Vedi PRASSITELE dell'anno: 1965 - 1996
PRASSITELE (v. vol. VI, p. 423)
Gli studi più recenti permettono di delineare con una certa probabilità la dinamica storica della formazione e dello sviluppo della bottega, poi passata a P., per diverse generazioni. Essa sembra risalire a Mirone, che per primo formulò schemi con figure concentrate nelle azioni a cui sono intente e apparentemente incuranti del mondo esterno. Sembra interessante il fatto che Mirone realizzò un'opera (il Perseo) per il Braurònion dell'Acropoli; dopo di lui altri artisti della bottega, fino a P., eseguiranno lavori per lo stesso santuario.
Mirone ha formato artisticamente, oltre a Lykios, Styppax e Prassitele il Vecchio, antenato del nostro (Corso, 1986). Lykios e Styppax approfondiscono infatti il tema di efebi intenti in azioni di culto, colti in atteggiamenti «istantanei»; il primo tra l'altro è attivo ancora nel Braurònion (col Fanciullo versante acqua in un perirrhantèrion). La bottega continua probabilmente con Strongylion, di scuola mironiana, celebre dalle fonti per la rappresentazione di giovenche, il quale realizza un'opera per il Braurònion sull'Acropoli (il Cavallo di Troia), e che elabora inoltre un'Artemide giovinetta (nota da monete) con corto chitone per il santuario megarese di Artemide Sòteira. Strongylion ha eseguito lavori anche per il Santuario delle Muse sull'Elicona (le Nove Muse), dipendente da Tespie. Sembra che abbia introdotto nella bottega Olympiosthenes e Kephisodotos il Vecchio, perché con essi realizzò per lo stesso santuario un altro gruppo di Muse. Kephisodotos, che forse continuò a esser legato al culto di Artemide Sòteira (se a lui può essere attribuita la statua del Pireo), era di famiglia benestante e di elevato rango sociale (Davies, 1971; Lauter, 1980).
P., nato nel 400-395 (Davies, 1971), dev'esser figlio di Kephisodotos il Vecchio (il Davies pensa ne fosse il genero, proposta che non è sembrata plausibile). Il suo nome equivale a «colui che attende ai misteri», certo gli Eleusini, con allusione a Prassitea, figura della saga di Eleusi. P., iniziato ai Misteri Eleusini, fu infatti scultore particolarmente apprezzato dai fedeli di questo culto; e infatti ai santuarî di Demetra e Kore è destinata una parte cospicua della sua produzione, con statue di culto e votive, pubbliche e private (Harward, 1982). Il carattere «teatrale» delle creazioni prassiteliche, intente alle proprie azioni con apparente noncuranza verso l'ambiente esterno, figure di genere o mitiche, viventi in mondi lontani dai centri della vita associata (come mostrano le aggiunte di tronchi d'albero o altri elementi allusivi) e ignare dello spettatore posto dinanzi a esse, rese la bottega del nostro scultore particolarmente apprezzata per committenze pubbliche e private di monumenti dedicati in occasione di vittorie teatrali, particolarmente quelle che avevano luogo nel Teatro di Dioniso Eleutereo; di qui, forse, il reiterato interesse di P. per immagini di Dioniso ed esseri del suo corteggio.
