Abstract
Il lavoro chiarisce anzitutto la differenza essenziale tra Costituzione degli Stati Uniti, rigorosamente basata sulla tripartizione delle funzioni e dei corrispondenti poteri, e Costituzione italiana, che conosce almeno cinque poteri di ordine costituzionale, tra i quali il Presidente della Repubblica, capo dello Stato, separato dal Governo, titolare invece della funzione esecutiva. Ricorda poi in che modo i governi parlamentari di molti Stati europei, a cominciare dalla Gran Bretagna, hanno risolto il problema di come far convivere l’organo di governo (con il suo primo ministro), titolare incontestato del potere esecutivo, con la carica di capo dello Stato, riducendo questo secondo a simbolo della unità e continuità dello Stato. Sulla base di queste premesse il lavoro mostra da un lato in che senso e come il Presidente della Repubblica in Italia è anche un simbolo, come in altri Stati, e dall’altro quando e perché il Presidente della Repubblica riesce oppure è costretto ad esercitare poteri politici. L’analisi ribadisce però quali sono i punti fermi posti dal testo costituzionale e quindi i limiti insuperabili che sul piano giuridico incontra il Presidente della Repubblica.
Comincio da una breve analisi di una figura in qualche modo vicina, anche nel nome, ma nella realtà politica molto distante, e cioè il Presidente degli Stati Uniti d’America.
Chi legge il testo della Costituzione degli Stati Uniti resta immediatamente colpito dal fatto che esso appare strutturato in modo rigoroso secondo il principio della divisione dei poteri. Sette sono gli Articles, e cioè le partizioni maggiori del testo, ma fondamentali sono i primi tre, dedicati rispettivamente: il primo alla funzione legislativa ed all’organo titolare della funzione, e cioè il Congresso; il secondo alla funzione esecutiva ed al suo titolare, e cioè il Presidente degli Stati Uniti; il terzo alla funzione giurisdizionale. Dunque tre funzioni, e tre poteri. Questa rigorosa distinzione viene esaltata e garantita anche dal tipo di indipendenza di ciascun potere nei confronti degli altri, ed in particolare, per quanto qui ci interessa, tra Congresso e Presidente: il Congresso non può revocare il Presidente, che viene eletto dal popolo e dura in carica quattro anni, ed il Presidente non può sciogliere il Congresso.
È sufficiente leggere il testo della Costituzione italiana per notare immediatamente la diversità rispetto a quella americana: anche nella Costituzione italiana esiste la funzione legislativa e l’organo a cui questa viene attribuita; anche nella Costituzione italiana esiste la funzione giurisdizionale; ma poi, anziché una sola funzione ed un solo titolare, troviamo due organi distinti, il Governo (organo collegiale presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri) e il Presidente della Repubblica. È evidente che la Costituzione italiana deve risolvere il problema di come costruire i rapporti fra tre organi politici di vertice (tralasciando per semplicità la Corte costituzionale). Questo è il punto cruciale per chiunque voglia tentare di comprendere il ruolo e le funzioni del Presidente della Repubblica italiana.
Enunciata la specificità della Costituzione italiana rispetto alla Costituzione americana per quanto riguarda la carica di Presidente della Repubblica, conviene ora parlare del capo dello Stato nella forma di governo ormai canonica che va sotto il nome di “governo parlamentare”.
Va premesso che l’espressione “capo dello Stato” non è propriamente il nome di un organo, ma la qualità di un organo. Questa qualità viene da sempre attribuita al Re (o Regina), ma viene attribuita anche ai Presidenti della Repubblica in tutti i casi nei quali si passa da monarchia a repubblica e viene eletta una persona (quasi sempre si tratta di un organo monocratico e solo a questo caso ci riferiremo) che ricopre il posto prima ricoperto dal Re.
Poiché non è ammesso che esista un Re che non sia capo dello Stato e poiché il Presidente della Repubblica che ne prende il posto, anche quando non viene ufficialmente chiamato capo dello Stato nel testo costituzionale (come invece accade in Italia), è trattato sia in diritto internazionale che in diritto interno come capo dello Stato, le due espressioni Presidente della Repubblica e capo dello Stato possono venire e vengono trattate come sinonime. Resta fermo però che Presidente della Repubblica è il nome ufficiale dell’organo, e capo dello Stato è una sua qualità. In che cosa consista “oggi” questa qualità verrà chiarito in più punti ed in particolare nel par. 6 (v. infra, § 6).
Torniamo ora alla forma di governo cd. parlamentare. Si tratta di una forma di governo tipicamente europea (tale forma è minoritaria al di fuori dell’Europa di matrice liberale ed in ogni caso è in questa parte dell’Europa che essa nasce e si sviluppa). Questa forma di governo è caratterizzata da due elementi congiunti: a) oltre il parlamento, il potere giudiziario, il Re (o Presidente della Repubblica), è caratterizzata dalla esistenza di un quarto organo costituzionale (collegiale, ma con preminenza del capo del collegio), che oggi (in realtà da decenni) è indiscusso titolare della funzione esecutiva (lo chiamiamo qui Governo, riprendendo il nome ufficiale dato dalla Costituzione italiana); b) è caratterizzata dal rapporto di fiducia tra questo quarto organo ed il parlamento, per cui il governo resta in carica finché gode della fiducia del parlamento, deve dimettersi se perde la fiducia e deve lasciare che il parlamento attribuisca la fiducia ad una nuova compagine o, se questo si rivela impossibile, si proceda a nuove elezioni politiche.
