Abstract
Le forme pensionistiche complementari, costituite su base volontaria, collettiva o individuale, nascono in funzione compensativa dell’inevitabile arretramento della copertura garantita dalla previdenza di base al fine di costituire un risparmio destinato ad una successiva rendita pensionistica, complementare rispetto a quella erogata dalla previdenza pubblica.
Il contesto che ha determinato lo sviluppo della previdenza complementare è caratterizzato da un notevole declino della popolazione in età lavorativa, una considerevole riduzione del numero degli occupati e un progressivo invecchiamento della popolazione, connesso al graduale aumento della speranza di vita.
Il combinarsi dei citati fattori, pregiudicando la sostenibilità del sistema previdenziale, ha comportato un disequilibrio e un arretramento del livello di soddisfazione dei bisogni previdenziali e, conseguentemente, imposto la necessità di rimodulare gli interventi pubblici di tutela in funzione non solo dei bisogni emergenti, ma anche delle dinamiche demografiche e del contesto economico e produttivo, cui è inevitabilmente connesso il livello di spesa, considerando come le scelte del legislatore in materia previdenziale siano da circa vent’anni orientate in funzione della disponibilità di spesa.
È in questo quadro che viene valutata l’importanza di riformare il sistema pensionistico pubblico per rendere le pensioni, ad un tempo, adeguate e sostenibili nel lungo termine, obiettivo questo che viene perseguito, tra l’altro, ripensando, in una logica di integrazione e sussidiarietà, il ruolo della previdenza complementare all’interno del sistema previdenziale, connotandosi questa come fondamentale strumento di compensazione della riduzione delle pensioni pubbliche, per il mantenimento di un livello “adeguato” di soddisfazione dei bisogni previdenziali, oltre che di modernizzazione del sistema di protezione sociale e, al tempo stesso, fattore di stimolo dell’occupazione e del sistema economico.
Lo sviluppo del welfare di secondo pilastro, funzionalmente connesso all’arretramento dell’offerta pubblica, s’inserisce in una logica di strumentalità rispetto all’intervento statale, che la previdenza complementare completa e presuppone, al fine espresso di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale (art. 1 d.lgs. 21.4.1993, n. 124; art. 1 d.lgs. 5.12.2005, n. 252) in un’ottica di attuazione del dovere di solidarietà, nonché al fine di stabilizzare il rapporto fra spesa previdenziale e PIL.
Sebbene fosse già prevista la possibilità di costituire fondi speciali di previdenza privata, come testimonia la disciplina codicistica di cui agli artt. 2117 c.c. e 2113 c.c. che s’inserisce nell’ambito costituzionalmente garantito della liberà di assistenza privata (art. 38, co. 5, Cost.) e che disciplina il ricorso alla mutualità volontaria ad iniziativa del datore di lavoro nell’ambito dell’organizzazione aziendale, è solo con l’approvazione del d.lgs. n. 124/1993 che la previdenza complementare viene istituzionalmente finalizzata alla liberazione dal bisogno, la cui soddisfazione è condizione per l’effettivo godimento ed esercizio dei diritti civili e politici, inserendosi così a pieno titolo nel sistema costituzionale consacrato al co. 2 dell’art. 38 Cost., la cui interpretazione deve essere integrata con il coordinato principio di solidarietà (C. cost., 8.6.2000, n. 178).
Il d.lgs. n. 124/1993 rappresenta la prima disciplina organica della materia, cui si deve il riconoscimento di una connessione teleologica fra previdenza di base e previdenza privata, il cui ricorso viene incentivato nell’ottica della creazione di un sistema di welfare mix rinnovato e inclusivo, che favorisca l’integrazione fra il sistema pubblico e privato, secondo un modello che può definirsi multilivello e che risulta coerente rispetto alla configurazione dell’ordinamento previdenziale, caratterizzato all’origine da accentuato pluralismo previdenziale, ora in fase avanzata di armonizzazione.
Al fine dichiarato di consentire livelli aggiuntivi di copertura previdenziale, con l’approvazione del d.lgs. n. 124/1993, che assegna alla previdenza complementare il compito di «concorrere, in collegamento con quella obbligatoria, alla realizzazione degli scopi enunciati dall’art. 38, secondo comma, della Costituzione» (C. cost., 28.07.2000, n. 393), questa viene funzionalizzata alla garanzia, tipicamente pubblicistica e costituzionalmente tutelata, della liberazione dallo stato di bisogno, qualificandosi quale «elemento indispensabile» del disegno pluralistico delineato dall’art. 38 Cost. (C. cost., 8.9.1995, n. 421).
