Prassitele e il bello stile
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Prassitele è il miglior rappresentante della profonda umanizzazione che l’ideale classico subisce nell’arte greca del IV secolo a.C. Le sue immagini di divinità sono pervase da una sensualità e da una grazia che si rivelano nella flessuosità delle pose, nella morbidezza della resa delle carni, nei volti sorridenti e gentili, rendendo manifesti un deciso mutamento della sensibilità religiosa e l’emergere di nuovi bisogni interiori.
“Lo stile più antico durò fino a Fidia; attraverso lui e gli artisti del suo tempo l’arte raggiunse la sua grandezza, e questo stile si può definire grande e nobile; nel periodo che va da Prassitele a Lisippo e ad Apelle, l’arte raggiunse una grazia e una leggiadria superiori, e questo stile dovrebbe essere denominato come bello”. Così nel 1764 Johann Joachim Winckelmann, nella sua Storia dell’arte dell’Antichità, definisce le caratteristiche del secondo classicismo del IV secolo a.C., riconoscendo a Prassitele, sulla scorta degli autori antichi, un ruolo di rappresentante di spicco delle tendenze artistiche dell’epoca. Prassitele ateniese, lo scultore greco più amato dai Romani, come risulta evidente dal gran numero di copie conservate delle sue sculture e dall’abbondanza delle fonti letterarie che lo riguardano, è diventato nel tempo una figura paradigmatica della scultura antica, un po’ come lo è Michelangelo per la scultura moderna: e illuminante, da questo punto di vista, risulta il confronto visivo istituito, nel Cinquecento, nell’arredo scultoreo della celebre “grotta” di Isabella d’Este a Mantova tra una statua di Eros (in cui si riconosceva il celeberrimo Eros prassitelico di Tespie) e il celebre Cupido di Michelangelo, allo scopo di dimostrare la superiorità dell’arte degli “antichi” su quella dei “moderni”.
Gli scrittori antichi celebrano l’abilità di Prassitele nel tradurre nel marmo le passioni dell’anima (Diodoro Siculo, Storia universale 26.1.1.) e il naturalismo delle sue opere (Quintiliano, L’educazione dell’oratore, XII, 10.9); ammirano l’illusionistica resa delle carni anche nelle sue opere in bronzo (Callistrato, Descrizioni di opere d’arte, 8.2), ma ricordano come l’artista abbia dato il meglio di sé nel marmo (Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXIV, 69), materiale che più di ogni altro si presta a dare, di quelle carni, l’immagine più viva e sensuale; raccontano aneddoti sulla sua vita (che offrono qualche spunto utile a ricostruire la condizione sociale ed economica dell’artista nell’Atene del IV secolo a.C.), legati soprattutto al suo amore per Frine, cortigiana di leggendaria bellezza, introducendo nella letteratura e nella mitologia dell’arte la figura della “musa ispiratrice” dell’artista; e descrivono, in qualche caso con una certa accuratezza, i suoi capolavori, con particolare riguardo all’Afrodite Cnidia, per la cui figura, forse, proprio Frine aveva fatto da modella. Grazie al confronto con monete di Cnido coniate all’epoca dell’imperatore Caracalla, che riproducono la statua in quanto simbolo della città, è stato possibile individuare con sicurezza il tipo iconografico in una serie di repliche di età romana, tra le quali la più nota è la Venere Colonna dei Musei Vaticani. Vero o no, il presunto rapporto ipotizzato tra la prima statua femminile completamente nuda dell’arte greca e una donna, Frine, in carne e ossa, si configura, un po’ come per le Madonne di Caravaggio, come interessante chiave di lettura della profonda umanizzazione che la figura di Afrodite subisce sotto lo scalpello dello scultore ateniese; un’umanizzazione destinata a rispondere alle mutate esigenze religiose emergenti nella Grecia del IV secolo a.C., improntate alla ricerca di un rapporto individuale tra l’uomo e il divino, distinto dalla religiosità collettiva della polis o del santuario, e che si esprime, ad esempio, nei grandiosi simulacri crisoelefantini di Fidia.
