Presenze divine nel mondo: il culto in Grecia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il politeismo dei Greci concepisce il mondo come un universo popolato da esseri visibili e invisibili le cui sfere sono interdipendenti, strettamente legate tra loro. La relazione che gli uomini stabiliscono con le potenze divine è fondata sull’equilibrio tra le diverse sfere del cosmos ed è intrattenuta dal culto. La venerazione degli dèi è codificata in un insieme di pratiche rituali che sono specifiche di ogni comunità civica.
Nel XVI libro dell’Iliade, nel cuore del conflitto tra Achei e Troiani, vengono narrate le gesta di Patroclo, dal suo ingresso sul campo di battaglia dopo avere ottenuto le armi dal compagno Achille, sino alla sua morte per mano di Ettore. Quest’ultimo episodio potrebbe passare inosservato, come una delle tante scene di violenza guerriera tipiche del poema omerico, se non ci si soffermasse su un paio di versi rivelatori di una particolare concezione del rapporto tra l’agire umano e la presenza divina.
Si tratta delle ultime parole che Patroclo, agonizzante, rivolge al suo avversario ammonendolo di non arrogarsi il merito della vittoria: “Mi uccise un destino fatale e il figlio di Latona, e tra gli uomini Euforbo: tu mi uccidi per terzo” (vv. 849-850). Che Patroclo faccia osservare all’eroe troiano l’esistenza di una sorta di catena di responsabilità che causa la sua morte, nella quale lui, Ettore, arriva per ultimo, non è un semplice segno di stizza, ma un dato che corrisponde al succedersi degli eventi sul campo di battaglia omerico. Apollo in persona è intervenuto per frenare l’impeto dell’eroe acheo: lanciandosi invisibile in direzione di Patroclo, il dio lo colpisce di spalle e lo disarma. Il destino è ormai segnato per l’eroe che, privo delle armi di Achille, diventa un facile bersaglio per le lance nemiche. Nella mischia lo ferisce dapprima il troiano Euforbo, Ettore poi gli infligge il colpo fatale. Dal destino e dai colpi di Apollo sino alle ferite provocate da Euforbo e da Ettore, la morte di Patroclo è il risultato di una molteplicità di cause, divine e umane. Le une non escludono le altre.
A questo punto è dato chiedersi: ma i Greci credevano veramente che gli dèi potessero intervenire sul campo di battaglia? O i versi appena esaminati sono il frutto dell’immaginazione poetica? Generalmente il lettore moderno si accontenta di quest’ultima soluzione. Ma in realtà la domanda, legittima dal punto di vista della cultura moderna occidentale, è mal posta nell’ottica di una cultura politeista. In Grecia il rapporto con la religione non si articola in termini di fede o di credenza, come nella cultura monoteista giudaico-cristiana.
Il politeismo greco non si basa infatti su rivelazioni e non conosce né dogmi, né chiesa, né libri sacri. Inoltre, come hanno opportunamente sottolineato gli studi antropologici di Jean Pouillon, Rodney Needham e Claude Lévi-Strauss, quando si parla di credenza, si presuppone che esista una distinzione fondamentale tra un mondo naturale (oggetto di percezione e di conoscenza empirica) e un mondo soprannaturale (oggetto di credenza e di dogmi). Tale distinzione non è reperibile in Grecia, così come in varie popolazioni politeiste attuali, il cui mondo è concepito come un universo popolato da esseri visibili e invisibili le cui sfere sono interdipendenti, strettamente legate tra di loro; la relazione che si intrattiene con le potenze del mondo invisibile è fondata sull’equilibrio tra le diverse sfere del cosmo. Sfere permeabili tra loro che non presuppongono il distanziamento implicito nel credere. Per cui non è del tutto esatto affermare che i Greci credono negli dèi e nel loro intervento nel mondo, perché quest’ultimo, per essi, è un dato di fatto, non di fede; in questa prospettiva, appare essenziale rivolgere l’attenzione al modo di agire dei Greci nei confronti degli dèi e, utilizzando categorie greche, parlare quindi della cura (therapeia), degli onori che essi rendono loro attraverso il culto.
