PRETI, Mattia, detto il Cavalier Calabrese
PRETI, Mattia, detto il Cavalier Calabrese. – Terzo di sei figli, nacque a Taverna, in Calabria, il 25 febbraio 1613 da Cesare e da Innocenza Schipano, appartenenti al ceto delle famiglie «onorate» della regione (De Dominici, 1742-1745, 2008, p. 589); il fratello maggiore, Gregorio, fu anch’egli pittore.
Per ricostruire gli anni della sua formazione, tuttora gravata da incertezze, sono di poco aiuto le notizie raccolte – vivente ancora Mattia – da Filippo Baldinucci (1728), la voce di Pellegrino Antonio Orlandi (1704) e la vita dedicatagli da Lione Pascoli (1736, 1992). Importante è la corposa biografia del napoletano Bernardo De Dominici (1742-1745, 2008) che, forte dei ricordi del padre Raimondo e della zia suor Maria, maltesi e allievi in gioventù di Preti, nonché di un enfatizzato personale breve rapporto avuto forse da adolescente a Malta con l’ormai anziano pittore, modellò un profilo caratterizzato da verità frammiste ad aneddoti romanzati.
A detta di De Dominici (1742-1745, 2008, p. 591), Preti fu avviato agli studi umanistici a Taverna sotto la guida di Marcello Anania. Intorno ai diciassette anni, dopo una sosta a Napoli, dagli studiosi non sempre accettata (Spike, in Mattia Preti, 1989, pp. 16-19), ma da ritenere plausibile poiché vi risiedeva lo zio Mario Schipani (Utili, in Mattia Preti tra Roma, Napoli e Malta, 1999, pp. 27 s.), avrebbe raggiunto a Roma il fratello Gregorio, forse già lì dal 1624 (Vodret, in Gregorio Preti…, 2004). La sua presenza nella città papale è di fatto attestata dal 1632 (Calenne, 2013, pp. 75-79) al 1636 (Mattia Preti: i documenti, 1998, p. 55). Successivamente, per più anni, non si hanno sue tracce né a Roma né altrove. De Dominici risarcì la lacuna con viaggi a Bologna, a Cento presso il Guercino, a Venezia, a Milano, a Genova, a Parigi, ad Anversa per conoscere Rubens (De Dominici, 1742-1745, 2008, pp. 595-600) e, infine, in Spagna al seguito di un misterioso monsignore, da alcuni identificato in Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente X (Negro, in Mattia Preti: il Cavalier Calabrese, 1999).
Nessuna tappa di questo itinerario è stata finora confermata, fatta eccezione per Venezia, ricordata nell’epigrafe apposta sulla sua lastra tombale nella concattedrale di S. Giovanni Battista a La Valletta. Luigi Spezzaferro (in Mattia Preti: il Cavalier Calabrese, 1999), sulla falsariga della ricostruzione di De Dominici, per il quale Preti «attese ancora alla scherma» (1742-1745, 2008, p. 591), ha ipotizzato una giovanile attività militare dell’artista svolta in Europa durante la guerra dei Trent’anni.