Nonostante ciò, la previdenza integrativa rimane ancorata alla volontarietà nell’adesione e tendenzialmente limitata soggettivamente alle categorie economicamente più forti, elementi questi che sminuiscono il proposito sistematizzante della disciplina citata, conservando un deficit di generalizzazione incoerente rispetto all’inserimento nell’ambito del co. 2 dell’art. 38 Cost.; successivamente tale deficit verrà parzialmente attenuato con l’introduzione della disciplina del conferimento alla previdenza complementare del trattamento di fine rapporto (d.lgs. n. 252/2005), che ne incoraggia la valenza pubblicistica.
Risulta, poi, difficilmente conciliabile con la ratio che ha ispirato la citata funzionalizzazione, la successiva riforma costituzionale del titolo V (art. 3, l. cost. 18.10.2001, n. 3) che ha attributo la materia in questione alla competenza concorrente fra Stato e Regioni, così diversificando il riparto di competenza legislativa rispetto alla previdenza di base che conserva la competenza esclusiva dello Stato.
Allo stesso modo un elemento d’incoerenza si riscontra nel mantenimento dell’imposizione di un contributo di solidarietà, pari al 10 per cento, che grava sulle somme versate dai datori di lavoro alla previdenza complementare, ivi inclusa la contribuzione a fondi aperti o a forme previdenziali complementari individuali, onerando i regimi di previdenza complementare a favore di quella pubblica (art. 9 bis d.l. 29.3.1991, n. 166; art. 16 d.lgs. n. 252/2005). Tale contributo, se da un lato costituisce la contropartita necessaria della non assoggettabilità alla ordinaria contribuzione previdenziale delle somme destinate alla previdenza integrativa, che sono escluse dalla base imponibile, dall’altro, finanziando in generale la spesa previdenziale delle gestioni pensionistiche obbligatorie cui sono iscritti i lavoratori, dimostra come alla citata funzionalizzazione sia stata data parziale attuazione.
L’ambito soggettivo di riferimento, coerentemente rispetto alla soddisfazione dell’interesse pubblico alla liberazione dalle situazioni di bisogno, comprende tanto i lavoratori subordinati, sia del settore privato che pubblico, sebbene i secondi siano ancora soggetti alla disciplina previgente in attesa dell’approvazione di una normativa ad hoc (art. 23, co. 6, d.lgs. n. 252/2005) – che è stata parzialmente attuata ad opera della legge di bilancio per il 2018 (art. 1, co. 91-92, l. 27.12.2017, n. 205) – quanto quelli autonomi, purché già destinatari di un regime previdenziale di base, nonché i soci lavoratori di cooperative e le persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari (art. 2, d.lgs. n. 252/2005). Il target principale di riferimento è comunque costituito dai lavoratori subordinati, la cui partecipazione è incoraggiata in forza della devoluzione del trattamento di fine rapporto che costituisce fattore promozionale, sebbene non più necessariamente totale.
Una più netta incentivazione del risparmio dedicato alla previdenza complementare si deve ricondurre all’approvazione del d.lgs. n. 252/2015 con cui si assiste al superamento del primato della contrattazione collettiva come fonte istitutiva e alla parificazione dei fondi pensione negoziali rispetto ai fondi pensione aperti e ai piani pensionistici individuali, considerati nella vigenza del d.lgs. n. 124/1993 come fonti meramente residuali (art. 9); eliminando gli ostacoli alla «libera adesione e circolazione dei lavoratori all’interno del sistema della previdenza complementare» e completando così il processo di equiparazione fra forme pensionistiche già iniziato con la l. 8.8.1995, n. 335 (art. 10), che aveva introdotto la possibilità di trasferimento volontario ai fondi pensione aperti dopo un minimo di permanenza nel fondo contrattuale, e con il d.lgs. 18.2.2000, n. 47 (art. 2) che aveva consentito l’accesso alle forme pensionistiche individuali anche in presenza di strumenti pensionistici collettivi di riferimento, sebbene a condizione di un più penalizzante regime fiscale e di finanziamento, con riferimento alla contribuzione datoriale e al TFR, ancora escluse per la previdenza complementare individuale. Viceversa, a seguito dell’approvazione del citato decreto viene liberalizzato l’utilizzo del TFR e della contribuzione datoriale che possono essere destinate alla forma pensionistica liberamente prescelta dal lavoratore; la contrattazione collettiva perde così il suo ruolo primario nella gerarchia delle fonti.
