Abstract
Si esamina il sistema pensionistico italiano allo scopo di ricostruirne dagli albori il funzionamento e l’evoluzione normativa. La storia del sistema previdenziale obbligatorio in Italia è stata contrassegnata da un susseguirsi di riforme legislative che hanno nel tempo modificato i sistemi di calcolo delle prestazioni e i relativi requisiti di accesso. Il quadro normativo attualmente in vigore è stato delineato dalla riforma Monti-Fornero introdotta dall’art. 24 d.l. 6.12.2011 n. 201, conv. con mod. dalla l. 22.12.2011, n. 214.
La previdenza sociale rappresenta, insieme all’assistenza sociale, uno dei capisaldi del sistema generale di protezione sociale adottato dallo Stato. Essa si pone l’obiettivo di garantire a tutti i lavoratori (dipendenti ed autonomi) il mantenimento del reddito al verificarsi di alcuni eventi che ne determinano la riduzione o la perdita, e risponde al principio sancito all’art. 38, co. 2, della Carta costituzionale secondo cui i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. La previdenza sociale concerne quindi i soli lavoratori, a differenza dell’assistenza sociale che si riconduce nell’alveo del primo comma del citato art. 38 Cost. ed ha una portata soggettivamente più ampia, sostanziandosi oggettivamente non solo in prestazioni economiche (es. pensioni di invalidità e di guerra), ma anche in agevolazioni per la fruizione di servizi volti a garantire un dignitoso livello di vita alla generalità dei cittadini.
Il settore della previdenza sociale è caratterizzato dall’erogazione di prestazioni in denaro. I principali enti erogatori delle prestazioni sociali sono gli enti previdenziali e i fondi pensionistici privati (previdenza complementare o di secondo pilastro).
La previdenza sociale è dunque uno dei profili più importanti della sicurezza sociale, intesa come liberazione dal bisogno che è condizione essenziale per l’effettivo godimento dei diritti civili e politici della collettività. Il fine ultimo è la tutela dei lavoratori e delle loro famiglie dai rischi di menomazione o perdita della capacità lavorativa per eventi quali la disoccupazione, la malattia, l’invalidità e la vecchiaia. L’ordinamento giuridico nazionale definisce i rischi protetti, gli enti erogatori, il finanziamento e le modalità di erogazione delle prestazioni (art. 117, co. 2, lett. o, Cost).
In Italia la previdenza sociale è realizzata prevalentemente mediante lo strumento attuativo delle assicurazioni sociali, l’Inail e l’Inps, aventi carattere tendenzialmente universale ed obbligatorio, sia per la definizione dei rischi e delle prestazioni che per l’iscrizione dei soggetti protetti. Nell’ambito del sistema previdenziale obbligatorio la quota maggiore di spesa per le prestazioni sociali è, ad oggi, rappresentata dalle pensioni.
Le prestazioni previdenziali sono alimentate da contributi assicurativi versati in minor parte dal soggetto assicurato e in parte prevalente dal datore di lavoro, con eventuali integrazioni ad opera dello Stato mediante il ricorso alla fiscalità generale. La previdenza sociale, in un’accezione più circoscritta, viene associata alla copertura delle esigenze economiche derivanti dalla invalidità e dalla vecchiaia; ed è tale accezione, con specifico riguardo al sistema pensionistico pubblico italiano, che si intende sviluppare nel seguito di questa voce. Le forme di tutela della previdenza sociale obbligatoria hanno subìto nel tempo diverse riforme legislative volte a ridimensionarne il beneficio in funzione del necessario contemperamento del bisogno protetto con l’equilibro finanziario pubblico.
Le leggi istitutive dell’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia si inseriscono nell’ordinamento dopo l’unità d’Italia, con l’affermarsi della rivoluzione industriale. Esse rappresentano, oltre che una importante conquista per i lavoratori, la fase embrionale dello Stato sociale (cd. Welfare State). La previdenza sociale in Italia affonda le radici nella istituzione della Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai avvenuta nel 1898. Si trattava di un’assicurazione facoltativa e volontaria, incoraggiata da un contributo statale e finanziata prevalentemente dai contributi liberamente versati dai lavoratori e dai datori di lavoro.
L'assicurazione per l'invalidità e la vecchiaia diventa obbligatoria nel 1919 con l’istituzione dell’assicurazione generale obbligatoria per i dipendenti dell’industria e dell’agricoltura presso la Cassa nazionale delle assicurazioni sociali (CNAS). È il primo passo verso un sistema che intende proteggere il lavoratore da tutti gli eventi che possono intaccare il reddito individuale e familiare.
