predicazione e lingua
La predicazione è stata lo strumento di comunicazione di massa che più a lungo e capillarmente ha operato in Europa e in Italia, importante sia come veicolo di conoscenza religiosa e orientamento morale, sia come guida culturale e linguistica, essendo stata a lungo l’unica scuola frequentata da tutti.
La preoccupazione di trovare nella predicazione un punto di contatto tra il clero e il popolo si era manifestata precocemente nell’alto medioevo (➔ cristianesimo e lingua) ed era diventata acuta quando tra la lingua della Chiesa (➔ Chiesa e lingua) e quella della gente non c’era più comprensione reciproca. Il latino, ancorché nella varietà modernizzata della Chiesa medievale, non era più comprensibile, dopo il VII secolo, dalla stragrande maggioranza della popolazione. Per questo, all’inizio del IX secolo, la Chiesa carolingia si premurò di raccomandare ai vescovi di tradurre in volgare omelie contenenti le ammonizioni necessarie a istruire circa la fede cattolica, affinché più facilmente tutti potessero capire».
La Chiesa cattolica fu dunque la prima istituzione pubblica a prendere atto del problema della lingua dopo la crisi della latinità e a porsi quello della comunicazione tra i livelli alti e quelli bassi della cultura. Certo la Chiesa cattolica non pensò di utilizzare direttamente la lingua popolare, anzi ribadì la differenza e specialità della sua lingua sacra, e si limitò a promuovere la predicazione in una lingua adatta al popolo, più che del popolo (Roncaglia 1965: 161).
Pur con questi limiti, da quel momento, i volgari d’Europa furono investiti di un compito pedagogico prima impensabile e a lungo trascurato in altre sedi e, sia pure molto lentamente, dovettero dotarsi degli strumenti verbali necessari allo scopo. Per quanto gli obiettivi e i contenuti del sapere trasmesso fossero e in parte rimanessero entro parametri di una comunicazione accessibile alla gente, i volgari trasmisero una quantità di sapere, di consapevolezza religiosa e linguistica, di conoscenze storiche o letterarie, di favole o eventi, incomparabile con quella prodotta da altri ambiti socioculturali.
In Italia, a indurre il clero ad attivare energicamente il canale del volgare nella predicazione, più che la preoccupazione pastorale fu la paura che i movimenti ereticali, occupando la comunicazione orale, insidiassero la Chiesa. All’inizio del XIII secolo nascono ordini religiosi che hanno come obiettivo primario la rievangelizzazione popolare (Francescani) e tra i mezzi prediletti la predicazione volgare (Domenicani) (➔ Duecento e Trecento, lingua del). Ma già un secolo prima era stata raccolta una serie di prediche composte in un misto di latino e di volgare piemontese, uno dei più antichi documenti volgari d’Italia, precoce dimostrazione della tecnica comunicativa e della scommessa linguistica della predica in lingua materna. Infatti, questi sermoni subalpini, pur confezionati con semplicità, non rifuggono dall’affrontare temi e linguaggio di una certa difficoltà, con cui, sicuramente per la prima volta, deve fare i conti un volgare locale.
Da allora latino e volgare continuarono a convivere nella predicazione (con punte di vistosa ed espressiva mescidazione nel Quattrocento), ma fu il volgare a crescere e a far crescere i fedeli, che trovavano nella loro lingua un sapere prima detenuto solo dal latino dei litterati e dei chierici (Lazzerini 1971).
Dal XIII secolo, grazie ai nuovi ordini religiosi, la predicazione diventò il principale impegno pastorale della Chiesa e i volgari furono sollecitati ad attrezzarsi per accoglierne gli alti contenuti concettuali. Bisognava costruire un vocabolario adeguato.