La centralità nella produzione di P. delle divinità afferenti alla sfera erotica (Afrodite, Eros e loro corteggio: a questo tema si riconducono i ritratti di etere) sembra dovuta in primo luogo all'importanza dei relativi culti nella temperie religiosa e cultuale del IV sec.; si è postulata inoltre la pertinenza di P. all'ambiente platonico (Chen, 1983; Zimbrich, 1984), dal quale egli avrebbe mutuato l'esigenza di cogliere, con la propria opera, gli echi dei paradigmi assoluti, iperuranei, della bellezza e dell'amore; esiti di questa istanza sarebbero le sue statue di Afrodite ed Eros, concepite come espressione delle «vere forme» riconquistate dalle due divinità, e viste pertanto come epifania delle stesse. Anche l'adozione di sapienti modellazioni superficiali aveva la funzione di rendere le statue credibili come apparizioni. P. ricercava la forma ideale di Afrodite tramite gli esempî terreni di bellezza più prossimi all'archetipo (dunque col ricorso a modelle di eccezionale beltà: p.es., Frine e Cratina per la Cnidia); quella di Eros cercando di esprimere nella scultura lo stesso sentimento d'amore inteso come «segno» della presenza del dio nell'animo (cfr. Anth. Plan., IV, 204). Con la centralità di questa ricerca, tesa a valorizzare l'esperienza dell'èros terreno come strumento di conoscenza dell'èros divino, è connessa l'importanza della componente individualistica nell'attività di P., di cui diverse opere (Eros di Tespie; Eros dormiente; ritratti di Frine) appaiono segnate, almeno secondo le fonti, da vicissitudini amorose (questo dato s'inquadra bene nell'affermarsi di nuove istanze sociali nel mondo greco, sempre più improntato a esigenze personali in contrasto con gli interessi della collettività).
P. lavorò anche per santuarî tradizionalmente legati all'attività della bottega da lui ereditata (Braurònion; Tespie e santuario dell'Elicona; Artemide Sòteira a Megara; Tebe, dove aveva lavorato già Senofonte, aiutante del padre); egli, con la sua fortunata attività, affermò la propria bottega in altre sedi ancora (in diversi santuarî di Megara, in Argolide, in città dell'Asia Minore, ecc.), dove non a caso saranno poi richieste opere dei suoi figli.
La dispersione delle opere di P. in un ambito geografico particolarmente vasto (da Messana a Olbia Pontica) non è più spiegabile con continui viaggi dello scultore, ma con il fatto che la sua produzione, che ebbe luogo soprattutto ad Atene, era finalizzata a committenti o acquistata da compratori di varia provenienza. Da Pausania (1, 20, 1-2) si arguisce infatti che egli scolpiva spesso opere da esporre in bottega in attesa di compratori, oltre che per specifici committenti. P. mutò l'indirizzo di produzione della sua bottega, passando da una preminenza nel settore bronzistico (privilegiato da Mirone a Kephisodotos) a quello della scultura in marmo, più adatta al conseguimento di quegli effetti pittorici particolarmente amati dall'artista.
P., grazie al suo successo, incrementò le ricchezze già cospicue della famiglia; egli può essere annoverato tra i 300 uomini più ricchi dell'epoca ad Atene, come documentano le liturgie da lui sostenute (Lauter, 1980). Il ceto di appartenenza, la cultura platonizzante di P. e la sua relazione con Frine, fuggita da Tespie quando la città, di tendenza oligarchica, fu distrutta dai democratici tebani, hanno indotto a pensare che egli fosse di indirizzo oligarchico. La relazione con Frine di Tespie si inquadra molto bene nell'ambito degli interessi di lavoro che da tempo legavano la bottega di P. con l'ambiente tespiese. Da alcune iscrizioni (IG, II2, 1623, 1628, 1629) si desume che P. morì intorno al 326 e che Kephisodotos il Giovane ne ereditò le sostanze (Lauter, 1980).
L'individuazione delle creazioni di P. nel patrimonio monumentale e la conseguente articolazione nel tempo della ricerca formale dello scultore sono state oggetto di indagine anche nell'ultimo trentennio.
Prima tra le opere giovanili di P. è stata ritenuta la colonna delfica delle danzatrici (v. vol. III, fig. 54), attribuitagli in conseguenza della lettura, sulla probabile base del monumento, della sua firma sotto una dedica del generale Timoteo per la vittoria di Alizia del 375 (Vatin, 1983): l'effettiva esistenza di questa iscrizione è stata negata (Zancani Montuoro, 1984), ma la verifica sul monumento, con pieno riscontro della medesima (Corso, 1988), rende attendibile il riferimento dell'opera a P. giovane; essa sarebbe alla base di tre tipologie valorizzate da P.: la statua femminile su colonna; quella velata specie; e i monumenti sormontati da tripodi (v. anche i confronti tra le danzatrici e l’Afrodite Cnidia in F. Poulsen, Delphi, Londra 1920, figg. 125-126). Si deve pertanto ritenere che P., nato nel 400-395, abbia cominciato a lavorare prima del 375, rimeditando in una prima fase le soluzioni formali ottenute dai maestri di età postfidiaca, da Kallimachos a Timotheos, necessarie premesse delle ricerche in chiave pittorica della fase matura di Prassitele.