Attenuandosi l’originaria prevalente sindacalità che aveva caratterizzato la prima disciplina, viene garantita una significativa concorrenzialità fra le diverse tipologie, cui il lavoratore – non essendo più vincolato dalla regolamentazione collettiva applicabile – può liberamente decidere di aderire: fondi pensione negoziali ad ambito limitato (art. 3 d.lgs. n. 252/2005) istituiti dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale, di settore o aziendale; fondi aperti (art. 12 d.lgs. n. 252/2005) istituiti da banche, imprese di assicurazioni, società di gestione del risparmio e società di intermediazione mobiliare; Piani Pensionistici Individuali (art. 13 d.lgs. n. 252/2005), contratti di assicurazione con finalità previdenziale, cui si affiancano in via residuale i fondi pensione collettivi preesistenti, istituiti prima dell’approvazione del d.lgs. n. 124/1993, la cui disciplina, a seguito dell’approvazione della riforma, è stata oggetto di progressivo adeguamento rispetto al mutato quadro normativo (cfr. d.m. 10.5.2007, n. 62).
Nel complesso, con il proposito di incrementare l'entità dei flussi di finanziamento alle forme pensionistiche complementari, sia collettive che individuali, la riforma realizza una sostanziale revisione del sistema di adesione e di finanziamento, con particolare riferimento alla disciplina del conferimento del TFR, nonché dei profili fiscali, della governance e del sistema di vigilanza sulle forme pensionistiche.
Il sistema delle fonti istitutive è stato poi ulteriormente modificato con l’approvazione del d.lgs. 6.2.2007, n. 28 che, in attuazione della dir. 2003/41/CE – di cui si preannuncia una prossima revisione – in tema di attività̀ e di supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali, ha regolamentato l’operatività in Italia delle forme pensionistiche complementari comunitarie, che si aggiungono al quadro delle fonti (art. 15 bis d.lgs. n. 252/2005).
In conclusione, va rilevato come l’equiparazione sostanziale fra le forme pensionistiche complementari non abbia comunque scalfito il primato dell’autonomia collettiva, che rimane preminente in termini di adesioni.
La previdenza complementare costituisce uno strumento, oltre che previdenziale, anche finanziario, la cui tutela trova riconoscimento nell’art. 47 Cost. che incoraggia e garantisce il risparmio come indirizzo generale di politica economica della Repubblica (C. cost., 22.4.1980, n. 60) per la sua funzione strumentale alla distribuzione della ricchezza, che al tempo stesso è potenzialmente idonea a contribuire al sistema economico e produttivo, e che si connota in questo ambito per essere vincolato a fini previdenziali. In coerenza rispetto alla finalità di incoraggiare il risparmio previdenziale, si pone la recente tendenza alla istituzionalizzazione di un nuovo strumento di risparmio previdenziale, denominato PEPP (Pan-european personal pension), un prodotto pensionistico individuale pensato a livello europeo per incoraggiare la concorrenza e garantire ai lavoratori maggiore possibilità di scelta.
La previdenza complementare canalizza il risparmio degli aderenti che viene poi investito sul mercato mobiliare. Infatti, mentre il sistema di finanziamento della previdenza di base si fonda su un meccanismo solidaristico di redistribuzione intergenerazionale secondo un sistema a ripartizione, per cui la contribuzione dei lavoratori attivi finanzia il pagamento delle prestazioni pensionistiche dei lavoratori non più attivi cui vengono direttamente trasferite le risorse, senza accumulo di capitale; il finanziamento della previdenza complementare è strutturato in conformità al principio della capitalizzazione secondo un concetto longitudinale che instaura un legame diretto fra contributi versati, rendimenti e proprietà, senza che vi sia un trasferimento di risorse fra contribuenti e beneficiari delle prestazioni pensionistiche. Ne deriva che il sistema sia automaticamente in equilibrio, sebbene esponga l’aderente al rischio finanziario connaturato all’investimento.