Oltre a un’iniziale collaborazione con il fratello Gregorio la sola pista utile per inquadrare gli inizi di Preti è un’aggiunta manoscritta a un esemplare dell’Abecedario di Orlandi, posseduto dal collezionista Sebastiano Resta, il quale, sulla scorta di notizie di prima mano, riporta che a Roma «il Cavalier Calabrese fu per poco tempo sotto il Lanfranchi» (Calenne, 2013, p. 76 nota 36). Da ciò l’ipotesi di un breve apprendistato avvenuto entro il 1634, anno in cui il parmense si trasferì a Napoli per più di due lustri. Tuttavia è in forza delle pionieristiche aperture di Roberto Longhi (1913, 1980; 1916, 1980; 1943), seguite da un’illuminante nota di Giuliano Briganti (1951), che si è potuto fare chiarezza sui primi anni romani di Preti. Approdato a Roma privo di una base culturale accertata, ma forse a conoscenza delle novità portate da Caravaggio nel Meridione, il pittore fu attratto dal lessico della Manfrediana methodus. In particolare, sulla scia di Valentin de Boulogne, Nicolas Tournier e Nicolas Reigner, provò a tradurre in regole più calibrate il mondo caravaggesco e realizzò dipinti per privati con gruppi di musici (Concerto, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza; Concerto, Napoli, coll. privata; Concerto, San Pietroburgo, Museo statale Hermitage; Concertino, Alba, palazzo comunale) e di giocatori (Gioco di dama, Oxford, Ashmolean Museum; Giocatori di carte, già Venezia, venduto dalla casa d’aste Semenzato); ritratti immaginari di filosofi (Omero, Venezia, Gallerie dell’Accademia); scene di fatti evangelici (Il tributo e Sinite parvulos, Milano, Pinacoteca di Brera; Chiamata di Matteo, Vienna, Kunsthistorisches Museum). Altra componente caratterizzante la prima fase di Preti fu l’adesione alla corrente neoveneta che, mutuata da pittori del calibro di Nicolas Poussin, gli permise di allargare il registro compositivo a favore di una tematica di contenuto più elevato, esplicitata nel Mosè sul monte Sinai (Montpellier, Musée Fabre) e nel Trionfo di Sileno (Tours, Musée des beaux-arts) – olim riferiti al francese e ricondotti nel catalogo pretiano da Longhi (1943, pp. 61 s.) –, nel Trionfo di Amore (coll. privata) e nella Scena di peste (Roma, Accademia di S. Luca). Fu inoltre conquistato dalla pittura di Guercino, dal quale attinse la più accesa cromia che, unita all’ariosità appresa da Lanfranco, gli permise di alzare il tono delle sue opere e di inserirsi nella moderna corrente barocca.
Determinante per l’entratura del pittore fu la sua discendenza per via paterna dalla nobile famiglia rossanese dei Blasco, ben radicata nel mondo aristocratico romano (Leone, in Gregorio Preti…, 2004, p. 32). Queste credenziali, assieme alla strada spianata dal fratello, gli assicurarono la protezione della principessa di Rossano Olimpia Aldobrandini sr. e, appresso, dell’omonima nipote, moglie prima di Paolo Borghese e poi di Camillo Pamphili; e, ancora, della suocera di quest’ultima, Olimpia Maidalchini (De Dominici, 1742-1745, 2008, p. 594).
L’esordio pubblico più importante sembra legato al disperso Miracolo di s. Pantaleo, eseguito per l’altare principale della omonima chiesa romana, verosimilmente prima della caduta in disgrazia, nel 1646, della Congregazione degli Scolopi con sede nella chiesa. Il dipinto, che Filippo Titi (1674, 1987, p. 78) disse «fatto con maniera franca e ben’intesa», è stato collegato da Longhi (Chimirri - Frangipane, 1914, pp. 21 s.) con il quadro, in collezione privata, segnato ancora da giovanili suggestioni caravaggesche e perciò databile intorno al 1639 (De Gennaro, in De Dominici, 1742-1745, 2008, p. 615 nota 75).
Di certo tra quarto e quinto decennio la notorietà di Mattia Preti varcò i confini dell’Urbe. Subito dopo il 1639 eseguì l’imponente Battesimo di s. Agostino per la chiesa di S. Antonio Abate a Tortoreto (De Gennaro, 2007, p. 152).
Si tratta di una pala di grande impegno, nella quale il pittore sviluppò le istanze del naturalismo in misura monumentale, prelevando da modelli come la Sepoltura di s. Petronilla di Guercino (Roma, Pinacoteca Capitolina).
Forte dei primi successi, nel 1641 Preti inoltrò a Urbano VIII la richiesta di essere ammesso nell’Ordine gerosolimitano con il grado di cavaliere d’obbedienza magistrale, richiesta accolta l’anno successivo, prima della realizzazione del S. Andrea per la Hofkirche di Lucerna, firmato «Preti Cav. Hyerosolimitanus faciebat» (Spike, 1999, scheda 75, pp. 162 s.). Una volta fallito il tentativo del 1643 di inverare una commessa per una soprapporta nella basilica di S. Pietro, Preti concepì, prima del 1647, per Taddeo Barberini, la bella tela con l’Imperatrice Faustina che visita in carcere s. Caterina d’Alessandria (Dayton, Art Institute).
Nel dipinto Preti adattò il suo linguaggio a un’agile struttura lanfranchiana, fondendo l’eredità luminista caravaggesca con la moderna ‘macchia’ guercinesca. Caratteri stilistici che si ritrovano nella pressoché contemporanea Crocifissione di s. Pietro (Grenoble, Musée de peinture et de sculpture), voluta dalla marchesa Cristiana Angelelli come pendant della Crocifissione di Cristo di Guido Reni (F. Curti, Committenza, collezionismo e mercato dell’arte tra Roma e Bologna nel Seicento…, Roma 2007, pp. 74 s.).