Certo, la predica ai laici e in volgare non era tenuta allo stesso grado di approfondimento di quella in latino e al clero o ai dotti. Perfino nel tradurre omelie latine in volgare bisognava stare attenti ad adattarle al livello degli ascoltatori; per es., a volte era opportuno «aliter exprimere quam in forma verborum ponitur» («esprimere in altro modo quanto è scritto») e a volte «circumloqui: ut ibi “omne masculinum adapperiens vulvam”» (Ex. 13, 2), «ibi non oportet ita grosse exprimere, sed pro vulva exprimere vas vel porta partus mulieris, et sic de consimilibus» («usare circonlocuzioni: così una frase come “l’uomo si fa strada nello vulva” (Ex. 13, 2) non occorre tradurla letteralmente, ma si può sostituire vulva con vaso o porta della donna, o simili»; Giordano da Pisa 1974; Delcorno 1975). Ma, pur in questi limiti, le lingue materne dal pulpito sono sollecitate a prestazioni culturali prima impensabili.
Decolla la predicazione in volgare, ma non si afferma un volgare della predicazione. Per la Chiesa i volgari sono veicoli indifferenti, e sostituibili l’un l’altro, di divulgazione del sapere latino in cui si riconosce. La Chiesa non si pone, se non in funzione dell’efficacia del suo operato, il problema della lingua materna e, anzi, non se lo sarebbe posto per secoli, in Italia. Semmai, per essa c’è un problema di stile comunicativo, di miscela di sottigliezza e di semplicità, di astrazione teologica e di concretezza morale (Coletti 2006).
Tuttavia il toscano è, anche in questo ambito, il volgare più pronto a raccogliere la voce dei predicatori. All’inizio del XIV secolo, proprio negli anni in cui Dante si dedicava all’alta divulgazione filosofica volgare del Convivio, il domenicano Giordano da Pisa predicava la quaresima in Firenze e devoti ascoltatori ne riportavano le parole. Queste straordinarie prediche erano momenti di istruzione, intrattenimento, ammonizione, informazione enciclopedica ed esortazione morale. Minacciavano castighi, raccontavano storie, spiegavano concetti. Insegnavano la religione e la lingua.
La predicazione aveva due esigenze e due obiettivi: informare i fedeli e spiegare loro la dottrina cristiana; esortarli a seguirne i comandamenti e ammonirli sulle conseguenze per chi disubbidisce. I due scopi si realizzavano in due tecniche discorsive diverse, in ognuna delle quali c’erano predicatori specializzati (per es., i francescani puntavano di più all’esortazione e all’ammonizione; i domenicani alla spiegazione e alla formazione), ma convivevano anche nello stesso sermone.
L’impegno a far conoscere si traduceva in una pedagogia linguistica e culturale che sollecitava gli uditori a porsi delle domande, a chiarirsi il significato di molte parole, ad allargare le loro conoscenze. A questo proposito era stata messa a punto una griglia espositiva che faceva procedere il discorso con un certo ordine e una certa chiarezza, anche didattica, come una vera e propria lezione scolastica. Per es., fra’ Giordano dichiara che il concepimento di Gesù nel ventre di Maria «fue sine semine, sine libidine, sine corructione et sine rubore, cioè che fu sanza seme d’uomo, sanza concupiscienzia, sanza corruzione e sanza vergogna» (Giordano da Pisa 1974: sermone 73) e comincia a spiegare perché fu sine semine; poi, il giorno dopo, perché sine libidine, e così via. Per far fronte all’istanza argomentativa non basta l’ordinato, scolastico procedere del discorso. Occorre anche un lessico, e in volgare. Ed ecco fra’ Giordano spiegare che «mansuetudine non è nome volgare, ma litterale, e questo nome non si trova volgare in queste parti. Mansueto suona paziente, ma più che pazienza» (Giordano da Pisa 1974: sermone 76); e così ripetutamente, col risultato di tradurre e glossare in volgare il latino delle scritture. Dal pulpito si forma e definisce un vocabolario intellettuale, che spiega cos’è ingiuria («sostenere pena non meritata»: sermone del 26 dicembre 1305), invidia («non è altro che essere dolente del bene altrui», predica del 10 ottobre 1305, in Giordano da Pisa 1867), prudenza, modestia; ma che spiega anche cosa fa un corriere o cosa sono le filaterie o che cos’è il bisso, ecc.