Nella storia della cultura occidentale la sfera del culto come oggetto di ricerca è stata a lungo influenzata da quella del rito e ne ha subito gli stessi pregiudizi. Nel linguaggio comune la parola "culto" implica ancora oggi una nozione di visibilità e di esteriorità dell’atto rituale, che risulta svalutata rispetto a una concezione moderna, più intimista, della religione. Dopo la Riforma si assiste infatti, nell’ambito del cristianesimo moderno, a una evoluzione del modo di concepire la religione, che tende a essere definita sempre più spesso come un sistema di dottrine; di conseguenza, e soprattutto nell’area di cultura protestante, dove il carattere intellettuale è più accentuato, gli aspetti rituali del culto sono stati considerati come forme di mera superstizione.
Il "ritualismo", elemento essenziale delle religioni antiche, è stato pertanto svalutato e trascurato da numerosi studiosi come se si trattasse di puro formalismo, privo di qualsiasi sentimento religioso. Un importante cambiamento di prospettiva è stato promosso nei primi decenni del secolo scorso dalla scuola ritualista di Cambridge e dalla scuola sociologica francese, che si sono interessate ai culti e ai riti spesso considerandoli un conglomerato di gesti, ma anche sopravvivenze in epoca storica di uno stadio più primitivo delle società. Il culto e il rito sono stati pertanto studiati come indice di qualcos’altro. È comunque nella seconda metà del XX secolo che il rito desta un interesse maggiore e acquisisce una sua dignità di oggetto intellettuale: Georges Dumézil, ad esempio, lo considera non più come un’oscura e incomprensibile massa di reliquie del passato, ma come un sistema vivente, e cerca di ricostruirne il senso attraverso una rigorosa analisi comparativa, condotta nel caso specifico tra i fatti religiosi delle varie società indoeuropee.
Nell’ambito della religione greca l’apporto originale di Jean Rudhardt propone di definire la funzione dei riti a partire dal concatenamento dei loro elementi, il cui senso diventerebbe accessibile allo studioso che riesca a focalizzare la propria attenzione sulle categorie native della cultura in esame, fino a riprodurre interiormente la coerenza dell’esperienza religiosa antica. Il contributo offerto da Rudhardt alla conoscenza della religione greca è indiscutibile; è lecito tuttavia chiedersi se l’adesione interiore al sistema di pensiero greco da lui propugnata – ammettendo poi che tale esperienza sia possibile – e l’assenza di quel salutare distacco necessario per una valutazione storico-antropologica non implichino per lo studioso il rischio di limitarsi a riprodurre il discorso degli antichi, riducendo di conseguenza le sue possibilità di "leggerlo" e comprenderlo.
Seguendo una prospettiva diversa, sulla scia del classicista e avido lettore di etnografia Karl Meuli, Walter Burkert si è servito degli studi di sociobiologia per l’analisi del culto, da lui inteso come un mezzo efficace per dominare ritualmente impulsi e comportamenti primitivi, quali l’angoscia davanti allo spettacolo della morte. Infine, la psicologia storica di Jean-Pierre Vernant ha aperto una nuova via per l’analisi dei riti, che egli ha considerato, al pari dei miti, come espressione del pensiero dei Greci. L’impulso fornito dallo studioso francese agli studi del rituale, dei culti e delle relative rappresentazioni vascolari, è stato particolarmente fecondo: grazie ad un approccio comparatista di ispirazione dumeziliana, ma di più ampio respiro quanto alle aree culturali studiate, Vernant e i suoi collaboratori (Marcel Detienne, Jean-Louis Durand ecc.) hanno inoltre rinnovato il dialogo con gli etnologi. Ed è proprio in virtù di questo dialogo, capace di suscitare sempre nuove domande e di illuminare molte zone d’ombra, che l’antropologia religiosa della Grecia antica analizza i culti e i riti come costruzioni coerenti organizzate secondo una sintassi ben precisa.
A partire da questa prospettiva, la religione in Grecia non si definisce pertanto come un insieme di credenze e di culti dettati da una sorta di formalismo rituale senza fede, quanto piuttosto come un sistema di pratiche che organizzano la società e fondano il legame sociale.