Questo meccanismo politico genera necessariamente una serie di conseguenze: i) anzitutto la continua perdita di potere del Re nei confronti del governo (e del suo primo ministro); al più si può immaginare e praticare una funzione di consulenza e moderazione del Re (o del Presidente eletto) nei confronti del governo che gode della fiducia, funzione che costringe però il Re (o il Presidente) a cedere se il governo intende imporre la sua politica; ii) in secondo luogo la necessità di creare una maggioranza stabile entro il parlamento; iii) in terzo luogo la necessità, per ottenere la maggioranza dei seggi nella camera elettiva, di vincere nelle elezioni.
Una volta che si sono introdotte e consolidate le caratteristiche del governo parlamentare prima elencate, un problema di questa forma di governo rimane nella domanda: quale funzione in positivo attribuire al capo dello Stato (Re o Presidente della Repubblica)?
A questo punto conviene mettere a confronto nell’essenziale da un lato l’esperienza inglese (e quella di altri paesi che sono riusciti a copiare tale esperienza), e dall’altro la attuale esperienza francese, che fuoriesce dalla forma di governo parlamentare per costruire secondo i più una forma distinta, che va sotto il nome ingannevole di governo semipresidenziale.
La Gran Bretagna ha risolto il problema di far convivere la monarchia con un governo che gode della fiducia del parlamento facendo del Re o Regina il simbolo della unità e della continuità del Paese, e facendo del governo il solo e incontestato titolare del potere esecutivo ed in realtà il dominus dell’indirizzo politico nei confronti dell’intero ordinamento. Le ragioni e i modi attraverso cui il risultato è stato raggiunto da decenni e si mantiene saldo sono molti e complessi e non è possibile in questa sede esaminarli.
Non ritengo poi opportuno descrivere qui in che cosa consiste la funzione di simbolo della corona inglese. Poiché anche il Presidente della Repubblica italiana svolge anche una funzione simbolica (nota bene: non sta scritto che svolge soltanto una funzione simbolica), in quella sede descriveremo alcune di queste pratiche e manifestazioni.
Sarebbe troppo lungo descrivere e spiegare come in Germania, in Spagna, in Olanda, nei paesi scandinavi, in altri ancora, quei regimi parlamentari sono riusciti ad ottenere, con tempi e modalità diverse, gli stessi risultati ottenuti in Gran Bretagna, o risultati analoghi, e cioè la riduzione del capo dello Stato, organo separato rispetto all’organo titolare del potere esecutivo, a simbolo della unità e continuità dell’intero Paese e dello Stato, mentre spetta soltanto al governo la funzione esecutiva, e nel governo ha acquistato indiscussa preminenza il primo ministro (quale che sia il suo nome ufficiale).
Vediamo invece l’attuale costituzione francese. In prima battuta ritroviamo nel testo della costituzione francese vigente lo stesso numero e gli stessi nomi di un qualsiasi governo parlamentare: c’è il parlamento, c’è il corpo dei giudici, c’è il governo collegiale che deve godere della fiducia del parlamento (e deve dimettersi se perde tale fiducia), c’è il Presidente della Repubblica capo dello Stato. Ma è apparenza ingannevole. Il punto decisivo sta nella elezione diretta da parte del popolo del Presidente della Repubblica come portatore di un programma politico. Essenziale non è dunque soltanto l’elezione diretta da parte del corpo elettorale, ma il fatto che questa elezione è apertamente politica, gli elettori votano il candidato alla presidenza affinché, se vince, attui proprio quel programma politico di cui si è fatto portatore. Questo elemento basilare si affida poi ad un sistema politico ed elettorale che favorisce nella elezione della camera elettiva il bipolarismo, se non addirittura il bipartitismo: è facile che un solo partito vinca in seggi, e che soltanto due partiti, uno di destra ed uno di sinistra, si alternino al potere; anche se nessun partito raggiunge la maggioranza assoluta dei voti e neppure la maggiorana assoluta dei seggi in prima battuta, il secondo turno favorisce l’accorpamento degli elettori in due schieramenti contrapposti. Il meccanismo del doppio turno vale sia a livello di elezione della camera elettiva sia a livello di elezione del Presidente della Repubblica. Può accadere dunque, ed è accaduto nella maggioranza dei casi ed oggi praticamente sempre, che i maggiori partiti scelgano come candidato alla presidenza della Repubblica il proprio capo, e che il partito che ha conquistato la presidenza della Repubblica con il proprio capo riesca anche a vincere in seggi per l’Assemblea nazionale: in questo caso, che si è ripetuto più volte, il capo del partito diventa capo dello Stato, capo della maggioranza parlamentare, capo del governo da lui nominato e da lui liberamente sostituibile (governo che per definizione, date le premesse, ottiene la fiducia dell’Assemblea nazionale). Si tratta di una situazione di potere che sul piano costituzionale non possiede nessun presidente nella forma di governo presidenziale (ad esempio negli Stati Uniti), e che non possiede nessun capo del governo nella forma di governo parlamentare. Chiamare semipresidenziale questa forma di governo è chiaramente un eufemismo ed un inganno: bisognerebbe dire “forma di governo ultrapresidenziale”. Però, fino alla