La Cnidia non si impone, in quanto divinità, alla venerazione dei fedeli, ma è colta in un momento di intimità, mentre si prepara per il bagno, come una donna qualsiasi (anche se è probabile che la nudità della statua fosse motivata, almeno in origine, da qualche aspetto del culto a noi sconosciuto); lo scultore crea una sorta di quadro che non richiede la presenza del fedele, ma che semmai presuppone l’ammirazione indiscreta del curioso, cui la dea reagisce andando con la mano destra a coprire il pube, esibendo una modestia pari almeno alla sua bellezza. E dalle fonti appare chiaramente che la statua non suscita ammirazione in quanto espressione del divino, bensì gode di un immenso successo perché esercita sul pubblico una profonda fascinazione estetica ed erotica, tutta terrena. È questo rapporto tra la statua e il suo pubblico a giustificare il fiorire di aneddoti come quello narrato dallo Pseudo Luciano (Gli amori, 16), circa il giovane che, innamoratosi della statua, si sarebbe nascosto all’interno del tempio per poter consumare nottetempo il proprio desiderio contro il marmo; la forma stessa della struttura che l’accoglie è dettata dalla preoccupazione di consentire una visione completa delle sue grazie, sia che si tratti di un tempio dotato anche di una porta posteriore (come sostiene lo Pseudo Luciano, Gli amori, 13), oppure, come sostiene Plinio (Nat. Hist. XXXVI, 21) di un piccolo edificio completamente aperto. Gli scavi di Cnido, detto per inciso, hanno restituito le fondazioni di una struttura circolare di età ellenistica, paragonabile alla tholos sorretta da colonne doriche che nel II secolo accoglie nella villa dell’imperatore Adriano a Tivoli una replica della Cnidia.
Le repliche romane della statua presentano delle divergenze nella posa e nell’espressione; se per alcuni studiosi queste sarebbero da spiegarsi con l’impossibilità di prendere calchi dall’originale per il pericolo di danneggiarne la doratura dei capelli e la delicata policromia di particolari come gli occhi e le labbra, secondo altri le copie deriverebbero in parte dall’originale prassitelico e in parte da una variante più tarda, di età ellenistica, che avrebbe raffigurato Afrodite nell’atto di accorgersi della presenza di un intruso, quindi adattando il modello prassitelico al tipo particolare di attenzione di cui l’originale fin dall’inizio è oggetto. In questa variante più tarda, la mano sinistra, piuttosto che lasciar scivolare il panneggio, sarebbe corsa a recuperarlo, mentre lo scatto più deciso della testa esprimerebbe lo stupore della dea e la sua vulnerabilità di fronte allo spettatore.
Prassitele con la Cnidia ha creato un canone per la figura femminile nuda, come aveva fatto già Policleto di Argo nel V secolo a.C. con la figura atletica maschile; i seni piccoli, le spalle spioventi, lo stomaco piatto, i fianchi opulenti e le gambe snelle dell’Afrodite prassitelica costituiscono un modello per tutte le immagini scultoree di Afrodite, nuda o seminuda, colta in pose diverse (ma sempre accuratamente studiate) realizzate dagli artisti di età ellenistica; lo stesso può dirsi per la semplice acconciatura raccolta e per il viso, con le labbra lievemente dischiuse e gli occhi dalla palpebra inferiore sottile, nei quali si riconosce quello sguardo hygros, umido e un po’ sognante, di cui parla Luciano (Le statue, 6), e il cui effetto doveva essere accentuato dal colore applicato in modo che l’iride sembrasse riflettere la luce. Le fonti fanno riferimento al rapporto di collaborazione tra il pittore ateniese Nicia e Prassitele (Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXV, 133), che sosteneva di apprezzare maggiormente, tra le proprie opere, quelle a cui Nicia aveva dato l’ultima mano; è probabile che si trattasse di una applicazione delicata e limitata di colore finalizzata ad intensificarne la sensuale vitalità.
