Vedi PRASSITELE dell'anno: 1965 - 1996
PRASSITELE (Πραξιτελης, Praxiteles)
Scultore nato ad Atene, forse alla fine del V o nei primissimi anni del IV sec. a. C., da Kephisodotos, di cui fu forse anche allievo. Ebbe due figli: Kephisodotos e Timarchos, anch'essi scultori. Plinio (Nat. hist., xxxiv, 5o) pone l'acmè di P. nella civ Olimpiade (364-361) e può darsi che si riferisca all'opera più famosa, l'Afrodite Cnidia, a cui servì da modello l'etera Frine, figlia di Epicle, da Tespie, che venne forse ad Atene con i profughi della città distrutta nel 373 circa, e che ebbe poi il processo per empietà, in cui fu difesa da Iperide, forse verso il 340. A lei l'artista donò quattro statue. Pausania (i, 144, 2) disse che P. visse nella terza generazione dopo Alkamenes. Strabone (xiv, 23, p. 641 B) ricorda la decorazione che P. aveva fatto dell'altare dinanzi al nuovo Artemision di Efeso, e sappiamo che il tempio non era ancora compiuto nel 334, ma non se ne può dedurre una cronologia assoluta dell'altare, che è peraltro forse da porre fra le ultime opere del maestro.
Sebbene abbia adoperato anche il bronzo, egli predilesse il marmo, in cui realizzò quasi tutte le sue opere, e Plinio (Nat. hist., xxxvi, 20) dice giustamente che nella gloria del marmo superò perfino se stesso. Sappiamo che lasciava dare l'ultima velatura (gànosis) pittorica alle statue da Nikias (Plin., Nat. hist., xxxv, 122, 133).
Varrone (apud Gell., Noct. Att., xiii, 16) dice che nessuno, dotato di una certa cultura, di una certa humanitas, poteva ignorare P., ed egli fu certamente uno degli artisti più ammirati nell'antichità, specialmente nell'ambiente romano dove si moltiplicarono le copie delle sue opere per decorazioni di ville, di giardini e di edifici pubblici, e poeti e scrittori citarono il suo nome come esempio della scultura stessa. Le fonti letterarie ricordano una quarantina di opere e possediamo due sculture originali uscite dalla sua bottega, le lastre di Mantinea e la base della Via dei Tripodi; inoltre si sono identificate fra le molte copie romane alcune delle sue famose creazioni, sicché P. è forse una delle personalità artistiche greche meglio conosciute.
I soggetti delle sue creazioni sono generalmente divinità giovanili, di una fiorente bellezza, come Eros, Apollo, Artemide, Afrodite, Hermes, Dioniso, e anche gli esseri della natura selvaggia, come i satiri, sono trasformati dalla sua visione in bellissimi efebi. Il suo ideale è quindi la chàris, cioè la bellezza unita alla grazia. Egli non si muove nella sfera delle solenni divinità dell'Olimpo come Fidia e gli artisti del V sec., ma sceglie solo alcuni dèi o esseri semidivini e li riveste di una bellezza tutta umana con una intonazione già delicatamente sensuale e romantica.
Per questo suo particolare contenuto poetico crea anzitutto ritmi che sciolgono la figura da quell'equilibrio gravitante sul proprio asse che era stato il problema centrale dell'arte del V sec. e che aveva trovato la formulazione più complessa e organica in Policleto. I ritmi prassitelici sono o di appoggio a un sostegno laterale, dando una curvatura nuova, sinuosa, alla figura, o anche, quando il sostegno manca, il corpo si flette in una molle gravitazione, si rilascia in un inerte abbandono, o si curva in una posa raccolta, spesso con la testa reclinata, rifuggendo sempre dalla linea statica e verticale. La scala ritmica si adegua cioè all intonazione e al soggetto dell'opera, come anche il nudo, che si allontana da quella salda costruzione organica del V sec., esprimente quasi sempre energia e dinamicità, per assumere una carnosità più spessa che copre maggiormente la costruzione ossea e assume morbidezze nuove e più delicati trapassi, raffinando ancor più quel sottile senso coloristico che era stato sempre il carattere distintivo della scultura attica, alla cui tradizione è intimamente connaturato il temperamento atticissimo di Prassitele. Egli giunge cosi ad effetti di sfumato, specialmente nel modellato del volto e degli occhi, le cui palpebre si assottigliano dando allo sguardo un carattere un po' trasognato, che gli antichi critici definivano ὑγρός = umidus.