riforma del 2000 poteva anche accadere che un partito riuscisse a vincere per la carica di Presidente della Repubblica (che durava sette anni), ma poi, nelle successive elezioni per l’Assemblea nazionale (che di regola durava in carica cinque anni, fatte salve le elezioni anticipate), questo stesso partito perdesse in seggi a favore del partito o della coalizione avversa; in tal caso si otteneva quella che è stata chiamata significativamente e persuasivamente la cohabitation: il Presidente doveva nominare un governo in grado di ottenere la fiducia, e cioè un governo che era portatore del programma che aveva vinto nelle elezioni per il parlamento, diverso ovviamente da quello del presidente; in casi del genere, che sono accaduti talvolta prima della riforma di cui diremo, il Presidente della Repubblica perdeva quasi del tutto i suoi poteri, ed al più riusciva a condizionare il governo su alcuni punti (in particolare la politica estera e quella militare). In sostanza con la coabitazione si giungeva ad una forma di governo parlamentare. La riforma però ha reso oggi la coabitazione praticamente impossibile (anche se in astratto potrebbe ripresentarsi): il trucco è consistito nel limitare la durata in carica del Presidente a cinque anni, nel farla coincidere con quella della Assemblea nazionale, e nel rendere quindi quasi contemporanee le due elezioni, prima quella del presidente, poi quella del parlamento: è evidente in tal modo che è molto improbabile che la maggioranza che ha eletto il Presidente un mese dopo dia la maggioranza ai partiti contrari.
Ora abbiamo tutti gli strumenti per trattare del Presidente della Repubblica in Italia.
Non esiste alcun dubbio che la forma di governo praticata in Italia è, sul piano giuridico-costituzionale, quella parlamentare, comparabile a quella praticata in Gran Bretagna, in Germania, in Spagna ed in altri Stati europei, ed è strutturalmente e funzionalmente diversa da quella presidenziale, praticata, ad esempio, negli Stati Uniti, e da quella cd. semipresidenziale, praticata nella vigente V Repubblica francese.
La domanda, come preannunciato, diventa: quale ruolo e funzione la Costituzione italiana “vivente” attribuisce al Presidente della Repubblica?
Sessanta anni e più di esperienza repubblicana dimostrano che in Italia il Presidente della Repubblica “non” è stato ridotto a organo soltanto simbolico, come è accaduto in altri ordinamenti che praticano la forma parlamentare di governo.
Questo non vuol dire che il Presidente della Repubblica in Italia non abbia “anche” un ruolo di simbolo. Non soltanto lo dice il testo costituzionale quando scrive che il Presidente della Repubblica «è Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale», ma lo conferma la vita politica quotidiana, paradossalmente soprattutto quando il Presidente della Repubblica viene criticato, perché viene criticato proprio perché secondo alcuni, in questo o quel periodo, in questo o quel frangente, non ha bene svolto il suo ruolo di capo dello Stato e di rappresentante dell’unità nazionale.
Prima ancora di cercare e trovare altre e più puntuali conferme nel testo e nella storia costituzionale italiana, conviene sottolineare che la presenza di figure simboliche nelle organizzazioni collettive è un fatto onnipresente nello spazio e nel tempo, e comunque una caratteristica di tutti gli Stati. Anche negli Stati Uniti il Presidente è anche e spesso anzitutto un simbolo. In altre parole, quali che siano le spiegazioni del fatto (che è sicuramente molto complesso e non riducibile alla sfera razionale o comunque giuridica, cosicché il giurista, se usa i suoi strumenti, è tra quelli meno attrezzati per comprendere e spiegare il fenomeno), in tutti gli Stati viene costruita ed individuata una figura che esprime, manifesta, viene vista, trattata come quella che rende visibile e materialmente presente l’idea ed il sentimento che la comunità che si è costituita a Stato è qualcosa di unitario e permanente.
La Costituzione italiana ha stabilito che la figura del capo dello Stato, il ruolo di simbolo che la figura porta con sé, si incarni nella persona eletta a Presidente della Repubblica, e che questa figura simbolica rimanga distinta da ogni altro organo costituzionale. Da qui una serie di conseguenze, simboliche sia quando si esauriscono nel simboleggiare senza produrre conseguenze giuridiche o fattuali, sia quando si riducono a simbolo che esclude la sostanza politica e giuridica della cosa simboleggiata: si ha per es. il primo caso nel cerimoniale, per cui sempre, nelle cerimonie alle quali il capo dello Stato è presente in questa sua qualità, egli è il primo negli onori; si ha il secondo caso ad esempio quando la Costituzione dice che egli ha il comando delle Forze armate, anche se tutti sanno che egli non comanda effettivamente sulle forze armate, e che in particolare chi comanda operativamente sono gli alti gradi militari e chi comanda politicamente (ad esempio ordinando alle forze armate di intervenire militarmente in patria e all’estero) è comunque il Governo sostenuto dalla fiducia del Parlamento, e il Presidente della Repubblica può al massimo, se vi riesce, magari con il sostegno del Consiglio supremo di difesa, condizionare, al limite in casi politicamente eccezionali bloccare le intenzioni e la volontà del Governo in carica.
