Poverta ed emarginazione
di Paolo Palazzi
Povertà ed emarginazione
sommario: 1. Introduzione. 2. La misurazione della povertà. 3. La povertà nei paesi sviluppati. a) La povertà negli Stati Uniti. b) La povertà in Europa. c) La povertà in Italia. 4. La povertà nei paesi sottosviluppati. a) I paesi poveri. b) La popolazione povera. 5. La lotta contro la povertà. a) Le politiche internazionali contro la povertà. b) Le politiche nazionali contro la povertà. 6. Povertà ed emarginazione. a) Emarginazione nei paesi sviluppati. b) Emarginazione nei e dei paesi sottosviluppati. ▭ Bibliografia.
1. Introduzione
La povertà è un concetto familiare e intuitivo. È abbastanza semplice identificare un povero e distinguerlo da un benestante. Ma, come molti concetti semplici e intuitivi, anche il concetto di povertà nasconde problemi complessi, sia dal punto di vista teorico che da quello della misurazione.
Innanzitutto va precisato che nel senso comune l'essere poveri è considerato un disvalore: di conseguenza la povertà è vista come un male sociale da combattere o comunque da limitare. In questo articolo si prescinderà dall'esaminare le condizioni di povertà causate da scelte esistenziali o etiche, perché esse, in quanto scelte individuali e quantitativamente marginali, non sono socialmente ed economicamente rilevanti. Ci occuperemo invece della povertà e dell'emarginazione in quanto condizioni involontarie di disagio.
La povertà non viene necessariamente riferita alla condizione di singoli individui, ma anche ad aggregazioni politiche (i paesi poveri), geografiche (le regioni povere, i quartieri poveri), di genere e fasce d'età (le donne povere, i bambini poveri) o etniche (i neri poveri, i nativi poveri). In realtà, ognuna di queste definizioni si basa su una inconsapevole valutazione numerica che implica una misurazione della povertà al fine di identificare gli individui poveri e il loro peso numerico in rapporto alla popolazione di riferimento.
La misurazione della povertà può essere quindi considerato il problema chiave, partendo dal quale si evidenziano immediatamente le difficoltà concettuali e i problemi che sorgono nel tentativo di passare da un semplice concetto intuitivo a una trattazione scientifica del problema.
2. La misurazione della povertà
Un primo problema da affrontare è quello della possibilità o meno di individuare una unità di misura attraverso cui confrontare la situazione degli individui rispetto al parametro 'povertà'.
L'aspetto che più spesso viene preso in considerazione è quello della capacità e possibilità degli individui di avere accesso a beni di consumo: si tratta quindi di individuare una unità di misura che indichi questa possibilità. Nel caso in cui la maggioranza dei beni sia costituita da merci - che stanno sul mercato e hanno dei prezzi - l'unità di misura può essere individuata nel reddito. Vedremo in seguito come l'utilizzo del reddito in questa veste presenti molti limiti, ma per il momento prescindiamone. Bisogna individuare, a questo punto, la quantità di reddito che determina la soglia al disotto della quale sia definibile e catalogabile 'l'essere povero'. In altri termini, occorre determinare il valore dei beni necessari al consumo degli individui (un paniere di beni) perché costoro possano non definirsi poveri.
Va detto subito che non ha senso una definizione 'fisiologica' del paniere di beni necessari. Ammesso che sia possibile individuare una quantità di beni minima in grado di mantenere in vita un essere umano, ciò non ha nulla a che vedere con il concetto di povertà. Quindi il problema della povertà non va confuso con quello della fame o delle deprivazioni fisiche, tanto è vero che spesso le condizioni di povertà si associano al problema dell'obesità, e questo non solamente nei paesi sviluppati (v. Peña e Bacallao, 2000).
La situazione di povertà va piuttosto riferita alla vita degli uomini in quanto esseri umani e non solo in quanto esseri viventi. L'essere umano, per mantenersi in vita in quanto tale, ha sì la necessità di acqua e cibo che lo mantengano in forze, ma altrettanto indispensabile è una serie di beni, che possiamo chiamare relazionali, che diano la possibilità di avere relazioni sociali, culturali, affettive, spirituali. È noto infatti che sin dalla sua origine la specie umana ha utilizzato una parte, spesso preponderante, delle proprie risorse materiali per consumi sociali come monili, amuleti, doni, sacrifici, ecc.
Da tutto ciò deriva che una definizione fisiologica - cioè una definizione assoluta di povertà - non ha alcun senso: infatti, mentre è teoricamente possibile (anche se in pratica molto difficile) individuare una quantità assoluta di cibo e risorse in grado di mantenere in vita l'uomo in termini fisici, i beni per il suo mantenimento in vita in quanto essere sociale variano storicamente, socialmente, politicamente e culturalmente. Dobbiamo quindi concludere che non è possibile misurare 'la' povertà, ma che dobbiamo invece misurare 'le' povertà.
Quante e quali sono le povertà? Dipende dagli obiettivi che ci poniamo e dal problema che vogliamo studiare. È difficile fare un discorso unitario sul tema della povertà che vada al di là di alcune osservazioni di base: a) la povertà è un concetto che si riferisce all'essere umano in quanto essere sociale e non puramente fisico; b) la povertà è un concetto relativo, che cambia nel tempo e nello spazio; c) la misurazione della povertà dipende dagli obiettivi economici, politici o di studio che ci si propone di raggiungere; d) la misura della povertà attraverso il reddito è la più semplice e la più utilizzata, ma imperfetta, criticabile e criticata.