Anche il panneggio si intona a questa visione con più molli consistenze, con un fluire più mosso e ondeggiante di pieghe che si dispongono in varî ritmi obliqui, e non più rigidamente gravitanti, sottolineando così il senso ritmico della creazione e avvolgendo le figure femminili in eleganti drappeggiature che fasciano il corpo e mettono in rilievo il vario atteggiarsi delle membra con una grazia tutta nuova.
Se il severo e semplice peplo nel suo simmetrico cadere di pieghe architettoniche verticali era stato l'ideale panneggio delle solenni figure gravitanti del V sec., il chitone più sottile e lo himàtion che permettevano tante possibilità di varî avvolgimenti, di risalti e di cadenze, saranno preferite da P., che ne darà varie formulazioni, le quali diverranno tipiche, e che saprà farne uno degli elementi caratteristici del suo linguaggio formale.
Una delle prime creazioni del maestro è considerato generalmente il Satiro versante, molto ammirato dai Romani, perché se ne hanno più di 20 copie. L'originale era in bronzo, come dimostrano i puntelli delle traduzioni marmoree e la tecnica dei capelli. Le copie migliori sono quella n. 100 di Dresda, proveniente da Castel Gandolfo, dove ne furono trovate altre tre (Dresda e British Museum), quella da Torre del Greco al museo di Palermo, quella Mengarini da Anzio più frammentaria, ma di un morbido modellato specialmente nella testa. Il tronco di sostegno delle copie non doveva essere nell'originale facendo così apprezzare in tutto il fluido contorno la figura, che gravitava ancora sul proprio asse, poggiante sulla gamba sinistra, con la destra scartata, in cui il ritmo policleteo invertito acquista una scioltezza nuova, mentre la testa si reclina mollemente di lato, cinta dalla tenia con corimbi; la mano destra sollevata teneva un'oinochòe dalla quale versava il vino in una patera che era tenuta nella sinistra protesa.
Il ritmo riprende quello dell'atleta versante l'olio, di scuola mironiana e anche del Kyniskos di Policleto, ma con una grazia diversa, così come più ricco e morbido è l'effetto delle chiome ricciute strette dalla tenia rispetto ai varî diadoùmenoi della seconda metà del V secolo. A questo satiro, che si è pensato fosse quello ricordato da Pausania (i, 20, i) sulla Via dei Tripodi ad Atene di cui P. era molto fiero, si sono ispirati scultori di rilievi con scene di banchetto per la figura del coppiere (Svoronos, Museo Naz. di Atene, n. 1503, tav. 84; n. 1523, tav. 89; n. 1526, tav. 90; n. 1538, tav. 94); e in una moneta di Caracalla di Ulpia Pautalia compare un Dioniso, nello stesso schema, che tiene nella destra un tralcio di vite, derivato dalla creazione prassitelica e anzi per alcuni riproduzione di un Dioniso di Elide di P. (Paus., vi, 26, 1), che è invece piuttosto da ricercare nell'immagine, simile nello schema con la testa rialzata verso sinistra, su monete adrianee di Elide stessa, con rhytòn nella destra e patera nella sinistra.
Frine con uno stratagemma era riuscita a conoscere che il Satiro e l'Eros erano le opere preferite da P. ed ella si fece donare l'Eros dedicandolo in Tespie. Questo Eros si pensa di riconoscerlo in un tipo alato stilisticamente e ritmicamente vicino al Satiro versante, noto in una copia acefala dal Palatino al Louvre, restaurata, in un torso Farnese a Parma, in una copia acefala di Copenaghen. L'Eros di Tespie, che era in marmo pentelico, celebrato negli epigrammi (Anth. Gr., i, 164) fu portato a Roma da Caligola, restituito da Claudio, ripreso da Nerone, che l'espose nel Portico d'Ottavia, e gli fece dorare le ali. A Tespie era una copia dello scultore Menodoros di Atene (Paus., ix, 27, 3, 4; Cass. Dio, lvxi, 24). Non prassitelico sembra invece il bell'Eros malinconico dalle lunghe chiome incornicianti il volto reclinato, noto dalle copie Farnese di Napoli, da Centocelle al Vaticano, a Torino, all'Ermitage, che fanno pensare a un originale bronzeo.