Insomma, senza pretendere di discriminare con sicurezza ed in ogni caso quando il Presidente è percepito come simbolo e svolge, più o meno consapevolmente, questa funzione, e quando invece, oltre la funzione simbolica (o, peggio, in contrasto con la funzione simbolica), viene percepito come attore politico in alleanza con o contro altri attori politici, non c’è dubbio che sia il testo costituzionale, sia l’esperienza costituzionale trascorsa, sia la ragionevole previsione sul futuro, sia l’aspettativa della opinione pubblica, dei politici, dei costituzionalisti, sia la ragionevole visione del proprio ruolo che hanno e avranno i Presidenti della Repubblica, tutti questi soggetti e queste esperienze confermano che il Presidente della Repubblica è anche e anzitutto un simbolo, che come tale deve comportarsi, e come tale deve essere visto e trattato.
Esiste un legame stretto di interdipendenza tra la qualità di capo dello Stato e molte norme e convenzioni costituzionali, cosicché la qualità di capo dello Stato spiega la ragion d’essere di tali norme e convenzioni (la loro ratio) e nello stesso tempo tali norme e convenzioni chiariscono e danno corpo alla qualità di capo dello Stato.
Anzitutto il modo di elezione: il Presidente della Repubblica viene eletto dal Parlamento in seduta comune, cosicché egli non può vantare un seguito politico di origine popolare da contrapporre se necessario ad altri organi. In secondo luogo la Costituzione non solo non prevede ma in realtà vieta candidature ufficiali; nella pratica, in forza di una convenzione costituzionale (quasi sempre rispettata), nessuno, né prima né durante le votazioni, avanza pubblicamente la propria candidatura; poiché la scelta di una persona deve pur essere discussa e valutata, le discussioni sul punto sono riservate, e filtrano al massimo indiscrezioni giornalistiche (vi sono state eccezioni, ma si tratta di casi minoritari che in generale sono stati criticati e visti con fastidio se non peggio); in ogni caso si evita di formulare programmi politici che il futuro Presidente dovrebbe attuare o favorire (anche in questo caso ci sono state eccezioni, ma di nuovo minoritarie, trattate come violazione di regole non scritte di correttezza costituzionale); in sintesi, per chiudere questo punto, si cerca per quanto possibile di non caratterizzare il futuro Presidente come portatore di un programma politico contro altri programmi politici.
Un altro elemento fondamentale che caratterizza la carica è la sua irresponsabilità giuridica per gli atti di esercizio delle sue funzioni, tranne il caso di alto tradimento e attentato alla Costituzione: se si tiene presente il principio fondamentale della forma repubblicana, per cui si è responsabili per l’esercizio del potere politico e si ha tanto potere quanta è la responsabilità, è evidente l’intenzione del testo costituzionale di negare potere politico al Presidente della Repubblica irresponsabile; nella stessa direzione va la controfirma ministeriale (alla quale per la sua importanza e per le complesse articolazioni a cui dà luogo sarà destinato un paragrafo specifico: v. infra, § 8).
Infine è significativo che secondo il testo costituzionale le dimissioni del Presidente non danno luogo a prorogatio ma a supplenza e soprattutto determinano automaticamente la cessazione della carica senza possibilità di ritirarle o di sottoporle ad un voto: se ricordiamo che la minaccia di dimissioni (ad esempio quella che viene minacciata dal Governo con la questione di fiducia) è uno degli strumenti fondamentali nella lotta politica mediante la quale il capo riporta all’ordine i suoi seguaci, è evidente la volontà del testo costituzionale di impedire che il Presidente disponga di questo strumento, e cioè faccia politica mediante tale strumento. Anche il divieto di sciogliere anticipatamente le Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo il caso in cui gli ultimi sei mesi comprendano anche la scadenza normale di cinque anni delle Camere, ribadisce il punto.
Come già sottolineato, quali che siano le opinioni e gli sviluppi intorno al Presidente della Repubblica come simbolo, è pacifico, anzitutto in base a ciò che è accaduto e continua ad accadere, che il Presidente della Repubblica italiana non può essere ridotto a simbolo. Questa constatazione, e la problematica conseguente intorno al Presidente della Repubblica in Italia, nasce dal fatto che vi sono poteri di questo organo, previsti dal testo costituzionale, che le circostanze politiche possono rendere effettivi, contro ogni tentativo o volontà di ridurli ad apparenze simboliche senza sostanza politica e giuridica (come invece accade in altri casi, ed anche nei casi qui trattati se le circostanze politiche sono diverse). In particolare vi sono due poteri molto significativi in questa direzione: la nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri e lo scioglimento anticipato delle Camere.
