POVERTÀ E IMPOVERIMENTO
In un mondo complesso e globalizzato i concetti di p. e i., fra loro strettamente interrelati, si prestano a essere oggetto di varie interpretazioni e definizioni da contestualizzare in relazione al periodo, alla popolazione, al livello di sviluppo e al territorio di riferimento. Una prima distinzione generale è fra le definizioni di povertà assoluta e povertà relativa che hanno carattere unidimensionale e la definizione di povertà in senso più ampio e multidimensionale. La povertà assoluta è misurata statisticamente attraverso complesse rilevazioni che producono indicatori di reddito a livello nazionale o internazionale con una valenza soprattutto comparativa nello spazio e nel tempo. Ma non ne esiste un unico valore: se si fa riferimento ai Paesi poveri, il livello di soglia di povertà estrema è pari a un reddito giornaliero inferiore a 1,25 dollari al giorno, mentre, nei Paesi più ricchi come quelli europei, per es., la soglia di rischio di povertà è necessariamente più alta ed è identificata dall’Eurostat nel 60% del reddito mediano di ogni singolo Paese europeo dopo i trasferimenti sociali. Tali parametri risultano funzionali alle politiche sia nazionali sia internazionali: un esempio ne è l’insieme dei Millennium development goals (MDGs) delle Nazioni Unite – otto obiettivi che tutti i 193 Stati membri dell’ONU si sono impegnati a raggiungere per l’anno 2015 – che prevedono il dimezzamento del numero dei poveri entro l’anno 2015.
In generale si cerca di ridurre il livello di povertà assoluta attraverso un aumento del reddito, ma questa è una posizione fuorviante, perché tale crescita, intesa come aumento del PIL (v.), copre soltanto uno degli aspetti della povertà, fenomeno complesso che si ripercuote sull’individuo, ma anche sulla società in tutte le sue dinamiche. Nel tempo variano anche le cause della povertà a livello internazionale: per es., il fenomeno dei cambiamenti climatici (v.), non considerato nel passato rilevante, sta originando fenomeni di impoverimento progressivamente più gravi nei Paesi che ne subiscono le dirette conseguenze, come siccità, desertificazione, penuria di cibo, difficoltà di accesso all’acqua potabile, innescando movimenti migratori di massa di rilevanza globale che riguardano nuovi poveri (i cosiddetti ecorifugiati). Nonostante i progressi realizzati dalle organizzazioni internazionali (Banca mondiale, UNDP, United Nations Development Programme, OECD, Organisation for Economic Cooperation and Development, i governi, le organizzazioni non governative) per abbattere il livelli della fame nel mondo – nel biennio 2011-13 hanno sofferto la fame 842 milioni di individui – e anche della povertà estrema (che colpiva 1,2 miliardi nel 2010, in calo rispetto al va-lo re di 1,9 miliardi del 1990), si prevede che quasi 1 miliardo di persone in più possa trovarsi in povertà estrema entro il 2030 in assenza di politiche internazionali più incisive e di una strategia articolata di riduzione della povertà (diffusione dell’istruzione e della partecipazione democratica, uguaglianza di genere, sviluppo sostenibile, abbattimento della mortalità infantile, accesso ai servizi sanitari). La povertà relativa, invece, è indicata da misurazioni della disuguaglianza nel reddito in rapporto alla situazione di riferimento (Paese, regione, area geografica, gruppo sociale ecc.) e statisticamente identifica il gruppo familiare come oggetto di analisi (attraverso scale di equivalenza che rappresentano moltiplicatori di reddito secondo la composizione numerica del gruppo familiare). La povertà relativa implica quindi un concetto di ‘distanza’ del reddito tra gruppi sociali ed è più vicina al concetto di disuguaglianza.
