Vedi Presidente della Repubblica dell'anno: 2015 - 2016
Presidente della Repubblica
Il ruolo del Capo dello Stato in una forma di governo parlamentare, quale la nostra, dipende non solo dalla disciplina posta nella Costituzione, ma anche dal grado di stabilità e di efficienza del sistema politicoistituzionale, oltre che dal carattere personale dello stesso Capo dello Stato. Dopo l’eccezionale rielezione del Presidente Napolitano avvenuta nel 2013, nel 2014 si è assistito alla conferma del ruolo incisivamente svolto dal Capo dello Stato di fronte alle difficoltà e alle debolezze che hanno caratterizzato l’effettivo svolgersi dei poteri di indirizzo della collettività. Ma la riforma costituzionale in corso di esame parlamentare, e in particolare il rafforzamento dell’esecutivo, potrebbe mutare il quadro dei rapporti con il Governo e conseguentemente delimitare gli spazi di intervento presidenziale.
Se è vero che quasi mai nei regimi parlamentari si è fatto a meno della figura del Capo dello Stato, il ruolo assunto da quest’ultimo è stato assai differenziato non solo tra i diversi ordinamenti, ma anche nella concreta esperienza di ciascuno di questi. Ciò dipende da molteplici fattori che possono essere così riassunti. Innanzitutto, operando in uno Stato costituzionale e dunque sulla base e nei limiti della Costituzione, il ruolo del Presidente dipende dai poteri formalmente attribuiti e sui quali possono avere anche influenza le modalità della sua elezione. Ad esempio, nei regimi parlamentari in cui il Presidente della Repubblica è eletto direttamente dal popolo, egli ne può trarre quella peculiare legittimazione politica che lo rafforza nei rapporti con gli organi titolari dell’indirizzo politico della collettività. Ciò, come noto, non accade in Italia, ove tuttavia i poteri del Presidente non sono certo meramente simbolici. Del resto, la scelta dell’elezione presidenziale da parte di un consesso costituito quasi completamente dai parlamentari – cui si aggiunge il ristretto numero di delegati regionali in ossequio ai connotati essenziali del nostro decentramento istituzionale – e l’indicazione di quorum particolarmente significativi (la maggioranza qualificata dei due terzi nelle prime tre votazioni e la maggioranza assoluta nelle successive votazioni), indica che il Presidente deve la sua posizione non al presunto ed indiretto rapporto di collegamento con la volontà popolare, quanto alla presenza di un largo consenso tra le forze politiche presenti in Parlamento. Dunque, per quanto le disposizioni della nostra Costituzione relative al nostro Capo dello Stato – ed ai suoi rapporti formali con le altre istituzioni – siano a maglie larghe, è evidente che al Presidente è precluso presentarsi ed agire come rappresentante del popolo. Ben diversamente, egli, come dice l’art. 87 Cost. è «rappresentante dell’unità nazionale».
In concreto, poi, il determinarsi delle funzioni e dei compiti spettanti al Presidente in rapporto al circuito fiduciario tra Governo e Parlamento dipende dal grado di stabilità, coesione ed efficienza del sistema politico-istituzionale. Se la maggioranza parlamentare è coesa al suo interno, e se il Governo, in concorso con il Parlamento, è capace di esprimere un indirizzo politico saldo ed unitario, allora gli spazi che si aprono all’azione del Capo dello Stato sono certamente più ristretti ed egli difficilmente può divenire un protagonista, se non “il protagonista” nel funzionamento delle istituzioni. In caso contrario, l’interventismo presidenziale è per così dire necessitato. A questo proposito, in Italia, proprio il frequente incepparsi dei meccanismi di funzionamento del regime parlamentare – pure in connessione alle difficoltà incontrate con l’avvento del “bipolarismo” a partire dagli anni Novanta del secolo scorso –, il ruolo assunto dal Presidente è risultato accentuarsi, così come sono apparsi sempre più incisivi i suoi atti e comportamenti nei rapporti con le istituzioni e la collettività tutta.