La relatività del concetto, del ruolo e della misurazione della povertà porta a una prima grande distinzione: la povertà nei paesi sviluppati e la povertà in quelli sottosviluppati.
3. La povertà nei paesi sviluppati
Trattare inizialmente il problema della povertà nei paesi sviluppati ci permette di confermare quanto detto precedentemente sul concetto di povertà, legato all'essere umano visto come essere sociale e non puramente fisico. La definizione di una soglia di povertà individuale ha generalmente aspetti pratici molto rilevanti nei paesi sviluppati; infatti tale soglia permette di individuare le persone che hanno diritto ad alcuni benefici specifici in termini di reddito aggiuntivo, di accesso gratuito o agevolato a beni o servizi.
Va da sé, quindi, che nei paesi sviluppati la povertà è considerata politicamente, socialmente ed economicamente un male sul quale intervenire. Questo non necessariamente significa che l'esistenza della povertà venga considerata evitabile: gli interventi contro la povertà molto spesso si limitano a tentare di alleviarne gli effetti più negativi.
Ogni paese sviluppato ha un suo criterio di definizione e di misura del livello di povertà, e non potrebbe essere altrimenti: infatti, come abbiamo messo in luce precedentemente, non solo il concetto stesso di povertà varia da situazione a situazione, ma anche le risorse messe a disposizione per gli interventi sono molto diverse da paese a paese e quindi, indirettamente, contribuiscono a fissare i diversi livelli di povertà.
A questo proposito vanno puntualizzati due aspetti particolarmente rilevanti. Il primo è l'individuazione dell'unità di consumo. A tal fine, in moltissimi casi il reddito individuale non ha alcun senso (basti pensare al caso dei bambini), mentre va determinato il reddito della struttura associata che decide il livello di consumo. Nei paesi sviluppati tale struttura consiste generalmente nel gruppo familiare per come è ivi legalmente definito. Il secondo aspetto è la distribuzione del reddito. Adottare l'impostazione di una soglia di povertà implica accettare un concetto binario di povertà: i poveri e i non poveri. La realtà è assai più complessa: abbiamo infatti situazioni molto differenziate in termini di distribuzione del reddito tra la popolazione, sia sopra che sotto il livello di povertà. Indicatori di distribuzione del reddito sarebbero più utili ed efficaci per individuare situazioni sociali ed economiche di disagio, ma generalmente non rientrano nelle normative di definizione istituzionale di povertà.
a) La povertà negli Stati Uniti
Un esempio interessante di misurazione della povertà è quello che fa riferimento agli Stati Uniti. L'interesse è dovuto al fatto che si tratta del paese con il livello di reddito pro capite fra i più elevati del mondo e che senza dubbio è il paese economicamente, politicamente e militarmente dominante lo scacchiere mondiale. Nonostante tale posizione di supremazia, la povertà negli Stati Uniti è un fenomeno tutt'altro che trascurabile, sia sul piano numerico che su quello della teoria sociale ed economica. Per avere un'idea del peso quantitativo della povertà negli Stati Uniti possiamo far riferimento alla tab. I, nella quale sono riportati i dati relativi al numero dei poveri nell'anno 2001.
Il numero degli individui considerati sotto il livello di povertà risulta essere di quasi 33 milioni (11,7% della popolazione), pari a 6,8 milioni di famiglie (il 9,2% delle famiglie). Se poi ci si riferisce a sottogruppi razziali ed etnici si nota immediatamente come più del 20% dei neri e degli ispanici e il 25% delle loro famiglie siano sotto il livello di povertà. Si tratta di cifre rilevanti che scaturiscono da analisi statistiche molto accurate e da una definizione articolata della soglia di povertà. Questa è infatti misurata tenendo conto, come abbiamo rilevato precedentemente, dell'unità di consumo e si colloca tra un reddito minimo pari a 8.494 dollari annui per una famiglia mononucleare (con un componenente di oltre i 65 anni di età) e un reddito massimo di 39.413 dollari per una famiglia composta da più di 8 persone (v. United States Department of Commerce, 2002).
La povertà negli Stati Uniti è un tema molto studiato sia dal punto di vista teorico che da quello della politica economica. L'esistenza, stabile o in leggero aumento, di una rilevante quota della popolazione sotto la soglia di povertà, che molti autori considerano sottostimata, ma soprattutto il fatto che tale povertà si concentri in determinati gruppi etnici della popolazione (neri e ispanici), inducono a mettere in discussione i meccanismi di funzionamento del sistema economico e sociale statunitense. Naturalmente, dalle diverse analisi teoriche derivano le possibili e più svariate politiche finalizzate ad arginare o attenuare il problema della povertà; politiche che vanno da posizioni di rigido non intervento, confidando in soluzioni di mercato, a posizioni di un più o meno accentuato sistema di welfare (v. cap. 5, § b).
b) La povertà in Europa
Tutti i paesi europei hanno prestato una grande attenzione alla misurazione e allo studio della povertà. Interessante è la ricerca, effettuata dall'Ufficio Statistico Europeo (Eurostat), di indicatori che consentano un confronto fra i vari paesi appartenenti all'Europa dei 15. In realtà tale confronto tiene conto di un diverso livello di soglia di povertà nei vari paesi, corrispondente a un reddito pari al 60% della mediana del reddito di ogni singolo paese. Nella tab. II sono riportati i dati relativi al numero dei poveri (che in realtà vengono definiti dalle statistiche europee come soggetti 'a rischio di povertà') e alla loro percentuale sulla popolazione dei 15 paesi europei. I dati sono distinti a seconda che si calcolino o meno i trasferimenti da parte dei singoli Stati a favore della popolazione povera.