Non è difficile immaginare un modo d’essere della vita politica che renderebbe anche questi due poteri puramente simbolici: immaginate un sistema politico che usa una legge elettorale in base alla quale subito dopo il conteggio dei voti è certo quale partito o coalizione di partiti ha vinto in seggi, è certo qual è la persona che questo partito o coalizione ha designato come capo del governo, è certo che questo partito o coalizione di partiti ha una unità e compattezza tale da non dividersi per tutta la legislatura, ed ecco che i poteri del Capo dello Stato diventano puramente simbolici: egli dovrà nominare Presidente del Consiglio la persona designata con le elezioni, dovrà nominare i ministri proposti da questo Presidente del Consiglio, dovrà firmare, se la Costituzione prevede che tali atti siano emanati dal Presidente della Repubblica, gli atti che il Governo propone come attuazione del programma politico in base al quale ha ricevuto la fiducia da parte di una maggioranza parlamentare compatta e coesa, non potrà sciogliere anticipatamente le Camere per la semplice ragione giuridica e politica che il Presidente del Consiglio, forte della sua maggioranza parlamentare, vorrà governare per la intera legislatura di cinque anni e rifiuterà di controfirmare l’atto.
Del resto, come controprova, il Presidente della Repubblica in Italia ha avuto margini di scelta più o meno ampi, sia nel caso di nomina del Governo (subito dopo le elezioni oppure in corso di legislatura), sia nel caso di ventilato scioglimento anticipato, sia rispetto a quasi tutti gli altri atti attribuiti dalla Costituzione al Presidente della Repubblica, quando non preesisteva nessuna maggioranza o comunque la maggioranza presunta o ufficialmente in carica appariva debole e incerta. Da qui quello che appare un assioma della vita politica e costituzionale nella Repubblica italiana: il potere politico del Presidente della Repubblica è inversamente proporzionale alla forza e compattezza della maggioranza politica nelle Camere.
Vale la pena di sottolineare che non si tratta di una possibilità di scelta del Presidente della Repubblica: se c’è oppure non c’è forza e compattezza nella maggioranza politica entro le Camere non dipende da lui; se questa maggioranza entra in crisi (e dunque bisogna o nominare un nuovo Governo o sciogliere anticipatamente le Camere) o comunque appare continuamente incerta e rissosa al suo interno, il Presidente è costretto dalle cose ad intervenire, non può tirarsi fuori, perché anche il tirarsi fuori diventa un forma di intervento, probabilmente il peggiore data la situazione politica effettiva.
Una volta accertato che dipende dalla forza e compattezza della maggioranza politica quale ruolo politico e quali funzioni politicamente significative può svolgere il Presidente della Repubblica, è impossibile e vano tentare di definire in modo completo, con certezza e una volta per sempre, poteri e funzioni politiche di tale carica. Tutti i tentativi proposti in questa direzione, se permane o si ripresenta la debolezza del sistema politico, sono stati e possono diventare contemporaneamente corretti e sbagliati: corretti nella misura in cui descrivono secondo verità alcuni momenti e fasi di ciò che è accaduto, sbagliati se sono constatabili altri momenti che esigono diverse conclusioni e se tali tentativi pretendono di anticipare il futuro.
Questa impossibilità di fissare con chiarezza e sicurezza il ruolo e le funzioni del Presidente della Repubblica in Italia non toglie che sia possibile, ed anzi necessario stabilire alcuni punti fermi, e scandagliare il ventaglio di possibilità che si aprono (e quindi anche le possibilità di fatto che sono giuridicamente impedite) in base all’intero sistema costituzionale vigente (dopo tutto non siamo nel pieno di una guerra civile o di uno stato di totale anomia).
In questa direzione deve anzitutto essere esaminato l’istituto della controfirma ministeriale (usando l’aggettivo tradizionale; sarebbe meglio dire governativa). Dice l’art. 89 che «Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità». In ogni caso una controfirma, e cioè banalmente una firma, ovviamente autografa, scritta con piena coscienza e senza violenza o inganno, ci deve essere: se manca, l’atto è nullo, con tutto ciò che ne consegue. Questo è appena l’inizio della analisi, ma è comunque un punto fermo, chiaro e insuperabile. La domanda successiva diventa: posto che l’atto è radicalmente nullo se manca la controfirma, che cosa può o deve fare il Presidente che firma e che cosa può o deve fare il ministro o il Presidente del Consiglio che controfirma?
Alcuni atti attribuiti ufficialmente al Presidente della Repubblica contengono implicitamente la risposta: gli atti dovuti. Vi sono casi nei quali sia il Presidente che firma sia il ministro (o il Presidente del Consiglio) che controfirma debbono incondizionatamente firmare e controfirmare: ad esempio quando scadono i cinque anni e bisogna indire le elezioni per le nuove Camere.
Vi sono poi pochi atti che, sulla base di ragionamenti persuasivi condivisi praticamente da tutti, vanno attribuiti alla predominante volontà del Presidente (i cd. atti presidenziali in senso stretto; alcuni costituzionalisti e politici usano altri nomi, ma la sostanza non cambia). Sono quegli atti che non sono e non debbono essere attuazione del programma di governo, ed anzi, per ragioni sistematiche ovvie, non debbono essere atti della maggioranza politica ma in qualche modo atti che prescindono dalla politica: rientrano pacificamente in questo tipo di atto del Presidente della Repubblica la nomina dei cinque senatori a vita e la nomina dei cinque giudici costituzionali attribuita al Presidente della Repubblica. Su questa base in relazione agli atti cd. presidenziali è pacifico che, contro la lettera dell’art. 89 (e quindi dando per scontato ormai che la parola “proponenti” non va intesa secondo l’etimologia della parola ma in modo convenzionale come “soggetti che prendono parte in qualche modo alla decisione”), chi prende l’iniziativa e propone i nomi al ministro (o al Presidente del Consiglio) è proprio il Presidente della Repubblica, e chi alla fine del dialogo decide, dopo eventuali obiezioni, pareri e perplessità, è proprio il Presidente. Che cosa resta al ministro o Presidente del Consiglio che controfirma (e deve controfirmare pena la inesistenza dell’atto)? Resta la funzione e il potere non trascurabile di chi, in tempo utile (prima che l’atto venga ad esistenza), può con buoni argomenti convincere il Presidente a desistere dalla sua proposta e avanzarne un’altra o convergere su quella del Presidente del Consiglio o del ministro. Si ritiene che rientri in questa categoria di atti anche il rinvio delle leggi e il messaggio alle Camere.
