Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Durante il Seicento nell’ambito della pratica medica sia i quadri generali di riferimento della patologia che le possibilità di intervento terapeutico non hanno subito le drammatiche modificazioni che hanno invece caratterizzato l’anatomia e la fisiologia. Tuttavia un mutamento è innegabile: la relazione tra medico e paziente si fa progressivamente più libera e la professione di medico, così come quella di chirurgo e di speziale, si apre a un mercato della cura più libero e più vivace. Il rituale della visita emerge lentamente dalla quasi totale assenza di contatto fisico (tattile), facendosi più articolato e rispondente ai nuovi canoni “scientifici”. I consulti ci informano sui cambiamenti intervenuti nella patologia e nelle tecniche di diagnosi, ma soprattutto nelle terapie. Può stupire che il rapporto di cura fosse vissuto con speranza e fiducia da parte del paziente, sia che si rivolgesse a chirurghi, speziali o levatrici, sia che investisse il medico “fisico”. Ne sono prova i “contratti di guarigione” risalenti al Seicento che, studiati di recente (Gianni Pomata), hanno gettato luce sulle modalità del rapporto tra pazienti e curanti in una grande città universitaria come Bologna.
La chirurgia, riabilitata e resa necessaria dall’impiego dei chirurghi nella dissezione, fa passi avanti importanti, non tanto e non solo in quanto disciplina autonoma e di pronto intervento, ma soprattutto perché il suo statuto diventa quello di una pratica “efficace”, come afferma il chirurgo napoletano Marco Aurelio Severino, con possibilità di intervento e di studio superiori a quelle della medicina “interna” tradizionale. La chirurgia ricava grande beneficio e fa grandi progressi tecnici anche grazie alla sua presenza diffusa in istituzioni come gli ospedali, o come gli eserciti e le flotte. Nell’età delle scoperte geografiche e dell’espansione delle rotte commerciali verso le Indie o verso le Americhe, a bordo delle navi spagnole e portoghesi, olandesi e inglesi, di solito non viaggiano medici, ma chirurghi, in grado di offrire interventi pronti e rapidi, ma anche di svolgere osservazioni pratiche e naturalistiche di grande importanza. Ugualmente accade che vi siano non medici, ma chirurghi, nei lazzaretti per gli appestati; nei reparti ospedalieri per gli accoltellati, cioè i numerosi feriti all’arma bianca nelle città e in quelli per gli “incurabili”, i malati di sifilide. Il fatto che i chirurghi siano all’avanguardia è dimostrato dalla loro accettazione relativamente rapida, quasi ovunque più rapida di quella dei medici, della nuova fisiologia harveyana. Secoli di abitudine al salasso e alle sue conseguenze, nonché la contiguità con il mestiere del macellaio, rendono comprensibile al chirurgo, e del tutto accettabile, uno schema di circolazione “chiusa”.
Un esempio significativo dello sviluppo di nuove tecniche è la chirurgia detta infusoria, l’iniezione diretta di liquidi nei vasi che, per alcuni anni, intorno al decennio 1660-70, sembra offrire nuove, straordinarie possibilità di cura. Nell’ideazione dell’infusione confluiscono sia gli stimoli provenienti dalle ricerche anatomiche, sia le conoscenze post-harveyane sulla circolazione, sia la pratica stessa del salasso. L’infusoria nasce in area tedesca, ma si diffonde rapidamente in tutta Europa; gli esperimenti hanno una forte impronta pratica, come dimostra l’insistenza sui dettagli tecnici, sulla peritia richiesta al chirurgo, sulla liceità o meno dell’operazione su pazienti viventi. Dall’infusione si passa rapidamente a sperimentare l’infusione di sangue, umano e animale, ossia a veri e propri tentativi di trasfusione. Superfluo forse aggiungere che questi si rivelano dei veri fallimenti, spesso anche pericolosi per i pazienti. Tra i liquidi che si infondono, ovviamente, ci sono in prima istanza sostanze chimiche: si può dire anzi che la stessa invenzione di una tecnica di questo tipo sarebbe stata possibile solo in un ambiente aperto alla sperimentazione sulle sostanze medicamentose di tipo “nuovo”.
