Preghiere e formule religiose
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella religione romana è estrema l’attenzione all’esattezza esecutiva dei riti, in particolare alla precisione e alla rigorosa osservanza delle formule religiose e al lessico della preghiera. Il termine carmen definisce tutte le possibili forme di preghiera e indica una formula composta da parole precise che vanno pronunciate in ordine esatto e con una speciale intonazione. Il giuramento è lo strumento più vincolante di contrazione degli obblighi che, grazie al carmen che lo realizza, rende valido, inviolabile e sacro l’impegno contratto fra due persone ponendolo sotto la tutela divina.
Livio (Ab urbe condita, 41, 16) narra che nel 176 a.C. i pontefici annullarono le Ferie Latine già celebrate indicendone di nuove perché il magistrato aveva omesso dalla preghiera l’espressione “per il popolo romano dei Quiriti”. Per i Romani saltare anche una sola parola di una formula religiosa invalida il rito intero. Ed è per scongiurare simili inconvenienti che le preghiere dei culti tradizionali ufficiali e più importanti di Roma sono custodite nei libri sacerdotali, dai quali, di volta in volta, vengono pedissequamente lette, anche quando la loro antichità fa sì che i contemporanei non ne capiscano più il senso: quel che conta non è solo il significato delle singole parole, ma la loro esatta successione e pronuncia. Come scrive Cicerone (De natura deorum, 2, 72), il culto migliore degli dèi consiste nel venerarli con mente (mens) e voce (vox) incorrotte, ovvero con una disposizione d’animo pura, ma anche con una corretta espressione pratica, con le parole giuste. Non si tratta di una mera questione “esecutiva”: lo svolgimento impeccabile del rito è segno del giusto sentimento religioso, della pietas di chi lo esegue e, viceversa, la pietas si rivela nella stretta osservanza delle prescrizioni rituali.
Una simile precisione rituale, un simile principio di corrispondenza tra azione e disposizione d’animo, è forse la marca più peculiare della religio di Roma. A renderlo evidente sarebbe sufficiente già il termine stesso di carmen, usato per indicare le formule religiose, tutte, dalla semplice preghiera (prex, precatio) alle formulae dei culti più complessi. Con carmen infatti i Romani intendono un enunciato speciale, pronunciato secondo la modalità del fari, della parola potente “che realizza”, capace di avere effetti sulla realtà. E il potere del carmen, come suggerisce il verbo canere (“cantare”) da cui il termine deriva, poggia prima di tutto sulla catena sonora che la voce produce nel momento in cui pronuncia e “intona” le parole; parole che, a loro volta, non sono mai lasciate al caso ma sono fisse e precise (certa verba) e devono essere recitate dalla prima all’ultima senza esitazione e con la massima chiarezza: da un lato perché la tradizione deve essere conservata, dall’altro perché non vi siano dubbi che l’animus dell’orante aderisca totalmente a ciò che la sua bocca dice. Solo così il rito sarà efficace e gli dèi risponderanno col loro favore. Quello del giuramento è un caso estremamente evidente di tale meccanismo.
Plinio il Vecchio
Naturalis Historiae, Libro XXVIII
Fra i rimedi tratti dall’uomo la questione principale e sempre dibattuta è se le parole (verba) e gli incantesimi delle formule (carmina) abbiano un qualche potere. Se questo è vero, sarebbe opportuno riconoscere che il merito è dovuto all’uomo, ma mentre, presi individualmente, gli uomini più saggi rifiutano di prestarvi fede, in generale nella vita quotidiana, nella pratica di tutti i giorni e a tutte le ore, ci si crede anche se non ce se ne rende conto. Non v’è dubbio infatti che si ritiene inefficace immolare le vittime o consultare correttamente la volontà degli dèi senza la pronuncia di una preghiera (precatio). Oltre a ciò, altre sono le parole (verba) delle formule di preghiere che cercano di ottenere auguri favorevoli, altre quelle delle formule deprecative del male, altre ancora quelle di raccomandazione e vediamo che i sommi magistrati celebrano i riti con preghiere fisse (certae precationes) e perché nessuna parola sia omessa o invertita, pronunciata fuori posto, qualcuno legge prima dal testo scritto e a sua volta un altro viene assegnato come custode che sorvegli, mentre ancora un altro viene posto a far rispettare il silenzio e un flautista a suonare, perché non si senta altro suono all’infuori della preghiera.
Plinio il Vecchio, Naturalis Historiae, trad. it. M. Monteleone
Il giuramento (iusiurandum) è il vincolo più forte con cui a Roma è possibile dare la propria parola, creare un impegno fra due persone. Esso è lo strumento di garanzia per eccellenza del principio che regola il corretto funzionamento delle relazioni fra gli uomini, quel principio di reciproco rispetto degli obblighi che i Romani chiamano fides (“lealtà”, fedeltà alla parola data e fiducia insieme) e che considerano la base della giustizia (Cicerone, De officiis, 1, 23: fundamentum iustitiae). La sua forza, rispetto alle altre forme di contrazione della fides, sta nella sua natura marcatamente religiosa: il giuramento è una affirmatio religiosa (Cicerone, De officiis, 3, 104), rende stabile (firmum) e sacro (sacrosanctum, sancito, reso inviolabile a mezzo del sacro) quanto viene detto ponendolo sotto la protezione della divinità.