Si è molto discusso intorno alla grazia: la Corte costituzionale con la sentenza n. 200 del 2006 ha deciso che si tratta di atto presidenziale, al punto di rendere giuridicamente obbligato il ministro a controfirmare. La decisione ha sollevato molte e appassionate critiche, ed è significativo che lo stesso Presidente della Repubblica si è appropriato della parte della sentenza a lui favorevole ma ha già disatteso la stessa in altro punto, concedendo la grazia anche fuori dei casi umanitari ai quali voleva rinchiuderlo la Corte. In ogni caso si tratta di una sentenza che risolve lo specifico caso che vi ha dato luogo, ma non impedisce e non può impedire che in futuro governi autorevoli riescano sia a bloccare provvedimenti di grazia proposti dal Presidente della Repubblica sia ad imporre provvedimenti di grazia che il Presidente non vorrebbe firmare.
Più in generale emerge il problema della natura delle regole di fatto, se regolarità sono riscontrabili, che disciplinano i rapporti tra Governo e Presidente della Repubblica in materia di controfirma. La questione da accademica è divenuta acuta e ineludibile proprio dopo la sentenza n. 200 del 2006 della Corte costituzionale in tema di grazia (ma inevitabilmente rispetto a tutti gli atti del Presidente della Repubblica). Si tratta di regole giuridiche, e dunque giustiziabili e capaci di produrre conseguenze giuridiche, oppure di regole convenzionali, di convenzioni costituzionali secondo il modo inglese di concepire e praticare tali regole, per cui esse vincolano politicamente i soggetti coinvolti, ma non sono giustiziabili e non impediscono agli stessi soggetti interessati di mutarle e sostituirle nel tempo, secondo opportunità politica? Ricordo qui la esistenza di questa tematica, confermo per quanto mi riguarda che a mio parere si tratta di regole convenzionali, ma nello stesso tempo ricordo che: a) diversa è l’opinione della Corte costituzionale e di altri costituzionalisti; b) che la esistenza delle convenzioni dipende anch’essa da una convenzione, per dir così, e cioè dal fatto che gli interessati convidono nella sostanza l’idea e la pratica che esistono ed è bene che esistano convenzioni costituzionali, cosicché la mancanza o la debolezza di una tale convenzione determina anche la mancanza o la debolezza delle convenzioni costituzionali.
In ogni caso, quale che sia la tesi sostenuta intorno alla natura delle regole sui rapporti tra Governo e Presidente relativi alla controfirma, esiste ancora un ulteriore punto fermo in materia: l’esistenza di atti del Presidente della Repubblica cd. governativi, e cioè di atti che formalmente spettano al Presidente della Repubblica, ma che nella sostanza politica sono atti voluti dal Governo, rispetto ai quali il Presidente della Repubblica, se vuole, al più può sollevare obiezioni, dare consigli, chiedere un ripensamento, ma deve alla fin fine emanare l’atto se il Governo resta fermo nella sua decisione. Sono tutti gli atti che costituiscono gli strumenti mediante i quali il Governo attua il suo programma politico (ad esempio le iniziative di legge, i decreti-legge, i decreti legislativi, i regolamenti, gli atti amministrativi). Un Presidente che rifiuta di emanarli, inevitabilmente, diventa un Presidente che va contro il Governo, contro il suo programma, e quindi contro la maggioranza politica entro le Camere. Ma proprio per questo, se la maggioranza è divisa e incerta, se il Governo è politicamente debole, il Presidente della Repubblica, come già sottolineato, acquista spazi politici di manovra, giustificati sempre, come vuole la carica, dalla necessità di impedire rotture e lacerazioni dell’unità nazionale (quanto poi siano sincere le giustificazioni pubbliche è altra questione da lasciare agli storici, se riescono a scoprire la verità).
Con gli atti del Presidente cd. governativi prima ricordati si ritorna alla questione decisiva e centrale: che cosa può fare il Presidente se la maggioranza politica è incerta e divisa? Se il Governo è debole politicamente?
