Pramanavada
Termine sanscr. (letteral. «dottrina circa i mezzi di valida conoscenza») con cui viene individuata da parte dei suoi continuatori tibetani (➔ tibetana, filosofia) la scuola logica ed epistemologica buddista, di cui è considerato fondatore Dignāga e il cui principale esponente fu Dharmakīrti.
La preistoria della scuola viene generalmente rintracciata nella tradizione dialettica diffusa in tutta l’India e di cui sono testimonianza numerosi trattati buddisti quali il *Hetuhr̥daya («Essenza della ragione logica», conservato solo in cinese), che si occupano di regole del dibattito, argomentazioni e fallacie. Tuttavia, lo scarso peso che l’esame dei mezzi di valida conoscenza riveste in tali trattati e la sua preponderanza nel P. ha spinto alcuni studiosi (fra cui V. Eltschinger) a sottolineare l’apporto di un’altra corrente, più strettamente connessa con il retroterra buddista del P., ossia quella che parla, fin dal Canone buddista pāli, di tre modalità di conoscenza (prajñā): consistente nell’udire gli insegnamenti del maestro, consistente nel riflettere in proposito, consistente nella realizzazione meditativa di ciò su cui si è riflettuto. La seconda di queste tre modalità prevede infatti l’utilizzo di mezzi di valida conoscenza. Esplicito riferimento al Buddha come maestro viene fatto nel verso iniziale dell’opera principale di Dignāga, in cui il Buddha è detto essere un mezzo di valida conoscenza. A questo singolo verso sarà poi dedicato l’intero secondo capitolo del Pramāṇavārttika di Dharmakīrti (➔).
Dignāga (ca. 480-540), nato a Kāñcī, nell’India del Sud, in una famiglia brahmanica, pare sia stato discepolo di Vasubandhu (➔). Inserì il P. sul proscenio della filosofia indiana scegliendo di discutere con interlocutori di altre scuole filosofiche brahmaniche invece che interni al buddismo (come è invece spesso il caso nelle opere a lui precedenti, per es. l’imponente Abhidharmakoṣa di Vasubandhu). Le opere di Dignāga, che hanno posto le basi del P., vennero soppiantate da quelle di Dharmakīrti (che pure sembra non aver goduto di fortuna in vita), allievo di un suo allievo, tanto da non essere più commentate né copiate in gran numero (ne è perciò andato perduto l’originale sanscrito). Quando ciò sia avvenuto non è certo, ma i commenti filosoficamente rilevanti di Dharmakīrti cominciano a partire dalla seconda metà dell’8° sec., a opera di Dharmottara (ca. 740-800), Prajñākaragupta (attivo intorno all’800) e Jñānaśrīmitra (ca. 980-1040, ➔ Ratnakīrti). Questi evidenziano la portata religiosa della metodologia elaborata da Dharmakīrti, utilizzandola per fondare l’istantaneità di ogni fenomeno, la dottrina dell’apoha (➔ Dharmakīrti), la negazione di un Dio creatore.
Differenziandosi dallo Yogācāra e dalle scuole dell’Abhidharma, Dignāga sostiene l’esistenza di due soli mezzi di valida conoscenza (pramāṇa), ossia percezione diretta (pratyakṣa) e inferenza (anumāna). Tale dualità corrisponde alla dualità degli oggetti conoscibili (prameya), distinti in svalakṣaṇa (particolare irripetibile) e sāmānyalakṣaṇa (caratteristica generale), rispettivamente oggetti di percezione e inferenza. Lo svalakṣaṇa è considerato effettivamente esistente ed è la base di ogni vera conoscenza, mentre il sāmānyalakṣaṇa è mero oggetto di concettualizzazioni (vikalpa). L’inferenza, che non può cogliere lo svalakṣaṇa, porta a una conoscenza valida quando si basa su un procedimento che permette di accertare quale fra le possibili concettualizzazioni sia errata. La Parola (śabda) del Buddha viene invece respinta come pramāṇa a sé e considerata un caso di inferenza basata sull’affidabilità del suo autore. Dharmakīrti (➔) precisa che si tratta di uno śeṣavad anumāna («inferenza con residuo»), ossia un’inferenza che, dato il residuo di indimostrabilità che contiene se vista con i presupposti propri degli avversari, non ha valore cogente. Tale inferenza rimane tuttavia un mezzo indispensabile di conoscenza, poiché permette di procedere nell’agire pratico quotidiano. Percezione e inferenza non sono infatti atte a conoscere l’ambito pratico; per la determinazione dell’azione l’uomo dipende unicamente dalla Parola come strumento conoscitivo.