Tra le statue della piena giovinezza, il Versante (v. vol. VI, fig. 460), identificato con il «Satiro che porge da bere» ricordato da Pausania (1, 20, 2) è stato distinto dal «Satiro di Via dei Tripodi», riconosciuto invece nel Satiro in riposo (v. vol. VI, fig. 464; Gercke, 1968): la proposta lascia perplessi perchè Pausania (1, 20, 1-2) parla d'un solo Satiro «che porge da bere» posto, appunto, lungo la Via dei Tripodi (il Versante è contrapposto all'Eros di Tespie con le correlazioni μεν e δέ; si tratta quindi, di un'unica opera identificabile con il «Satiro di Via dei Tripodi», citato dal Periegeta poco prima insieme con l’Eros di Tespie; inoltre il Satiro in riposo, ben noto in più copie, deve essere considerato cronologicamente posteriore al «Satiro di Via dei Tripodi», ritenuto da Pausania coevo all'Eros di Tespie. La tesi della Ajootian (1992) di considerare il Versante una creazione romana ispirata alle figure di coppieri, dal ritmo analogo, tratte da rilievi tardoclassici con scene di banchetto, deve essere respinta, essendo più verosimile che le figure a scala ridotta dei rilievi derivino dal prototipo statuario.
L'Eros di Tespie è stato riconosciuto nel tipo «Farnese- Steinhäuser» (v. vol. VI, fig. 464; Α. Hermary, in LIMC, in, 1986, pp. 850-942, s.v. Eros), per quanto questa iconografia mostri il dio intento a un'azione e non assorto, quasi in uno stato di malinconia, come tramandano le fonti; è forse quindi più verosimile il riconoscimento dell'Eros di Tespie nel tipo «Centocelle», la cui espressione triste e meditabonda è più consona con la notizia che P. vi avrebbe espresso l'amore come struggimento. Il tipo «Farnese-Steinhäuser» potrebbe essere inserito, invece, in una serie di varianti derivate fin dal 350 dall'Eros di P. in bronzo, coevo al Versante, descritto da Callistrato (Stat., 3; Pfrommer, 1980). L'Afrodite di Tespie è riconoscibile nel tipo «Arles» (v. vol. I, fig. 180), perché la dea è rappresentata secondo uno schema simile in un tipo monetale di Tespie (Oikonomides, 1964); il rendimento delle superfici in questa opera rinvia alla forte influenza su P. giovane del padre, che era essenzialmente un bronzista. Il rinvenimento di copie soprattutto in teatri è spiegabile con il carattere «scenografico» della statua, voluto dallo stesso P. (come si arguisce da Alcifrone, IV, I, frg. 3). La datazione del tipo al I sec. a.C. (Ridgway, 1976) è resa impossibile dalla moneta tespiese.
È stato riesaminato anche il tipo, strettamente connesso all'Afrodite d'Arles, che prende il nome dalla copia al Museo Lapidario di Arles: la testa qualitativamente migliore della serie, trovata ad Atene presso la Torre dei Venti (Atene, Museo Nazionale), è stata ritenuta opera originale di P., pertinente a un ritratto di etera eretto inizialmente in Via dei Tripodi (Lauter, 1988), mentre altri hanno creduto di vedere in tale tipo la tradizione iconografica derivata dalla Frine del maestro che a Tespie formava una triade con l'Afrodite e l'Eros (Corso, 1990).