Il versante esortativo del discorso era invece ottenuto inserendo nella predica un momento al tempo stesso più semplice, meno colto ma, per forma, più letterario, cioè un racconto, un aneddoto, un esempio, in modo che l’ascoltatore potesse identificarsi in personaggi e rivivere in proprio situazioni tipiche. La tecnica degli exempla è la più celebre della predicazione, perché immette un genere letterario (favola, racconto breve, aneddoto) in una misura comunicativa popolare, dotandola perciò di particolare efficacia. Il ricorso ad aneddoti ed esempi non è solo un modo per vivacizzare la predica e catturare l’attenzione degli ascoltatori, ma anche una strada per evitare gli scogli dell’argomentazione e passare direttamente all’ammonizione morale, che si ricava dall’episodio riportato. È una tecnica che punta a coinvolgere e ammonire (anche a divertire e distrarre, come denunciavano ➔ Dante e ➔ Giovanni Boccaccio), più che a spiegare e approfondire.
Sono dunque due tecniche oratorie diverse, anche se spesso concomitanti, l’una decisa a non evitare le difficoltà della spiegazione, almeno dei concetti basilari della fede, l’altra orientata a emozionare e rendere partecipi.
Jacopo Passavanti, a metà Trecento, precisa che la «scienza della divina scrittura» non deve essere appresa da tutti allo stesso modo e profondità. L’exemplum è un modo piacevole per evitare certe difficoltà e raggiungere più direttamente l’animo degli uditori meno colti.
Il grande maestro di questa forma di predicazione fu s. Bernardino da Siena, altro grande predicatore toscano, attivo in tutta Italia nel primo Quattrocento. Costellando la predica non solo di exempla più o meno celebri, ma anche di scenette di vita quotidiana, s. Bernardino punta l’obiettivo sulla presa emotiva più che sulla comprensione intellettuale dei fedeli. Per quanto sia predicatore colto e padrone delle tecniche retoriche tradizionali, s. Bernardino cerca il «chiarozzo» del linguaggio, usa espressioni colloquiali, lessico familiare, restituito da una trascrizione di un suo ciclo di prediche senesi (del 1427) fortunatamente così fedele da riportare persino il colorito repertorio di esclamazioni, interiezioni, fonetismi, onomatopee di cui l’oratore le riempiva.
Prendendo le distanze dai predicatori troppo ‘sottili’, s. Bernardino fissa la convivenza di una struttura ordinata e decorosa di discorso con la necessità di «dire e predicare la dottrina di Cristo per modo che ognuno la intenda», proponendo una formula discorsiva che fu poi prevalente nella predicazione cattolica, semplice, generica, sempre più elementare.
S. Bernardino preferisce l’esemplificazione alla dimostrazione e anche l’argomentazione è concreta, come quando, per definire la difficile parola condiscendere, dice subito che se una donna fa il volere di suo marito «quello è condiscendere», o se chiede: «Alienato, sai che vuol dire?», risponde «Vuol dire che elli non ci è». In una predica a Firenze nel 1425 s. Bernardino (1940: 262) rende esplicito il suo programma:
L’arte de’ dicitori si è le cose alte de’ cieli e delle stelle e della sacra teologia e astrologia farle toccare con mano, cioè dirle in siffatto stile e sì chiaro [...] che quasi te le faccino toccare e palpare [...] e però non sono da biasimare i dicitori e predicatori che, per mostrarti le cose alte sopra a noi, il faccino con essempli grossi e palpabili
Con s. Bernardino la Chiesa ufficiale opta definitivamente per la predicazione basata su forme brevi, semplici ancorché letterarie, e rinuncia alla misura trattatistica, tralasciando sempre più l’informazione e la costruzione del vocabolario religioso e puntando invece sull’esortazione e sull’immedesimazione dell’ascoltatore nella storia raccontata dal pulpito. Questa scelta espositiva va di pari passo con la convinta affermazione della centralità pedagogica e dottrinale della predica, al punto che s. Bernardino sostiene che «se di queste due cose» («udire la messa o udire la predica») ne puoi fare solo una, «tu debbi più tosto lassare la messa che la predica».
La focalizzazione della missione cattolica sulla predica comporta anche l’opzione per un volgare di stile umile, senza ambizioni concettuali, popolare anche se non sciatto. Anche per questo, la Chiesa non si è preoccupata di fissare in quale volgare si dovesse predicare, dando per scontato che, trattandosi di una lingua strumentale, esso fosse comprensibile a chi ascoltava, senza altre ambizioni. La predicazione in volgare non comportava nessun impegno a favore della lingua materna, ai cui problemi e destini la Chiesa restò sempre indifferente.