Insomma, l’instabilità del regime parlamentare e la debolezza del quadro partitico facilitano l’azione di supplenza del Presidente della Repubblica, «quell’allargamento di ruolo del Capo dello Stato che avviene in tutti i sistemi parlamentari nelle fasi di debolezza politica»1. Come noto, in Italia il quadro partitico è andato soggetto a rapidissime evoluzioni – ed involuzioni – in cui, da un lato, sono venute meno quasi tutte le formazioni politiche della cosiddetta “prima Repubblica”, e, dall’altro lato, sono venuti alle luce, talora anche soltanto per brevi periodi, nuovi movimenti a carattere territoriale o di ispirazione personalistica. Sicché le tradizionali motivazioni poste alla base delle aggregazioni partitiche sono state sostituite dalla rappresentanza di diverse e nuove istanze che, mosse anche dall’affermarsi del principio dell’alternanza alla guida delle istituzioni (in connessione all’avvento dei sistemi elettorali improntati al maggioritario), non si sono ancora sufficientemente stabilizzate. Anzi, con le elezioni politiche del 2013, dal bipolarismo si è pervenuti ad un assetto tripolare, in cui è apparsa ancor più complessa la formazione di una maggioranza parlamentare politicamente coesa in entrambe le Assemblee. In Italia, può dirsi che, soprattutto in coincidenza con le due presidenze di Napolitano (2006-2013, e 2013-2015), si sia giunti ad un livello assai ridotto quanto a corretto funzionamento dell’assetto istituzionale ed alla stabilità del quadro partitico, ed ad un livello particolarmente accentuato quanto al ruolo assunto dal Capo dello Stato.
Va aggiunto un ultimo elemento che influenza inevitabilmente la ricostruzione del ruolo presidenziale. Il Capo dello Stato è un organo monocratico e di conseguenza, sia nell’esercizio delle funzioni che nei rapporti con il Paese, un peso decisivo deve attribuirsi alla sua personalità, al suo carattere. Come si è detto in dottrina2, egli è un uomo con i suoi vizi e le sue virtù, con le sue passioni e i suoi inevitabili orientamenti. Ed ancora, si è rilevato che vi sono persone che per loro stessa natura sono inadatte allo svolgimento di tale funzione di “integrazione” che è propria del Capo dello Stato, così come vi sono atteggiamenti incompatibili con questo compito3. Si tratta di un fattore decisivo, ma che rimane imponderabile. Può notarsi che i Presidenti della Repubblica eletti dal 1948 in poi, per quanto autorevoli figure provenienti dalle istituzioni pubbliche, non sono stati selezionati tra le persone dotate di particolari doti carismatiche. Eppure, anche nel caso di Napolitano, così come per altri Presidenti come, ad esempio, Pertini o Scalfaro, anche le doti caratteriali del Capo dello Stato hanno concorso nel determinare le modalità con cui sono stati affrontati tornanti cruciali per il Paese.
Dopo la rielezione del Presidente Napolitano – evento mai verificatosi nell’esperienza repubblicana – avvenuta nell’aprile del 2013 su richiesta quasi unanime delle forze politiche (escluso il Movimento Cinque Stelle) presenti nel Parlamento appena rinnovato, le gravi difficoltà dovute all’incerto esito elettorale del marzo 2013 non hanno certo consentito al Capo dello Stato di arretrare nell’esercizio dei suoi compiti di garanzia costituzionale al fine di assicurare il funzionamento del regime parlamentare nel rispetto dei principi costituzionali. In particolare, va segnalata la guida della complessa vicenda che ha visto prima l’insuccesso del tentativo di Bersani, e poi la nomina del Governo Letta, con la formula del governo delle larghe intese, costituito cioè da forze appartenenti a due degli schieramenti in competizione.
Così, si è portata a risoluzione la difficile crisi di governo che era nata dalla dissoluzione dell’esecutivo Monti nel dicembre 2012 e che si sovrapponeva in modo assai pericoloso per la tenuta delle istituzioni sia allo scioglimento anticipato delle Camere che alla successiva scadenza del settennato presidenziale. Tra l’altro, va segnalato che con la formazione del Governo Letta si è seguita la strada già tracciata dallo stesso Presidente Napolitano con la composizione trasversale degli originali “gruppi di lavoro” costituiti su iniziativa autonoma del Capo dello Stato al termine del suo primo settennato, al fine di «formulare – su essenziali temi di carattere istituzionale e di carattere economico-sociale ed europeo – precise proposte programmatiche che possano divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche»4. Come è stato detto, si trattava di una “soluzione inedita” di fronte a «inedite condizioni di blocco»5, una soluzione cioè che consentiva di sospendere la risoluzione della crisi di governo in attesa dell’esito elettorale e della successiva rielezione del nuovo Capo dello Stato.
