preterizione
Figura retorica per la quale si finge di omettere ciò che in effetti si dice, e che anzi in tal modo si mette in maggiore evidenza. Lo schema, affine alla reticenza, rientra nei modi adatti a raggiungere la brevitas ed è generalmente collegato con la violenza dell'invettiva; ma in D. è raro l'impiego di esso in questo senso, mentre è assai sviluppato in relazione con la poetica dell'inesprimibile, che corre per tutta l'opera dantesca dalle Rime alla Commedia.
In un'invettiva è inclusa la tipica p. di If XIX 100-103, dove la plausibile giustificazione di essa da parte del poeta (la reverenza de le somme chiavi) non copre la finzione con la quale egli si astiene da parole ancor più gravi nei confronti del papa. E in Ep XI 6 il classico schema è impiegato per aggravare, col ricordo reticente delle numerose manchevolezze, il cattivo comportamento delle autorità ecclesiastiche: Nec adimitanda recenseo - cum dorsa, non vultus ad Sponsae vehiculum habeatis...
Interviene ancora la p. a evidenziare particolari situazioni, come in If XXVIII 1-3, dove attraverso una formula interrogativa meno consueta si concentra l'attenzione sul sangue e sulle piaghe, o in XXXIV 22 ss., dove ancora una formula inconsueta (nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo) giustifica l'incisiva brevità con la quale il poeta rappresenta il terrore provato. È sostanzialmente una p. la circonlocuzione con la quale in If XVI 16-18 Virgilio richiama l'attenzione di D. sull'importanza dei personaggi che vanno loro incontro (E se non fosse il foto che saetta / la natura del loco, i' dicerei / che meglio stesse a te che a lor la fretta). Per quanto non esattamente aderente allo schema della p., si può tuttavia considerare tale anche l'impostazione di Rime CXVI, in cui il poeta prega Amore che la donna non ascolti la voce del suo tormento (vv. 11 ss.), di cui in realtà egli riempie l'intera canzone.
La serie dei passi in cui D. riconosce l'inopportunità di spingersi a cantare ciò che supera le facoltà intellettive ed espressive dell'uomo può considerarsi piuttosto sviluppo dello schema retorico della reticenza (v. SOSPENSIONE), la " praecisio " della Rhet. Her. (IV XXX 41), cui lo stesso poeta allude col latinismo preciso in uno di questi stessi passi (Pd XXX 30). Ma talora la p., in analogia con la poetica dantesca, non è altro che l'unico modo possibile per elevare la più alta delle lodi o per suggerire supreme verità che superano ogni immaginazione, e quindi il poeta dice in effetti, entro i limiti consentiti dalla sua prospettiva trascendentistica, quel che nega di poter dire e anzi ne evidenzia l'altezza. Basterà l'esempio della canzone II del Convivio (vv. 9-14), che D. sceglie per riflettere teoricamente, superando di gran lunga i limiti della considerazione retorica, su tale modulo (Cv III IV). Così nel Paradiso, per far solo un esempio, la p. di XXIII 22-24 (Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto, / e li occhi avea di letizia sì pieni, / che passarmen convien santa costrutto) è dal punto di vista retorico un modo di esaltare l'ardore del viso e la letizia degli occhi di Beatrice.
Nel Fiore si ritrova, in una forma altrettanto ampliata, il medesimo schema in una situazione che costituisce il rovescio di quella paradisiaca, poiché la rappresentazione di Venusso, che infiamma col brandone e che non basterebbe un lungo discorso per descrivere adeguatamente, ha un rilevante tono comico: A voler raccontar de' suo' sembianti / e de la sua tranobile fazzone, / sarebbe assai vie più lungo sermone / ch'a sermonar la vita a tutti i Santi (XVII 5-8).