Le idee di p. e i. si ricollegano a fenomeni dunque molto più complessi, in cui aspetti quantitativi e qualitativi si fondono in relazione a uno specifico ambito sociale. Essere poveri in un Paese poco sviluppato è diverso dall’esserlo in Paesi maggiormente industrializzati dove l’assenza di povertà non significa esclusivamente poter nutrirsi, vestirsi, riscaldarsi, ma implica anche la possibilità di vivere pienamente le proprie potenzialità di realizzazione intellettuale, culturale, relazionale. Ciò era già sottolineato dal premio Nobel Amartya Kumar Sen, nel suo Poverty and famines:an essay on entitlement and deprivation (1981), attraverso la distinzione dell’entitlement, la possibilità di accesso degli individui ai beni e ai processi produttivi per soddisfare i propri bisogni, e della capability, ossia il possesso degli strumenti che rendono l’individuo capace di essere uomo in maniera completa. Con riferimento alla fase storica attuale, è possibile osservare ulteriormente come si sia trasformata la connotazione dei fenomeni di p. e i. in conseguenza della grande recessione economica che ha colpito le economie occidentali dal 2007. La devastante crisi subita dai Paesi ricchi, con il suo strascico di disoccupazione, precarizzazione dei posti di lavoro, deflazione (v. inflazione e deflazione), contrazione dei consumi (prima considerati abituali), calo del risparmio, difficoltà di inserimento giovanile nel mondo del lavoro, ha dato luogo a nuove forme di povertà colpendo soprattutto la classe sociale media che aveva, prima della crisi, raggiunto condizioni di benessere materiale e immateriale assolutamente soddisfacenti, mettendone in crisi la stabilità e, di fatto, ‘proletarizzando’ cioè impoverendo le famiglie prima benestanti.
L’impoverimento così inteso ha colpito fasce sociali che non si trovavano ai margini della società, ma che erano pienamente inserite in un contesto produttivo e professionale legato anche a livelli di istruzione e culturali elevati. La crisi dei debiti sovrani che ha fortemente indebolito anche le capacità degli Stati occidentali di preservare i livelli di welfare vigenti, l’indebolimento delle forme di regolazione collettiva del lavoro e degli strumenti di protezione e assistenza sociale, hanno reso vulnerabile anche la classe media, allargando il divario della forbice sociale fra ricchi e vecchi e nuovi poveri.
Imprenditori, professionisti, insegnanti, artigiani, comunque inseriti nel circuito lavorativo, di fronte alla contrazione della domanda di consumo, alla perdita di posti di lavoro nelle imprese, alla diminuzione degli strumenti di protezione sociale (v. welfare), alla difficile situazione finanziaria statale e al conseguente taglio delle risorse pubbliche, sono stati colpiti da un processo di impoverimento legato non soltanto alla riduzione del livello di reddito, ma anche all’improvvisa dimensione di instabilità economica che li ha costretti a rinunciare agli standard di consumo personali e dei propri figli esponendoli a una forte vulnerabilità rispetto agli eventi imprevisti della vita quali malattia, in stabilità familiare ecc. (intaccando la cosiddetta sicurezza ontologica di cui parlava Anthony Giddens, 1990). Particolarmente esposti sono gli immigrati che in caso di perdita del lavoro, non avendo appoggi familiari, diventano facilmente homeless, categoria che include soprattutto giovani (1 homeless su 6, il 57,9%, ha meno di 40 anni e il 32% ne ha meno di 34).
Un altro fenomeno di impoverimento ancora più allarmante è quello dell’aumento del numero di giovani che rientrano nell’ambito dei cosiddetti NEET, Not (engaged) in Education, Employment or Training, coloro che hanno perso la volontà, o non trovano l’opportunità a causa delle eccessive difficoltà, di inserirsi in qualunque processo sociale formativo o lavorativo (tab. 1). Tale fenomeno gravissimo perché collegato all’abbandono scolastico precoce, all’impossibilità di una formazione adeguata per l’inserimento lavorativo, riguardava nel 2013 due milioni e mezzo di giovani italiani tra i 15 e i 29 anni, circa il 26% del totale dei giovani sotto i trent’anni, più di 1 giovane su 4, che non studia e non lavora, con una perdita anche di capitale umano per tutta la società. Per avere un raffronto a livello di Unione Europea (dove in media i NEET sono il 15,9% dei giovani) si può considerare il dato della Grecia (28,9%) e di Germania e Francia dove il problema appare più contenuto, rispettivamente con l’8,7% e il 13,8% della popolazione giovanile interessata. La presenza dei NEET è direttamente collegata all’impoverimento e al rischio di marginalizzazione, poiché implica per i giovani non tanto l’essere inseriti in una classe sociale bassa, ma comunque socialmente identificabile, quanto il porsi completamente fuori dalla società. Fra l’altro appaiono più colpiti da questi fenomeni e penalizzati dai processi di impoverimento i soggetti più fragili socialmente rappresentati da donne e bambini (più di un milione di minori italiani vivono in condizioni di povertà assoluta). Un segno di povertà diffusa fra i minori italiani è paradossalmente la presenza ingente di individui in sovrappeso (22,2%) e colpiti da obesità (10,6%), conseguenza della scarsa qualità del cibo e anche della situazione di degrado.