L'attenta lettura della descrizione da parte di Callistrato (Stat., 8) di un Dioniso in bronzo ha portato inoltre alla riproposizione del riconoscimento già precedententemente avanzato di tale creazione nel Dioniso tipo «Sambon-Grimani», anche per le consonanze, ritmiche e anatomiche, di quest'opera con le altre note della produzione giovanile dello scultore (Corso, 1990).
Il riconoscimento dell’Artemide di Megara nel tipo «Dresda» (v. vol. VI, fig. 461) è ora respinto (Vierneisel-Schlörb, 1979), probabilmente a torto perché il tipo concorda con l'Artemide della triade apollinea, visibile su alcune monete di Megara, gruppo che era stato realizzato appunto da P. (Paus., I, 44, 2). L'attribuzione alla bottega di P. della base coregica di Via dei Tripodi (v. vol. v, fig. 603; vol. VI, fig. 468) ha ricevuto nuove conferme (Berger, 1983; C. Gasparri, in LIMC, III, 1986, pp. 414-514, s.v. Dionysos), ma è stata respinta dallo Jung (1986), che pensa a un lavoro neoattico: tuttavia in favore della paternità prassitelica parlano il probabile riferimento a questo monumento come prassitelico in un'iscrizione (IG, II2, 3089), e il fatto che in età neoattica la pratica dei monumenti coregici era ormai obsoleta.
La critica più recente ha continuato il dibattito sulla pertinenza all'ambito prassitelico di alcuni fortunati tipi scultorei di ambito eleusinio proposti soprattutto con rilievi (i più notevoli sono quelli dal Ploutònion di Eleusi nel museo di Eleusi, v. vol. IV, fig. 462; da Eleusi al Louvre; da Mondragone al Museo Nazionale di Napoli; dal Pireo al Museo Nazionale di Atene), con la Kore Uffizî e con statuette della serie che fa capo agli esemplari dal santuario di Kyparissi a Coo (Kabus-Jahn, 1975; Peschlow-Bindokat, 1972; L. Beschi, in LIMC, IV, 1988, pp. 844-892, s.v. Demeter). Nonostante gli approfondimenti anche decisivi, permane tuttavia problematica la dipendenza di singoli tipi da statue di determinate composizioni di divinità eleusinie create da P., tramandate dalle fonti. Lo lacco di P. è stato invece di recente ipoteticamente riconosciuto nel giovane stante con fiaccola che chiude a destra la composizione del Sarcofago di Torrenova (v. vol. VII, fig. 31) e in quello in posizione di chiusura, anch'esso sul lato destro della scena, del rilievo di Mondragone (E. Simon, in LIMC, V, 1990, pp. 612-614, s.v. Iakchos). Tra le opere della maturità di P., la Cnidia (v. vol. I, fig. 181; vol. VI, fig. 467) riceve nuova luce dallo scavo del Santuario di Afrodite Euplòia a Cnido (v.), che avrebbe condotto al rinvenimento del tempietto rotondo, al centro del quale sarebbe stata posta la statua, e della base di quest'ultima. Le strutture sono databili all'ellenismo inoltrato, ma poiché la terrazza fu costruita nel IV sec., è possibile che una prima rotonda fosse stata eretta già per l'originaria collocazione della statua nel santuario (Love, 1972; Closuit, 1978); a essa, se si accetta l'identificazione del santuario, si riferirebbe infatti la tradizione letteraria (Anth. Pian., IV, 160, 3) ancora di età tardoclassica.