All’inizio del 2014, poi, il Governo Letta è stato colpito da una rapidissima crisi, innescata dall’avvento di Matteo Renzi alla segreteria del partito di maggioranza relativa, il PD. A seguito di una deliberazione assunta dalla direzione nazionale di questo partito, con la quale si chiedeva un “cambiamento radicale” dell’azione governativa, il Presidente del Consiglio Letta rassegnava le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato il 14 febbraio, e, in brevissimo tempo, Napolitano ha proceduto alle consultazioni e ha conferito l’incarico allo stesso Renzi (il 17 febbraio), il quale ha poi rapidamente sciolto la riserva presentando il nuovo Governo. Sul ruolo svolto dal Presidente Napolitano nel corso di questa crisi di governo, va ricordato che, in ossequio ad una prassi consolidata nel corso del suo settennato, il Capo dello Stato ha espressamente dichiarato che esse erano state determinate «dal deliberato assunto ieri – in forma pubblica e con l’espresso consenso dei Presidenti dei gruppi parlamentari – dalla Direzione del Partito democratico a favore di un mutamento della compagine governativa»6. Dunque, il Presidente ha attestato, quasi in funzione notarile, che non vi erano alternative all’apertura ufficiale della crisi, e che il Presidente del Consiglio dimissionario Letta riteneva inutile un passaggio parlamentare anche perché non «disponibile a presiedere governi sostenuti da ipotetiche maggioranze diverse».
Del resto, che il Presidente in precedenza si fosse «esposto personalmente», pur «sempre nei limiti del mio ruolo costituzionale», è stato riconosciuto dallo stesso Napolitano in un interessante scambio di lettere con il Direttore del Corriere della sera a un anno dalla rielezione7. Qui il Capo dello Stato ha tracciato un bilancio sostanzialmente “positivo”, confermando la «giustezza della strada seguita». In particolare, egli ha sottolineato lo sforzo per promuovere un governo di ampia coalizione e ha nel contempo delineato la necessità di sciogliere alcuni fondamentali nodi politici ed economici, soprattutto nel corso del successivo semestre italiano di presidenza europea. In breve, egli ha richiamato quella necessità di realizzare, anche con il concorso delle forze non appartenenti alla maggioranza parlamentare, «condizioni di maggior sicurezza» per il cambiamento del sistema politico-costituzionale, alle quali collegare «un distacco comprensibile e costruttivo delle responsabilità» assunte l’anno precedente «entro chiari limiti di necessità istituzionale e di sostenibilità personale».
Dunque, sin dall’aprile del 2014 il semestre italiano di presidenza europeo e il percorso delle riforme istituzionali sono state espressamente indicati (ovvero ribaditi, in quanto già presenti nel discorso pronunciato in occasione del secondo insediamento) dal Presidente Napolitano come le condizioni alle quali collegare la scadenza “ufficiosa” del suo secondo mandato. Un mandato dunque breve e chiaramente a tempo, ed accettato essenzialmente per le ragioni di paralisi istituzionali verificatesi nella primavera del 2013, ma pur sempre avendo come prospettive essenziali l’Unione europea e le riforme dell’ordinamento costituzionale.