In Italia la situazione di povertà emersa negli ultimi anni è particolarmente critica. Nel 2013 risulta a rischio di povertà un cittadino su quattro, mentre 10 milioni di italiani (il 16,6% della popolazione) risultano senza mezzi e hanno una spesa per consumi molto bassa (rispetto alla soglia di riferimento) tanto da provocare un aumento considerevole degli interventi di sostegno offerti dalla Caritas. La povertà assoluta colpisce il 7,9% delle famiglie (circa 6 milioni di cittadini) che non raggiunge standard di vita accettabili (tab. 2). Il 23,4% delle famiglie (14,6 milioni di persone) vive in una situazione di disagio economico e circa la metà, il 12,4% dei nuclei, si trova in deprivazione materiale grave. Nonostante ci siano differenze territoriali (a livello nazionale risulta più grave la situazione del Mezzogiorno, dove le famiglie che soffrono di deprivazione sono il 40,8% di quel le residenti), anche a livello europeo l’impatto dell’impoverimento è evidente e ha colpito soprattutto sette Paesi dell’Unione Europea: oltre all’Italia, Portogallo, Spagna, Grecia, Irlanda, Romania e Cipro. Il rischio di povertà o esclusione sociale riguarda il 24,5% della popolazione nella UE a 28, e nei Paesi più deboli sopra citati è al di sopra del 27% con valori massimi critici in Romania e Grecia. Il 9,6% (nel 2012 era il 9,9%) della popolazione è in povertà assoluta con picchi in Romania (28,5%) e in Grecia (20,3%).
Complessivamente al 2014 in tutti i Paesi dell’Unione Europea ci sono 124,3 milioni di poveri, 7 milioni in più rispetto al 2010. La prospettiva di risolvere questa complessa situazione è subordinata all’avvio della ripresa economica, ma richiede un intervento articolato di politiche sociali, redistributive, di incremento della produttività, riforme del sistema finanziario e del credito da applicare a livello sia nazionale sia sovranazionale. Questo quadro programmatico è già nelle previsioni della normativa comunitaria (Strategia Europa 2020) che si propone, fra l’altro, l’obiettivo non ancora raggiunto della riduzione di 20 milioni (entro il 2020) del numero delle persone a rischio di povertà.
Bibliografia: A. Giddens, The consequences of modernity, Cambridge 1990 (trad. it. Bologna 1994); A.K. Sen, Inequality reexamined, New York-Oxford 1992 (trad. it Bologna 1992, 20102); Istat, Reddito e condizioni di vita, Roma 2014; Caritas, Terzo Rapporto su impatto della crisi economica in Europa, Roma 2015; Eurostat, Smarter, greener, more inclusive? – Indicators to support the Europe 2020 strategy, Luxembourg 2015; FAO (Food and Agriculture Organization), The state of food insecurity in the world, Roma 2015. Si vedano inoltre: Save the children, L’Italia sottosopra, 4° Atlante dell’Infanzia (a rischio) in Italia, Roma 2013, http://risorse.savethechildren.it/files/comunicazione/atlante%20infanzia%202013/atlante%20italia%20sotto%20sopra%202013.pdf?_ga=1.127116237.1783276732.1440145486; Istat, Noi Italia, Roma 2015, http://noi-italia2015.istat.it/ (20 ag. 2015).