Oltre ai dati Eurostat sopra riportati, anche in Europa esistono rilevazioni più approfondite sul reddito e sulle condizioni di vita: esse permettono di costruire indicatori di povertà più accurati e dettagliati, sono facilmente reperibili su Internet (ad esempio, il Luxemburg Income Study, http://www.lisproject.org/), individuano meglio le caratteristiche della povertà in Europa e possono essere utilizzati per approntare politiche e strategie comuni di lotta alla povertà.
Le politiche dei paesi europei volte ad arginare e combattere la povertà sono ancora basate sulle caratteristiche politiche, sociali e culturali dei singoli Stati e sulla struttura del loro welfare. Una politica europea comune di lotta alla povertà è tuttora allo stato embrionale ed è quasi esclusivamente basata su fondi volti a finanziare interventi di sviluppo nelle aree più povere dei singoli paesi della comunità.
c) La povertà in Italia
Anche in Italia, come in tutti i paesi sviluppati, le istituzioni hanno prestato attenzione al fenomeno della povertà. Nel 1984 è stata istituita presso la Presidenza del Consiglio una Commissione di indagine sulla povertà, che nel 1990 ha cambiato il suo nome in Commissione di indagine sulla povertà e sull'emarginazione, con il compito di preparare rapporti periodici. Dal 1998 l'Istituto Centrale di Statistica (ISTAT) rileva, attraverso un'analisi del consumo delle famiglie, il numero delle famiglie e delle persone al di sotto della soglia di povertà.
Il meccanismo di individuazione della soglia di povertà relativa in Italia è il seguente: "Si considera povera una famiglia di 2 persone il cui reddito è inferiore o uguale al reddito pro capite del paese in esame" (v. Presidenza del Consiglio dei ministri, 1992, p. 28); rispetto a tale reddito si considerano delle scale di equivalenza per composizioni familiari diverse da quella standard, che vanno dal 60% per la famiglia mononucleare al 240% per le famiglie di 7 o più componenti (sulle scale di equivalenza, v. Carbonaro, 1990). Dal 1998, invece del reddito pro capite si utilizza il consumo pro capite. Le rilevazioni del numero dei poveri e delle famiglie povere in Italia sono riportate nella tab. III e ci mostrano dal punto di vista quantitativo come il problema generale della povertà in Italia coincida con il problema dello sviluppo del Sud. L'incidenza del numero dei poveri risulta infatti costantemente molto più elevata nelle zone meridionali rispetto alle altre aree del paese.
Oltre che dal punto di vista generale, in Italia la povertà viene analizzata anche prendendo in considerazione caratteristiche specifiche di sottogruppi di poveri. Questo perché è ritenuto importante analizzare non solo quanti sono i poveri, ma anche "quanto poveri sono i poveri" (v. Presidenza del Consiglio dei ministri, 1993, p. 8). In questo quadro l'attenzione viene rivolta a categorie di 'povertà estrema' (senza fissa dimora, malati di mente, nomadi e immigrati), alla loro qualità di vita e alle loro esigenze.
Anche in Italia le politiche contro la povertà si intrecciano con quelle più generali relative al welfare e con i problemi di equità nella tassazione e di ridistribuzione del reddito. L'intervento specifico sulle povertà estreme e sui casi di emarginazione è invece spesso delegato a organizzazioni non governative o di volontariato confessionale e laico, alle quali vengono erogati appositi finanziamenti (sulle politiche contro la povertà in Italia, v. Negri e Saraceno, 1996; v. Gorrieri, 2002; v. Saraceno, 2002).
4. La povertà nei paesi sottosviluppati
Il problema della povertà nei paesi sottosviluppati si pone in modo completamente diverso. Innanzitutto esiste ufficialmente il concetto di 'paesi poveri' distinto da quello di persone povere: istituzioni internazionali come la Banca Mondiale (BM) e il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ne fanno comunemente uso, con conseguenze rilevanti nelle loro scelte di intervento. Diverso problema è quello della popolazione povera misurata in base a standard internazionali, popolazione che, come vedremo, è di fatto concentrata nei paesi sottosviluppati ma non coincide con la popolazione dei paesi poveri. È quindi preferibile tener distinti i due problemi: discuteremo quindi prima dei paesi poveri e successivamente della popolazione povera.
a) I paesi poveri
Il concetto di povertà, riferito a un intero paese, è legato principalmente a un livello di soglia di reddito pro capite. Esiste una categoria di paesi a basso reddito (low income countries) che viene individuata dalla Banca Mondiale; nel 1999 tali paesi - aventi un reddito pro capite inferiore ai 755 dollari annui - erano 64.
Può essere significativo osservare la dinamica demografica e la quota di popolazione di questi paesi rispetto a quelle mondiali. Nella fig. 1 sono riportate le dinamiche della popolazione dal 1960 al 2000 e una previsione al 2015 della popolazione dei paesi considerati poveri dalla Banca Mondiale, nonché della popolazione mondiale nel suo complesso. Si può notare come il ritmo di crescita della popolazione dei paesi poveri sia più elevato di quello medio mondiale, il che ha portato la quota di popolazione mondiale che vive in paesi poveri dal 33,28% nel 1960 al 39,52% nel 2000, con una previsione pari al 43,52% per il 2015.