Agli inizi dell’attività di Prassitele è forse da ricondurre un altro tipo iconografico di Afrodite, noto in quattro repliche di cui la migliore, che dà nome alla serie, è la Venere di Arles, rinvenuta nel 1651 nel teatro romano della città francese: la statua, che rappresenta la dea seminuda con un mantello panneggiato intorno ai fianchi, presenta indubbi caratteri stilistici prassitelici nella dolcezza del volto, nell’acconciatura e nella forma dei seni, ma l’attribuzione non è unanimemente accettata, ed alcuni studiosi preferiscono riconoscervi un’opera di età ellenistica, o una creazione, alla maniera di Prassitele, databile al I secolo a.C.
Cifra stilistica ricorrente nell’opera di Prassitele è l’attribuzione di potenzialità narrative alla scultura a tutto tondo: la statua appare spesso inserita in una sorta di “quadro”, in sé conchiuso, abilmente costruito attraverso il ricorso ad un numero limitato di elementi (come il panneggio e l’hydria della Cnidia, sufficienti a dare senso alla nudità della dea, alludendo al momento del bagno): elementi, però, capaci di rimandare ad una storia, o di caratterizzare in modo pregnante la figura divina, rappresentandola in un modo del tutto nuovo.
Questo è particolarmente evidente in un’altra celebre creazione prassitelica, l’Apollo Sauroctono, riconosciuto già da Winckelmann e da Ennio Quirino Visconti, grazie al confronto con le fonti letterarie (Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXIV, 70; Marziale, Epigrammi, 14, 172) in una ventina di repliche di età romana, tra le quali notevole è quella oggi conservata al Louvre. Il giovanissimo dio, dal corpo morbido e flessibile, si presenta in una posa instabile e sbilanciata, appoggiato con il braccio sinistro sollevato ad un tronco d’albero su cui si arrampica una lucertola che Apollo si appresta a saettare con una freccia; l’autonomia della composizione si palesa nella posizione della testa del dio, inclinata in modo da seguire con lo sguardo i movimenti dell’animaletto, e segnando così una mancanza di comunicazione diretta con lo spettatore. Nulla le fonti dicono sull’originaria collocazione della statua, e ambiguo è il significato della scena: se è indubbio che qui la figura di Apollo, come già visto nel caso dell’Afrodite Cnidia, subisca una profonda umanizzazione, che lo cala nei panni di un fanciullo intento nella caccia alle lucertole, uno dei giochi infantili più crudeli ma più diffusi nei paesi mediterranei, occorre tener presente che queste bestiole hanno un certo ruolo nella farmacopea e nelle pratiche magiche nella Grecia antica.
Apollo potrebbe essere qui rappresentato, dunque, nella sua qualità di dio della medicina; oppure, secondo altri studiosi, sarebbe piuttosto raffigurato come Alexikakos, cioè come colui che libera dai mali, mali rappresentati sinteticamente dal sauride, nel quale più che una lucertola sarebbe da riconoscere un ramarro, cui infondate credenze popolari diffuse ancora oggi nell’area mediterranea attribuiscono un’indole aggressiva e un morso tenace e dolorosissimo. L’opera è assai apprezzata in età romana, certo per il suo carattere bucolico che ben si addice ad una collocazione all’interno di giardini. La stessa motivazione è da leggere dietro all’abbondante produzione di repliche romane di un tipo statuario di satiro che, per la postura fortemente sbilanciata, che segue una linea a forma di S simile a quella che caratterizza la posa del Sauroctono, e per la morbidezza del modellato, è stato ricondotto all’attività dello scultore ateniese.
