prandere
Dal latino prandeo (propriamente, " faccio colazione "); è usato solo due volte, e in rima.
In senso proprio: Quali si stanno ruminando manse / le capre, state rapide e proterve / sovra le cime avante che sien pranse (Pg XXVII 78; sono queste, con affranse, le uniche rime in -anse della Commedia), " pasciute, sazie " (Scartazzini-Vandelli, come già Vellutello, Venturi; e così in genere gli altri interpreti antichi e moderni, che considerano il verbo, come in Pd XXV 24, transitivo), ovvero " antequam sint cibatae " (Benvenuto; analogamente Tommaseo e Porena); cfr. il participio pransus, con valore attivo.
In contesto figurato, da ricondurre all'usitata metafora del cibo (v. E.R. Curtius, La littérature européenne et le Moyen Age latin, Parigi 1956, 166-168), in Pd XXV 24 laudando il cibo che là sù li prande, Dio, alimento del beati, che li " nutre "; ctr. XXIV 1-2 Alcuni, però, e già Benvenuto, leggono si prande; ma questa lezione, come nota il Chimenz, " è meno efficace, sostituendo alla rappresentazione diretta dell'atto di Dio un concetto generico di consuetudine ". L'osservazione è accolta dal Petrocchi, che aggiunge (cfr. ad l.): " Inoltre li prande conferma il valore transitivo del verbo, come a Purg. XXVII 78 ".