Nel 1933 la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali assume la denominazione di Istituto nazionale fascista della previdenza sociale, ente di diritto pubblico che, dal 1943, diviene definitivamente l’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps), destinato a rappresentare il pilastro del sistema nazionale di welfare. Nel frattempo in quegli anni – a decorrere dal 1939 – sono istituite le assicurazioni contro la disoccupazione, la tubercolosi e per gli assegni familiari; vengono introdotte le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o ad orario ridotto; viene istituita la pensione di reversibilità a favore dei superstiti dell’assicurato e del pensionato; si attivano le prime casse di malattia per settori produttivi a mezzo dei contratti collettivi corporativi.
In linea generale, il finanziamento delle prestazioni pensionistiche può avvenire secondo due modelli: il sistema a capitalizzazione e quello a ripartizione. Il sistema a capitalizzazione rappresenta un modello di finanziamento nel quale i contributi annualmente versati dai lavoratori vengono accantonati con la finalità di costituire i capitali necessari all’erogazione di una rendita vitalizia al raggiungimento dei requisiti pensionistici. Non si realizza in tal caso un contestuale trasferimento di ricchezza tra diverse categorie di soggetti. La pensione corrisponderà al montante accumulato riscosso in forma di rendita. Nell’ambito del sistema a ripartizione, invece, in virtù di un patto intergenerazionale, i contributi versati dalla popolazione attiva servono a finanziare le uscite correnti di prestazioni pensionistiche, attuando un trasferimento di risorse tra generazioni differenti. In questa prospettiva il sistema pensionistico è un meccanismo redistributivo che trasferisce risorse correntemente prodotte dalla popolazione attiva a favore di chi ha cessato l'attività lavorativa per ragioni di età anagrafica (pensioni di vecchiaia) o di anzianità contributiva (pensione di anzianità) o di chi non è più in grado di partecipare al processo produttivo per una sopravvenuta incapacità lavorativa (pensioni di invalidità); o ancora nei confronti di soggetti legati da rapporti familiari con persone decedute che hanno fatto parte della forza lavoro (pensioni ai superstiti); infine nei confronti di individui sprovvisti di qualunque forma di reddito (pensioni assistenziali).
In Italia con la l. 4.4.1952, n. 218 si assiste al passaggio dal metodo a capitalizzazione a quello a ripartizione (detta contributiva). Sia nel sistema a capitalizzazione che in quello a ripartizione il metodo di calcolo della pensione può essere di due tipi: retributivo o contributivo. Nel sistema di calcolo retributivo l’ammontare della pensione è legato alle retribuzioni percepite nell’ultima fase della carriera lavorativa. Con il metodo di calcolo contributivo, invece, l’assegno pensionistico è il risultato del montante contributivo accumulato moltiplicato per il coefficiente di trasformazione che varia in relazione all’età del soggetto al momento del pensionamento. Secondo tale sistema, maggiore è l’ammontare dei contributi versati maggiore sarà la pensione corrisposta, indipendentemente dalla retribuzione percepita durante la vita lavorativa.
La l. 30.4.1969, n.153 (riforma Brodolini) introduce la formula retributiva per il calcolo dell’importo pensionistico, segnando l’avvento del concetto di prestazione pensionistica intesa come “reddito di sostituzione” del reddito da lavoro.
Vengono istituite la pensione sociale (per i cittadini ultra sessantacinquenni sprovvisti di assicurazione e privi di reddito) e la pensione di anzianità (per i cittadini con trentacinque anni di contribuzione). Si introduce il concetto di perequazione delle pensioni, che consiste nella rivalutazione automatica delle pensioni in base all’indice dei prezzi al consumo. Dal 1975 e fino alla riforma Amato del 1992, la perequazione delle pensioni è agganciata, oltre che ai prezzi, anche ai salari, consentendo una tutela effettiva del valore reale delle pensioni. L’aggravio sui conti pubblici tuttavia è notevole, in considerazione sia della mancata correlazione tra contributi versati e prestazioni, sia delle età estremamente basse di pensionamento (negli anni ‘70 e ‘80 influiscono sull’espansione della spesa pensionistica le cd. “baby” pensioni previste, per l’area dell’impiego pubblico, nella riforma del 1973 del Governo Rumor).
Gli squilibri finanziari del sistema pensionistico hanno cominciato quindi a manifestarsi sin dagli anni ‘70, preludendo alla necessità di una strutturale riforma del sistema pensionistico che servisse ad arginare le criticità, dato che la situazione economica, demografica e legislativa continuava ad aggravare il debito dell’Inps.
L’aumento della speranza di vita e la riduzione della natalità hanno determinato un’evoluzione demografica che ha alterato gli equilibri tra popolazione attiva e soggetti in età pensionabile. Questa condizione, accompagnata dalla crisi occupazionale, ha rappresentato una minaccia alla stabilità del sistema pensionistico.