Il concetto di povertà adottato per definire i paesi poveri è diverso da quello precedentemente utilizzato per i paesi sviluppati. È ovvio infatti che, come in un paese ricco possono esistere rilevanti quote di popolazione povera, così nei paesi poveri possono esistere quote di popolazione ricca. Ciò significa che non tutta la popolazione dei paesi poveri può essere considerata povera. Ciononostante, il concetto di 'paese povero' ha una sua utilità da almeno due punti di vista: a) viene impiegato per selezionare quei paesi che hanno accesso a misure di sostegno sia in termini di aiuti che di trattamenti di favore per l'indebitamento (termini di scadenza più lunghi, rinnovo di prestiti, tassi di interesse più bassi di quelli di mercato); b) come per gli individui è importante l'unità di consumo che, come abbiamo visto, in genere è la famiglia, così a livello globale uno Stato può essere considerato una unità di consumo sociale e perciò ha un rilevante peso nel condizionare il tenore di vita di tutti i suoi cittadini, e non solo quello dei più poveri. Pensiamo ad esempio all'istruzione, alla sicurezza sociale, alla sanità, all'ordine pubblico, alla difesa, ecc.
La scelta di utilizzare il reddito pro capite come misura del livello di povertà di un paese è esclusivamente dovuta alla semplicità e reperibilità dei dati. Unico problema è la trasformazione della quantità di beni e servizi che ogni paese è in grado di produrre annualmente in un'unica unità di misura, che la renda confrontabile nel tempo e nello spazio. Il confronto spaziale fra vari Stati è complicato dal fatto che le unità di misura monetarie sono diverse da paese a paese e gli indicatori di qualità dei beni e servizi sono inattendibili e molto spesso impossibili da calcolare. L'utilizzo del tasso di cambio, al quale si possono convertire internamente o internazionalmente le monete, presenta grossi limiti: infatti, oltre a oscillazioni che nulla hanno a che vedere con la dinamica dei prezzi delle merci, il tasso di cambio ufficiale dipende dai prezzi delle sole merci che hanno accesso al commercio internazionale. Per avere una misura del livello di vita di un paese sono invece importanti tutte le merci e i servizi, anche quelli che non sono oggetto di commercio internazionale.
La soluzione adottata è stata quella del calcolo di un tasso di cambio che rispetti le Parità di Potere di Acquisto (PPA, o PPP, Purchasing Power Parity; v. Rogoff, 1996). L'obiettivo del calcolo delle PPA è quello di correggere le storture che derivano dall'utilizzo del cambio di mercato nella conversione in un'unica unità di misura del Prodotto Interno Lordo (PIL).
Il calcolo del reddito in PPA viene effettuato rilevando nei vari paesi i prezzi di un numero rappresentativo di merci e di servizi (circa 1.500): viene così calcolato un nuovo tasso di cambio fra le monete dei vari paesi basato su questo paniere di beni. Il risultato è che vengono rivalutati i redditi dei paesi più poveri (180%) e svalutati quelli dei più ricchi (90%), cioè il reddito dei paesi più poveri viene raddoppiato.
Un altro problema relativo al confronto internazionale del livello di reddito è quello della valutazione delle merci che non entrano nel mercato né interno né internazionale: si tratta cioè dell'economia sommersa, legale o illegale, e dell'economia di sussistenza. Il peso produttivo di questa economia arriva a valori tutt'altro che trascurabili (in alcuni paesi può raggiungere l'80% del totale dell'economia).
È comunque ampiamente dimostrato che il solo reddito pro capite come indicatore di sviluppo di un paese è altamente insoddisfacente. Quindi, sia le principali organizzazioni internazionali, sia singoli studiosi continuano a compiere notevoli sforzi per cercare di costruire indicatori di sviluppo che riescano a catturare aspetti della vita della popolazione che vadano al di là del semplice reddito pro capite (v. Ravallion, 1992; v. Sen, 1992; v. Nussbaum e Sen, 1993).
Di un certo rilievo è il tentativo effettuato dall'United Nations Development Programme (UNDP), che a partire dal 1990 propone un indice sintetico composito chiamato Indice di Sviluppo Umano (ISU): esso, oltre a tener conto del reddito pro capite dei paesi, considera aspetti legati al livello di istruzione e alla speranza di vita (v. UNDP, 1997).
Non mancano critiche alle soluzioni tecniche adottate dall'UNDP, ma l'ISU ha il pregio di aver affermato a livello internazionale il concetto di sviluppo multidimensionale, non legato unicamente all'aspetto economico. Questo tipo di approccio non soltanto ha messo in discussione molte teorie economiche che si basavano sull'analisi della crescita del reddito per affrontare i problemi dei paesi poveri, ma ha anche costituito un forte strumento di critica nei confronti delle politiche economiche delle organizzazioni internazionali, in particolare della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, che basavano le loro politiche di intervento nei paesi poveri privilegiando, spesso in modo esclusivo, l'obiettivo di una crescita quantitativa del reddito.
b) La popolazione povera
La definizione e la misurazione della popolazione povera residente nei paesi sottosviluppati è naturalmente molto più complessa, sia perché gli standard di povertà vanno collocati all'interno di situazioni economicamente, socialmente, politicamente e culturalmente molto diverse, sia per la carenza di dati sul tenore di vita dei cittadini di questi paesi.
Le uniche statistiche di una certa attendibilità sono quelle degli organismi internazionali, in particolare della Banca Mondiale; ciononostante, la prudenza e le riserve sulla validità delle rilevazioni effettuate sono notevoli e direttamente espresse dagli stessi organismi internazionali. I dati che presenteremo di seguito sono quindi leggibili come una misura generica degli ordini di grandezza della popolazione povera residente nei paesi sottosviluppati.