Nella produzione copistica derivata dalla Cnidia, è stata nuovamente studiata la relazione intercorrente tra i due sottotipi principali, la Cnidia tipo «Colonna» e la Cnidia tipo «Belvedere»: la prima (v. vol. I, fig. 181) è stata considerata l'immagine più prossima all'originale dal von Steuben (1989), mentre altri (Corso, 1988), basandosi soprattutto sul confronto con la figura dell'opera prassitelica proposta su monete imperiali di Cnido, ritiene più attendibile per tal riguardo la Belvedere. Per il tipo «Colonna», un argomento decisivo a favore dell'attribuzione di questa ricreazione all'ellenismo asiano è stato visto nella foggia della mantellina tenuta dalla dea sopra la brocca, che troverebbe appunto confronti in tale ambito (Pfrommer, 1985). La valutazione di maggiore o minore prossimità alla creazione prassitelica delle due interpretazioni «Colonna»/«Belvedere» comporta anche divergenti datazioni dell'originale: chi infatti si basa sulla tradizione «Belvedere», dalle forme più agre, tende a datare la Cnidia verso il 360, facendola coincidere dunque con l'akmè pliniana dello scultore che cade nel 364-361, mentre chi privilegia la tradizione «Colonna», che denota un'interpretazione pittorica più avanzata, abbassa la datazione della Cnidia al 340-330 circa.
Può dirsi tramontata l'ipotesi di riconoscere in una testa marmorea di dea trovata a Cnido nel santuario delle divinità infere, a quasi 1 km di distanza dal Santuario di Afrodite Euplòia identificato dalla Love, la testa originale della Cnidia, tesi respinta sia per il rinvenimento in un santuario distinto da quello in cui doveva trovarsi il capolavoro prassitelico, sia per la qualità non altissima della testa in questione, sia soprattutto perché sappiamo dalla cronaca dello storico bizantino Giorgio Cedreno (322 b) che la Cnidia fu portata a Costantinopoli. Tale testa, con la Demetra di Cnido, dimostra però il profondo influsso della maniera prassitelica a Cnido nell'inoltrato IV secolo. La partecipazione di P. alla creazione dell'apparato scultoreo del Mausoleo di Alicarnasso (v. vol. IV, figg. 112-113), asserita da Vitruvio (VII, praef, 13) che lo associa in tale impresa a Leochares, Bryaxis e Skopas, mentre Plinio (Nat. hist., XXXVI, 30-31), pur riportando gli stessi altri tre nomi dati da Vitruvio, aggiunge a essi il solo nome di Timotheos, è stata oggetto di nuovi tentativi di spiegazione: si è proposto che Timotheos, il più anziano dei quattro scultori ricordati da Plinio, fosse morto a lavori iniziati e vi fosse subentrato P. (Stewart, 1990), ovvero che Timotheos fosse stato incaricato della sola scultura a rilievo di un lato del monumento, P. solo di quella a tutto tondo sempre di un lato dell'opera, per le specializzazioni delle rispettive botteghe nel secondo quarto del IV sec. in tali ambiti, mentre gli altri tre scultori sarebbero stati incaricati di sculture sia a tutto tondo sia a rilievo: quest'ultima ipotesi sarebbe corroborata dalla sigla Π incisa su alcuni leoni del Mausoleo, che designerebbe la bottega e sarebbe dunque scioglibile come Π(ραξιτέλους) (Corso, 1988).
Contrariamente all'opinione che sia opera di genere, l'Apollo Sauroktònos (v. vol. VI, figg. 462-463) poteva essere una statua di culto, forse posta ad Apollonia al Rindaco (compare su monete di questa città entro un tempio), e portata a Roma da Lucullo nel 73 a.C. (Corso, 1989). Il valore religioso della scultura è confermato dalla presenza della lucertola che era ritenuta foriera di malanni (Maxmin, 1973). Il tentativo di abbassare la datazione del Sauroktònos all'età imperiale (Ajootian, 1992) non può essere accolto sia perché tale iconografia è descritta da Plinio (Nat. hist., ΧΧΧΙΝ, 70), che ne attribuisce la creazione a P., sia per l'omogeneità di concezione dell'immagine ritmica e stilistica che lega quest'opera alle altre note della maturità di Prassitele. Il Satiro in riposo (v. vol. VI, fig. 464), che deve essere riferito al Satiro denominato Periboètos, cioè «famosissimo», ricordato da Plinio (Nat. hist., ΧΧΧΙV, 69), essendo noto in un numero di esemplari assai alto, superante il centinaio (Gercke, 1968), è stato recentemente ripuntualizzato grazie al rinvenimento ancora di un esemplare, di ottima qualità (Spinola, 1990).