Caratteri prassitelici, che per ritmo ci riportano vicino alle prime opere del maestro, mostra anche il bell'originale bronzeo ripescato nella baia di Maratona, raffigurante un efebo che teneva un oggetto nella mano sinistra protesa, sollevando il braccio destro. Il Rhomaios ha pensato ad Hermes con la tartaruga in mano, il Picard a un efebo con un gallo, ma l'azione rimane incerta.
Accanto al tipo giovanile maschile svolto nelle statue di satiro, di Apollo, di Hermes, P. trattò anche quello giovanile femminile, specialmente in statue di Artemide, almeno quattro volte secondo le fonti. Al primo periodo deve appartenere il tipo noto in varie copie, di cui la più completa è l'Artemide di Dresda; riproduce probabilmente l'Artemide fatta per il tempio di Apollo in Megara (Paus., i, 44, 2) insieme con le statue del dio e di Latona, poiché concorda con l'immagine che troviamo su monete della città. È una creazione di fresca semplicità nel peplo a rade pieghe verticali, variate solo dal balteo a tracolla che regge il turcasso, da cui la dea sta traendo con la mano destra alzata una freccia. L'attribuzione a P. sembra confermata anche dalla riproduzione sull'ara di Ostia che ripete, come vedremo, tipi prassitelici.
Un'opera dell'officina di P. si può identificare grazie a un iscrizione del II sec. a. C. trovata nel teatro di Dioniso ad Atene, con una dedica fatta a Nike per una vittoria coregica, in cui è detto che questi doni votivi convengono anche a Nike, "quella che P. ha posto come compagna di Bromio in celebri agoni degli artisti, sotto i tripodi". Infatti si è trovata proprio sulla Via dei Tripodi una base triangolare decorata a rilievi con due Nikai e un Dioniso. Tanto le Nikai con patera e oinochòe, che rielaborano nello stile del IV sec. il tipo delle ergastinai partenoniche, quanto il Dioniso barbato dall'ampio e ricco panneggio in calmo atteggiamento gravitante, convengono all'arte prassitelica per il ritino e per il panneggio, e possono rappresentare un originale uscito dall'ergastèrion dello scultore nel primo periodo della sua attività. Sappiamo che P. aveva creato più volte l'immagine di Afrodite: la Cnidia, quella di Coo, una in Tespie dedicata da Frine insieme con l'Eros, una nell'Adonion di Alessandria in Caria, una in bronzo che era a Roma nel Tempio della Felicità.
Si è pensato di identificare quella di Tespie nel tipo detto di Aries dalla copia trovata nel teatro arlesiano, oggi al Louvre, certamente prassitelica e del primo periodo di attività del maestro. La copia di Arles è restaurata nelle braccia e rilavorata nel torso dallo scultore F. Girardon nel 1685, ma dalla copia nel Museo dei Conservatori sappiamo che il braccio destro era piegato e l'avambraccio sollevato verticalmente; il modellato del torso si può ben apprezzare nel frammento fine dal Teatro di Dioniso da Atene. Il ritmo richiama quello dell'Eros e del Satiro versante, come anche l'intonazione raccolta, con la bella testa reclinata di lato, cinta dalla doppia benda. Il panneggio che denuda tutto il torso indica, insieme alla struttura meno piena del corpo, un periodo anteriore alla Cnidia.
Nello stesso teatro di Arles è stato trovato nel 1823 un busto di Afrodite con la spalla sinistra nuda, da inserirsi in una statua panneggiata, la cui testa è vicina all'Afrodite precedente e di cui una copia si è trovata ad Atene nel 1889 mutilata con una croce scalpellata in fronte dai Cristiani. Ha caratteri tipicamente prassitelici, ma non sappiamo quale opera del maestro rappresenti; si è pensato al ritratto di Frine a Delfi, che era in bronzo dorato e su un'alta colonna (Paus., x, 15, 1; Plut., De Pyth. or., 15; Ath., xiii, 591 B; Dio Chrysost., Or., 37, 28; Aelian., Var. Hist., ix, 32) e a Tespie insieme con l'Eros e l'Afrodite di P. (Paus., ix, 27, 5; Plut., Amat., ix, 10); si è anche pensato alla Pseuoumeline "che porta un monile" ricordata da Plinio (xxxiv, 69), ma sono tutte ipotesi e la Pselioumène è stata ricercata invece dal Klein in un tipo noto da una serie di bronzetti, che fanno capo a quello Pourtalès, di Afrodite nuda in atto di infilarsi una collana.