La rendita erogata è costituita, infatti, dai contributi versati dall’aderente, che confluiscono nel mercato finanziario e vengono investiti secondo diverse forme di capitalizzazione, cui al momento del riscatto si somma la rendita finanziaria prodotta nel corso della fase di accumulo, che sarà differente a seconda della relativa gestione finanziaria. In tal modo il finanziamento delle prestazioni pensionistiche grava direttamente sui destinatari delle stesse, oltre che, a determinate condizioni, sul datore di lavoro (art. 7 d.lgs. n. 124/1993).
La contribuzione, che può essere stabilita in cifra fissa ovvero in percentuale sulla retribuzione o sul reddito di lavoro autonomo, viene determinata quanto ad entità e modalità dall’aderente stesso, ovvero può essere stabilita dalla contrattazione collettiva per il caso di contribuzione ai fondi negoziali.
Le somme versate dal datore di lavoro alla previdenza complementare, per effetto della citata connessione teleologica tra previdenza privata e pubblica, non possono più definirsi come elementi retributivi con funzione previdenziale ma sono strutturalmente contributi di natura previdenziale, quindi estranei alla nozione di retribuzione imponibile, coerentemente rispetto all’assoggettamento al contributo di solidarietà e all’esclusione dalla contribuzione previdenziale pubblica (C. cost., 3.10.1990, n. 427; C. cost., 20.11.1995, n. 421; C. cost. n. 178/2000; C. cost. n. 393/2000).
La principale modalità di finanziamento è costituita dalla devoluzione del trattamento di fine rapporto, la cui disciplina – relativamente all’utilizzo e alla portabilità – è stata profondamente modificata dal d.lgs. 252/2005 che ha eliminato il principio della competenza esclusiva delle fonti contrattuali (art. 8, d.lgs. n. 124/1993), potendo il TFR essere destinato a qualunque forma di previdenza complementare, anche individuale. Di recente è stata riconosciuta agli accordi collettivi, anche aziendali, la possibilità di stabilire una percentuale minima di TFR maturando da destinare alla previdenza complementare, di modo che il conferimento del TFR sarà totale solo in mancanza di diversa indicazione (art. 1, co. 38, l. 4.8.2017, n. 124); il lavoratore può comunque scegliere di conferire l’intera quota di TFR maturando per poi, eventualmente, aderire in qualunque momento all’opzione di versamento parziale, che resta praticabile in qualunque tempo (cfr. circ. Covip, 26.10.2017, n. 5027). Ne deriva l’attribuzione alle parti sociali di una significativa flessibilità, che, sebbene dichiaratamente finalizzata ad incoraggiare il finanziamento, anche parziale, della previdenza complementare, potrebbe, al contrario, condurre ad una diminuzione della massa critica di risparmio, che diventerebbe non più idonea ad assicurare una redditività adeguata.
Con la riforma del 2005 viene, inoltre, introdotta la regola del tacito conferimento, conseguentemente l’adesione alla previdenza completare, pur rimanendo libera e volontaria, si configura come semiautomatica, poiché il conferimento del TFR determina ipso iure l’adesione alla forma destinataria del medesimo. La devoluzione del TFR può avvenire con modalità esplicita ovvero in mancanza, esclusivamente per i lavoratori subordinati, con modalità implicita per il caso in cui il lavoratore nel termine di sei mesi successivi all’assunzione non renda una determinazione espressa circa la destinazione del TFR. In tale ultimo caso il TFR sarà destinato automaticamente alla forma di previdenza complementare collettiva di riferimento, essendo idonee a raccogliere il TFR tacitamente conferito sole le forme pensionistiche istituite dalla contrattazione collettiva, le uniche a poter essere ricondotte, in virtù della forza espansiva connaturata alla fonte istitutiva, al singolo rapporto di lavoro.
Per il caso di coesistenza di più forme di riferimento il d.lgs. n. 252/2005 stabilisce una gerarchia che accorda preferenza alla forma prevista da accordi o contratti aziendali, anche territoriali, in secondo luogo alla forma che presenta più adesione nell’azienda di riferimento ed infine, nel caso di inapplicabilità dei predetti criteri, alla forma pensionistica complementare istituita presso l’Inps, denominata Fondinps (art. 9). Si tratta di un fondo pensione residuale nel quale confluisce il TFR maturando dei lavoratori che non hanno una forma collettiva di riferimento (d.m. 30.1.2007) e che va tenuto distinto dal Fondo di Tesoreria, un conto gestito dall’Inps secondo un sistema a ripartizione, in cui viene versato il TFR non destinato alla previdenza complementare riferibile ai lavoratori che siano addetti presso aziende che abbiano alle proprie dipendenze almeno cinquanta lavoratori (art. 1, co. 755, l. 27.12.2006, n. 296).