Il culto si può definire come l’insieme dei comportamenti e delle pratiche rituali specifici di una comunità, eseguiti nel rispetto delle tradizioni, in tempi e spazi ben precisi, e posti generalmente sotto l’autorità di individui le cui funzioni sono definite dalla società. Tali atti sono finalizzati a regolare i rapporti tra i membri della comunità civica e le entità superiori: gli dèi, i demoni, le ninfe, gli eroi, i morti o ancora i luoghi in cui è avvertita una presenza divina (grotte, boschetti, sorgenti, fiumi, venti ecc.). La nozione di culto si esprime in Grecia attraverso una costellazione di termini che rinviano all’idea di una venerazione delle istanze divine sotto il segno del timore (ciò che si chiama la "pietà", eusebeia), degli "onori", timai, del rispetto della "tradizione", nomos, e della "sollecitudine servizievole", therapeia. Oltre a queste parole, il greco ne usa ancora una, threskeia, che non ha per oggetto gli dèi, ma veicola l’idea di osservanza di precetti e di comportamenti rituali; in epoca romana, threskeia è spesso usata come equivalente del latino cultus, da cui è derivato appunto il nostro termine "culto".
Per trattare del culto in Grecia, occorre partire dallo spazio in cui esso si iscrive ed è praticato, dato che molti atti cultuali permettono di radicare una comunità nel suo territorio: l’analisi del paesaggio religioso greco rivela cioè il modo in cui la comunità organizza lo spazio cultuale e vive in esso. Il primo elemento da considerare è lo spazio domestico, l’oikos, il cui perno è costituito dal focolare, hestia, protetto dalla divinità omonima.
Il focolare è un elemento centrale per la vita della cerchia familiare; sotto l’autorità paterna vi si svolgono gli atti quotidiani del culto (preghiere, libagioni, sacrifici), ma anche rituali di integrazione di nuovi membri: i neonati in occasione della festa familiare degli Amphidromia, le giovani spose al momento del matrimonio, gli schiavi appena acquisiti e i supplici. Oltre che presso gli altari o nei santuari, è infatti presso il focolare che possono svolgersi le scene rituali di supplica: il supplice, comunemente chiamato hiketes "colui che arriva", ma anche ephestios "colui che sta sul focolare", è un individuo che, separato dal suo gruppo di appartenenza, arriva esule in terra straniera e chiede accoglienza.
Accovacciandosi, sedendosi quasi a terra, egli assume una postura di inerme domandando così l’integrazione al gruppo familiare presso cui è giunto. Questo rituale evidenzia pertanto la centralità del focolare domestico, cui corrisponde, al livello cittadino, il focolare comune del Pritaneo, da cui si deve prendere la fiamma se la città vuole fondare una colonia. Oltre al focolare, altri luoghi fanno dell’oikos uno spazio qualificato per comunicare con le divinità e chiederne la benevolenza: la dispensa, protetta da Zeus Ktesios; la soglia della porta, tutelata da Ermes Propylaios, da Apollo Agyieus, protettore delle vie, e da Ecate; o il cortile, in cui si erge l’altare di Zeus Herkeios, garante dell’ospitalità e protettore dello spazio esterno attinente all’abitazione, sul quale si immolano vittime in occasione di eventi familiari lieti.
Al di fuori dell’oikos, i luoghi di culto frequentati dall’intera comunità sono i santuari. In greco si impiega il termine hieron per indicare un luogo consacrato a una divinità e quindi di suo possesso. Da un punto di vista materiale, un santuario si presenta come un territorio chiaramente delimitato rispetto alle zone circostanti: si tratta di un temenos, cioè di uno spazio "ritagliato", cinto da un muro o semplicemente segnalato da pietre di confine, gli horoi. Al suo interno si trovano gli hidrymata, elementi costitutivi della fondazione di un culto: il bomos, l’"altare", gli agalmata, statue e oggetti di valore consacrati alle divinità, e il naos, il "tempio". L’atto di fondazione espresso dal verbo hidryein riveste un ruolo particolarmente importante in Grecia in quanto fonda il legame, sancito dall’atto sacrificale, che la comunità instaura con il territorio.