In particolare, può segnalarsi che nell’appena citata lettera il Presidente sottolinea che il nuovo Governo Renzi operasse «nella pienezza della sua responsabilità politica e delle sue prerogative costituzionali», così facendo un chiaro accenno alla necessità di mantenere chiaramente distinti i ruoli costituzionali – e dunque le rispettive funzioni ed attribuzioni – tra il Capo dello Stato e l’esecutivo. Ed infatti, proprio il mantenimento di tale distinzione ha caratterizzato i rapporti tra il Presidente Napolitano e l’esecutivo Renzi nel corso del 2014, anno nel quale si è determinato un mutamento delle condizioni politico-istituzionali rispetto a quanto avvenuto con i precedenti esecutivi. Se nei riguardi degli esecutivi – che si presentavano come Governi di larghe intese, cui hanno dato il loro sostegno forze politiche appartenenti agli opposti schieramenti – appariva particolarmente presente il ruolo di “garanzia politica” svolto dal Presidente, nei confronti del Governo Renzi, fondato su una maggioranza più chiaramente riconducibile ad uno solo degli schieramenti in competizione (seppure con l’appoggio del NCD, ovvero una formazione politica separatasi dall’altro schieramento) gli interventi presidenziali si sono manifestati in misura forse meno evidente. Ma ciò non significa che il ruolo presidenziale non si sia esplicitato in varie occasioni e forme – anche mediante le ormai tipiche attività di esternazione e di moral suasion – in relazione ad aspetti cruciali della vita politica ed istituzionale. Ad esempio, sia là dove il Capo dello Stato ha più volte sollecitato a procedere fattivamente nel percorso verso le riforme istituzionali e, ancor più, costituzionali, anche mediante il ricorso all’accordo con le forze politiche di opposizione; sia quando, in relazione alla politica estera ed in particolare in relazione alle critiche rivolte alle politiche di austerità prevalenti in sede europea, ha richiamato il forte e necessario vincolo che ci lega al processo di integrazione nell’Unione europea.
Il secondo mandato di Napolitano ha preso avvio con il messaggio di insediamento del 2013 che da alcuni è stato interpretato come un vero e proprio programma politico rivolto al Parlamento ed in cui si delineavano non solo la formula della coalizione da porre a fondamento dell’esecutivo (il governo delle larghe intese), ma anche i principali obiettivi da perseguire nell’indirizzo politico della collettività, ivi compresa la necessità di procedere alle riforme istituzionali e costituzionali con l’apporto delle principali forze di opposizione. Si è sostenuto che con questo messaggio il Capo dello Stato avrebbe assunto una vera e propria leadership nella determinazione dell’indirizzo politico. In questo senso, il Presidente avrebbe esercitato sull’esecutivo Letta un vero e proprio “imperio”, sebbene, poi, sarebbe rimasto «invischiato negli stessi dilemmi» che avevano riguardato i suoi predecessori, tra cui, in particolare, l’incapacità degli esecutivi di far fronte alla crisi economica. In particolare, il Presidente avrebbe svolto un ruolo determinante nel passaggio tra il Governo Letta e il Governo Renzi, e sarebbe stato un «codecisore dell’esecutivo» anche nei confronti del Governo Renzi, benché quest’ultimo non possa essere considerato come un «esecutivo del Presidente». Ne avrebbe sostenuto l’azione negli snodi cruciali, ne avrebbe attentamente vagliato gli atti fondamentali come la legge di stabilità, lo avrebbe sostenuto nel confronto con la Commissione europea; ed anche la decisione di chiudere anticipatamente il mandato, sarebbe stato un «segnale di fiducia nei confronti di un processo di stabilizzazione»8.
Più in generale, in riferimento alla complessiva presidenza di Napolitano, si è detto che egli sarebbe diventato «il vero capo del sistema politico, relegando ai margini della scena lo stesso Presidente del Consiglio»9. Del resto, già in dottrina è emersa l’originale tesi secondo cui, anche prendendo a spunto l’ultima presidenza, nella nostra forma di governo parlamentare si sarebbe determinata la «rottura dell’argine» che separa il Presidente della Repubblica dagli organi di indirizzo politico, riconoscendo dunque al Capo dello Stato il potere di veto politico alle scelte di indirizzo del Gabinetto10.