Con un successivo intervento normativo (art. 23, co. 7-bis) è stata poi introdotta la possibilità di conferimento, con assoggettamento ad un regime fiscale differenziato per periodi di maturazione, del TFR accantonato in anni pregressi al primo gennaio 2007, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 252/2005, e devoluto, in misura comunque non inferiore al 50 per cento, su accordo con il datore di lavoro, alla previdenza complementare.
Nel complesso la disciplina delineata con la riforma del 2005 appare conforme rispetto agli obiettivi di sostenere e favorire lo sviluppo delle forme pensionistiche complementari, costituendo il conferimento tacito la principale modalità di incremento dell’entità dei flussi di finanziamento, indispensabile per lo sviluppo della previdenza complementare, oltreché vantaggiosa per l’aderente, che dovrebbe percepire rendimenti maggiori rispetto al tasso di rivalutazione del TFR.
In netta controtendenza si pone l’introduzione ad opera della l. 23.12.2014, n. 190 (art. 1, co. 26), della facoltà di ottenere il TFR maturando in busta paga che viene configurata come eccezione rispetto alla irrevocabilità della scelta di devolvere il TFR alla previdenza complementare, consentendo anche al lavoratore che ha aderito alla previdenza complementare di poter monetizzare la quota di TFR maturanda; tale opzione, sebbene sperimentale e temporalmente limitata, ha rappresentato «un serio contraccolpo alla manutenzione della platea dei destinatari del sistema pensionistico complementare e dell’ammontare stesso delle relative prestazioni, essendo certamente in contraddizione con tutte le ipotesi di implementazione ex lege delle adesioni a previdenza complementare reiteratamente prospettate in varie sedi», dimostrandosi incoerente rispetto al sistema al cui interno si è inserita (Sandulli, P., Pensione complementare e TFR: dalla disattenzione alla negatività del legislatore, in Osservatorio Giuridico Mefop, 9.12.2014, n. 35).
Con finalità promozionale ed incentivante, la disciplina della materia prevede, inoltre, un sistema di agevolazioni fiscali, il cui assetto è stato definito con l’approvazione del d.lgs. n. 47/2000 che ha proceduto al riordino del regime fiscale, poi completato con l’approvazione della riforma del 2005 e, infine, parzialmente penalizzato con la legge di stabilità per il 2015.
Il sistema è improntato al principio del rinvio della tassazione del reddito accantonato per fini previdenziali, che viene tassato solo al momento in cui viene erogata la prestazione previdenziale, e non anche durante la fase di contribuzione ed accumulazione in cui non si realizza il presupposto dell’imposizione; durante la fase di contribuzione è inoltre consentito portare in deduzione i contributi versati alla previdenza complementare fino al limite annuo di 5.164,57 euro. I rendimenti finanziari prodotti durante la fase di accumulo sono poi soggetti alla tassazione prevista per i redditi finanziari, con esclusione dell’importo della successiva prestazione pensionistica che, per il resto, è soggetta a tassazione progressiva come reddito di lavoro dipendente, in caso di prestazioni periodiche, o a tassazione separata, per il caso di prestazioni in capitale.
Il sistema è, dunque, improntato sullo schema E-T-T, realizzandosi «esenzione nella fase di accantonamento del risparmio previdenziale, esenzione nella fase di accumulazione del risparmio accantonato e tassazione sostitutiva, per maturazione, dei redditi finanziari prodotti nella medesima fase, tassazione progressiva nella fase di erogazione della prestazione previdenziale in misura corrispondente ai contributi dedotti e esenzione dei redditi finanziari prodotti nella fase di accumulazione e già tassati in tal fase con imposta sostitutiva» (Marchetti, F., Regime tributario della previdenza complementare, in Bessone, M.-Carinci, F., a cura di, Commentario della previdenza complementare, Torino, 2004, 494 ss.).