È sull’altare che si svolge il sacrificio e su di esso viene fatto colare il sangue della vittima. Ai piedi delle statue divine, generalmente antropomorfe, designate con il termine polisemico agalmata, vengono spesso deposte le offerte votive, ed è ancora davanti a queste che si pronunciano le preghiere e le invocazioni alle potenze divine.
Tali statue non sono necessariamente fisse né sono considerate come oggetti intoccabili. Sull’isola di Samo, in occasione delle feste Tonaia, la statua di Era è trasportata in riva al mare, dove riceve l’offerta di dolcetti. Nel racconto che evoca l’istituzione della festa si narra di un tentativo fallito di rapimento della statua da parte di pirati e del suo ritrovamento, ed è appunto in ricordo di quell’antica sparizione che, nel corso della festa, la statua verrebbe legata con vimini onde evitare che se ne vada via, segno dunque di una sua potenziale mobilità.
Nel santuario i culti destinati alle divinità o ai defunti si svolgono a cielo aperto: il tempio, l’edificio più rappresentativo agli occhi dei moderni, non è sempre accessibile ai visitatori. In esso viene custodita la statua della divinità venerata e i sacerdoti preposti al suo culto vi entrano per depositare le offerte. A volte all’interno del santuario sorgono, accanto al tempio, altri edifici di piccole dimensioni chiamati "tesori": destinati ad accogliere le offerte, sono anch’essi consacrati in quanto doni agli dèi.
Come il sacrificio, l’offerta sottolinea la distanza e instaura una comunicazione tra sfera umana e sfera divina. Ma la relazione con la divinità destinataria interessa in questo caso non tanto una comunità nel suo insieme, ma un singolo individuo, il donatore. La parola greca per l’offerta, anathema, pone l’accento sulla visibilità del dono che è "posto" (dal verbo tithemi) "davanti" (ana) al dio, ma anche alla comunità. A seconda di vari fattori, quali la natura delle offerte o l’organizzazione dello spazio cultuale, la visibilità può essere fisica o semplicemente "concettuale", quando cioè l’oggetto è deposto in un luogo che non è sempre accessibile alla vista, come ad esempio all’interno di un edificio. Le offerte possono essere di varia natura e di diverso valore: da piccoli oggetti (figurine di piombo o di terracotta, maschere, amuleti, vari oggetti della vita quotidiana) a veri e propri artefatti, quali gli agalmata, oggetti di grande valore realizzati da artigiani (tripodi di bronzo, statue ecc.). Una volta effettuata la loro consacrazione, le offerte sono proprietà del santuario, entrano a fare parte del "mobilio sacro" e come tali non possono essere portate fuori: il loro prelievo sarebbe infatti considerato un furto sacrilego.
A seconda della frequentazione, più o meno intensa, e delle funzioni assolte, nei santuari si possono trovare edifici accessibili al pubblico: sale da banchetto, ma anche sale di riposo, come in quelli di Asclepio e di altre divinità guaritrici, dove i malati si recano per trascorrere la notte allo scopo di ricevere in sogno i rimedi e le prescrizioni da seguire. Infine, le fontane possono completare il dispositivo architettonico del santuario, fornendo l’acqua per le abluzioni rituali.
Non è necessario però rappresentarsi il santuario sempre come un complesso monumentale, quale diventa l’acropoli ateniese all’età di Pericle o ancor di più il santuario di Apollo a Delfi. A seconda dei contesti locali, infatti, la fisionomia di un santuario può variare molto. Al suo interno si possono trovare, ad esempio, ruscelli, colline boscose, praterie e pascoli destinati all’allevamento degli animali che appartengono alla divinità. Anche l’altare può variare, sia nella forma sia nel materiale: si pensi all’altare di Zeus a Olimpia costituito da un imponente cumulo di ceneri.
Quanto alla localizzazione, il santuario si può trovare in un contesto urbano, periurbano, cioè nella periferia, o extraurbano, quindi in piena campagna, e talvolta ai limiti dello spazio coltivato e del territorio della città, cui sarà comunque collegato da una via sacra. In tal caso il santuario assolve una funzione di frontiera, ma anche di luogo di contatto e di scambio con città o popolazioni limitrofe, come avviene nel caso di numerose colonie greche. Grazie ai culti che vi si svolgono, siano essi dedicati a dèi, eroi o defunti, i santuari sono luoghi di aggregazione sociale e in quanto tali svolgono un ruolo fondamentale nel processo di formazione delle comunità civiche.