In realtà anche rispetto a questi atti, attribuiti formalmente al Presidente della Repubblica ma che costituiscono lo strumento necessario attraverso cui il Governo attua il suo programma, c’è comunque un punto fermo: quali che siano i condizionamenti, le opposizioni che il Presidente della Repubblica riesce ad avanzare, vi sono atti che comunque egli non può compiere sostituendosi ad altro organo. Il Presidente della Repubblica promulga le leggi, ma non può approvare una legge sostituendosi alle Camere; emana i decreti-legge e i decreti legislativi, ma non può deliberare il contenuto di tali atti al posto del Consiglio dei ministri; emana i regolamenti chiamati significativamente “governativi” (e non emana tutti gli altri), ma li emana soltanto se il Consiglio dei ministri li ha deliberati; emana molti atti amministrativi, ma non può emanarli senza la controfirma che conferma e garantisce la previa deliberazione del Governo; su un altro piano presiede il Consiglio superiore della magistratura, ma non può sostituirsi ad esso o dargli ordini. In sintesi, usando i suoi poteri, il Presidente della Repubblica può riuscire talvolta a paralizzare altri organi (cioè esercitare una funzione negativa), ma non può in positivo svolgere i compiti ed esercitare i poteri di altri organi previsti dalla Costituzione.
Se questo punto banale ma decisivo non viene sempre tenuto presente è facile farsi trasportare dalle apparenze e arrivare fino al punto di parlare del Presidente della Repubblica come il Re della Repubblica (v. il recente libro di Scaccia, G., Il Re della Repubblica. Cronaca costituzionale della presidenza di Giorgio Napolitano, Modena, 2015, peraltro ricco di informazioni e nella sostanza condivisibile, al di là del titolo giornalistico).
Arriviamo così al vero potere politico del Presidente della Repubblica come si è affermato nei decenni a causa della debolezza delle maggioranze politiche in parlamento. Un potere che non si affida a strumenti giuridici, ma che, come accade nei partiti e con i partiti, si affida all’opinione pubblica ed alle forze sociali, ed ai condizionamenti che le prevedibili o constatate manifestazioni politiche dell’opinione pubblica e delle forze sociali determinano in capo a tutti gli attori politici. La dilatazione senza limiti del cd. potere di esternazione, cioè il potere (in realtà la libertà) di manifestare pubblicamente opinioni, giudizi, ipotesi, proposte, consigli, auspici, che sul piano “giuridico” non hanno alcun effetto, ma che sul piano politico possono avere e spesso hanno avuto e continueranno ad avere grande peso e risonanza, è lo strumento principale che costruisce e determina le possibilità politiche del Presidente della Repubblica.
Questo potere di fatto ha una ampiezza senza limiti, anche se beninteso, sempre di fatto, può variare senza limiti in aumento e in diminuzione: giuridicamente, per bloccarlo, l’unico strumento a disposizione sarebbe l’accusa di attentato alla Costituzione, cioè uno strumento inservibile, soprattutto dopo che è divenuta opinione pacifica che il Presidente della Repubblica può parlare come vuole, quando vuole, dove vuole.
Non sembri banale quanto ora detto. In Gran Bretagna la regola convenzionale è che la Regina quando parla in pubblico ed espone posizioni di ordine politico impegnando il suo Paese e il suo governo legge discorsi scritti da questo. Vi sono riunioni settimanali nelle quali la Regina riceve il primo ministro, che la informa intorno alle questioni all’ordine del giorno, ma la regola convenzionale rigorosamente rispettata è che nessuno dei due dice di quali questioni si è parlato e meno che mai di che cosa è stato detto intorno alle questioni affrontate.
Una volta che il Presidente della Repubblica italiano ha parlato, e fatto capire a chi deve capire quali sono le sue intenzioni, una volta che in base a questi cauti o aperti sondaggi il Presidente ha verificato il grado di consenso ottenuto, è ovvio che potrà usare tutti i poteri formali di cui dispone in modo conforme alle sue intenzioni e convinzioni, fin dove gli è politicamente permesso dagli altri attori politici.
Resta valido però, mi pare, il tentativo qui fatto di stabilire i confini entro cui, a Costituzione vigente, possono svolgersi queste diverse e imprevedibili possibilità che caratterizzano la carica di Presidente della Repubblica senza arrivare a violazioni o veri e propri mutamenti incostituzionali della Costituzione formale. In altre parole tutti possono esprimersi sul merito dei comportamenti dei Presidenti della Repubblica, approvandoli o biasimandoli, ma quasi mai è possibile concludere che in quasi settanta anni essi hanno compiuto atti “giuridicamente” contrari a Costituzione (il quasi mai allude a due anni di un certo presidente del quale non intendo parlare).
Per informazioni intorno alle regole costituzionali sulla elezione del Presidente della Repubblica, i requisiti per essere eletti, la durata in carica, la supplenza, la responsabilità per alto tradimento e attentato alla Costituzione (e connessa irresponsabilità per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni) è sufficiente in questa voce rinviare agli articoli specifici del testo costituzionale.
Si discute sulla responsabilità penale del Presidente della Repubblica per quanto riguarda i comportamenti tenuti prima della elezione o al di fuori delle sue funzioni. La maggioranza dei costituzionalisti ritiene che egli risponda in questi casi come un qualsiasi cittadino, e questa è ormai la decisione della Corte di cassazione e della Corte costituzionale (contro la tesi di alcuni costituzionalisti e di qualche giudice che, in base a regole non scritte ricavate per analogia o dai principi costituzionali, ritenevano che in tal caso si determinasse una improcedibilità).