L’ambito di tutela garantito dalle forme pensionistiche complementari è principalmente rivolto all’erogazione di trattamenti pensionistici (art. 1 d.lgs. n. 252/2005), sebbene possa estendersi anche oltre la tutela della vecchiaia, invalidità e morte come dimostra la recente tendenza alla “polifunzionalità” della previdenza complementare, potendosi riscontrare un nuovo ruolo multifunzionale che timidamente sembrano svolgere i fondi pensione, in coerenza rispetto inserimento nella co. 2 dell’art. 38 Cost., con riferimento alla tutela contro il rischio di non autosufficienza, alla tutela del reddito in caso di disoccupazione e alle esigenze di formazione e riqualificazione.
Allo stato l’ambito elettivo di operatività rimane quello della tutela pensionistica della vecchiaia, le relative prestazioni sono determinante in base alle determinazioni delle fonti istitutive, commisurate alla contribuzione versata ed erogate al momento nella maturazione dei requisiti pensionistici per l’accesso alle prestazioni del regime obbligatorio, a condizione che l’iscritto possa vantare almeno cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari (art. 11). Ne deriva che la prestazione erogata dalla previdenza complementare debba inevitabilmente configurarsi come integrativa, essendo temporalmente connessa al raggiungimento dell’età pensionabile prevista dal regime pubblico obbligatorio.
In caso di inoccupazione perdurante, che da quarantotto mesi passa a ventiquattro con l’approvazione della legge sulla concorrenza, è possibile anticipare l’erogazione della prestazione, erogata anche in forma di rendita temporanea, fino ad un massimo di dieci anni, se previsto dagli statuti e dai regolamenti delle forme pensionistiche complementari (art. 1, co. 38, n. 124/2017).
Analogamente rispetto alla disciplina prevista per il TFR, gli aderenti possono richiedere in qualsiasi momento un’anticipazione della posizione individuale nel limite del 75 per cento della posizione maturata quando debbano fronteggiare «spese sanitarie a seguito di gravissime situazioni relative a sé, al coniuge e ai figli per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche» (art. 11). Una ulteriore fattispecie di anticipazione è prevista per l’acquisto della prima casa di abitazione per l’iscritto o per i figli, in tal caso però a condizione che l’iscritto possa vantare almeno otto anni di permanenza al fondo; con il medesimo limite di permanenza è consentita una anticipazione acausale per ulteriori esigenze, che consentono all’iscritto di ottenere fino al 30 per cento della posizione maturata.
Quanto alle modalità di fruizione, è consentita l’erogazione in capitale delle prestazioni pensionistiche in regime di contribuzione definita e di prestazione definita fino ad un massimo del 50 per cento del montante finale accumulato, e in rendita; per il caso di morte dell’iscritto è prevista la restituzione del montante residuo ai beneficiari indicati dallo stesso, ovvero il riscatto dell’intera posizione in caso di morte intervenuta prima dell’erogazione.
All’eliminazione degli ostacoli che si frappongono alla circolazione dei lavoratori all'interno del sistema della previdenza complementare concorre il diritto alla portabilità riconosciuto agli iscritti che possano vantare una permanenza al medesimo fondo di almeno 2 anni; l’esercizio di tale diritto consente di trasferire l’intera posizione maturata presso altro fondo. Il trasferimento può operare, senza oneri fiscali, sia tra forme pensionistiche dello stesso genere (cd. riscatto orizzontale) che tra fondi negoziali, fondi aperti e PIP (cd. riscatto verticale). Tale diritto non può essere limitato dagli statuti o dai regolamenti delle forme pensionistiche; limitazioni possono essere previste esclusivamente dalla contrattazione collettiva per quel che attiene alla contribuzione datoriale e alla quota parte risultante dal conferimento del TFR (art. 14). In caso di perdita dei requisiti di partecipazione è, inoltre, consentito, a determinate condizioni, il riscatto parziale o totale della posizione maturata; il primo, entro il limite del 50 per cento, nel caso di cessazione dell’attività lavorativa che comporti la disoccupazione per oltre dodici mesi e nel caso di ricorso da parte del datore di lavoro a procedure di mobilità e cassa integrazione guadagni. Il riscatto totale è, invece, consentito in caso di invalidità permanente che comporti la riduzione della capacità di lavoro a meno di un terzo ovvero, anche in forma di rendita, in caso di cessazione dell’attività lavorativa che comporti la disoccupazione per oltre ventiquattro mesi; a condizione che l’aderente non maturi nei successivi anni anni o nel maggior periodo – eventualmente fissato dalle forme pensionistiche complementari, comunque non superiore a dieci anni – i requisiti pensionistici previsti dal regime obbligatorio (art. 1, co. 38, l. n. 124/2017). Quest’ultima opzione si configura come alterativa rispetto alla rendita integrativa temporanea anticipata, introdotta in via sperimentale, sebbene sembrerebbe destinata a stabilizzarsi, per consentire ai lavoratori che abbiano fatto ricorso a forme pensionistiche complementari, al ricorrere di determinate condizioni e in caso di cessazione del rapporto (art. 1, co. 179, l. 11.12.2016, n. 232), di ottenere un’anticipazione che possa rappresentare un sostegno finanziario temporaneo fino al raggiungimento dei requisiti pensionistici per l’accesso al trattamento di vecchia (art. 1, co. 188 – 193, l. n. 232/2016; circ. Covip, 22.3.2017, n. 1174).