La prova della veridicità di una conoscenza proviene, secondo il P., dalla sua efficienza causale (arthakriyā), ossia dalla sua capacità di dar adito all’esito previsto. La nostra cognizione di un bicchier d’acqua, per es., potrà essere considerata corretta se quanto conosciuto come acqua riesce effettivamente a dissetare. Il P. nega infatti, in polemica con la Mīmāṃsā, la validità intrinseca di qualsiasi atto conoscitivo, sostenendo al contrario che possono essere riconosciute valide solo le conoscenze così verificate. Questa tesi si espone alla critica di Kumārila per cui gli esiti delle verifiche di una cognizione (per es., la percezione dell’appagamento dopo aver bevuto) hanno essi stessi natura di cognizioni e andrebbero quindi verificati a loro volta e così via in un circolo senza fine. Ma, secondo il P., le cognizioni di natura percettiva e le verifiche dell’efficienza causale hanno un valore di affidabilità maggiore poiché minore è in queste la rilevanza della concettualizzazione (vikalpa) e quindi dei condizionamenti di desideri e avversioni. Parimenti avversata dalla Mīmāṃsā è l’idea del P. che la cognizione (jñāna, ➔) sia «autoluminosa» e fornisca cioè contemporaneamente consapevolezza del proprio oggetto e di sé stessa. Tale tesi consegue direttamente dai presupposti del P., che accetta sul piano ordinario l’ontologia dei Sautrāntika per cui realmente esistenti sono solo gli svalakṣaṇa privi di estensione spaziotemporale, ma sul piano della realtà ultima (paramārtha, ➔ Nāgārjuna) si conforma all’idealismo dello Yogācāra e alla tesi che ogni evento abbia natura coscienziale. Stanti così le cose, la distinzione fra una cognizione e il suo contenuto è solo strumentale e non corrisponde alla realtà, come dimostrato dal fatto che il contenuto non è mai colto se non in concomitanza con la cognizione di esso.
Si deve a Dignāga la sistematizzazione dei requisiti necessari per la ragione logica (probans, per esempio il fumo nel caso di «Su quella montagna c’è fuoco perché c’è fumo») di un’inferenza (anumāna). Tale sistematizzazione sarà poi seguita, seppur con modifiche, da tutte le scuole filosofiche indiane. In riferimento alla ragione logica, Dignāga individua tre loci, il locus in cui se ne vuole dimostrare la presenza nel caso in questione (pakṣa, per es. quella montagna); gli altri casi in cui è presente (sapakṣa, per es., la cucina) e quelli in cui è assente (vipakṣa, per es., il lago). Combinando le possibilità di presenza costante, presenza parziale, o assenza della ragione logica nei tre loci, Dignāga ottiene la ruota delle ragioni logiche (hetucakra), un diagramma in cui vengono elencate nove possibili ragioni logiche. Di queste, solo due conducono a inferenze valide, ossia quella che è presente nel pakṣa, sempre assente nel vipakṣa e sempre presente nel sapakṣa e quella che è presente nel pakṣa, sempre assente nel vipakṣa e parzialmente presente nel sapakṣa. Tali requisiti, dimostra però un allievo di Dignāga, Īśvarasena, sono necessari, ma non sempre sufficienti, giacché possono essere verificati solo per induzione (e quindi mai con completezza assoluta). Dharmakīrti (➔) corroborerà perciò il hetucakra con la dottrina di due tipi di relazione possibili fra ragione logica e oggetto da inferire.
La teoria dell’apoha (➔ Dharmakīrti) mira a conciliare l’ontologia del P. con il dato di fatto che il linguaggio funziona nella comunicazione ordinaria fra gli esseri umani, nonostante sia apparentemente basato su oggetti illusori come gli universali. Il significato di un vocabolo, secondo il P., non è, infatti, l’universale (che non corrisponde direttamente a un dato di realtà), bensì il risultato dell’esclusione di altro (non cioè ‘mucca’, bensì ‘non non-mucca’). Davanti a questa descrizione è facile sollevare un’obiezione, ossia, che differenza c’è fra ‘mucca’ e ‘non non-mucca’? Nel momento in cui si esclude il ‘resto’, cioè il ‘non-mucca’, non si sta implicitamente postulando l’esistenza di qualcosa rispetto a cui poter affermare che tutto quanto è diverso è ‘il resto’? Come cioè poter definire ciò che non è una mucca, se non sapendo già che cos’è una mucca? In effetti, quella or ora formulata è l’obiezione classica cui più volte autori come Ratnakīrti e Śāntarakṣita si sono trovati a dover rispondere. E la loro replica prevede: (1) la distinzione fra funzionamento ordinario del linguaggio e sua giustificazione logica; (2) la differenziazione di più elementi all’interno del processo dell’apoha. Per quanto riguarda il punto (1), anche il P. ammette che nell’esperienza comunicativa ordinaria ci si intende perché si condividono riferimenti positivi con cui individuare ciò di cui si parla. Si dice allora ‘cavallo’ e parlante e uditore si intendono perché entrambi hanno in mente una rappresentazione (ākāra) simile di cosa sia un cavallo. Poiché però in realtà non esiste alcun cavallo, tale comunicazione si basa soltanto su una concettualizzazione (vikalpa) e non può esprimere alcunché di vero, ossia di corrispondente a realtà. Com’è allora possibile giustificare la corrispondenza con lo stato reale delle cose che (almeno ogni tanto) sembra essere veicolata dal linguaggio? Fondandone la possibilità attraverso l’apoha. Questa – e siamo ora al punto (2) –, si fonda su tre elementi: (a) l’elemento soggettivo positivo, ossia la rappresentazione, per esempio, del cavallo; (b) l’elemento negativo (ovvero tutto ciò che è non-cavallo) e (c) l’attività di esclusione (apohanā). L’elemento soggettivo positivo ha quindi soltanto un ruolo iniziale, mentre la possibilità di una comunicazione intersoggettiva valida è fondata dalla modalità dell’esclusione di tutto il resto che, sola, è operazione logicamente valida.