Per quanto riguarda la responsabilità politica, è pacifico che il Presidente della Repubblica non può essere costretto alle dimissioni da nessuno mediante una mozione di sfiducia o in altri modi, e tutt’al più si può parlare di responsabilità politica istituzionale nel caso di mancata rielezione, come qualcuno sostiene; la maggioranza ritiene errata anche questa tesi in base ad una analisi dei fatti, che mostrano quanto diversa sia la mancata rielezione del Presidente della Repubblica in Italia (quasi sempre, per non dire sempre, determinata da una regola convenzionale tacita legata alla enorme durata che determinerebbe una rielezione) dalla mancata rielezione del Presidente degli Usa o della mancata elezione del candidato del suo stesso partito, tutte e due riconducibili ad un chiaro giudizio del corpo elettorale sull’operato del Presidente uscente.
Solo un Presidente è stato eletto una seconda volta, Napolitano nel 2013, ma vale la pena di sottolineare l’eccezionalità delle circostanze che hanno determinato l’esito e la dichiarazione dell’interessato di non voler rimanere per l’intera durata della carica (e infatti Napolitano si è dimesso all’inizio del 2015); egualmente significativo che l’unico Presidente uscente che ha avuto serie possibilità di essere rieletto, e cioè Ciampi, nel rifiutare la candidatura abbia sostenuto che forse si era creta una consuetudine costituzionale contraria alla rielezione; non di una consuetudine, e cioè di una norma giuridica, si trattava, come ha dimostrato la rielezione di Napolitano senza contestazioni di sorta sul piano giuridico, ma di una convezione costituzionale, che probabilmente ha ripreso il suo corso dopo la parentesi eccezionale che ha costretto Napolitano ad accettare la rielezione.
In sintesi, in base ad esperienza, la mancata rielezione non è mai stata vissuta come una sanzione corrispondente a responsabilità politica istituzionale, e la possibile seconda elezione non può essere vista come accertamento positivo di responsabilità politica, cioè non configura un caso di responsabilità politica istituzionale.
Diversa è la conclusione per quanto riguarda la responsabilità politica diffusa. È del tutto ovvio che, se un Presidente entra nella lotta politica, o comunque viene visto come un attore politico tra gli altri, egli sarà sottoposto a critiche da parte di chi non è d’accordo con lui, e cioè a manifestazioni tipiche della responsabilità politica diffusa. Resta però la particolarità, facilmente dimostrabile in base a citazioni fedeli delle dichiarazioni pubbliche che criticano il Presidente della Repubblica, per cui le critiche mosse a lui hanno quasi sempre un tono diverso da quello che caratterizza le critiche politiche rivolte ad altri soggetti politici, ed in particolare al Governo: mentre in questo secondo caso non si contesta la legittimazione dell’organo a fare quello che ha deciso di fare, ma si criticano i contenuti (con l’intento non tanto di fargli cambiare politica quanto di influenzare l’opinione pubblica in vista delle successive elezioni), per quanto riguarda il Presidente della Repubblica si contesta proprio la legittimazione a fare quello che ha fatto, sostenendo che non è conforme alla sua carica ed al suo ruolo adottare quelle decisioni o fare quelle dichiarazioni. La critica cioè acquista una coloritura di ordine giuridico: prima ancora che il merito, viene contestata la legittimazione.
Conviene concludere facendo notare come non per caso il Presidente della Repubblica non svolge in proprio nessuna funzione tra quelle che caratterizzano l’ordinamento nel suo complesso, ma nello stesso tempo è collegato in modi significativi, contemporaneamente, con tutti i poteri dello Stato: con quello legislativo quando, se vuole, convoca le camere, rinvia le leggi ad esse, promulga le leggi, indice le elezioni e scioglie anche anticipatamente una o ambedue le Camere; è collegato con il potere esecutivo quando nomina il Presidente del Consiglio ed i ministri, emana i decreti-legge, i decreti legislativi ed i regolamenti, emana atti amministrativi nei casi previsti dalle leggi; è collegato con la Corte costituzionale quando nomina cinque giudici costituzionali; con il potere giudiziario quando presiede il Consiglio superiore della magistratura, ed emana atti amministrativi relativi ai giudici nei casi previsti dalla legge. Da un lato questo legame con tutte le componenti dello Stato conferma la sua figura ed il suo ruolo di simbolo, ogni qual volta decisioni di parti dello Stato vanno emanate in modo tale da ribadire e manifestare che si tratta di decisioni dello Stato nella sua unità ed interezza; dall’altro questo legame può diventare in concreto, se le circostanze politiche lo consentono o addirittura lo impongono, assunzione di veri poteri politici e di effettive responsabilità, ma solo se gli altri poteri non funzionano in modo efficace, come dovrebbero secondo Costituzione, e sempre con l’intento di superare le difficoltà nell’interesse della unità e della continuità dell’ordinamento e dello Stato, e comunque con i limiti costituzionali insuperabili descritti nei paragrafi precedenti (v. supra, § 8 e 9).
Artt. 59, co. 1-2, 73, 74, 83-91, 92, co. 2, 93, 104, co. 2, 126, co. 1, 135, Costituzione; l. cost. 11.3.1953, artt. 11-15, mod. l. cost. 16.1.1989, n. 1; si omettono i riferimenti al Presidente della Repubblica contenuti in innumerevoli leggi ordinarie ed altri atti normativi.
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