E il potere di questa affirmatio risiede principalmente nella sua formula verbale, un carmen dalla struttura fissa: 1) l’invocazione, con cui il giurante chiama il dio a farsi testimone e garante di quanto afferma; 2) il contenuto del giuramento, sia esso una promessa o una affermazione di verità; 3) l’automaledizione condizionale (exsecratio) con cui il giurante chiede al dio di punirlo in caso di spergiuro. L’efficacia del carmen non è dovuta tuttavia solo alla presenza divina chiamata in causa da invocazione ed exsecratio. Essa è legata piuttosto a un procedimento retorico fisso, comune a tutti i giuramenti, con cui l’enunciato viene incatenato alla realtà e assimilato a un ordine di cose materiale piuttosto che verbale.
Quando, nella conclusione di un patto, il sacerdote chiede al dio di colpire l’eventuale spergiuro come lui in quel momento colpisce la vittima sacrificale; o quando il giurante invoca su di sé, in caso spergiurasse, di essere cacciato dalla comunità come lui in quel momento scaglia la pietra che tiene in mano; o ancora quando fa appello a divinità visibili e tangibili come il Sole e la Terra, o tocca un oggetto fisicamente presente, come l’altare del dio presso il quale presta giuramento: in tutti questi casi, l’esatta formulazione del carmen, la precisa corrispondenza che la formula istituisce fra le parole e la realtà concreta a cui esse vengono associate (il contesto materiale in cui vengono pronunciate), incatena la verità futura chiamata a realizzarsi dal giuramento a una verità presente, la rende reale e incontrovertibile. L’impegno futuro è così già realizzato nel presente, gli dèi sono già costretti a punirne la violazione.
Tito Livio
Ab urbe condita, Libro XLI, cap. XVI
Le Ferie Latine si svolsero tre giorni prima delle none di maggio, ma in occasione del loro svolgimento nacquero degli scrupoli religiosi a causa del fatto che in un unico sacrificio il magistrato di Lanuvio non aveva pregato “per il popolo romano dei Quiriti”. Dopo che il fatto fu riferito al Senato e il Senato rimise la questione al collegio dei pontefici, i pontefici stabilirono che che le Ferie Latine fossero ripetute, in quanto quelle celebrate non erano state celebrate correttamente.
T. Livio, Ab urbe condita, trad. it. di M. Monteleone
Tito Livio
Ab urbe condita, Libro I, cap XIV
Prima che combattessero fu concluso un patto tra Romani e Albani alle seguenti condizioni, che il popolo i cui cittadini avessero vinto a quel duello avrebbe dominato sull’altro con buona pace. Altri patti hanno altre condizioni, ma per il resto tutti si compiono secondo la stessa procedura. Allora sappiamo che fu realizzato così e non si ha memoria di un patto più antico. Il feziale interrogò così il re Tullo: “vuoi tu, o re, che io concluda il patto col pater patratus del popolo albano?”. Avuto l’assenso del re, soggiunse: “O re, ti chiedo i fasci di erba sacra”. Disse il re: “Prendila pura”. Il feziale recò dalla rocca la pura verbena. Domandò quindi al re: “O re, dichiari tu regio nunzio del popolo romano dei Quiriti me, con i miei arredi e i miei assistenti?”. Rispose il re: “Si, che ciò avvenga senza frode da parte mia e del popolo romano dei Quiriti”. Il feziale era Marco Valerio; egli fece pater patratus Spurio Fuso, toccandogli con la verbena il capo e i capelli. Il pater patratus viene fatto per realizzare validamente il giuramento (iusiurandum), vale a dire per sancire il patto; e compie ciò con molte parole (multa verba) pronunciate in una lunga formula (carmen) che non è il caso di riportare. Quindi, recitate le condizioni, dice: “Ascolta, Giove, ascolta, pater patratus del popolo albano, ascolta tu pure popolo albano: come quelle condizioni sono state recitate da quelle tavolette e dalla cera alla prima all’ultima davanti agli occhi di tutti senza inganno, e come esse qui, oggi, sono state nel modo più esatto intese, così a quelle condizioni il popolo romano non verrà mai meno per primo. Se per primo vi verrà meno per pubblica decisione e in malafede, allora, o Giove, colpisci quel giorno il popolo Romano come io oggi qui colpirò questo porco; e tanto più colpiscilo, quanto più tu sei forte e potente”. Come ebbe detto ciò, colpì il porco con una pietra di selce. Similmente gli Albani pronunciarono le loro formule (carmina) e il loro giuramento per mezzo del loro comandante e dei loro sacerdoti.
T. Livio, Ab urbe condita, trad. it. di M. Monteleone
Polibio di Megalopoli
Storie, Libro III, cap. XV
Dovettero prestare giuramento nel modo seguente: quanto ai primi accordi i Cartaginesi giurarono sugli dèi patri, mentre i Romani, secondo l’antico costume, su Giove pietra; quanto a quelli nuovi invece giurarono su Marte e Quirino. Il giuramento su Giove pietra è questo: colui che conclude il patto secondo gli accordi, dopo che ha giurato sulla fides publica, tenendo in mano una pietra pronuncia le seguenti parole: “se mantengo il giuramento mi venga ogni bene; se invece pensassi o agissi diversamente, che tutti gli altri siano fatti salvi nelle loro terre, secondo le proprie leggi, con i propri beni, i propri templi e le proprie tombe; io solo sia cacciato via come questa pietra ora”. E, avendo detto ciò, scaglia la pietra dalla mano.
Polibio di Megalopoli, Storie, trad. it. di M. Monteleone