La creatura si appoggia, più pesantemente rispetto al Sauroctono, ad un tronco d’albero con il gomito destro, poggiando con nonchalance la mano sinistra al fianco e ritraendo il piede destro dietro al sinistro; il volto si sottrae parzialmente allo sguardo dello spettatore, assorto in una pigra, dolce fantasticheria. Si è voluto riconoscere in questa figura il satiro bronzeo detto periboetos, “molto famoso”, di cui parla Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 68); ma il suggestivo contrasto tra la levigatezza delle carni e la superficie ruvida della pelle ferina che il satiro indossa a bandoliera sul torso si spiega appieno soltanto presupponendo un originale in marmo; l’atmosfera silvestre della scultura, nella quale l’albero non è solo un supporto per la figura del satiro bensì fa parte integrante della composizione, rende convincente l’ipotesi che si tratti del Dasyllios (interpretabile come “protettore dell’albero”) che Pausania aveva visto a Megara (Periegesi della Grecia I, 43, 5). Prassitele aveva scolpito diversi satiri (suo, forse, anche l’originale del Satiro versante, altro tipo amatissimo in età romana); il fascino esercitato sullo scultore dal corteggio dionisiaco è paragonabile al suo penchant per Afrodite e per Eros: Dioniso, Afrodite e le figure ad essi apparentate (satiri, sileni, ninfe, eroti), immagini del piacere e della gioia di vivere, rivestiranno un ruolo di primo piano nella scultura di età ellenistica, e poi ancora nel corso dell’età romana.
Almeno due sono le figure di Eros che le fonti attribuiscono a Prassitele, ambedue assai popolari: il primo è quello in marmo pentelico donato a Tespie dalla stessa Frine, che verrà portato a Roma da Caligola per essere restituito a Tespie da Claudio e riportato, per volontà di Nerone, ancora una volta a Roma: qui sarà infine distrutto da un incendio in età flavia, e sostituito da una copia, realizzata dallo scultore Menodoro. Plinio ne ricorda un secondo, anch’esso in marmo, a Parion in Propontide (Nat. Hist. XXXVI, 22). Almeno tre tipi iconografici di Eros sono stati ricondotti a questi originali: l’Eros di Centocelle, quello Farnese/Palatino e quello Borghese oggi al Louvre; si tratta, come per l’Apollo Sauroctono, di figure delicate ed elastiche di giovanissimi, nelle quali Prassitele ha trovato il tipo di struttura fisica più adatta a valorizzare le potenzialità estetiche ed espressive del modello di ponderazione corporea da lui prediletto, morbidamente sbilanciato ed instabile. Di un’adolescente è anche la snella figura ritratta in una statua femminile rinvenuta a Gabi, in cui si è riconosciuta una replica della statua di culto per il tempio di Artemide Brauronia ad Atene, che le fonti attribuiscono a Prassitele (Pausania, Periegesi della Grecia, I. 23, 7).
Il culto di questa dea prevede offerte di abiti da parte delle fanciulle, e l’Artemide di Gabi è raffigurata nell’atto di slacciarsi, o forse di allacciarsi, sulla spalla destra l’abito, un corto chitonisco che le arriva alle ginocchia; ma il suo sguardo non si appunta sul gesto, e forse è rivolto alla fedele che le ha recato il dono. I tratti del volto luminoso, gli occhi dallo sguardo sognante, l’accenno di sorriso che le schiude le labbra, sono decisamente prassitelici; ma, anche in questo caso, l’attribuzione a Prassitele ha suscitato dubbi in diversi studiosi, che preferiscono datare l’archetipo dell’Artemide di Gabi intorno al 300 a.C., e che ritengono che Prassitele, per la propria Artemide, si sia tenuto maggiormente legato alla tradizione, raffigurando una dea più adulta, coperta dal peplo dorico.
Quanto fin qui detto rende evidente come sia difficile attribuire con certezza opere conosciute attraverso copie ad un artista come Prassitele, il cui stile ha esercitato una enorme influenza sugli scultori successivi, certo anche a causa del grande successo che la sua maniera riscuote sul mercato d’arte in età romana; le attribuzioni più sicure sono quelle per cui si hanno riscontri nelle emissioni monetali (come nel caso dell’Afrodite Cnidia) o confronti puntuali nelle descrizioni letterarie (come per l’Apollo Sauroctono).