Le rilevazioni campionarie sono state effettuate paese per paese, anche se non tutti i paesi sono stati raggiunti: in media la popolazione dei paesi in cui è stata fatta almeno una rilevazione rappresenta l'88% della popolazione totale (v. The World Bank, 2001, p. 23). La definizione di povertà assoluta è quella usualmente utilizzata nei confronti internazionali, pari a un reddito giornaliero inferiore a 1,08 dollari al 1993 valutato in PPA. I dati relativi al decennio 1987-1998 sono riportati nella tab. IV (le aree sono quelle in cui generalmente vengono raggruppati i paesi sottosviluppati).
La popolazione povera è leggermente aumentata, ma a un ritmo inferiore a quello della popolazione totale, e come risultato si ha che la percentuale dei poveri diminuisce dal 28% al 24% della popolazione di queste aree. Di un certo interesse è l'esame per aree: si può notare infatti come la diminuzione della quota di popolazione povera è dovuta esclusivamente alle aree dell'Asia orientale e Pacifico e del Medio Oriente-Nordafrica, mentre nelle altre aree la quota di poveri è rimasta praticamente costante, a parte l'impressionante aumento avutosi nell'Europa orientale a causa degli improvvisi sconvolgimenti politici ed economici che hanno investito tale area negli anni della rilevazione. Come già detto, l'importanza di questi dati è puramente indicativa: sapere che più di un miliardo di persone vive sotto il livello assoluto di povertà dà un'idea immediata, facilmente utilizzabile politicamente, del fenomeno della povertà a livello mondiale.
Se il numero assoluto dei poveri è difficilmente calcolabile al di là di un generico ordine di grandezza, ancor più difficile è determinarne la dinamica nel tempo. Ciò è dovuto, oltre alla difficoltà tecnico-statistica di rilevazione dei redditi nei paesi sottosviluppati, anche alla disomogeneità nel tempo della definizione e del tasso di cambio in PPA e quindi della stessa determinazione della soglia di povertà (v. Deaton, 2001).
In realtà, si può tranquillamente affermare che sulla base di una misurazione quantitativa della povertà che faccia riferimento esclusivamente al livello di reddito si può solo asserire che il fenomeno della povertà esiste ed è internazionalmente molto rilevante. Analisi più dettagliate della povertà, della sua definizione, della sua misurazione e della sua dinamica temporale sono molto numerose; riportare anche sinteticamente il dibattito che si è sviluppato negli ultimi anni e che tuttora continua è praticamente impossibile.
È possibile però affermare che la povertà è un tipico esempio di fenomeno multidimensionale, nel quale interviene una molteplicità di fattori che spesso giocano ruoli diversi nel tempo e nello spazio. Molti dei fattori che contribuiscono a definire il concetto di povertà sono di carattere immateriale, il che complica ulteriormente il problema, specialmente quando se ne tenti una misurazione. Infatti aspetti quali la libertà di espressione, la socialità, i rapporti interpersonali, la disuguaglianza nei diritti, rientrano tutti in maniera decisiva nella definizione di povertà. La povertà tende a rappresentare una condizione di vita che investe le più varie dimensioni dell'essere umano: lo studio di tale fenomeno diventa pertanto complesso e non ha un carattere esclusivamente economico, ma riguarda le più varie discipline, dalla sociologia alla psicologia, dalla scienza politica alla demografia.
5. La lotta contro la povertà
Sia a livello internazionale che nazionale le politiche contro la povertà sono le più diverse e diversi sono i principî che le guidano. Come è stato già sottolineato, la condizione involontaria di povertà è socialmente e culturalmente considerata un disvalore. Tutto ciò non è però sufficiente a far sì che la povertà diventi un disvalore a livello politico, cioè che metta in moto politiche di ridistribuzione del reddito a favore della popolazione povera. Anche nel caso della trattazione delle politiche nei confronti della povertà bisogna fare le usuali distinzioni tra politiche internazionali e nazionali.
a) Le politiche internazionali contro la povertà
La 'scoperta' dei paesi poveri è relativamente recente. Di fatto coincide con la fine della seconda guerra mondiale, naturalmente non perché non esistessero già da molto tempo aree di povertà nel mondo, ma perché a partire dal quel periodo si sviluppano due importanti fenomeni.
Il primo è il processo di decolonizzazione, che porta all'ingresso di un numero crescente di paesi sottosviluppati nelle organizzazioni internazionali, in particolare nelle Nazioni Unite. Il loro peso politico ed economico è di conseguenza cresciuto, e con esso è aumentata la pressione su tali istituzioni (e su coloro che di fatto le controllano, i paesi ricchi) perché affrontino il problema dello sviluppo diseguale e della povertà internazionale.
Il secondo fenomeno è che il conflitto politico-militare tra le due superpotenze uscite vincitrici dalla seconda guerra mondiale, data la natura distruttrice delle armi atomiche, viene spostato nelle aree 'marginali' del mondo, le quali si trasformano in un campo di battaglia importantissimo dal punto di vista strategico-militare, politico ed economico.
In sintesi, il problema della povertà internazionale comincia a diventare un tema di rilievo in corrispondenza a un aumento diretto e indiretto del peso politico dei paesi poveri.
È impossibile anche soltanto elencare le analisi teoriche e politiche elaborate nel secondo dopoguerra in relazione al problema dello sviluppo diseguale fra paesi. Basti pensare che è nata e si è affermata una specifica disciplina economica, la 'economia dello sviluppo' (development economics), che si interessa di questi problemi (v. Oman e Wignaraja, 1991). Inoltre molte altre discipline (sociologia, antropologia, geografia, demografia, ecc.) hanno creato settori specifici di ricerca sui temi della povertà e del sottosviluppo.