Il riconoscimento dell'Artemide Braurònia nel tipo «Gabî» (v. vol. VI, fig. 471) è stato talora rifiutato (Condis, 1967), perché questo tipo non è riproposto nelle stele votive della seconda metà del IV sec. di Brauron; è tuttavia verosimile che per il santuario si replicassero su stele ed ex voto le statue di culto del santuario stesso, e non quelle del Braurònion ateniese. Che il tipo «Gabî» sia collegabile con la Braurònia pare per altro garantito dall'atto a cui è intenta la dea, che manifesta «gradimento» delle vesti a lei offerte - sappiamo dalle fonti - dalle giovani donne ateniesi. Tramontate sono l'individuazione della Braurònia in citazioni di statue da rendiconti del santuario (Linders, 1972) e la conseguente datazione della statua agli anni quaranta del IV secolo.
Il riconoscimento, già proposto dal Becatti, delle figurazioni dei Dodici dèi nel Santuario di Artemide Sòteira a Megara attribuite a P. nei ritmi delle figure a rilievo del Dodekàtheon ostiense è stato ora riproposto, con le osservazioni aggiuntive sul particolare spicco nella composizione di Artemide, fatto che si addice a una composizione prevista per un santuario di questa dea, e di Afrodite, il che rinvierebbe alla centralità della dea dell'eros nella temperie prassitelica (Corso, 1988).
All'Afrodite Pselioumène è ora ricondotto su basi convincenti il tipo «Pourtalès-Mirina» (Besques, 1983). L'Eros dormiente (Scolio a Pausania, R, p. 144 Spiro), allusivo a un momentaneo venir meno dell'amore di P. per Frine, è stato riconosciuto nel tipo «Torino» (Söldner, 1987): la proposta lascia perplessi, perché il tipo iconografico è dipendente dagli eroti bambini di tradizione lisippea, mentre gli eroti di P. sono adolescenti.
Dell'Eros di Pàrion (v. vol. VI, fig. 466) sono stati confermati i riconoscimenti come derivazioni da tale prototipo per gli eroti Borghese, da Nicopolis ad Istrum, del Cabinet des Médaillés di Parigi e di Coo; inoltre un Eros dipinto su un askòs apulo a figure rosse in stile di Gnazia a Ruvo, ancora del tardo IV sec., è stato considerato un'eco particolarmente precoce della creazione, che ne dimostrerebbe la fortuna quasi immediata (A. Hermary, locxit.).
Per la produzione tarda di P., si deve partire dall'Hermes di Olimpia (v. vol. IV, fig. 11), rinvenuto nell'Heràion di Olimpia laddove Pausania (v, 17,3) lo aveva segnalato come opera di P., ma spesso considerato dalla critica moderna posteriore alla fioritura di questo maestro. Tale creazione è ora nuovamente ritenuta un originale di P. (Wycherley, 1982). Inoltre poiché l'Heràion era caratterizzato da una successione, a un tempo topografica e cronologica, dei donarî scultorei disposti negli intercolumnî della cella, da quelli più prossimi alla composizione di culto fino all'ingresso del vano, acquista rilievo il fatto che la statua collocata di fronte all'Hermes nell'intercolumnio corrispondente del lato opposto fosse un'opera di Cleone, fiorito nel 380-330 a.C., ambito cronologico che dovrebbe pertanto valere anche per l’Hermes. Infine, poiché Dioniso e Hermes erano protettori rispettivamente degli Elei e degli Arcadi, è verosimile che tale donario sia celebrativo dell'aiuto degli Arcadi agli oligarchi di Elide, quando questi presero il potere in questa città, nel 343 (Corso, 1988). La seriazione cronologica delle calzature in Grecia composta dalla Dohan Morrow (1985), che collocherebbe quella dell'Hermes nell'ellenismo inoltrato, basata su pochissimi esempi limitati alla documentazione scultorea, non è accettabile; inoltre la suola indentata, che caratterizza la calzatura dell'Hermes, è riproposta solo tre-quattro decenni dopo dalla Thèmis di Chairestratos, e una lacuna documentaria di un periodo così breve in un corpus tanto esiguo di tipi ed esempi di calzature sembra plausibile. Inoltre la sezione superiore della calzatura dell'Hermes presenta stringenti analogie con quella dell'Artemide di Gabî, probabile copia della Braurònia, il che farebbe pensare che tale tipo di sandalo fosse stato ideato da P. per sue immagini di divinità, così da evidenziarne l'elasticità, la vitalità e la venustas (Corso, 1988).
