Pressione sanguigna
La pressione sanguigna è la forza che il sangue esercita radialmente dall'interno su ogni unità di superficie della parete dei vasi, con valori differenti nei diversi distretti circolatori (v. circolazione). Abitualmente essa viene misurata in millimetri di mercurio (mmHg) o in kilopascal (kPa, equivalente a 7,5 mmHg). Con la locuzione pressione sanguigna ci si riferisce comunemente alla pressione arteriosa, cioè a quella presente nelle arterie che si dipartono dall'aorta; essa presenta delle oscillazioni ritmiche tra due valori: la pressione massima, detta anche sistolica in quanto coincide con la sistole cardiaca, e la pressione minima, detta anche diastolica in quanto coincide con la diastole cardiaca; la differenza tra pressione massima e minima viene definita pressione differenziale, mentre con pressione media si intende il valore medio calcolabile sommando 1/3 del valore della pressione differenziale a quello della pressione minima. Alterazioni della pressione arteriosa nella direzione di un aumento dei valori si associano, quale che sia la causa sottostante, ad alterazioni dei vasi nonché di numerosi organi (cervello, cuore, reni, retina).
La pressione arteriosa è regolata da due fattori fondamentali, la portata circolatoria (PC) e le resistenze periferiche totali (RPT), secondo la formula: PAM = PC x RPT dove PAM è la pressione arteriosa media. La portata circolatoria è la quantità di sangue che ciascun ventricolo spinge in circolo nell'unità di tempo (normalmente 5-6 l/min). Essa si calcola moltiplicando frequenza cardiaca per gettata sistolica. La frequenza cardiaca è definita dal numero di contrazioni ventricolari (sistole) nell'unità di tempo (normalmente 60-80/min). La gettata sistolica è la quantità di sangue che ciascun ventricolo espelle a ogni sistole (normalmente intorno a 75 ml): essa è influenzata dalla forza con cui il cuore si contrae e dalla pressione di riempimento del cuore stesso, determinata dalla capacitanza venosa (cioè dalla capacità del sistema venoso di accogliere una maggiore o minore quantità di sangue) e inoltre dalla quantità di sangue circolante. Le resistenze periferiche di un letto vascolare sono definite in base alla differenza tra la pressione all'ingresso di tale letto (P₁) e la pressione all'uscita (P₂), divisa per il flusso (Q), secondo la formula:
RPT= P₁ - P₂ RPT : Q.
Nel caso della circolazione sanguigna possiamo porre la pressione media del circolo sistemico come P₁ (in condizioni normali intorno a 90 mmHg), la pressione venosa, o quella dell'atrio destro (in condizioni normali circa 5 mmHg), come P₂ e la portata circolatoria (in condizioni normali circa 6 l/min) come Q. Per esprimere le resistenze periferiche totali, come si è convenuto, in dyne s/cm5, è necessario moltiplicare per 80 il risultato ottenuto applicando la formula di cui sopra. Avremo così, in un esempio riferito a condizioni normali, che le resistenze periferiche totali del circolo sistemico sono:
RPT=(90‒5) : 6 x 80 = 1133 dyne s/cm5 Il flusso ematico è regolato dalla legge di Poiseuille; in base a tale legge, il flusso ematico è direttamente proporzionale alla caduta di pressione per unità di lunghezza del sistema e alla quarta potenza del raggio dei vasi, nonché inversamente proporzionale alla viscosità del sangue.
Da questo assunto discende quanto segue: dal momento che la lunghezza del sistema vascolare non subisce variazioni e la viscosità ematica varia raramente in modo determinante, l'entità delle resistenze periferiche totali dipende essenzialmente dal raggio delle arterie. In pratica ciò sta a significare che quanto maggiore sarà lo stato di costrizione delle arterie periferiche (cioè quanto minore sarà il raggio di queste), tanto minore sarà il flusso, tanto più elevate saranno le resistenze periferiche totali e tanto più alti i valori di pressione arteriosa.
La tecnica di misurazione della pressione impiegata attualmente è quella che utilizza lo sfigmomanometro a colonna di mercurio ideato da S. Riva Rocci nel 1896 e perfezionato da N. Korotkoff nel 1905 (fig. 1). Oltre allo sfigmomanometro tipo Riva Rocci, sono abbastanza diffusi i manometri aneroidi, nei quali la lettura viene effettuata su un quadrante dotato di indice che sale quando si gonfia il bracciale e scende quando, invece, si procede alla decompressione. Più recentemente sono stati introdotti nell'uso apparecchi elettronici a lettura digitale che si sono dimostrati molto adatti per l'automisurazione della pressione. Un notevole progresso è rappresentato dalla possibilità di eseguire il monitoraggio della pressione arteriosa per mezzo di misurazioni multiple nel corso del giorno e della notte. A questo scopo viene utilizzato un metodo intrarterioso, più complesso e indaginoso che è riservato a finalità di studio, mentre per le necessità cliniche si ricorre a un metodo non invasivo (monitoraggio ambulatoriale della pressione), il quale consente di ottenere intorno a 80 misurazioni nell'arco delle 24 ore, mediante apparecchi assai maneggevoli (fig. 2). L'impiego del monitoraggio ambulatoriale è indicato nei tre casi di seguito elencati: quando si sospetti che la pressione sia elevata soltanto in coincidenza con le misurazioni effettuate dal medico (cosiddetta ipertensione da camice bianco); quando la terapia anti-ipertensiva sembra essere inefficace; infine, quando i valori vengono riferiti elevati soltanto in alcuni momenti della giornata.