Gli scavi archeologici hanno infatti messo in luce come l’urbanizzazione si sviluppi spesso proprio attorno ai santuari: a Corinto, per esempio, la città si costruisce intorno alla collina su cui sorge il santuario di Apollo. I casi di centri urbani sviluppatisi intorno a luoghi di culto sono sufficientemente numerosi per poter affermare che la fondazione di questi ultimi è un atto estremamente significativo, che segna la vita di una comunità e la radica nel territorio.
Il carattere sacro del santuario implica l’obbligo di rispettare scrupolosamente alcune fondamentali regole di comportamento: all’interno è vietato fare l’amore, partorire o morire. Più generalmente, essere katharos, in stato di purezza, è un requisito indispensabile per entrare in contatto con gli dèi.
Esiodo
La purezza per giungere agli dèi
Le Opere e i Giorni, vv. 724-726 Non libare all’alba lo scintillante vino a Zeus,
e neppure agli altri dèi, senza aver prima lavato le mani;
gli dèi infatti, non ascolterebbero le tue preghiere ma le rigetterebbero indietro.
Esiodo, Le Opere e i Giorni, trad. it. di L. Magugliani, Milano, BUR, 1979
All’ingresso del santuario occorre eseguire le necessarie abluzioni rituali, servendosi a tal fine o dell’acqua che scorre nelle fontane oppure di quella che viene messa a disposizione dei visitatori sia in vasche predisposte a questo scopo sia in appositi vasi. La definizione della purezza necessaria può poi assumere forme più precise e specifiche, come apprendiamo dalle prescrizioni locali restituiteci dalle iscrizioni. Per esempio, in un santuario di Lycosura, in Arcadia, nel III secolo a.C. l’ingresso è proibito alle donne incinte o che allattano. In ogni caso, deve soprattutto essere tenuta lontana dal luogo sacro qualsiasi fonte di "contaminazione", miasma. Per l’omicida, per l’autore di un atto sacrilego, una semplice abluzione con l’acqua lustrale non è certo sufficiente per ritrovare la condizione di purezza necessaria.
Come vedremo, la vittima dell’agos, portatore cioè dell’"empia lordura", costituisce un pericolo per tutta la comunità come per il territorio che questa occupa. Soltanto un particolare trattamento purificatore gli permetterà di reintegrarsi in una comunità umana, senza farle correre il rischio di una contaminazione letale.
Infine, il santuario è una terra inviolabile e il supplice che vi cerca asilo non può esservi perseguito.
Le occasioni di recarsi nei luoghi di culto possono essere dettate sia da motivi personali sia dal calendario festivo della città. Le feste, heortai, in onore delle divinità scandiscono la vita della polis greca.
Ogni città possiede il proprio calendario cultuale, che indica la successione delle feste religiose mese per mese.
Ad Atene il legislatore e poeta Solone aveva incluso appunto la costituzione di un calendario cultuale nell’ambito delle proprie riforme, segno della sua importanza per la vita sociale. In epoca classica ad Atene vengono celebrate più di un centinaio di feste all’anno. A queste vanno poi aggiunte le feste locali dei demi, che sono le unità di base della comunità politica ateniese e hanno ciascuno un centro abitato, un territorio e un’amministrazione specifica. Gli archeologi hanno trovato varie iscrizioni su pietra che riportano i calendari cultuali dei demi, come per esempio quello di Erchia, che prevede per il mese di Antesterione, tra febbraio e marzo, l’organizzazione delle feste Dionisie. Vi sono indicate in modo succinto, ma con precisione, la natura, la modalità e la divinità destinataria dell’offerta: “Nel mese di Antesterione, il 2, si offrirà a Dioniso, a Erchia, un capretto le cui corna cominciano a spuntare” (Supplementum Epigraphicum Graecum, XXI, 541).