Nella predicazione informativa e argomentativa c’era invece un lavoro sul linguaggio che ne implicava la consapevolezza e sembrava dover essere attrezzato in vista di una crescita spirituale del laicato. Il problema di quale volgare fosse il più adatto si sarebbe prima o poi posto.
Ma questa strategia omiletica era già in via d’abbandono nel Quattrocento e non è un caso che l’ultimo grande predicatore ad averla tentata sia stato, ancora una volta in Toscana, il ferrarese Girolamo Savonarola. Questi non è solo il famoso predicatore dai toni profetici e ammonitori, che lancia minacce spirituali e anatemi politici e mette insieme religione e stato, morale e politica; è anche un vecchio domenicano ancora sensibile alla misura scolastica della predicazione, impegnato in prediche che spiegano, informano, riflettono, mettono a punto il linguaggio perché la comprensione sia più piena e matura.
Savonarola non si ferma di fronte a nessun concetto per il fatto di comunicarlo in volgare («Quello che sta saldo nell’uomo è la sua sustanzia, ma quello che va e viene in lui senza corruzione del subietto, verbigrazia, bianco, rosso, pallido e simili colori che vanno e vengono, si chiamano accidenti»: Savonarola 1962), ma persegue un modello di lingua e di fedele attrezzati e consapevoli, preparati e determinati, che la Chiesa guardò invece con sospetto, specie di lì a poco.
Quando nel Cinquecento il problema delle lingue investì la Chiesa, la predicazione avrebbe potuto giocare un ruolo decisivo tra il radicale rifiuto delle lingue moderne e la loro totale accettazione. In effetti, quando, al Concilio di Trento, si stabilì che la Messa doveva restare in latino, è ancora una volta nella predica che venne individuato il punto di contatto tra clero e laici. Ma questa predica non sarebbe stata più quella argomentativa o perlomeno mista di argomentazione ed edificazione dei domenicani, ma quella di struttura e impianto letterari e popolari; solo che la componente letteraria non è più ora tanto (o solo) l’exemplum, il raccontino agiografico, l’aneddoto di vita quotidiana, ma la poesia, la prosa d’arte, l’altezza e lo sfoggio di linguaggio, la solennità e la vistosità dello stile. Il predicatore non invita più l’ascoltatore a identificarsi per i suoi contenuti nella storia raccontata, ma a commuoversi per la sua bellezza. La predica si sforza di colpire per l’eleganza dello stile, più che per la capacità di istruire.
Nasce l’oratoria sacra, che si distanzia rapidamente dalla lingua parlata e popolare e propone un linguaggio a volte così raffinato e letterario da produrre, per quanto riguarda la comprensione, effetti non dissimili da una predicazione in latino.
I grandi predicatori sono ora artisti della parola, tanto che ne nascono preoccupazioni di una predica fine a sé stessa, di esibizione letteraria. Carlo Borromeo, nel 1573, emana istruzioni perché l’omiletica non ecceda in sfarzo retorico e si preoccupa di contenere «uno stile eccessivamente ricercato» (Librandi 1993), condannando immagini troppo stravaganti, parole troppo rare, aggettivazioni troppo esuberanti. Ma, pochi anni dopo, suo nipote, il Federigo Borromeo di manzoniana memoria, si attarda a raccogliere da Boccaccio materiali verbali utili a illeggiadrire le proprie prediche, e cura di adeguare alla norma il malcerto toscano letterario appreso a Milano. Disegnando il profilo del bravo predicatore nel 1609, padre Francesco Panigarola, celeberrimo maestro del pulpito, raccomanda semplicità ed eleganza, suggerisce l’uso del fiorentino vivo, consiglia di evitare arcaismi e latinismi eccessivi non meno che tecnicismi e lessico dei mestieri, a parte i termini richiesti dalla dottrina. Attesta e chiede per i predicatori non toscani la pratica del soggiorno fiorentino, in modo da familiarizzare con la lingua viva. Egli dice:
hoggi [...] vediamo che i Predicatori nati in quelle parti d’Italia ove correttamente non si parla, tutti in pergamo cercano di mutare linguaggio, e di finire almeno le parole e di non fare [...] discordanze grammaticali (cit. in Marazzini 1989)
Ma, nonostante la pratica del fiorentino vivo e la diffidenza per gli eccessi colti, le prediche di Panigarola sono, sul piano stilistico, tali da consentire passaggi baroccheggianti come questo riportato da Pozzi (1954):
Anco il mare fecondo di pesci, abbondante di coralli, errario di gioie, nutrimento di terre, radice di metalli, fonte di rugiade, albergo di fiumi, congiunzione di stranieri, antemurale di pericoli [...] al sicuro non può parere più bello e più leggiadro
I sermoni barocchi sono gremiti di ‘concetti predicabili’, di arguzie e ingegnosità, concettosi ossimori, che si osservano perfino nei titoli dei più celebri: Le perdite vittoriose, La quiete turbata, Il mutolo loquace, ecc. (➔ età barocca, lingua dell’).