Inoltre, l’assunto in base al quale la retribuzione percepita negli ultimi anni di vita lavorativa fosse l’elemento cardine per il calcolo dell’assegno pensionistico ha fatto sì che il sistema concedesse più di quanto non fosse in grado di sostenere: le formule di calcolo del metodo retributivo determinano così una crescente sproporzione tra spesa previdenziale e contribuzione effettivamente versata, acuita dalla attenuazione o eliminazione dei massimali pensionistici.
In questo contesto matura l’esigenza di una riforma strutturale del sistema previdenziale, che prende avvio con la l. delega 23.10.1992, n. 421.
In particolare, si annoverano tre fasi di grande importanza riformatrice negli anni Novanta:
1) il d.lgs. 30.12.1992, n. 503 (riforma Amato) persegue l’obiettivo di stabilizzare il rapporto tra la spesa previdenziale e il prodotto interno lordo (PIL), nonché di mantenere e garantire (v. infra, § 2) un adeguato trattamento pensionistico obbligatorio per tutti. L’età pensionabile è elevata da sessanta a sessantacinque anni per gli uomini e da cinquantacinque a sessant’anni per le donne. La contribuzione minima per la pensione di anzianità è elevata da quindici a vent’anni di contributi. L’indicizzazione delle pensioni è slegata dalla scala mobile salariale e agganciata all’indice dei prezzi al consumo (inflazione) fornito dall’Istat;
2) il d.lgs. 21.4.1993, n. 124, introduce la prima disciplina organica della previdenza complementare configurando un sistema volto ad affiancare alla previdenza pubblica di primo pilastro forme di assicurazione a capitalizzazione di tipo privatistico;
3) la l. 8.81995, n. 335 (riforma Dini) si basa su due principi: il pensionamento flessibile in un’età compresa tra i cinquantasette e settantacinque anni (uomini e donne); la sostituzione graduale del sistema di calcolo retributivo con il sistema contributivo. In particolare, per i lavoratori di prima occupazione successiva al 1.1.1996 è introdotto il calcolo contributivo dell’assegno pensionistico, basato esclusivamente sull’effettivo ammontare dei contributi versati dal lavoratore durante la propria vita lavorativa. Il metodo di calcolo retributivo continua a trovare applicazione per quei soggetti che alla data del 31.12.1995 vantano un’anzianità contributiva pari ad almeno diciotto anni, per la restante platea di occupati si utilizza il sistema di calcolo misto (retributivo relativamente agli anni precedenti la soglia temporale del 31.12.1995 e contributivo per gli anni successivi).
Nel frattempo, con riguardo ai lavoratori liberi professionisti, se da un lato interviene la privatizzazione degli enti previdenziali ai sensi del d.lgs 30.6.1994, n. 509, dall’altro si assiste alla nascita di enti previdenziali privati ad opera del d.lgs. 10.2.1996, n.103. Tali enti perseguono finalità di pubblico interesse nell’ambito del sistema previdenziale obbligatorio, sono dotati di personalità giuridica di diritto privato e possono contare su un’autonomia gestionale, organizzativa e contabile.
Nel 2004 viene approvata la l. delega 23.8.2004, n. 243 (riforma Maroni operativa solo dal 2008) che reca con sé, come principale novità, l’innalzamento generalizzato dell’età anagrafica per la pensione di anzianità a sessanta anni, fermo restando il requisito contributivo di trentacinque anni. Il requisito anagrafico è innalzato a sessantuno anni dal 2010 e a sessantadue anni dal 2014. Inoltre, sempre con decorrenza 1.1.2008, requisito alternativo per l’accesso al pensionamento di anzianità è il possesso di quaranta anni di contribuzione, a prescindere dall’età anagrafica. Per i lavoratori autonomi i requisiti anagrafici sono superiori di un anno rispetto a quelli fissati per i lavoratori dipendenti. La l. n. 243/2004 prevede, inoltre, la riduzione da 4 a 2 delle finestre di uscita per chi matura i requisiti del pensionamento di anzianità, con il conseguente ulteriore ritardo nell’effettivo accesso alla prestazione pensionistica. A fine 2007 viene adottata la l. 24.12.2007, n. 247 (riforma Prodi) che modifica le disposizioni contenute nella l. n. 243/2004 (si parla infatti di “abolizione dello scalone”). La l. n. 247/2007 ha previsto una modifica dei requisiti per il diritto alla pensione di anzianità, ma in maniera più graduale, ed ha introdotto, a partire dal 1.7.2009, il “sistema delle quote”: in tal modo l’accesso al pensionamento è consentito laddove la somma tra età anagrafica e requisito contributivo risulti superiore ad una certa “quota”. Di seguito una tabella riepilogativa dei requisiti pensionistici con evidenza delle variazioni intervenute nella transizione dalla riforma Maroni alla riforma Prodi.