Ma di questo tema, caro al maestro, l'espressione più compiuta è la celeberrima Afrodite Cnidia, considerata anche dagli antichi il suo capolavoro. P. aveva fatto due statue di Afrodite, l'una vestita e l'altra nuda per Coo (Plut., Nat. hist., xxxvi, 20-22) e gli abitanti scelsero quella vestita, mentre la nuda fu acquistata dagli Cnidii. Era in marmo pentelico (Luc., Iupp. tr., 10) e Luciano (Imag., 6) ammirava la bellezza del volto, delle chiome, della fronte, la linea delle sopracciglia e lo sguardo umido e pieno di grazia, definendola la creazione più bella di Prassitele. Era esposta su una base entro un monoptero che la rendeva visibile da tutte le parti. È celebrata dallo pseudo Luciano (Amores, II, 13) e dagli epigrammisti (Anth. Gr., 97, 8-9; 104, 9-10; iv, 168, 245). Un Nicomede di Bitinia offrì di pagare tutti i debiti della città in cambio della statua ma non l'ottenne. Plinio dice che si faceva apposta il viaggio a Cnido per vederla e si raccontano molti aneddoti sugli amori suscitati dalla sua vista; Cedreno dice che fu trasportata a Costantinopoli nel Lauseion, dove fu distrutta nel 475 da un incendio, ma la notizia non trova oggi credito. È riprodotta su monete di Cnido dell'epoca di Caracalla.
Le copie di quest'opera si moltiplicarono nel mondo romano e oggi se ne conoscono più di 50, di cui 5 con la loro testa, 22 acefale e 22 teste. Due delle migliori sono al Vaticano (Sala a Croce Greca e Gabinetto delle Maschere), una da Fiumicino a Monaco, altra a Palazzo Pitti, una da Acilia al Museo delle Terme, una nella Collezione Torlonia, ma l'opera era di marmo e non si poteva calcare e quindi si notano varie differenze nelle copie. Ci sono poi due tipi, uno con l'idria a terra e il panneggio più voluminoso, l'altro con l'idria più grande poggiata su una base e il panneggio più ridotto. Anche le teste mostrano varianti nella disposizione delle due tenie; fra quelle isolate primeggia la testa da Tralles nella Collezione Kaufmann a Berlino. L'originale si può forse riportare fra il 364 e il 361 nell'acmè del maestro.
A Parion in Misia P. aveva creato un Eros (Plin., Nat. hist., xxxvi, 23) riprodotto su monete antoniniane, nudo, alato, dal ritmo flessuoso, con la gamba sinistra molto scartata, il braccio destro steso lateralmente, l'avambraccio sinistro piegato, con un panneggio scendente lateralmente dalla spalla fin sotto il ginocchio. Il cosiddetto Genio Borghese al Louvre è troppo modesto per poter istituire un confronto.
Si ritiene generalmente che questa molle e raccolta gravitazione delle figure che costituisce la caratteristica ritmica delle opere del primo periodo di attività del maestro, si accentui ancor più in quelle della piena maturità, spostando la gravitazione fuori dell'asse della figura che si appoggia a un sostegno laterale, accrescendo la sinuosità del corpo. Una delle creazioni nate da questa visione ritmica più matura può essere il celebre Satiro anapauòmenos, cioè in riposo, che era a Roma al tempo di Plinio, una delle statue più ammirate nell'antichità a giudicare dal numero delle copie conservate, che raggiungono la settantina e che costituivano l'ornamento dei giardini romani. Le migliori sono quelle Torlonia da Tivoli al Capitolino, e un bel torso dal Palatino al Louvre. Opera di agreste e delicata sensualità, dove la scabrosità della pardalide attraverso il petto fa risaltare il molle e levigato nudo carnoso, e le sole orecchie appuntite restano a caratterizzare la natura semiferina di questo efebo, il cui flauto e l'albero di appoggio richiamano all'ambiente boschereccio.