Lasciate le grandi ambizioni didattiche e scolastiche del medioevo, la predicazione diventa sacra eloquenza in cui può esibirsi persino un laico come Giambattista Marino (le Dicerie sacre) e in cui molti predicatori raggiungono gran fama. Emanuele Tesauro raccomanda l’ardimento analogico ai predicatori popolari: «servirassi di figurate e ingegnose ed estrinseche ragioni eziandio cavillose e apparenti, fondate in metafore, in apologi, in curiose erudizioni»; e il padre Emanuele Orchi si sbizzarrisce a paragonare nei dettagli la confessione a una lavandaia (Di Cesare 1989; Delcorno & Doglio 2009).
In Italia questa opzione letteraria rischia la sterilità retorica. Tant’è vero che gli uomini di Chiesa più avvertiti, come Daniello Bartoli e Paolo Segneri, si pongono il problema di un’omiletica che, se è di dubbia efficacia per difetto di sobrietà nelle chiese cittadine, è addirittura impensabile nelle campagne, ora oggetto di una nuova evangelizzazione attraverso le cosiddette missioni.
Se, sul versante formale, la predicazione punta alla qualità stilistica, sul piano dei contenuti il suo modello è il semplice catechismo e gli orientamenti morali prevalgono sull’istruzione teologico-religiosa o l’esegesi del vangelo. Il dotto cardinale Gabriele Paleotti delimita la materia predicabile ai «costumi, riducendo più che può le cose alla prattica, et modo di vivere, predicando cattolica dottrina, che sia pia, facile, et fruttuosa, accomodandosi alla capacità de gli ascoltanti che per la maggior parte non intendono le cose difficili e alte» (Prodi 1959), riservandosi addirittura di continuare a usare il latino quando predica al clero e ai nobili su argomenti delicati e difficili.
Le missioni, la grande invenzione seicentesca dei Gesuiti, sono basate su programmi di intensa predicazione itinerante a un uditorio di campagna, da affascinare e coinvolgere (come era già accaduto) più con le emozioni dei sentimenti che con quelle dello stile. Per questa tipologia di pubblico serve una predica più semplice e diretta. Ma la riduzione del tasso di letterarietà non comporta una crescita di quello (in)formativo e della consapevolezza linguistica degli ascoltatori, cui si offre un discorso più emozionante che ragionato.
S. Leonardo da Porto Maurizio e s. Alfonso Maria de’ Liguori furono, nel primo Settecento (➔ Settecento, lingua del), i grandi protagonisti di questa variante amichevole e mite dell’eloquenza sacra. S. Alfonso non evitava colloquialismi, ➔ regionalismi e ➔ dialettismi:
il dannato odierà, et averà da biastemare per tutta una eternità (chi, ah non lo vorria dire!) avrà da biastemare quella che più di tutti appresso Dio l’ave amato, et aiutato, Maria Vergine. Ah dilettissimi, se tu sei divoto di Maria, mo la chiami la Regina tua, la Mamma tua, la speranza tua (Gregorio 1965: XVII).