In vero, nulla testimonia il passaggio ad una nuova forma di governo, né è rispondente alla realtà la tesi secondo cui si sarebbe assistito ad una sorta di “presidenzialismo di fatto” in violazione del presente dettato costituzionale. Nessuno strappo istituzionale è stato seriamente contestato al Presidente Napolitano, e l’esperienza determinatasi nel corso delle sue presidenze ben si conforma alla predetta tesi della “filarmonica”, secondo cui il ruolo del Capo dello Stato tende ad espandersi in presenza di inceppamenti o debolezze del regime parlamentare, e, viceversa, tende a contrarsi qualora il quadro politicoistituzionale dimostri stabilità ed efficienza. Quando la maggioranza parlamentare è sufficientemente coesa e il Governo è capace di guidarla, diventa meno evidente il ruolo di stabilizzazione che il Presidente della Repubblica si è dimostrato capace di esercitare mediante atti sia formali che informali – soprattutto mediante le cosiddette esternazioni –, e si contraggono le possibilità o le richieste di interventi presidenziali per affrontare i momenti di crisi o per supplire all’inerzia del circuito fiduciario innanzi a particolari difficoltà.
Qualche riflessione merita, infine, l’eventuale evoluzione della presente forma di governo che è prefigurata da alcuni aspetti della riforma costituzionale attualmente in corso di esame parlamentare, in combinato con la riforma elettorale già approvata e che andrà a regime dal 1° luglio 2016. Come noto, il venir meno del bicameralismo paritario e perfetto, il rapporto fiduciario del governo con la sola Camera dei deputati, l’introduzione di un meccanismo di determinazione di tempi certi per l’approvazione dei provvedimenti legislativi rilevanti per l’attuazione del programma di governo e la garanzia di una consistente base parlamentare di cui il Governo godrà in ragione del premio di maggioranza nell’elezione della Camera, sono tutti elementi che dovrebbero congiuntamente tendere nel senso del rafforzamento dell’esecutivo. Non sono previste, invece, modifiche relative al rapporto tra Governo e Presidente della Repubblica, rapporto che resterà così affidato alla mutevole concretizzazione della scarna disciplina risultante dalle vigenti disposizioni costituzionali. Quanto peserà, dunque, la nuova centralità dell’esecutivo rispetto alle potenzialità rimaste immutate nel concreto svolgimento delle funzioni presidenziali?
Certo, l’amorfismo istituzionale11 della figura del Capo dello Stato potrebbe sempre consentire quegli adattamenti che nel corso del tempo hanno visto mutare, pure in senso ciclico, l’effettivo determinarsi del ruolo presidenziale nel quadro del sistema politicoistituzionale. L’interventismo cui abbiamo assistito negli ultimi anni – nel senso della particolare incidenza dell’azione del Capo dello Stato sull’indirizzo politico della collettività – potrebbe ridimensionarsi o, al contrario, consolidarsi al sopraggiungere di nuovi ed ulteriori fattori di crisi. Ma il rafforzamento dell’esecutivo, soprattutto sul versante della legittimazione popolare, potrebbe precludere al Presidente quegli spazi di azione che, nel silenzio della Costituzione, la prassi sinora gli ha consentito. Proprio in riferimento a ciò, allora, la nuova Presidenza di Sergio Mattarella offrirà un interessante banco di prova.
1 Così Amato, G., Un governo nella transizione. La mia esperienza di Presidente del Consiglio, in Quad. cost., 3/1994, 367.
2 In tal senso Esposito, C., Capo dello Stato, in Enc. dir., Milano, VI, 1960, 236.
3 Così Smend, R., Verfassung und Verfassungsrecht (1928), trad. it. Costituzione e diritto costituzionale, Milano, 1928, 85.
4 Si veda la dichiarazione del Presidente Napolitano del 30.3.2013.
5 Così Cheli, E., Intervista, in Formiche, 31.3.2013.
6 Si veda il comunicato della Presidenza della Repubblica del 14.2.2014.
7 Si veda la lettera del Presidente della Repubblica in Corriere della sera, 18.4.2014.
8 Citazioni tutte tratte da Gervasoli, M., Le armate del Presidente. La politica del Quirinale nell’Italia repubblicana, Venezia, 2015, 167.
9 Così Scaccia, G., Il presidente della repubblica fra evoluzione e trasformazione, Modena, 2015, 54.
10 Così Chessa, O., Il Presidente della Repubblica. Un’interpretazione della forma di governo parlamentare, Napoli, 2010, 53.
11 Secondo l’espressione formulata da Baldassarre, A. Mezzanotte, C., Gli uomini del Quirinale. Da De Nicola a Pertini, Roma-Bari, 1985, 104.