Questo ha portato, sia dal punto di vista teorico che da quello della politica economica e della sua applicazione, ad adottare e sostenere ogni sorta di tentativo per affrontare il problema del sottosviluppo e dei paesi poveri. Nonostante l'ottimismo dei primi studiosi (v. Hirschman, 1983), il problema dello sviluppo diseguale e della permanenza dei paesi poveri rimane enorme, ed è anche possibile sostenere che, nella sua globalità, sia andato aggravandosi col tempo (v. Palazzi, 1997). Tutto ciò ha fatto sì che da più parti sia stato manifestato il dubbio che possa essere sbagliato e fuorviante affrontare il problema dei paesi poveri come problema unico, adottando in ogni situazione ricette economiche simili che non tengono conto delle specifiche situazioni economiche, politiche e culturali dei singoli paesi.
In questi ultimi anni tale impostazione è riuscita a fare breccia nelle politiche della Banca Mondiale e, anche se in misura molto minore e con estrema cautela, all'interno del Fondo Monetario Internazionale. Le critiche alla politica seguita da queste istituzioni internazionali per quanto riguarda la lotta alla povertà e al sottosviluppo sono numerosissime e risalgono ai primi anni di vita di queste istituzioni (v. Payer, 1974 e 1982; v. George e Sabelli, 1994; v. Chossudovsky, 1997): si tratta però di critiche esterne ed estranee alla logica con la quale esse si muovevano. Negli ultimi anni invece sono state avanzate critiche anche dall'interno di tali istituzioni (v. Stiglitz, 2002), le quali - sommandosi al fallimento delle politiche adottate e all'azione di organismi internazionali più rappresentativi, come le varie agenzie delle Nazioni Unite - hanno portato a spostare l'attenzione della Banca Mondiale e in parte del Fondo Monetario Internazionale dalla povertà e dai paesi poveri, considerati in modo astratto, alla popolazione povera.
Come vedremo in seguito, politiche a favore dei poveri sono state sempre praticate dai singoli Stati, in particolare dai paesi sviluppati, ma nelle politiche di aiuto internazionale ai paesi sottosviluppati - attraverso l'adozione dell'equazione 'crescita economica = lotta alla povertà' - la quantità di risorse direttamente dedicate all'aiuto dei poveri rimaneva marginale, considerata secondaria e delegata alle Organizzazioni Non Governative (ONG).
Anche sotto la spinta dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, che con una risoluzione dell'Assemblea Generale del 26 gennaio 1996 ha dichiarato il decennio 1997-2006 'Primo decennio per sradicare la povertà', ha cominciato a farsi strada una maggiore sensibilità ai problemi della povertà, distinti da quello della crescita economica. Il Rapporto della Banca Mondiale del 2000-2001 ha come titolo Attaccando la povertà (v. The World Bank, 2001) e può essere considerato un segnale di cambiamento, anche di impostazione (dal growth driven approach al country driven approach) e di sensibilità.
I programmi della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale dedicati alla lotta contro la povertà si moltiplicano, le strategie adottate seguono approcci che subiscono continue revisioni e sono sempre più numerosi gli studi e le ricerche finanziati e gestiti da queste istituzioni: ad esempio sui siti Internet di BM e FMI si trovano migliaia di pubblicazioni, di working papers e di appositi gruppi di ricerca che si occupano del problema della povertà nei paesi sottosviluppati.
b) Le politiche nazionali contro la povertà
Tutti i paesi sviluppati adottano strumenti mirati di politica economica e sociale contro la povertà che vanno al di là delle normali politiche volte alla crescita economica del paese. La povertà è quindi vista come condizione specifica di parte della popolazione, indipendentemente dal livello di reddito raggiunto dal paese. Si può dire che alla base delle moderne politiche 'antipovertà' nei paesi sviluppati vi sia il criterio generale di un ridimensionamento delle differenze: in altre parole, la lotta alla povertà nella maggioranza dei casi tende a trasformarsi in lotta alle disuguaglianze.
La politica di lotta alle disuguaglianze assume principalmente la caratteristica di ridistribuzione del reddito attraverso l'azione combinata della tassazione e della spesa pubblica. Permangono strumenti di intervento contro la povertà parzialmente o completamente privati, ma anche in questi casi ci sono interventi diretti o indiretti dello Stato attraverso agevolazioni fiscali o altri sussidi pubblici. Certamente, dal punto di vista simbolico e umano, il coinvolgimento di lavoro volontario e di offerte private - e in molti casi l'evidente qualità dell'intervento - fa sì che l'azione delle strutture private abbia un impatto rilevante: ma dal punto di vista delle risorse e dei risultati sulla povertà tale azione rimane senza dubbio di secondaria importanza.
Le politiche contro la povertà rientrano nella più generale politica di welfare, sono parte di essa, anche se il welfare comprende aspetti che interessano tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro condizioni economiche. Certamente, una situazione in cui il prelievo fiscale sia proporzionale o progressivo rispetto al reddito, mentre i servizi e i trasferimenti di reddito da parte dello Stato sono eguali per tutti o addirittura a favore dei meno abbienti, è un tipico esempio di politica generale di diminuzione delle disuguaglianze e quindi indirettamente di lotta alla povertà. Tale politica è adottata in misura diversa e con differenti caratteristiche da tutti i paesi sviluppati: anche se da tempo si parla di crisi del sistema di welfare, la struttura di base dell'intervento pubblico permette di rendere meno gravi le condizioni di vita della popolazione a più basso reddito e di conseguenza dei poveri. Queste misure intervengono sia sui fattori ciclici che possono creare temporanee situazioni di rischio di povertà, sia su sacche strutturali di popolazione povera.