L’esercizio dell’attività dei fondi pensione, sia negoziali che aperti, è condizionato alla preventiva autorizzazione di una apposita commissione costituita presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali: la Commissione di Vigilanza sui fondi pensione (Covip) che, in primo luogo, verifica la regolare costituzione dei fondi, come associazioni non riconosciute, persone giuridiche di diritto privato o per i fondi pensione istituiti da enti previdenziali privatizzati, i fondi pensione aperti e le forme pensionistiche individuali come patrimoni di destinazione separati e autonomi ex art. 2117 c.c.; nonché valuta il rispetto dei requisiti del fondo e dei suoi componenti. Più in generale la Covip è istituita con lo scopo di conseguire la trasparenza e la correttezza dei comportamenti, nonché la sana e prudente gestione delle forme pensionistiche complementari, con il fine specifico di tutelare gli iscritti e i beneficiari, nonché garantire il buon funzionamento del sistema nel suo complesso; svolge, dunque, una importante funzione di controllo sulla gestione dei fondi, su relativi statuti e regolamenti, verificando la ricorrenza dei requisiti previsti dalla normativa (art. 4), nonché sulla correttezza della relativa operatività (artt. 18-19). La Commissione controlla la gestione tecnica, finanziaria, patrimoniale e contabile delle forme pensionistiche complementari, anche verificando il rispetto dei criteri di individuazione e ripartizione del rischio, al fine di eliminare distorsioni che possano arrecare pregiudizio agli iscritti, garantire la trasparenza delle condizioni contrattuali di tutte le forme pensionistiche complementari e tutelare l'adesione consapevole dei soggetti destinatari. Ai compiti di vigilanza e di controllo, si affianca il riconoscimento di un’ampia potestà regolamentare.
Si rileva una progressiva estensione dei compiti attribuiti alla Commissione, non in linea rispetto alla finalità che ne hanno ispirato l’istituzione, che sono stati ampliati ad un’aerea della previdenza obbligatoria, per ricomprendere gli enti privatizzati delle libere professioni, per quel che attiene agli investimenti delle risorse finanziarie e alla composizione del patrimonio (art. 14, co. 1, d.l. 6.7.2011, n. 98, conv. con mod., l. 15.7.2011, n. 111).
Fonti normative
Art. 3 Cost.; art. 38 Cost.; art. 47 Cost.; art. 2117 c.c.; art. 9 bis, d.l. 29.3.1991, n. 166; art. 3, co. 1, l. 23.10.1992, n. 421; d.lgs. 21.4.1993, n. 124; l. 8.8.1995, n. 335; d.lgs. 18.02.2000, n. 47; dir. 2003/41/CE; l. 23.8.2004, n. 243; d.lgs. 5.12.2005, n. 252; art. 1, co. 755, l. 27.12.2006, n. 296; d.lgs. 6.2.2007, n. 28; art. 14, co. 1, d.l. 6.7.2011, n. 98; art. 1, co. 26, l. 23.12.2014, n. 190; art. 1, co. 188-193, l. 11.12.2016, n. 232; circ. Covip, 22.3.2017, n. 1174; art. 1, co. 38, l. 4.8.2017, n. 124; circ. Covip n. 5027/2017.
Bibliografia essenziale
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