In epoca classica la festa si svolge essenzialmente in tre tempi: la "processione", pompe, il "sacrificio" di tipo alimentare, thysia, e le "competizioni", agones. La festa ateniese delle Panatenee fornisce un bell’esempio della profonda implicazione del corpo civico nella vita cultuale. Ogni anno ad Atene, alla fine del mese Ecatombeone, periodo che corrisponde ai primi di agosto, si organizzano le Panatenee in onore di Atena, dea tutelare della città. Ogni quattro anni la festa si fa ancora più sontuosa: si celebrano allora le Grandi Panatenee.
Al suono di lire e doppi flauti, che accompagnano l’esecuzione del canto in onore della dea, una lunga processione attraversa la città, collegandone i limiti con il centro cultuale: il corteo parte dalle porte del Dipylon, attraversa il Ceramico e l’agorà, per poi giungere sull’acropoli, dove l’arconte-re riceve il peplo riccamente ricamato che hanno tessuto per la dea le ergastinai, le "lavoratrici", scelte tra le giovani ateniesi di buona famiglia. L’arconte-re, alto magistrato incaricato della gestione degli affari divini, lo offre poi, in nome della polis, ad Atena Polias, la cui statua lignea si trovava all’interno del cosiddetto Eretteo, tempio edificato su un antico luogo di culto dell’acropoli e forse coincidente con la tomba dell’omonimo re-eroe ateniese, anch’esso potenza tutelare della città.
La processione è un’occasione importante in cui la comunità ostenta il fasto con cui onora la dea Atena, ma tale evento mostra anche la gerarchia e i rapporti sociali che la strutturano: con le ergastine e le canefore (giovani fanciulle cha portano la cesta colma di fiocchi d’orzo sotto cui si trova il coltello sacrificale), sfilano i cittadini, giovani in armi, cavalieri, anziani, ma anche i meteci e gli stranieri, generalmente alleati di Atene; con loro sfilano piatti carichi di offerte, giare colme d’acqua e numerose vittime destinate al sacrificio.
Momento culminante delle feste, il sacrificio di tipo alimentare, thysia, offre alla comunità l’opportunità di rinsaldare i legami con le divinità, ma anche tra i suoi stessi membri. Nel corso del banchetto che segue, la ripartizione della carne delle vittime sacrificali ribadisce l’appartenenza dei convitati alla comunità. In occasione delle Grandi Panatenee il numero delle vittime bovine supera il centinaio: delle vere e proprie ecatombi sono infatti registrate dai tesorieri del tempio di Atena, i cui conti sono incisi su steli, poste all’interno del santuario.
A partire dal 566 a.C. viene istituita ufficialmente un’ultima fase nei festeggiamenti delle Grandi Panatenee, che consiste in competizioni poetiche, musicali e sportive. Ai vincitori vengono date in premio anfore colme dell’olio prodotto negli oliveti sacri appartenenti alla dea. L’uso di organizzare competizioni in occasione delle feste risale comunque all’epoca arcaica, quando è attestato, nell’VIII-VII secolo a.C., in rapporto alla celebrazione di culti funerari in onore di morti eccellenti. Spesso le competizioni si svolgono presso le tombe degli antenati, in una zona dell’agorà allestita appositamente per le festività e designata con i termini dromos e choros, che rinviano appunto alle attività ludiche che vi saranno accolte: rispettivamente la corsa e la danza.
In Grecia la pratica della danza, della musica e del canto sono strettamente connesse tra loro, in virtù della loro appartenenza al medesimo campo semantico della mousike, il canto lirico, compreso nella sua dimensione melodica (vocale e musicale) e ritmica (legata dunque alla danza). La performance della poesia corale greca implica queste tre dimensioni e si caratterizza per la sua funzione cultuale: i canti sono vere e proprie offerte destinate agli dèi.