Per quanto riguarda la Base di Mantinea (v. vol. IV, fig. 993), si notano ripetuti tentativi di abbassarne la datazione al primo ellenismo, operazione discutibile, poiché la pertinenza della base alla bottega di P. pare garantita da Pausania (VIII, 9, 1), nonché dai molteplici rapporti istituibili tra le iconografie di Apollo, Marsia, dello Scita e delle Muse di questa base e altri monumenti dell'arte prassitelica (Corso, 1988).
La relazione tra le Muse mantineesi e le diverse rappresentazioni scultoree di Muse, considerate di ascendenza tardoclassica e denuncianti un linguaggio formale prassitelico (v. vol. V, figg. 400-401), è stata ripetutamente approfondita, anche in rapporto con l'annoso problema dell'identificazione delle iconografie delle Tespiadi, statue di Muse quasi sicuramente di P., esposte a Roma presso l’aedes Felicitatis (cfr. Kabus-Jahn, 1975; Jacob-Felsch, 1969; Linfert-Reich, 1971; Croissant, 1986; Arciprete, 1991). Pure connessa a questa tematica ritmica appare l’Atena tipo «Arezzo» (v. vol. VI, fig. 469): l'ascendenza tardoclassica dell'interpretazione di questa figura complessivamente intesa è oggi acquisita grazie alla ricomposizione di una statua frammentaria di Atena stante un tempo sull'Acropoli di Atene, assai prossima per configurazione all'Atena di Arezzo e databile al 320 circa (Mantis, 1990); tuttavia permane incerto il riferimento dell'Atena di Arezzo all'orizzonte epocale di Kephisodotos il Vecchio o a quello di Prassitele.
È stata inoltre confermata la relazione tra il Dioniso d'Elide di P. e il Tauromorfo tipo «Vaticano», che ce ne farebbe conoscere il capo (Parise Badoni, 1975). La Tyche di P. a Megara, proposta su monete di questa città, è stata riconosciuta nel tipo «Sambon» (Effenberger, 1971).
La Rhea porgente la pietra in fasce a Kronos di P. a Platea, pare individuabile nel tipo «Ara Capitolina» (v. vol. IV, fig. 489), dipendente da un modello del IV sec., come è ora documentato dallo Hafner: caratteristico il linguaggio allusivo del tardo P., per cui una parte della composizione è data per sottintesa e lasciata all'integrazione mentale dello spettatore.
Per il c.d. Eubuleo (v. vol. Ill, fig. 618), recenti studi iconografici hanno portato a identificazioni contrastanti del soggetto, ravvisato in Eubuleo, Trittolemo, Theòs e persino Alessandro Magno. La riconduzione di tale creazione a P. è stata riproposta (Carinci, 1987; Corso, 1988), sulla base della rilettura dell'esempio migliore della serie, proveniente dal Ploutònion di Eleusi, quasi sicuramente il prototipo originale e, se è valida la predetta attribuzione, pertanto forse uno dei pochi originali superstiti di tale bottega (contra Schwarz, che pensa a Bryaxis).
L'Afrodite Townley è stata sottoposta a una particolareggiata analisi stilistico-iconografica che ha permesso di ritornare alla vecchia ipotesi del Furtwängler di considerarla copia della Frine di P. su colonna a Delfi (Corso, 1990).