Risalirebbe alla metà del quinto decennio anche la grande pala con S. Elena e la Vera Croce, di ubicazione sconosciuta; John T. Spike (in Mattia Preti, 1989, p. 22), che è stato il primo ad attribuirla al calabrese, vi ha riscontrato un legame stilistico con l’ambiente veneziano e quindi l’ha ritenuta un indizio del supposto soggiorno del pittore in area lagunare. A Venezia la notorietà dello «stimatissimo» Preti è comunque segnalata nel 1646 da un S. Luca che dipinge la Madonna (non pervenuto), registrato nell’inventario di Giovan Donato Correggio (The Getty provenance index databases, doc. I-3643, n. 84). Tra il 1646 e il 1649 la sua Sofonisba che si avvelena (Cosenza, Galleria nazionale) entrò nella neonata galleria messinese di Antonio Ruffo, ponendo le basi di un duraturo rapporto con un esigente collezionista dell’Italia meridionale (Ruffo, 1916, p. 30; Spezzaferro, in Mattia Preti: il Cavalier Calabrese, 1999, p. 39). In quel tempo, a Pistoia, Preti venne preferito a Iacopo Vignali (S.B. Bartolozzi, Vita di Iacopo Vignali, Firenze 1743, pp. XXIX s.) per l’imponente Trinità coi ss. Baronto e Desiderio destinata all’altare di Giovanni Foresi, completato nel 1647, come risulta dalla data apposta su un marmo (già nell’altare e ora nel locale lapidario). Fatta eccezione per Enrico Mauceri (1936, p. 49), tale data è stata fin qui sacrificata dagli studiosi a favore di una cronologia del dipinto oscillante tra il 1657 e il 1664 (Spike, 1999, scheda 159, pp. 237 s.).
In occasione dell’anno santo 1650 Preti eseguì lo stendardo processionale con S. Martino e il povero (recto) e con Cristo Salvator Mundi (verso) per la Confraternita del Ss. Sacramento dell’abbazia di S. Martino al Cimino e, soprattutto, gli affreschi in S. Andrea della Valle. Per questi ultimi il contratto, che inizialmente prevedeva la decorazione della volta della navata, fu rinegoziato varie volte sicché alla fine l’intervento del calabrese si limitò ai tre grandi riquadri della tribuna con Storie di s. Andrea (Innalzamento sulla croce, Martirio e Sepoltura del santo).
Le pitture vennero scoperte l’8 aprile 1651 e suscitarono reazioni discordi: mentre secondo il Diario della casa di S. Andrea della Valle (Mattia Preti: i documenti, 1998, p. 75) furono inaugurate «con molto applauso universale», Cassiano dal Pozzo dichiarò che non reggevano «il paragone con quelle del Domenichino che ci stan sopra, e quelle della cupola del Lanfranchi» (G. Lumbroso, Notizie sulla vita di Cassiano dal Pozzo, Torino 1875, p. 67). L’impresa, seguita da un contenzioso durato circa dieci anni con i teatini della chiesa, fu forse di scarsa soddisfazione anche per il pittore che, stanti i numerosi disegni e bozzetti, sembra vi avesse riposto grandi aspettative. Nel ciclo predomina la grandiosità dell’apparato scenico declinata in chiave moderna attingendo a forme e colori del classicismo veneziano proprio di Veronese (G. Briganti, Pier Francesco Mola, Milano 1989, p. 24).
Allo stesso periodo risale un unicum nel catalogo pretiano: il disegno per il Trionfo di Osiride, inciso da François Poilly, recante la dedica a Ferdinando III d’Asburgo, per l’antiporta di una tesi sostenuta a Roma nel 1651 da Gothard-François Schaffgotsche (De Dominici, 1742-1745, 2008, p. 615 n. 74).