Vicino al Satiro anapauòmenos per la concezione ritmica è l'Apollo sauroktònos bronzeo, che sta uccidendo con un dardo una lucertola sul tronco d'albero, su cui il dio mellefebo si appoggia con il braccio sinistro (Plin., Nat. hist., xxxiv, 70; Mart., xiv, 172). Più di 20 le copie note, di cui le migliori sono quelle dal Palatino al Vaticano, Borghese al Louvre; una ridotta e bronzea a Villa Albani, più convenzionale nel modellato; è riprodotto in gemme e monete imperiali di Philippopolis e di Nikopolis. Al movimento laterale si aggiunge anche un movimento in avanti, la figura si protende con leggerezza in un equilibrio instabile. Se Marziale (xiv, 172) vede nell'Apollo un fanciullo insidioso, il concetto originario era forse quello di un Apollo Alexìkakos, allontanatore del male, in quanto la lucertola era considerata nefasta e malefica, e l'artista non ha fatto un soggetto di genere. Due torsi a New York e a Napoli da Baia, raffiguranti un Eros alato ripetono lo stesso schema del Sauroktònos, ma non sappiamo se derivino da un originale di Prassitele.
Opera della maturità è certo l'Artemide Braurònia, che era già in posto nel santuario sull'Acropoli nel 346-45, come sappiamo da un ‛iscrizione del tempio (Paus., i, 23, 7). Si è cercato di identificarla in un tipo statuario detto di Gabii al Louvre, di cui si hanno tre copie, anche perché raffigurando la giovane dea in atto di agganciarsi il mantello sulla spalla destra con gesto pieno di grazia, si è pensato che il motivo avesse un riferimento con l'uso di dedicare vesti femminili alla Braurònia, con cui se ne addobbava l'idolo ligneo. Il gesto trova anche analogie con quello della Pselioumène. In questa creazione il panneggio costituisce il contenuto essenziale creando, con il gesto elegante, ricchi e variati partiti di morbide pieghe. Il panneggio sembra infatti acquistare sempre maggiore importanza nella visione artistica prassitelica di questo secondo periodo, come parrebbero indicare varie opere a lui attribuibili.
Poiché sappiamo che aveva eseguito la triade di Delo per il santuario di Latona a Mantinea (Paus., viii, 9, 1) si sono attribuite al suo ergastèrion tre lastre della base delle statue di culto con tre figure ciascuna, con la gara di Apollo e Marsia e sei Muse, manca la quarta con altre tre Muse. I panneggi delle Muse dai bene avvolti mantelli, il ritmo gravitante, spesso con la mano sul fianco, appaiono di gusto prassitelico e si possono datare tra il 350 e il 340. Questo schema del panneggio e del ritmo si ritrova anche in un tipo di Atena giovanile con elmo corinzio e la mano destra sui fianco, noto in diciannove copie, e detto dalla migliore, bronzea, di Arezzo. Una Atena di P. era nel tempio di Hera a Mantinea (Paus., viii, 9, 3) e il ritrovare il tipo di quella di Arezzo nell'ara ostiense, sembra confermarne l'attribuzione al maestro.
A questa stessa fase stilistica potrebbero appartenere le divinità eleusine, che sono ricordate dalle fonti sia nel tempio di Demetra a Atene (Paus., i, 2, 4; Cic., in Verr., iv, 60, 135; Clem. Alex., Protrept., 62) sia negli Orti Serviliani a Roma (Plin., Nat. hist., 23). Comunque troviamo in alcuni rilievi eleusini (Louvre, Napoli, Atene, Eleusi) le figure divine di carattere prassitelico, di cui la Kore richiama strettamente le Muse di Mantinea, e sono riprodotte anche in statue e statuette che ne attestano la celebrità.
Sappiamo inoltre da un'erma acefala della Galleria Lapidaria del Vaticano con l'iscrizione Eubouleus di P. che il maestro aveva rappresentato anche questa divinità eleusinia e si è da alcuni identificato l'originale nella parte superiore di una statua in marmo pario trovata nel Ploutonion di Eleusi, oggi ad Atene, la cui folta chioma ricorda il Satiro anapauòmenos e il cui morbido e carnoso modellato delle guance delicatamente sfumate indicherebbe un'opera della maturità dello scultore.