L'Afrodite Leconfield-Petworth, da sempre ascritta a P., è stata ora ristudiata nell'ambito della produzione tarda del maestro (Stewart, 1977), con la conclusione possibile che essa trasmetterebbe l'immagine della testa dell'ultima Afrodite di P., quella per Alessandria al Latmo in Caria e risulterebbe un originale della bottega stessa, realizzato nel tipo di tale creazione di poco antecedente (Corso, 1992).
Il recente rinvenimento di alcuni frustuli dell'apparato scultoreo dell'altare tardoclassico dell'Artemisión di Efeso (v.) impone di impostare il problema del rapporto intercorrente con gli èrga di P., che come sappiamo da Artemidoro (apud Strab., XIV, 1, 23, 641), avevano impreziosito tale monumento: il riconoscimento in questi frammenti del linguaggio formale tardoprassitelico (Corso, 1988; Arciprete, 1991) legittimerebbe la proposta che il maestro ateniese con la sua cerchia potesse aver creato in bottega modellini su scala ridotta, che poi maestranze locali ioniche avrebbero tradotto nel marmo a grana grossa utilizzato per i lacerti superstiti.
La Testa Aberdeen (forse raffigurante Eracle), per la sua altissima qualità e le indubbie consonanze con l'ultima maniera prassitelica, è stata pure considerata come un originale di questa bottega: tuttavia le diversità di rendimento rispetto all’Hermes di Olimpia rendono problematica la riconduzione di entrambe le opere allo stesso scultore; il Cook (1977) e lo Stewart (1990) per conseguenza si sono avvalsi dell'asserita prassitelicità della Testa Aberdeen per negare la diretta paternità di P. per l'Hermes.
L'Apollo Liceo (v. voll. I, fig. 1184 e VI, fig. 470), riportato da alcuni all'Atene di Licurgo (Schröder, 1986), è invece attribuito da altri al periodo medioellenistico attico (Nagele, 1987). In ogni caso, la non prassitelicità della statua si dedurrebbe da Luciano (Anach., 7), che la cita in termini illustrativi di un mito, mentre, quando parla di statue di P., ritiene preminenti l'aspetto formale e il coinvolgimento emotivo dello spettatore. La recente proposta del Dontas di accettare la datazione e l'inquadramento storico dello Schröder e di riferire tale creazione alla tarda produzione di Euphranor, al cui canone sarebbe riconducibile, risulta per lo meno plausibile.
Diverse altre opere già riferite a P. perché ripropongono moduli prassitelici, ma senza il sostegno di fonti scritte, come l'Hermes di Andro, il Sardanapalo (v. vol. VII, fig. 65), l'Efebo di Maratona (v. vol. III, fig. 1324), le Ercolanesi, sono ora prevalentemente attribuite alla corrente attica prassitelica - ma largamente eclettica - assai viva dal IV sec. a.C. all'ellenismo inoltrato.
La composizione dei Niobidi infine, a detta di Plinio (Nat. hist., XXXVI, 28) di incerta attribuzione tra P. e Skopas, è stata ora ipoteticamente riconosciuta in alcune terrecotte di piccolo formato del primo ellenismo e dai ritmi prassitelici, che farebbero pensare a P. (Corso, 1988), mentre d'altro canto si è riproposto il tradizionale riconoscimento di tale opera nei Niobidi tipo «Uffizi» (Geominy, 1984), con conseguente attribuzione del prototipo a Skopas (v.).
Sono altresì continuati i tentativi di riconoscere creazioni di Ρ. in figure di piccolo formato, quali immagini su gemme o monete, che, se non possono dir niente dello stile, possono però suggerire almeno un'idea generica del ritmo (Corso, 1988, 1989, 1992).
L'itinerario formale di P. è oggi pertanto individuato in un continuo approfondimento della resa pittorica delle immagini, nella duplice accezione di un trattamento chiaroscurale delle superfici, che giunge a intaccare quasi la struttura delle statue, almeno nelle opere tarde, e dell'ambientazione delle figure in un «quadro» evocante una realtà favolosa inattingibile.
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