Gli inni intonati in onore delle divinità, i peani, eseguiti in onore di Apollo, gli imenei, canti di nozze, i treni, canti funebri, sono forme di espressione religiosa sempre accompagnate da strumenti musicali, generalmente la lira o il doppio flauto. Come spiegare l’importanza della dimensione sonora nei culti, che si tratti di processioni, di riti sacrificali o di concorsi musicali? Le riflessioni degli antichi, da Platone a Plutarco, sulle virtù psicagogiche della musica, la sua capacità cioè di influenzare e di agire sull’anima dell’uditorio, sono note: si tratta di un tema che la poesia di epoca arcaica mette già in scena, come nell’Inno omerico a Ermes in cui il giovane dio placa facilmente l’ira del fratello Apollo, cui aveva rubato delle vacche, intonando un bel canto e improvvisando con maestria qualche arpeggio sulla lira (vv. 416-433).
Dal punto di vista dell’antropologia però, si può ipotizzare che l’esecuzione di brani musicali tipici del repertorio cultuale svolga la funzione di creare uno spazio sonoro intrinseco al rito, il cui impatto emotivo presso i partecipanti non deve essere trascurato.
Questo aspetto è particolarmente presente nei riti di possessione bacchica e coribantica, dei riti cioè in cui gli individui entrano in contatto diretto con Dioniso o con le divinità plurali chiamate Coribanti, in quanto sono "presi", katechomenoi, subiscono cioè l’influenza coercitiva della divinità.
Nel corso di questa altra forma che assume il culto in Grecia lo spazio sonoro è particolarmente saturato dai ritmi dei tamburelli e da brani musicali spesso eseguiti da strumenti a fiato dalle sonorità acute. Questa esperienza singolare, che nella cultura moderna è associata alla trance mentre in Grecia è assimilata all’ispirazione poetica (Platone Ione, 534e-536c), affonda le sue radici proprio nella concezione degli effetti prodotti dalla performance poetica sull’animo del pubblico, quale emerge da episodi come l’incontro di Odisseo con le Sirene.
A partire da tali considerazioni è più agevole cogliere la dimensione religiosa e propriamente cultuale del teatro ateniese. Le rappresentazioni teatrali si svolgono infatti nell’ambito di una competizione drammatica che dura tre giorni, in occasione delle Grandi Dionisie, feste importanti organizzate ad Atene nel mese di Elafebolione, tra marzo e aprile. Sotto lo sguardo della statua di Dioniso, il dio-maschera, gli attori calcano la scena in un teatro che è parte integrante del santuario.
Merita di essere sottolineata, anche in questo contesto, la centralità della musica, della danza e del canto nel corso delle rappresentazioni tragiche, delle commedie e nei drammi satireschi, ma anche nei ditirambi, composizioni poetiche eseguite da un coro di danzatori in onore di Dioniso.
Il culto in Grecia non è gestito da un clero inteso come intermediario indispensabile per garantire la comunicazione tra gli uomini e gli dèi, o come depositario esclusivo di un sapere specializzato sulle questioni divine. L’atto sacrificale non richiede competenze particolari e qualsiasi padre di famiglia è in grado di praticarlo, all’interno dell’oikos ma anche altrove, se se ne presenta l’opportunità. Ciò detto, l’organizzazione delle feste e la gestione dei santuari richiedono spesso un personale specializzato, che se ne occupi a tempo pieno, vegliando all’amministrazione delle finanze ma anche al rispetto scrupoloso delle regole. Quindi la città, che detiene l’autorità religiosa, designa periodicamente dei cittadini che ricevono l’incarico di sovrintendere ai vari aspetti della vita religiosa della comunità. I sacerdozi di vari santuari sono sorteggiati annualmente, anche se alcuni culti sono gestiti tradizionalmente da "lignaggi", gene, all’interno dei quali vengono tramandate determinate prerogative sacerdotali.
Ad Atene i magistrati incaricati degli affari religiosi sono l’arconte-re, che detiene le principali prerogative in campo religioso (tra cui i sacrifici legati ai culti "patrii", cioè quelli ereditati dagli antenati), l’arconte eponimo (incaricato di organizzare le feste più recenti) e il polemarco che, oltre a venerare le divinità guerriere Artemide Agrotera e Enyalios, gestisce anche i giochi funebri in onore dei caduti in guerra. Ma la città designa anche altri cittadini per assolvere le funzioni religiose: per la consultazione degli oracoli, nomina i theoroi, mentre gli hieropoioi, eletti annualmente, ricevono l’incarico di organizzare le feste quadriennali (tranne le Grandi Panatenee), oltre che le Piccole Panatenee, e per queste occasioni devono fornire le vittime sacrificali, assumere il ruolo di sacrificatori ed esercitare un potere repressivo nei confronti dei trasgressori delle regole. I sacerdoti, come i magistrati, ricevono delle porzioni onorifiche nel corso della distribuzione delle parti della vittima sacrificale, soprattutto in occasioni solenni come le Grandi Panatenee. Alla fine del mandato i sacerdoti come i magistrati sono sottoposti a una procedura ufficiale di resa dei conti di fronte alla comunità politica. Il loro agire sarà giudicato e, se necessario, anche sanzionato.