Ancora più complessa si presenta l’attribuzione di eventuali originali. È oramai contestata da gran parte degli studiosi l’ipotesi che vedeva un originale prassitelico nell’Ermes con il piccolo Dioniso in marmo pario, rinvenuto nel 1877 nel tempio di Era ad Olimpia, cioè proprio dove Pausania descrive un gruppo scultoreo, raffigurante il medesimo soggetto, attribuendolo allo scultore ateniese (Periegesi della Grecia V. 17, 7). Anche in questo caso, è indubbio che la statua presenti caratteri prassitelici nell’audace sbilanciamento della postura di Ermes e nei lineamenti del suo viso, oltre che nella lavorazione delle carni di entrambe le figure e nella forma chiusa, autosufficiente che assume la composizione. L’impostazione generale, inoltre, si richiama esplicitamente al gruppo scultoreo raffigurante Eirene con il piccolo Pluto, allegoria della pace che reca la prosperità, realizzato tra 374 e 370 a.C. per l’agorà di Atene da Cefisodoto il Vecchio, apprezzato scultore attivo agli inizi del IV secolo a.C. in cui sarebbe da riconoscere il padre (secondo alcuni il nonno) di Prassitele stesso, esponente di una famiglia in cui il mestiere di scultore si tramandava di padre in figlio. È però assai improbabile che l’Ermes di Olimpia possa essere un originale del IV secolo a.C., sulla base di considerazioni tecniche sul tipo di lavorazione del marmo, nonché di osservazioni di carattere antiquario (ad esempio il modello dei sandali calzati dal dio risulta attestato solo per la piena età ellenistica).
Attualmente si tende a riconoscervi una copia (comunque di elevata qualità) databile tra I secolo a.C. e I secolo d.C., forse realizzata per sostituire l’originale prassitelico (come avvenuto per l’Eros di Tespie); oppure un originale attribuibile ad un altro Prassitele, attivo nel II secolo a.C. Una statua di efebo in bronzo, di dimensioni inferiori al naturale, recuperata in mare al largo di Maratona sarebbe, secondo alcuni studiosi, un originale prassitelico: il bronzo, che raffigura un giovane che schiocca le dita della mano destra e che, secondo un’ipotesi, sarebbe da integrare con una figura di bambino sorretto dal braccio sinistro piegato (si tratterebbe dunque di una immagine molto simile a quella della statua di Olimpia), è di notevole qualità; la ponderazione è certamente di tipo prassitelico, e ricorda in particolare quella del Satiro versante. Ma le opinioni, anche in questo caso, sono discordanti; e continuano ad essere considerate valide sia l’ipotesi dell’attribuzione della statua a Prassitele stesso, sia quella che vi riconosce un’opera di bottega, o di un più tardo artista prassitelico.
Sarebbe da attribuire alla bottega dello scultore ateniese, piuttosto che alle sue stesse mani, la base di Mantinea, costituita da tre lastre di marmo con bassorilievi raffiguranti Apollo citaredo seduto, Marsia che suona il doppio flauto, lo Scita (che si appresta a scuoiare il satiro) e sei Muse: i rilievi decoravano in origine la base di un gruppo scultoreo, perduto, di Apollo, Artemide e Latona, che Pausania (Periegesi della Grecia, VIII, 9, 1) attribuisce a Prassitele, menzionando anche il soggetto della base. I rilievi presentano comunque elementi di notevole interesse, in particolare nella canonizzazione delle figure delle Muse, anche se il loro numero non è completo.
