dai tentativi del p. politico di uscire dal recinto in cui essa cerca di confinarlo. Nel 20° secolo è il socialismo burocratico (nelle sue diverse varianti, di destra e di sinistra) che cerca di espandere quei confini tramite l'interventismo statale e il protezionismo. Se e quando esso vince, non fa che distruggere i fondamenti stessi della civiltà moderna, riportando la penuria economica, l'oppressione politica e le guerre proprie delle età precedenti.
Per de Jouvenel, l'età moderna è caratterizzata da una crescita senza precedenti del p. politico. Per von Mises, è dominata dal conflitto fra la tendenza al drastico ridimensionamento del ruolo e del peso del p. politico per effetto dello sviluppo del mercato e gli sforzi dei detentori del p. politico di riprendersi il ruolo che essi avevano nelle età precedenti.
Fenomeno elusivo e ambiguo per eccellenza, il p. si presta a essere considerato in modi assai differenti. Come le opposte visioni di de Jouvenel e di von Mises testimoniano, il p. politico, fenomeno per eccellenza elusivo e ambiguo, si presta sempre a una molteplicità di letture e di interpretazioni.
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