Sempre nel 1651 Preti fece il suo ingresso nella corte di Francesco I a Modena, dove si trattenne dal 4 ottobre di quell’anno fino al 28 marzo 1652 (Mancini, 1998). Durante la permanenza portò a termine i ben remunerati affreschi nella chiesa detta del Carmine o di S. Biagio, quelli nella cappella delle reliquie nel Duomo e gli altri nella chiesa di S. Pietro nella vicina Reggio Emilia (Scaramuccia, 1674). Di tali lavori restano solo le pitture di S. Biagio, dove Preti debuttò nella decorazione illusionistica di una cupola raffigurando la Trinità con la Vergine e i ss. carmelitani.
Su una struttura architettonica con quattro ampi finestroni domina lo sfondato atmosferico, teatro di una gloria di santi e di angeli con la Vergine che ascende verso la Trinità. Nei sottostanti pennacchi la forza plastica dei Quattro Evangelisti esprime il rapido apprendimento delle novità scaturite dallo scoprimento in piazza Navona a Roma della Fontana dei fiumi di Gian Lorenzo Bernini (Martinelli, 1971); nel vicino catino absidale il Concerto degli angeli, allestito lungo una finta balconata, fa da sponda alla cupola.
Dalle più spinte intenzioni barocche dipende anche la notevole Madonna che appare a s. Antonio di Padova in S. Giuseppe da Copertino a Osimo. Secondo il Miscuglio (ante 1684) di Flaminio Guarnieri quest’opera venne eseguita durante il «provincialato di maestro Bernardo Butteri da Osimo» in carica dal 1649 al 1652 (De Gennaro, 2007). Nella produzione di Preti il dipinto si pone come la sua prima rappresentazione in una pala d’altare di un dinamico spazio celeste.
Nella primavera del 1652 Preti tornò a Roma per realizzare, sopra la porta laterale di sinistra nella controfacciata di S. Carlo ai Catinari, il S. Carlo Borromeo che fa l’elemosina, abbinato al S. Carlo che riceve i missionari barnabiti del fratello Gregorio. Tramontata la sua candidatura a principe dell’Accademia di S. Luca, con una posizione ormai consolidata, già nel 1653 si trasferì a Napoli, dove si trattenne quasi ininterrottamente per circa nove anni facendo fronte a un incalzante ritmo di richieste (Mattia Preti: i documenti, 1998, pp. 78-133).
Non si conoscono le ragioni del trasferimento nella città partenopea: forse fu il desiderio della comunità calabrese del luogo di autocelebrarsi attraverso la mano del famoso conterraneo che indusse a chiamarlo per i lavori di rinnovamento della propria chiesa dedicata a S. Domenico Soriano. Qui Preti eseguì, secondo molti dopo il 1655, il perduto affresco che copriva la cupola con «Nostro Signore che con la beata Vergine, la Maddalena e santa Caterina ed altri santi portano l’immagine di San Domenico» (De Dominici, 1742-1745, 2008, pp. 644 s.). Un disegno preparatorio (Firenze, Uffizi, Gabinetto disegni e stampe, inv. 6796S; Muzii, in Mattia Preti tra Roma, Napoli e Malta, 1999, p. 219) e alcune foto anteriori alla scialbatura del 1966 (Refice, 1954, figg. 7-8) mostrano un artista abile nell’interpretare le più audaci aperture cosmiche del tempo. Nella medesima chiesa Preti, su richiesta di Isabella Gallo, vedova del calabrese Coscia, terminò nel 1653 la Gloria di s. Nicola di Bari che, nel santo che levita leggero sulle nuvole, segnò un’ulteriore occasione di sintesi delle espressioni aeree lanfranchiane (Longhi, 1913, 1980, p. 37). Alle richieste dei corregionali si sommarono quelle degli amatori presenti a Napoli, rammentati da De Dominici e documentati dagli inventari che asseverano l’intensa attività di Preti, sfociata in un imponente corpus dispersosi in molteplici direzioni (De Dominici, 1742-1745, 2008, pp. 631-644 nn. 104-152). Tra tutti spiccano il ricco mercante fiammingo Gaspare Roomer e il socio in affari di questi, Ferdinand van den Eynden, proprietario di diverse opere del calabrese, tutte di alta qualità, tra cui tre Martiri – di s. Pietro, di s. Paolo, di s. Bartolomeo (rispettivamente a Birmingham, Barber Institute of fine arts; Houston, Museum of fine arts; Manchester, New Hampshire, Currier Museum of art) – caratterizzati da intenti naturalistici; e ancora il Convito di Erode (Andalusia, Pennsylvania, Nelson Shanks Collection), le Nozze di Cana (Londra, National Gallery) e il Banchetto di Erode (Toledo, Ohio, Toledo Museum of art), ai quali le reminiscenze veneto-veronesiane conferiscono un tono sontuoso e mondano.