La pratica terapeutica di tipo chimico conosce infatti uno sviluppo molto significativo, affermandosi come rimedio richiesto dalle élite nelle corti e nelle città, ma anche ricavandosi un posto riconosciuto non in alternativa, ma accanto ai rimedi tradizionali. La polemica dei medici “chimici” contro il salasso, una delle terapie più diffuse e applicate in maniera più indiscriminata tra quelle prescritte dalla medicina umorale, finisce, pur fra molte resistenze da parte dei medici tradizionali, per screditarne sottilmente l’uso. In generale, i medicamenti ricavati da sostanze minerali e metalliche entrano a pieno titolo nelle farmacopee cittadine e nell’uso degli speziali, così come le tecniche, ricavate dalla pratica chimica e distillatoria, di preparazione di sostanze medicinali di origine animale e vegetale. Lentamente, nel corso del secolo, i medicamenti composti della tradizione, e specialmente la teriaca, che di questi era probabilmente il più noto, perdono terreno. Prendono invece piede, nelle abitudini dei curanti e nelle preferenze dei pazienti, sostanze semplici, volte ad ammorbidire, “mollificare” e favorire la digestione (trasformazione) di umori e fluidi corporei, considerati responsabili di un’ampia classe di patologie. A questa trasformazione contribuiscono diversi fattori: l’affermarsi di un neo-ippocratismo incentrato sull’osservazione clinica e sulla capacità della natura di medicare, che ha fra i suoi protagonisti il medico inglese Thomas Sydenham; una certa crisi interna della terapeutica chimica “estrema”, che metteva a rischio la salute e la vita stessa dei pazienti a causa degli effetti collaterali incontrollabili di molte prescrizioni chimiche. Ma hanno grande peso anche la trasformazione e le innovazioni nel campo della fisiologia, che, anche se non cancellano del tutto lo schema dei quattro umori, li trasformano però, almeno in parte, in liquidi in movimento e in circolazione nel corpo, che possono interagire e reagire l’uno con l’altro, creando ostruzioni e calcificazioni nelle “nuove” microstrutture, come le ghiandole, via via individuate dalla ricerca fisiologica.
Una nozione nuova, quella di fermentazione, conosce una grande fortuna, in quanto capace di spiegare una serie molto ampia di fenomeni fisiologici e patologici. La nozione nasce in ambito chimico per descrivere processi come la trasformazione del succo d’uva in vino, o l’azione del lievito sulla farina, ma diviene uno dei cardini della iatrochimica, la corrente medica che adotta le innovazioni paracelsiane ed helmontiane, diffondendosi però anche presso medici appartenenti a scuole più tradizionali. In effetti, la fermentazione (del sangue) diviene a fine secolo la spiegazione corrente per un’ampia, e relativamente indistinta, classe di patologie: le “febbri”. Con “febbre” si intende comunemente non un sintomo, ma appunto una vera e propria patologia caratterizzata dall’alterazione della temperatura corporea e da un’altra serie di sintomi collaterali che ne rendevano possibile una classificazione. Proprio nell’ambito della cura delle febbri si diffonde l’uso di una vera e propria wonder drug dell’epoca, la china, che, ritrovata nel Perù spagnolo, dove la corteccia dell’albero dallo stesso nome era utilizzata dai nativi per curare gli accessi febbrili, è portata in Europa, dove si afferma rapidamente come il farmaco di elezione per una delle malattie più diffuse sul continente, la malaria. Il chinino, derivato della china, è fino al Novecento il principale farmaco utilizzato per controllare gli accessi periodici di questo male; tuttavia anche all’epoca della sua introduzione in Europa non sono mancate polemiche sul suo uso e la sua efficacia. La distribuzione della corteccia di china è nelle mani dei Gesuiti, che ne hanno per primi sperimentato gli effetti nelle missioni in Sud America; una distribuzione gratuita o controllata è effettuata in molti ospedali sotto sorveglianza dalle autorità civili e religiose, anche a Roma.
Un approccio nuovo alla questione delle patologie, delle loro cause e del loro decorso, viene dalla ricerca anatomica, che consente l’accumulazione di osservazioni non solo sulle strutture normali del corpo umano, ma anche su quelle abnormi o patologiche osservabili sul cadavere e registrate in relazioni di singoli casi significativi o in raccolte più ampie, spesso insieme a osservazioni sul decorso clinico della malattia, rilevate mentre il paziente è ancora in vita. Nel corso del Seicento, specialmente in ambiente ospedaliero, dove la presenza continua e rinnovata di pazienti favorisce l’accumulo delle osservazioni e la loro generalizzazione, la ricerca sul cadavere di segni riconducibili a quanto osservato nella pratica clinica si fa sistematica.
Contribuiscono allo sviluppo di una anatomia “patologica” diversi fattori, fra i quali la diffusa e ormai secolare abitudine di affidare a medici e chirurghi la perizia sulla causa di morti dubbie o illustri; l’uso di “aprire” e osservare cadaveri in caso di epidemie o di malattie ricorrenti; la modificazione di un approccio di tipo “olistico” e generalista alla malattia, proprio della medicina umorale, a favore di un approccio di tipo “localista” (patologia incentrata in un punto preciso del corpo) e “solidista” (patologie osservabili nelle parti solide del corpo, non nei, o dei, fluidi). Quest’ultimo aspetto è strettamente legato alla pratica del lavoro chirurgico, che si suppone curi appunto patologie localizzate e delle parti “solide”, ma la collaborazione tra medici e chirurghi ne favorisce l’adozione anche da parte dei medici. La data di nascita “ufficiale” dell’anatomia patologica è di solito fissata alla seconda metà del Settecento, quando Giovanni Battista Morgagni sistematizza la correlazione fra sintomo clinico e lesione cadaverica, ma già nel Seicento si sono affermate diverse forme di connessione fra i due aspetti, e specialmente fra una patologia ancora largamente dipendente dalla medicina umorale tradizionale e una pratica anatomica innovativa.