La Chiesa siciliana promuove addirittura predica e catechesi in dialetto: «Le prediche saranno sempre in lingua materna, anzi universalmente i Padri, anche fuori le Missioni, non useranno l’italiano, se non in qualche panegirico e quando la prudenza lo ditterà per le circostanze» (D’Agostino 1989: 183). Il caso è indizio di una ricerca di semplificazione di cui de’ Liguori si fece propugnatore («Il missionario in ogni predica dee predicar da missionario [...] collo stile di missione che ha da essere tutto semplice e popolare»: D’Agostino 1989: 184).
Neppure il profondo sommovimento spirituale che toccò col giansenismo anche l’Italia religiosa dal Settecento all’Ottocento riuscì a produrre modelli omiletici alternativi. Impegnati sui piani alti della polemica linguistica (traduzione di Sacre Scritture, Messa in lingua materna), i giansenisti non favorirono una predicazione intellettualmente più consapevole e più informativa.
La Chiesa moderna, pur continuando a puntare molto sulla predica, specie nella liturgia domenicale, non ha elaborato né tecniche né teorie specifiche della comunicazione dal pulpito: la drammatizzazione oratoria viene declinata in commozione e poesia (raccomandata dal grande erudito don Giuseppe De Luca), invece che in teatralità e narrazione; per il resto poche novità.
Questa caratteristica è rimasta sino al Concilio Vaticano II, quando sono cambiate alcune cose nei contenuti della predicazione domenicale nonché nel linguaggio, decisamente modernizzatosi. La lingua si è fatta ancora più vicina a quella comune, non rifiutando le parole nuove e solo continuando, ovviamente, a scartare i livelli bassi o volgari del discorso. La predica è comunque rimasta un momento di esortazione ed edificazione o di esplicita catechesi (anche con domande all’uditorio) dei fedeli, più che di invito alla riflessione e di fornitura di strumenti di analisi, anche se ha cercato un equilibrio migliore tra ammonimento e lezione, tra esegesi e attualizzazione dei testi sacri. Si è affermato, mediamente, uno stile omiletico familiare, in un italiano medio, con concessioni all’oralità, ma tentato dal cultismo, dai tecnicismi, dalla costruzione retorica. Più rare, ma in aumento, le opposte concessioni all’informale e al parlato schietto.
Il linguaggio del pulpito, pur molto modernizzato, resta a una certa distanza, più che dalla lingua, dalla cultura dominante, laica e pragmatica; il valore di certe parole è sempre più diverso da quello che esse hanno nel linguaggio comune (si pensi a termini come sacrificio o mensa o annuncio o testimonianza, così specifiche in chiesa); permangono, inevitabilmente, parole altrove rare o incomprensibili. Bosco (1982) scrive: «Rendiamoci conto di quante parole diciamo alla gente senza averle mai spiegate: [...] fratelli (perché?), celebrare, santi misteri, peccati, onnipotente, omissioni [...] unigenito», e propone un piano per spiegarle progressivamente, domenica dopo domenica, perché ai fedeli non dicono ormai quasi nulla.
Quello della predica sembra, per certi versi più che in passato, un discorso a parte, specialistico, ancorché in stile semplice, vivacizzato da riferimenti alla vita quotidiana, ai comportamenti diffusi, alla società, ma spesso formulistico e tecnico, «sacralizzato», dice Bosco, non esportabile, diversamente da quello della predicazione medievale, fuori dalla chiesa.
Un libro interamente dedicato alle attuali omelie (Beretta 2006) non ne cita nemmeno una, anzi nemmeno un minimo brano, tanto poco le ritiene memorabili; le prediche sembrano all’autore soprattutto noiose; i suoi consigli ai predicatori paiono più dettati dal fastidio per quello che dicono e il modo in cui lo dicono che dalla preferenza per altri argomenti o altri stili. Bosco (1982) suggerisce di usare «linguaggio visivo», da «cinepresa», invece che intellettuale, da «penna», e propone sostituzioni di questo tipo: «essere scoraggiato (penna) / essere con le gomme a terra (cinepresa), sono povero (penna) / ho il portafoglio vuoto (cinepresa)». Il suo consiglio sta in quattro verbi: «semplificare, personalizzare, drammatizzare, attualizzare», cui aggiunge il suggerimento di non far mancare mai il buon vecchio esempio, ancorché alimentato anche da fatti o racconti di attualità. Come si vede, più una sana pratica che un’idea sistematica di trasmissione del sapere religioso e di approfondimento della sua lingua. Il problema sembra superiore alle capacità di soluzione.