Nel 1656, cessata la peste che sconvolse Napoli e morti molti degli artisti protagonisti della prima metà del secolo, Preti diventò con il suo potente macchiato luministico il primo attore della scena artistica napoletana. Fu così che gli Eletti della città il 27 novembre gli affidarono, perché «persona molto perita ed esperta nella professione della pittura», l’incarico di affrescare ex voto ciascuna delle sette porte della città, con in alto un soggetto identico, l’«Immacolata con il Bambino in braccio e i santi protettori Gennaro, Francesco Saverio e Rosalia», e in basso un diverso episodio sulla peste (Mattia Preti: i documenti, 1998, pp. 92 s.). Abbattute le porte, degli affreschi restano quello della porta di S. Gennaro, debolmente recuperato da un restauro del 1997 (Utili, in Mattia Preti tra Roma, Napoli e Malta, 1999, p. 146), due bozzetti nel Museo nazionale di Capodimonte e vari disegni preparatori (Muzii, in Mattia Preti tra Roma, Napoli e Malta, 1999, pp. 220-223). Anche i cugini di Preti, figli dell’illustre Mario Schipani, gli commissionarono un’opera votiva: la Madonna di Costantinopoli con i protettori della città (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), firmata dal pittore. Secondo i più, coevo sarebbe anche il S. Sebastiano (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte) che ha trovato una significativa considerazione in un intervento di Longhi, che lo definì tra le più riuscite composizioni dell’artista («capolavoro di figura isolata […]. Non conosco una figura singola dove la costruzione creata dal Seicento sia espressa con maggiore chiarezza e riescita»; Longhi, 1913, 1980, p. 38).
Ancora a Napoli, nel marzo del 1657, Preti si impegnò a realizzare in sei mesi due pale per le pareti laterali del cappellone di S. Antonio in S. Lorenzo Maggiore: il Crocifisso e i ss. francescani e la Vergine con il Bambino e ss. francescane. I dipinti risultano però «fatti» e saldati solo tre anni dopo (Spike, 1999, scheda 133-134, pp. 216-218), probabilmente perché, mentre erano in lavorazione, l’abate Fabrizio Campana lo ingaggiò per l’ammodernamento della trecentesca chiesa napoletana di S. Pietro a Maiella. Infatti il 16 maggio 1657 Preti pattuì di consegnare, entro venti mesi, cinque tele con la Vita di s. Pietro Celestino e altre cinque con le Storie di s. Caterina di Alessandria – da collocare rispettivamente nel soffitto della navata centrale e in quello del transetto – e di sovrintendere all’esecuzione del cassettonato ligneo destinato ad accoglierle, progettato dal certosino Bonaventura Presti. Il 1° febbraio 1659 i dipinti erano già finiti (Mattia Preti: i documenti, 1998, p. 115) e, completata anche l’intelaiatura, il successivo 18 maggio la decorazione venne scoperta (p. 121).
Iniziando dall’ingresso, gli episodi della vita di s. Celestino nella navata centrale conducono a quelli nel transetto relativi a s. Caterina, ciascuno sviluppato secondo la sagoma geometrica della cornice nella quale è inscritto. Le composizioni inscenate «torno torno verso la circonferenza» dei «tagli» poligonali si alternano così a quelle più ridotte, ma aperte nello «spazio verticale» senza limite, dei «tagli» rettangolari. Il risultato mostra un pittore sempre più spedito nelle «attuazioni spaziali fra le più ardue dell’arte» (Longhi, 1913, 1980, pp. 39-41).
Sul finire del sesto decennio Preti stabilì i primi contatti con Malta inviando il S. Giorgio a cavallo e il S. Francesco Saverio, dipinti destinati alla cappella della Lingua d’Aragona, Catalogna e Navarra nella concattedrale di La Valletta (Spike, 1999, scheda 257, pp. 328-330; Sciberras, 2012, pp. 133-135). Il legame con i cavalieri si rafforzò nel 1659, quando Preti si recò nell’isola dove lasciò, tra l’altro, la complessa pala con il Martirio di s. Caterina d’Alessandria nell’omonima chiesa della Lingua d’Italia a La Valletta. L’opera ripropone il soggetto del soffitto di S. Pietro a Maiella con una regia che concentra il dramma intorno al patibolo cilindrico, affidando il pathos al gioco dei sotto in su dei visi sgomenti degli astanti.