Pausania (i, 40, 3) nomina nel tempio di Artemide Soteira a Megara i dodici dèi di P. e una fine ara neoattica di età augustea trovata ad Ostia con l'iscrizione greca ΔΟΔΕΚΑ ΘΕΩΝ raffigura dodici divinità che mostrano tipici elementi stilistici prassitelici. Lo Zeus è una rielaborazione nello stile più ricco e patetico, specie nel volto, di quello fidiaco partenonico, l'Atena richiama quella tipo Arezzo, l'Artemide è una copia del tipo Dresda, l'Apollo stante ha lo stesso lungo chitone cinto come quello della lastra di Mantinea, l'Afrodite appoggiata a un sottile pilastrino è ritmata con prassitelica modulazione, e ha una carnosa e morbida testina vicina alla Cnidia, l'Ares dalle folte chiome ricciute spioventi è simile all'Eubuleo, l'Efesto, mentre nella testa richiama il Satiro anapauòmenos, ha il ritmo prassitelico della mano sul fianco, l'Hestia seduta ha un volto di un delicato sfumato con forme rotondeggianti, e trova un confronto stretto con le divinità eleusinie, il giovanile Hermes, dalla testa reclinata con ritmo mollemente gravitante e raccolto, si inquadra accanto al Satiro versante e all'Eros di Tespie, la Hera ha il panneggio delle Muse di Mantinea. Quest'ara, che il Carpenter e il Picard hanno giudicato eclettica, riassumerebbe invece nelle dodici figure i motivi più tipici del linguaggio prassitelico.
Luciano descrive nel Liceo di Atene (Anacharsis, 7) una statua di Apollo in atto di riposo e le sue parole bene aderiscono a un tipo apollineo, riprodotto su monete ateniesi del 50 circa a. C., raffigurante il dio che si appoggia a una colonna che sosteneva il tripode, reggendo con la sinistra un arco, con l'avambraccio destro poggiato sul capo leggermente inclinato indietro. La fama del tipo è attestata da varie copie, di cui le migliori sono al Louvre, a Venezia, a Dresda, a Kassel, e da varie teste dalle plastiche e soffici bande laterali di capelli e ricco nodo occipitale. Negli scavi americani dell'Agorà di Atene entro un pozzo si è rinvenuta una piccola copia in avorio, ricomposta da minuti frammenti. L'originale dovrebbe appartenere all'ultima attività del maestro. Una variante, forse già ellenistica, dell'Apollo Liceo si ha in un tipo con cetra invece che l'arco (Capitolino, Vienna), che compare in monete ateniesi.
Molto discussa è l'attribuzione a P. del famoso Hermes di Olimpia, trovato nel 1877 (vol. iv, fig. 11), nel tempio di Hera, proprio dove Pausania (v, 17, 3) ricorda un Hermes di Prassitele. Raffigura il dio giovanile nudo, che ha gettato la clamide su un tronco d'albero su cui ha appoggiato il piccolo Dioniso, cercando di distrarlo forse con un grappolo d'uva tenuto nella mano destra sollevata. Si tratta di un originale, mancante della parte inferiore delle gambe e del braccio destro, eseguito con notevole finezza tecnica, di un nudo morbido, con superficie levigata, mentre il panneggio è trattato con coloristica leggera scabrosità e plastica consistenza, e i riccioli formano una mossa e soffice massa, giocante con il terso nitore del volto carnoso. Molti sono stati gli archeologi che ritennero l'Hermes un originale prassitelico, caposaldo per la ricostruzione della personalità di questo scultore, ma il Blümel ha sostenuto una tesi diversa, che va trovando altri consensi, attribuendolo a un P. del II sec. a. C. Gli argomenti principali da lui addotti sono: la mancanza di copie, strana per un opera del grande e ammirato P. del IV sec.; la base su cui si ergeva, che ha modanature ellenistiche; la non rifinitura del modellato sulle spalle, dove si riconoscono le tracce di uno scalpello a tre punte in uso soltanto in epoca tarda; la levigatura; il puntello sul fianco, che mal si addice a un originale del IV secolo. Questi elementi si riscontrano invece in opere ellenistiche e il Blümel istituisce interessanti confronti con un Dioniso e un Efebo del II sec. a. C., ambedue da Priene a Berlino, per lo schema generale; con un torso di Zeus da Pergamo del II sec. a. C. con identica mancanza di lavorazione dietro le spalle; con una testa giovanile da Pergamo a Berlino, pure del II sec. a. C., per la struttura del volto, per il modellato dei capern e per la sfumata levigatura dei piani, e richiamando per la clamide la statua di Kleomenes del Louvre, del I sec. a. C. Meno persuasivamente il Blümel attribuisce poi lo Hermes all'ambiente pergameno, basandosi sul trovamento a Pergamo di due basi firmate da un P. del II sec. a. C. poiché l'artista, anche se ellenistico appare piuttosto attico e si dovrebbe vederlo sempre nella scia stilistica del grande P., allievo sotto questo aspetto a sua volta del padre Kephisodotos, autore di un simile Hermes.