Il quadro dell’esercizio di funzioni sacerdotali fin qui presentato è declinato esclusivamente al maschile. Sarebbe però un errore credere che le donne greche fossero confinate nello spazio domestico e che la città riservasse loro soltanto alcune feste, da gestire tra donne ed escludendo la presenza maschile, come avviene nelle Tesmoforie ad Atene. Sono noti diversi casi di sacerdotesse, hiereiai, la cui carica poteva essere annuale o a vita.
Esiste inoltre una distribuzione dei compiti inerenti alla gestione di un culto. La sacerdotessa di Atena poteva contare su due valide collaboratrici, chiamate kosmo, probabilmente "colei che adorna", e trapezophoros, "la portatrice di tavola". A Olimpia le cosiddette "sedici donne" rivestono un ruolo di primo piano nel culto di Era: oltre alla confezione del peplo da offrire alla dea ogni cinque anni, questo gruppo di donne organizza i giochi erei, essenzialmente competizioni di corsa femminile organizzate in classi di età.
Le "sedici donne" sono affiancate da altre sedici che fungono da assistenti, diakonoumenai. Ad Atene le donne del lignaggio dei Praxiergidi sono incaricate di lavare l’effigie antica dell’Atena Polias, di vestirla e di rimetterle i paramenti in occasione delle feste annuali delle Plinterie e delle Callinterie. Le donne incaricate di un sacerdozio civico sono necessariamente figlie di cittadini. A volte si esige che i loro genitori siano cittadini da tre generazioni, come avviene nella città di Alicarnasso per il sacerdozio di Artemide Pergaia.
Malgrado la tendenza delle città ad esercitare un controllo crescente sugli affari religiosi, sarebbe sicuramente riduttivo pensare che la vita cultuale si limitasse all’esercizio di cariche e di sacerdozi annuali. I luoghi sacri sono più affollati di quanto si possa pensare: a Olimpia, ad esempio, per sovrintendere al sacrificio mensile su tutti gli altari intervengono non soltanto un sacerdote chiamato teecolo, la cui carica è mensile, ma anche gli indovini, gli spondofori, ovvero i "portatori della libagione", l’esegeta, ovvero "l’interprete dei segni divini", l’auleta, nome comune del suonatore del doppio flauto, e il legnaiolo, ovvero colui che è incaricato di portare la legna da ardere sull’altare. Non si tratta, come si potrebbe pensare, di semplici figure ausiliarie, piuttosto il dato va inquadrato nell’ottica delle pratiche politeiste, in cui la gestione della relazione tra la sfera umana e divina non è appannaggio di pochi. Diversi altri agenti rituali intervengono nei luoghi sacri, frequentando i santuari e proponendo i loro servizi, non solo a singoli cittadini, ma anche alla comunità civica: indovini itineranti, chresmologoi, interpreti di oracoli, purificatori popolano infatti il paesaggio religioso greco, lasciandone emergere la varietà e la complessità. Questi operatori – agenti rituali indipendenti che intervengono nella vita religiosa della città senza essere sottomessi al controllo di questa –, situandosi ai margini del quadro cultuale civico appena delineato, diventano vittime, a partire dal V secolo a.C., di attacchi polemici, in quanto essi rivendicano una relazione privilegiata con gli dèi; in un’epoca in cui si assiste a una evoluzione delle sensibilità religiose, le loro pratiche tradizionali cominciano infatti a essere percepite con diffidenza e vengono di conseguenza stigmatizzate in quanto associate alla magia.