Ciononostante, sia dal punto di vista teorico che da quello politico, il dibattito sulla necessità di misure di welfare è ancora attuale. Ricorrendo a una semplificazione possiamo individuare due posizioni teoriche rispetto alle quali inquadrare i diversi approcci: a) la disuguaglianza economica è necessaria e utile alla crescita economica; b) la disuguaglianza economica è ineliminabile. L'accettazione o il rifiuto di queste due posizioni individua quattro diversi approcci di politica economica (v. tab. V) attorno ai quali ruota il dibattito economico e politico, e il prevalere dell'uno o dell'altro condiziona ciclicamente le politiche di welfare dei governi dei paesi sviluppati (v. Friedman e Friedman, 1980; v. Sen, 1982; v. Haslett, 1994; v. Jacoby, 1997).
Quale che sia la politica adottata, data la relatività del concetto di povertà, essa non ha un effetto rilevante sul numero dei poveri, che tendono a essere una quota quasi costante della popolazione. Come vedremo in seguito, nei paesi sviluppati il concetto di povertà tende sempre più a coincidere con il concetto di 'emarginazione': l'aspetto puramente economico perde parte della sua rilevanza, mentre divengono determinanti aspetti relativi alle relazioni sociali, alla psicologia e alla cultura come fattori congiunti a quelli economici.
Abbiamo visto precedentemente che la povertà nei paesi sottosviluppati è stata fatta coincidere per lungo tempo con il concetto di paese povero e che quindi la lotta alla povertà veniva realizzata tramite politiche economiche volte alla crescita del paese.
In realtà, la relazione fra crescita economica e diminuzione della povertà è tutt'altro che chiara. Dal punto di vista empirico vi sono evidenze contrastanti: per alcuni paesi e per alcuni periodi sembra che la crescita economica abbia contribuito a una diminuzione del numero dei poveri, ma in altri periodi e in altri paesi sembra addirittura che vi sia una relazione opposta.
I problemi sono dovuti a due fenomeni: il primo, di carattere più strettamente economico, investe la relazione tra crescita economica e distribuzione del reddito; il secondo è invece più di carattere sociopolitico.
Per quanto riguarda la distribuzione del reddito, la relazione fra distribuzione individuale o familiare del reddito e crescita economica è un tema controverso che ricalca in parte quello relativo alla disuguaglianza. Mentre è empiricamente accertato che nei paesi più sviluppati la distribuzione del reddito fra le persone e le famiglie è più equilibrata rispetto a quella esistente nei paesi sottosviluppati, è molto difficile interpretare questo fenomeno come una relazione dinamica di causa-effetto. Non è detto cioè che se in un paese cresce il livello di reddito questo comporti automaticamente una diminuzione delle differenze nella distribuzione del reddito.
Per ciò che concerne il governo del paese (governance), esso ha un'enorme importanza, indipendentemente dall'andamento dell'economia. Non è per nulla scontato che fra gli obiettivi di governo di un paese, in particolare se sottosviluppato, vi sia quello di lottare contro la povertà; così come non è affatto scontato che, ove questo obiettivo vi sia, il governo abbia le capacità tecniche e la forza politica di perseguirlo. Queste considerazioni, che potrebbero sembrare ovvie, sono state ignorate per lungo tempo e tale 'dimenticanza' ha molto spesso portato al fallimento di quegli interventi internazionali che avevano come obiettivo la crescita del paese come strumento per combattere la povertà.
La lotta alla povertà nei paesi sottosviluppati sembra ormai aver ufficialmente preso una strada diversa: anche le istituzioni internazionali (principalmente FMI e BM), dalle quali dipende la maggior parte delle risorse per gli aiuti ai paesi sottosviluppati, hanno cominciato a rivolgere la loro attenzione ai problemi non puramente economici, che investono aspetti - come l'istruzione, le strutture di governo, la democrazia, i diritti umani, ecc. - che sono strettamente legati all'efficacia delle misure di lotta alla povertà. Tenere in considerazione questi fattori richiederà un approccio diverso da paese a paese, basato su un'analisi complessiva delle specifiche condizioni economiche, politiche, sociali e culturali.
Tale impostazione, in realtà, costituisce una novità solamente per la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, poiché già da molto tempo, nell'intervento pratico e nell'impostazione teorica, essa era stata adottata da gruppi e associazioni per l'aiuto e la cooperazione con i paesi sottosviluppati. Queste Organizzazioni Non Governative (ONG) nel complesso hanno avuto, anche se con alcune contraddizioni, un ruolo che è andato ben al di là del loro peso quantitativo per quanto riguarda le risorse a favore dei paesi sottosviluppati.
Il loro ruolo è stato appunto quello di affrontare il problema del sottosviluppo e della povertà partendo dai poveri, dalle loro condizioni, dalle loro necessità, dal rapporto che avevano con le istituzioni economiche e politiche del loro paese.
È molto difficile e forse impossibile avere un quadro non controverso dei risultati della lotta alla povertà portata avanti dalle ONG, ma senza dubbio il loro modo di lavorare è riuscito a fare breccia rispetto alle rigide impostazioni economiciste delle istituzioni internazionali, e questo è un risultato da ritenere positivo.
6. Povertà ed emarginazione
Povertà ed emarginazione sono due concetti chiaramente distinti.
Ci può essere povertà senza emarginazione e, viceversa, emarginazione senza povertà. In realtà, come vedremo, in molti casi le due situazioni tendono a coincidere.