I limiti fissati per i valori normali della pressione arteriosa devono essere considerati come arbitrari, in quanto non è possibile, né con criteri statistico-epidemiologici né con criteri di patogenicità, distinguere una popolazione di ipertesi da una popolazione di normotesi. Secondo le linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Chalmers-Mancia-van Zwieten 1999), nei soggetti di età superiore ai 18 anni sono raccomandabili valori inferiori a 140 mmHg di massima e a 90 mmHg di minima, mentre i valori normali per il monitoraggio ambulatoriale della pressione sono (in cifre arrotondate) 112-134/71-87 mmHg come media delle ore diurne, e 97-119/57-72 mmHg come media delle ore del sonno notturno (fig. 3). Caratteristica fondamentale della pressione arteriosa è la sua variabilità, che risulta legata a influenze comportamentali, come, per es., l'esercizio fisico, lo stress, la visita medica, i rapporti sessuali e il fumo di tabacco, i quali ne provocano un aumento, e il sonno che ne determina una diminuzione. Vi sono inoltre cambiamenti non comportamentali che sono legati alla fase REM (Rapid eye movements) del sonno (v.) oppure alla respirazione. È discussa, infine, l'esistenza di un ritmo circadiano della pressione arteriosa, che, comunque, sarebbe di importanza minore rispetto alle variazioni comportamentali.
a) Ipotensione. Una pressione arteriosa con valori intorno a 100 mmHg di massima e 60 mmHg di minima può essere accompagnata talora da disturbi, come astenia o tendenza alla lipotimia. Si tratta, tuttavia, di una condizione che non deve essere considerata patologica in quanto associata a una migliore aspettativa di vita. Talvolta l'ipotensione è secondaria a una malattia vera e propria (per es. insufficienza surrenalica) e in questo caso il problema è rappresentato dalla malattia di base e non dall'ipotensione in quanto tale. Quando il passaggio dalla posizione sdraiata a quella eretta si accompagna a una caduta della pressione maggiore di 30 mmHg per la massima e di 20 mmHg per la minima, si ha l'ipotensione ortostatica; questa condizione, che può essere idiopatica o legata a malattie del sistema nervoso o all'assunzione di determinati farmaci, può associarsi alla comparsa di una sincope.
b) Ipertensione. L'ipertensione arteriosa è una condizione morbosa che interessa un gran numero di individui - circa il 5% della popolazione tra i 18 e i 29 anni, per salire progressivamente fino al 50% tra i 50 e i 70 anni - e corrisponde a una pressione arteriosa uguale o superiore a 140 mmHg di massima e/o a 90 mmHg di minima. L'ipertensione arteriosa viene classificata secondo criteri diversi. In base all'entità e al tipo dell'aumento pressorio si distinguono: grado 1, lieve (140-159/90-99 mmHg), con sottogruppo borderline (140-149/90-94 mmHg); grado 2, moderata (160-179/100109 mmHg); grado 3, grave (Ž180/Ž110 mmHg); sistolica isolata (Ž140/〈90 mmHg), con sottogruppo borderline (140-149/〈90 mmHg). In riferimento all'assenza o alla presenza di danno d'organo si distinguono ipertensione arteriosa non complicata e complicata; lo stato ipertensivo, infatti, può causare, se persiste per un periodo di tempo in genere non inferiore ad alcuni anni, alterazioni del cervello, del cuore, dei reni, del circolo retinico e delle pareti delle arterie, costituendo un fattore di rischio cardiovascolare di grande importanza (v. arteriosclerosi; ischemia; rischio).
In relazione al decorso si distinguono ipertensioni stabili (termine che tuttavia non significa che i valori sono sempre gli stessi, ma solo che non vi sono variazioni di entità particolarmente elevata) e crisi ipertensive; queste ultime si verificano allorché la pressione aumenta rapidamente da valori normali a valori elevati o quando comunque si verifica un incremento pari ad almeno il 70-80% rispetto ai valori abituali, con coesistente presenza di sintomi e segni, fino a realizzare, nei casi più gravi, delle vere e proprie emergenze ipertensive. In base alle cause si distinguono l'ipertensione arteriosa essenziale e le forme secondarie. La prima condizione deriva dall'interazione tra un complesso di caratteri genetici e fattori ambientali: esistono, infatti, nell'uomo alcuni 'geni candidati' (per es., il gene dell'angiotensinogeno e quello dell'adducina), ma non vi sono ancora certezze definitive; tra i fattori condizionati dall'ambiente sono rilevanti il peso corporeo, l'assunzione di sodio, di potassio, di calcio e di alcol, l'esercizio fisico, lo stress psicosociale. La terapia si avvale principalmente di farmaci anti-ipertensivi che appartengono a diverse categorie: diuretici, betabloccanti, calcioantagonisti, ACE-inibitori, inibitori recettoriali dell'angiotensina II, α₁-litici ecc. Le forme secondarie possono dipendere da cause diverse: le più importanti sono quelle di origine renale, renovascolare, surrenalica (adenoma di Conn, feocromocitoma) e da coartazione aortica.
La terapia di scelta consiste, quando possibile, nella rimozione chirurgica della causa, che può trovare indicazione in tutte le forme sopra indicate con l'eccezione delle malattie renali parenchimali bilaterali.
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