Allo scadere del sesto decennio Preti rientrò a Napoli, pronto ad assumere nuovi incarichi, anche fuori città, alcuni mai concretizzatisi come gli affreschi nell’abbazia di Montecassino e nel duomo di Messina (Ruffo, 1916, pp. 238-240). A questo periodo risale l’inizio di una fitta corrispondenza con il messinese Antonio Ruffo, nella quale, oltre a fornire elementi autobiografici, compreso quello di conoscitore di dipinti antichi e moderni, si rivelò attento cronista della situazione storico-artistica contemporanea (pp. 238-256, 284-287; De Gennaro, 1998, pp. 171 s.).
Chiamato agli inizi del 1661 a Valmontone dal suo antico protettore Camillo Pamphili per affrescare l’Allegoria dell’aria nella volta di una sala del proprio palazzo extraurbano (in sostituzione di Pier Francesco Mola che si era inimicato il principe), Preti attese a un’impegnativa decorazione profana, della quale rimangono alcuni studi preparatori (Muzii, in Mattia Preti tra Roma, Napoli e Malta, 1999, p. 225).
Al centro sta la personificazione dell’Aria incorniciata da una ghirlanda retta da putti in volo; intorno girano i carri dell’Aurora, di Apollo, di Diana e della Luna in un mulinello di dense nubi frenate alla base da quattro gruppi angolari con il Tempo, la Fama, la Fortuna e l’Amore. L’allegoria, illustrata secondo i dettami di Cesare Ripa, si svolge in un’area sconfinata e libera da ogni partitura. Nel carosello illusionistico della composizione la critica ha individuato il germe del «cambiamento stilistico dal barocco al tardo barocco», la cui affermazione si sarebbe registrata solo un paio di decenni dopo (R. Wittkower, Art and architecture in Italy: 1600 to 1750, Harmonsworth 1958; trad. it. Torino 1993, p. 283).
Alla fine dell’estate del 1661 il pittore lasciò definitivamente Napoli, dove forse la presenza del giovane Luca Giordano iniziava a essere ingombrante, e si trasferì a Malta. Nell’isola, in cambio della promozione a cavaliere di grazia, il 18 settembre dello stesso anno iniziò a dipingere a proprie spese l’intera volta della concattedrale a La Valletta.
Dalle carte e dai disegni pervenutici si evince che egli maturò da subito la trama dell’opera e che i progetti da lui elaborati furono approvati senza riserve, tranne l’ampliamento delle preesistenti finestre proposto per dare maggiore luminosità alla grande navata. L’articolato congegno entro il quale Preti inscenò i diciotto episodi della vita di s. Giovanni si rivela ancora una volta originale rispetto alle sue precedenti soluzioni. Su una complessa finta modanatura retta da telamoni inserì, in ciascuna delle sei campate della volta, tre finte aperture spalancate sull’infinito. Le storie, inquadrate su quinte architettoniche, vengono raccordate dall’animazione di angeli e putti; in basso sono coppie di santi e di esponenti illustri dell’Ordine.
Completano l’insieme le pitture dell’abside (Ss. Trinità e s. Giovanni Battista con lo stendardo dell’Ordine) con archivolto (sette riquadri con angeli vessilliferi) e quelle della lunetta nella controfacciata (Trionfo dell’Ordine di s. Giovanni) con arcata soprastante (S. Zaccaria e S. Elisabetta). Il 20 dicembre 1666 la decorazione fu «terminata con intera sodisfatione» (Mattia Preti: i documenti, 1998, sub data). Per tutto il settimo decennio Preti attese a molti altri incarichi: sempre a La Valletta nelle cappelle delle diverse nazioni all’interno della concattedrale, nella basilica della Madonna del Carmelo, nelle chiese di S. Antonio, di S. Francesco d’Assisi e dei Gesuiti, nel palazzo del Gran Maestro; nelle chiese dell’Assunta a Lija, di S. Andrea a Luqa e di S. Caterina a Zurrieq. Nel contempo inviò in svariati centri del continente dipinti di grande qualità, di taglio scenografico, con figure in controluce su uno sfondo marcato da colori cangianti, come: Morte di Didone (Braunschweig, Herzog Anton Ulrig Museum), Giobbe visitato dagli amici (Bruxelles, Musées des beaux-arts), Morte di Sofonisba (Lione, Musée des beaux-arts), Convito di Assalonne e Convito di Baldassarre (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), Pilato che si lava le mani (New York, Metropolitan Museum of art), Cristo con la cananea e Cristo e l’adultera (Palermo, Galleria interdisciplinare regionale della Sicilia), Belisario riceve l’elemosina (Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen), Cristo davanti a Erode e Innalzamento della croce (Sambughè, nei pressi di Treviso, chiesa parrocchiale di S. Martino), Predica di s. Giovanni Battista (San Francisco, California, Fine arts Museum).