La larga conoscenza dei modi di linguaggio del maestro attraverso un numero cospicuo di creazioni identificate in copie, ha favorito un facile attribuzionismo, che ha moltiplicato le opere riportate oggi dalla critica a Prassitele. Ricorderemo fra l'altro il tipo dell'Hermes di Andros con le copie Farnese a Londra e Belvedere al Vaticano, come psychopompòs, usato come statua funeraria; il Dioniso, detto Sardanapalo dalla copia vaticana, barbato, avvolto nel ben acconcio e ricco panneggio, per confronto con quello sulla base della Via dei Tripodi; il già citato Efebo di Maratona; i tipi delle cosiddette Grande e Piccola Ercolanese. Rimangono ancora da identificare molte opere ricordate dalle fonti, sebbene, specialmente per quelle che erano a Roma e in Italia, può darsi che talvolta il nome di P. sia frutto di errato attribuzionismo antico per suggestione di questo gran nome, o per nobilitare copie od opere anonime, o per errore.
Già dall'antichità si discuteva sull'atttribuzione a P. o a Skopas del Gruppo dei Niobidi (Plin., Nat. hist., xxxvi, 28), che oggi possiamo invece classificare sicuramente tra le creazioni del primo ellenismo.
Ricordiamo la decorazione dell'altare di Artemide Protothrònia nell'Artemision di Efeso da porre dopo l'incendio del 356 (Strab., xiv, 641); l'Artemide di Anticira con fiaccola nella destra, cane ai piedi e turcasso dietro le spalle (Paus., x, 37, 1), riprodotta su monete della città; una Latona in Argo (Paus., ii, 21, 8), una Tỳche e Peitho e Parergoros a Megara (Paus., 1, 43, 6); un Ratto di Persefone (Plin., Nat. hist., xxxiv, 69); un Agathodàimon (Bonus Eventus) e una Agathè Tỳche (Bona Fortuna) nel Campidoglio, e Menadi, cosiddette Thyadi, Cariatidi e Sileni nella collezione di Asinio Pollione (Plin., Nat. hist., xxxvi, 23; Anth. Gr., ii, 251, 2; Palat., ix, 756); statue bronzee di Tespiadi dinanzi al tempio della Felicità a Roma, rubate a Tespie da Mummio (Plin., Nat. hist., xxxiv, 69); il ritratto di un guerriero accanto al cavallo in una tomba ateniese (Paus., i, 2, 3), è una statua di Trasimaco a Tespie è documentata da un' iscrizione (Loewy, 76) e altre opere sono ricordate in epigrammi e in descrizioni ecfrastiche.
Due nuove firme si sono ultimamente aggiunte ampliando ancora la serie delle sue opere: una su una base, trovata negli scavi americani dell'Agorà di Atene, appartenente a una statua dedicata ad Archippe, figlia di Cleogene, dalla madre Archippe, e un'altra su una consacrazione eleusinia, trovata presso il cosiddetto Theseion e i cui caratteri epigrafici si datano nella seconda metà del IV sec. a. C. Ma talvolta il nome di P. è stato usato per rendere più famose alcune sculture tarde (ad esempio I. G. B., 502-503 = Marcadè, 11, 118).
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