Il nome di Prassitele e il problema dei suoi originali sono tornati di attualità a seguito del recupero, tra 1997 e 1998, dalle acque del canale di Sicilia nei pressi di Mazara del Vallo (TP), della splendida statua in bronzo di un Satiro, ormai noto come Satiro in estasi. La creatura si libra in una danza vorticosa, allargando le braccia e piegando fortemente all’indietro la testa dai lunghi capelli; gli occhi dalla fissità ipnotica e le labbra dischiuse forse ad emettere un grido conferiscono al volto adolescenziale una straordinaria intensità espressiva. Confronti con gemme antiche (tra cui uno splendido cammeo di agata già appartenuto a Lorenzo il Magnifico), con sarcofagi marmorei di età antonina e con un oscillum in marmo da Pompei, in cui compare lo stesso tipo iconografico, consentono di completare la figura con simboli del culto dionisiaco: una pelle di pantera arrovesciata sul braccio sinistro, un kantharos (vaso da vino a due anse) sorretto nella mano sinistra e un tirso, coronato da una pigna, stretto nella mano destra; la pigna veniva fissata dal comasta in una sorta di autoipnosi che lo aiutava a prolungare il movimento rotatorio, come fanno i dervisci tournants che ruotano su se stessi traguardando il proprio indice teso. La straordinaria qualità della statua e la presenza di precisi riscontri iconografici hanno fatto subito pensare ad un opus nobile, cioè ad un capolavoro greco di un artista famoso, e quindi menzionato nelle fonti letterarie. Paolo Moreno, attento conoscitore della scultura greca classica ed ellenistica, ha voluto riconoscere nella statua di Mazara il satiro che, secondo la notizia di Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXIV, 69) faceva gruppo con Methe (l’allegoria dell’ubriachezza) in un probabile donario per la vittoria di un corego, localizzabile sulla Via dei Tripodi ad Atene; con questa figura erano già stati identificati, ipoteticamente, il Satiro versante e il Satiro in riposo già citati, ma certamente il movimento frenetico del bronzo di Mazara sembra di gran lunga più adatto ad esprimere l’estasi dell’ebbrezza che costituiva il tema del gruppo.
Tratti stilistici prassitelici sarebbero da riconoscere nella morbidezza di modellato con cui sono rese le carni, nella forma del volto, che richiama la Cnidia e l’Apollo Sauroctono e nell’attaccatura dei capelli, che ricorda quella dell’Artemide di Gabi.
Le analisi archeometriche, però, tenderebbero ad escludere una datazione della statua al IV secolo a.C.; il Satiro di Mazara è infatti realizzato in una lega bronzea ternaria, rame-stagno-piombo (con tenori di piombo tra il 14 e il 21 percento) che non sembra essere mai stata utilizzata nelle fonderie greche di età classica (che lavorano con una lega binaria, rame-stagno), mentre è frequente nelle statue bronzee di età romana. Questo, tuttavia, non esclude necessariamente un’attribuzione a Prassitele dell’opera. La fusione a cera persa con il metodo indiretto consentiva infatti di conservare l’archetipo, ovvero il modello originale, in argilla o in gesso, realizzato dall’artista; e che questi modelli potessero essere conservati a lungo, e riutilizzati anche molto tempo dopo la loro creazione, è stato recentemente dimostrato dalle accurate analisi effettuate sulla statua bronzea di atleta recuperata nel 1999 nelle acque croate di fronte all’isola di Lussino (Losinj), realizzata, probabilmente come altre copie (l’Atleta di Efeso ora conservato a Vienna e la testa Nani adesso a Forth Worth, Texas) intorno alla metà del I secolo a.C. da un archetipo, attribuito a Policleto il Giovane o a Dedalo di Sicione, databile intorno al 360 a.C.
È dunque possibile ipotizzare che il Satiro di Mazara sia stato realizzato in età romana riutilizzando l’archetipo originale di Prassitele, forse a seguito di una specifica richiesta di un committente (che potrebbe essere stata limitata alla sola figura del Satiro, non al gruppo statuario di cui faceva originariamente parte); non è dunque, forse, il medesimo che si trovava sulla Via dei Tripodi ad Atene, e probabilmente già giunto a Roma in età tardorepubblicana, ma un suo “gemello”, ricavato dallo stesso modello creato per la realizzazione dell’originale.