La sua produzione si mantenne quantitativamente e qualitativamente sostenuta ancora nei due decenni successivi. A Siena mandò a più riprese tre superbe tele: la Canonizzazione di s. Caterina per S. Domenico, la Predicazione di s. Bernardino per il duomo e S. Ignazio in gloria per S. Vigilio; a Fano ancora inviò la Gloria di s. Nicola di Bari, ora nel Museo civico; a Friburgo l’Adorazione dei Magi per la chiesa di Saint-Jean (Contini, 2009); a Verona i Beati Gaetano Thiene e Andrea d’Avellino in gloria per la chiesa di S. Nicolò. Verso destinazioni ignote o dubbie furono inoltre spedite: Sofonisba che si avvelena (Melbourne, National Gallery of Victoria), Tomiri fa immergere la testa di Ciro in un otre di sangue (Parigi, Louvre), il Ritorno del figliol prodigo (Reggio Calabria, Museo civico). Da Napoli intanto continuarono ad arrivare richieste private e pubbliche, come quella della Consegna dello scapolare a s. Simone Stock alla presenza del beato Franco, per S. Maria del Carmine Maggiore (Mattia Preti: i documenti, 1998, p. 227). I legami con Taverna, mai interrotti, si intensificarono nel periodo maltese; fu così che, fino all’ultimo decennio della sua vita, per le chiese di S. Barbara, di S. Domenico (sede dell’altare padronale al quale destinò il S. Giovanni Battista con autoritratto) e dei cappuccini, allestì numerose opere, nelle quali talvolta il ricorso alla bottega fu maggiore.
Preti visse a Malta per oltre trent’anni; tra le ultime sue realizzazioni vanno ricordati i dipinti per il soffitto e per le pareti dell’oratorio di S. Giovanni Battista – dove replicò a passo ridotto quanto aveva fatto a Napoli in S. Pietro a Maiella – e il forse conclusivo autoritratto (Firenze, Galleria degli Uffizi).
Stando a De Dominici, Preti fu anche un «grande architetto e fece molte fabbriche». Una produzione in tal senso risulta solo da una sua lettera al nobile collezionista Antonio Ruffo del 18 settembre 1661 per quanto riguarda i progetti per la ristrutturazione della concattedrale de La Valletta, e da un documento del 27 maggio 1676 a proposito di un suo «modello […] di forma sferica» per la chiesa di Sarria a Floriana, destinata ad accogliere sette suoi dipinti ancora in situ (Bonello, 1970).
Morì a Malta il 3 gennaio 1699 (Mattia Preti: i documenti, 1998, p. 274).
La sua lunga e diffusa attività ebbe in Napoli il luogo della massima espressione. È qui che il suo naturalismo ‘eroico’ dal rinnovato vigore plastico-luminoso, innestato sui nuovi artifici barocchi, aprì una stagione feconda di sviluppi presso le generazioni successive, a partire da Luca Giordano per giungere a Francesco Solimena, il «Cavalier Calabrese nobilitato» (De Dominici, 1742-1745, 2008, p. 722).
Sono menzionati come suoi allievi, oltre a Raimondo e a Maria De Dominici, i napoletani Giuseppe Trombatore e Domenico Viola, e alcuni pittori, per lo più dal modesto profilo, attivi a Malta, quali Giovan Battista e Giuseppe Caloriti, Giovan Paolo Chiesa, Giuseppe Cianferli, Giuseppe d’Arena, Demetrio Farrugia, Gioacchino Loretta, Pedro Nuñez de Villavicencio (De Dominici, 1742-1745, 2008, pp. 714-721; Cutajar, 1995).
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