Il fatto è che la predica è in crisi perché è in crisi la cultura religiosa, la dimensione religiosa della vita. Ben diverso è l’impatto sulla società delle prediche di alti prelati o addirittura del Papa, capaci di porsi come testi di lingua precisa e colta e stile alto. In realtà, non sono prediche, ma discorsi pubblici. La predica domenicale dei parroci non sembra invece linguisticamente in condizione di incidere sulla realtà, a meno che non facciano anch’essi discorsi politici o culturali, come a volte avviene.
Bernardino da Siena (1940), Le prediche volgari, edite da C. Cannarozzi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 5 voll.
Bernardino da Siena (1989), Prediche volgari sul campo di Siena, 1427, a cura di C. Delcorno, Milano, Rusconi, 2 voll.
Giordano da Pisa (1867), Prediche inedite del B. Giordano da Rivalto dell’Ordine dei Predicatori recitate in Firenze dal 1302 al 1305, a cura di E. Narducci, Bologna, G. Romagnoli.
Giordano da Pisa (1974), Quaresimale fiorentino, 1305-1306, edizione critica per cura di C. Delcorno, Firenze, Sansoni.
Savonarola, Girolamo (1962), Prediche sopra Ruth e Michea, a cura di V. Romano, Roma, Belardetti, 2 voll.
Beretta, Roberto (2006), Da che pulpito ... Come difendersi dalle prediche, Casale Monferrato, Piemme.
Bosco, Teresio (1982), Come predicare oggi. Appunti sul ministero della Parola e in particolare sull’omelia, Leumann (Torino), ELLE DI CI.
Coletti, Vittorio (2006), Parole dal pulpito. Chiesa e movimenti religiosi tra latino e volgare nell’Italia del Medioevo e del Rinascimento, Milano, CUSL.
D’Agostino, Mari (1989), “Parlare alla moltitudine”. Questione linguistica e questione religiosa nell’Italia del Settecento, in Formigari & Di Cesare 1989, pp. 175-195.
Delcorno, Carlo (1975), Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare, Firenze, Olschki.
Delcorno, Carlo & Doglio, Maria Luisa (2009), La predicazione nel Seicento, Bologna, il Mulino.
Di Cesare, Donatella (1989), La selva delle analogie. I canoni della predicazione nell’Italia del Seicento, in Formigari & Di Cesare 1989, pp. 132-150.
Formigari, Lia & Di Cesare, Donatella (a cura di) (1989), Lingua tradizione rivelazione. Le Chiese e la comunicazione sociale, Casale Monferrato, Marietti.
Gregorio, Oreste (1965), Introduzione, in Alfonso Maria de’ Liguori, Apparecchio alla morte e opuscoli affini, testo critico, introduzione e note a cura di O. Gregorio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura.
Lazzerini, Lucia (1971), Per Latinos grossos, «Studi di filologia italiana» 29, pp. 219- 339.
Librandi, Rita (1993), L’italiano nella comunicazione della Chiesa e nella diffusione della cultura religiosa, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 1° (I luoghi della codificazione), pp. 335-382.
Marazzini, Claudio (1989), Il predicatore sciacqua i panni in Arno. Questione della lingua ed eloquenza sacra nel Cinquecento, in Formigari & Di Cesare 1989, pp. 12- 20.
Pozzi, Giovanni (1954), Saggio sullo stile dell’oratoria sacra del Seicento esemplificata sul p. Emmanuele Orchi, Roma, Istituto Storico Cappuccino.
Prodi, Paolo (1959), Il cardinale Gabriele Paleotti, 1522-1597, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura.
Roncaglia, Aurelio (1965), Le origini, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi & N. Sapegno, Milano, Garzanti, 12 voll., vol. 1º (Le origini e il Duecento), pp. 3-270.