Il concetto di emarginazione è per definizione relativo: si è emarginati rispetto a qualcosa o qualcuno. Questo qualcosa o qualcuno è definito attraverso un concetto di dominanza: modo di vita, ideologia, cultura, valori, rapporti interpersonali, comportamenti individuali, ecc. che per qualche motivo sono considerati dominanti o 'normali' e rispetto ai quali una situazione anomala può subire un processo di emarginazione.
La condizione di povertà può di per sé rientrare in questa definizione di marginalità e quindi di emarginazione? Dal punto di vista dei numeri la cosa sembra dubbia: anche adottando una definizione molto restrittiva di povertà, il numero dei poveri e il numero dei paesi poveri costituiscono una minoranza talmente elevata che difficilmente potrebbe essere considerata marginale da un punto di vista quantitativo.
L'emarginazione non è però un fenomeno puramente quantitativo, giacché possono darsi dei casi in cui la maggioranza di una popolazione può considerarsi emarginata rispetto a una minoranza dominante. Vediamo allora come si può configurare il rapporto tra condizione di povertà ed emarginazione; a tal fine è utile riprendere la distinzione tra situazione di povertà nei paesi sviluppati e nei paesi sottosviluppati.
a) Emarginazione nei paesi sviluppati
Come abbiamo visto precedentemente (v. cap. 3), la definizione di 'povero' nei paesi sviluppati fa riferimento a un livello di reddito enormemente superiore a quello dello standard internazionale (che è di appena 1 o 2 dollari al giorno). In un paese sviluppato il povero è quindi definito tale in quanto, rispetto al resto della popolazione, ha uno standard di vita troppo basso.
Anche se storicamente lo è stata per un lungo periodo di tempo, in nessun paese sviluppato la condizione di povero è ancora istituzionalmente o legalmente oggetto di discriminazione o emarginazione; al contrario, esistono strutture e trattamenti in favore dei poveri. Ciò non esclude, però, che la situazione di povertà in moltissimi casi condizioni in modo rilevante i comportamenti soggettivi, le relazioni interpersonali e le relazioni sociali e istituzionali dell'individuo o del gruppo familiare povero.
Il problema sorge quando questi comportamenti sono in contrasto con i comportamenti definiti accettabili dalla parte dominante della popolazione. In questo caso, quando cioè la condizione di povertà si concretizza in comportamenti 'anomali', essa si identifica facilmente con quella di emarginazione.
Gli esempi che si possono fare sono numerosi e vanno da comportamenti di tipo criminale ad atteggiamenti considerati asociali nel modo di comportarsi, di parlare o semplicemente di vestirsi. Inoltre, tali comportamenti possono essere sia di carattere individuale - come nel caso dei 'barboni' - sia collettivo, come nel caso delle minoranze etnico-culturali o degli immigrati.
Quest'identificazione tra povertà e comportamento emarginante può diventare drammatica, perché le risposte istituzionali possono essere molto diverse nel tempo e da luogo a luogo, anche all'interno di uno stesso paese, e molto spesso si concretizzano in misure puramente repressive che non tengono conto delle condizioni di povertà.
b) Emarginazione nei e dei paesi sottosviluppati
Anche nei paesi sottosviluppati possono configurarsi situazioni di marginalità ed emarginazione simili a quelle viste in precedenza nei paesi sviluppati, ma a queste vanno aggiunti quattro aspetti particolari.
1. Caratteristiche dell'emarginazione individuale: l'emarginazione individuale è, nei paesi sottosviluppati, un fenomeno contraddittorio. Da una parte, la mancanza o l'insufficienza di strumenti adeguati di sostegno alla povertà porta più facilmente a comportamenti emarginanti della popolazione povera; dall'altra, la numerosità della popolazione marginale fa sì che tale marginalità trovi un ambiente, un sostegno sociale di gruppo, che la rende più accettabile dagli individui e più difficilmente reprimibile da parte delle autorità.
2. Conflitti tra emarginati: la diffusione della povertà, accompagnata da emarginazione di gruppo, molto spesso porta a conflitti, non solo con le autorità, ma anche fra gruppi marginali. Tali conflitti, in alcuni casi, coinvolgono la generalità della popolazione del paese o una sua parte rilevante e diventano essi stessi causa di ulteriore allargamento della povertà.
3. Emarginazione dei paesi: così come ha senso il concetto di paese povero, può anche avere senso il concetto di paese marginale ed emarginato. Una parte non trascurabile dei paesi sottosviluppati può essere fatta rientrare in questa categoria: sono paesi che dal punto di vista delle relazioni internazionali, del potere politico ed economico, svolgono ruoli spesso subalterni e comunque sempre marginali. Talvolta tale marginalità può portare a scontri e conflitti con i paesi sviluppati, che nei casi estremi possono sfociare in veri conflitti armati.
4. Emarginazione culturale e psicologica: esiste ed è percepita come tale una emarginazione dei cittadini dei paesi sottosviluppati che va al di là della condizione di povertà individuale o del paese.
È una marginalità che si riscontra nel campo culturale, inteso in senso lato, e che non ha strettamente a che vedere con la sola ricchezza materiale, né con la conoscenza tecnologica o con la struttura dei consumi, ma - come ha osservato Rushdie (v., 1987; tr. it., p. 10) - con "una certa conoscenza di ciò che vuol dire essere deboli, una certa consapevolezza di come si vedono le cose dal basso e di come ci si sente stando lì, sotto, con gli occhi levati verso il tallone che cala su di noi".
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