Anno Età anagrafica + anzianità contributiva Maroni 2004 Prodi 2007 2007 57 + 35 57 + 35 2008 60 + 35 58 + 35 01/2009 – 06/2009 60 + 35 58 + 35 07/2009 – 12/2009 60 + 35 (60 + 35) / (59 + 36) 2010 61 + 35 (60 + 35) / (59 + 36) 2011 61 + 35 (61 + 35) / (60 + 36) 2012 61 + 35 (61 + 35) / (60 + 36) 2013 61 + 35 (62 + 35) / (61 + 36) 2014 62 + 35 (62 + 35) / (61 + 36)
Nel contempo l’intervenuta normativa conferma la possibilità di accesso pensionistico in presenza del requisito minimo dei quarant’anni di anzianità lavorativa, indipendentemente dall’età anagrafica.
A partire dal 2010 si susseguono ulteriori provvedimenti legislativi volti a fronteggiare le contingenze della situazione economica, con interventi riformatori attinenti ai requisiti e ai tempi di accesso alle prestazioni previdenziali. In particolare è introdotta la “finestra flessibile”, in conseguenza della quale, maturati i requisiti pensionistici, l’erogazione effettiva della prestazione è subordinata al decorso di dodici mesi per i dipendenti privati e di diciotto mesi per gli autonomi; è previsto un aggiornamento dei requisiti anagrafici in ragione del mutamento della speranza di vita; si dà avvio ad una progressiva equiparazione dell’età di pensionamento per uomini e donne del settore pubblico.
La normativa risultante dal susseguirsi delle citate riforme giunge a stabilire una nuova tempistica e una diversa procedura per la revisione periodica dei coefficienti: la revisione da decennale diventa triennale e da procedimento politico-amministrativo diviene procedimento esclusivamente amministrativo.
Come precedentemente illustrato, il quadro normativo che attualmente regola il sistema pensionistico italiano è il risultato di una serie di interventi legislativi che sin dagli anni novanta hanno operato sempre più incisivi tagli nella spesa pensionistica pubblica. Da ultimo è con la riforma delle pensioni Monti-Fornero, inserita nel d.l. “Salva Italia” del 2011, che le esigenze della finanza pubblica e le pressioni degli standard europei sembrano aver trovato la propria chiave di volta.
Come enunciato al co. 1 dell’art. 24 del d.l. 6.12.2011 n. 201, conv. con mod. dalla l. 22.12.2011, n. 214, la riforma persegue obiettivi di equità, adeguamento dei requisiti di accesso alle variazioni della speranza di vita e semplificazione delle diverse gestioni previdenziali.
La prima grande innovazione della riforma Fornero consiste nell’eliminazione, a partire dal 1.1.2012, del sistema di calcolo retributivo e la correlata imposizione del metodo di calcolo contributivo su scala generale. Pertanto i lavoratori che al 31.12.1995 – data che segna il discrimen temporale per l’entrata in vigore della riforma Dini – avevano maturato almeno diciotto anni di contribuzione ed erano per ciò stesso caratterizzati da una prestazione pensionistica calcolata interamente con il più generoso metodo retributivo (cd. sistema retributivo puro), a partire dal 1.1.2012 vedono calcolata la pensione col sistema pro-rata, che prevede l’applicazione del sistema retributivo per le anzianità maturate sino al 31.12.2011 e di quello contributivo per le anzianità successive a tale data. Nessuna modifica subisce chi è entrato nel mondo del lavoro dopo il 31.12.1995, nei cui confronti trovava già piena applicazione il sistema contributivo; anche per chi in tale data poteva vantare meno di diciotto anni di contributi il d.l. n. 201/2011 non modifica il calcolo delle prestazioni, che avviene utilizzando il sistema misto. L’equiparazione del trattamento pensionistico per tutti i lavoratori risponde alla finalità di perseguire l’equità del sistema. Le tipologie di prestazioni pensionistiche erogate sono essenzialmente la pensione di vecchiaia e la pensione anticipata. La l. Fornero infatti sopprime l’istituto della pensione di anzianità sostituendolo con quello della pensione anticipata, che permette di accedere all’assegno pensionistico facendo leva sul numero degli anni di contributi maturati, a prescindere dal requisito anagrafico.
Altre rilevanti novità della riforma riguardano l’abolizione delle cd. finestre mobili per chi accede in pensione con i requisiti introdotti dalla riforma stessa; l’innalzamento dell’età anagrafica prevista per il pensionamento di vecchiaia, che presuppone sempre il requisito contributivo minimo di vent’anni; l’equiparazione dei requisiti anagrafici per uomini e donne a decorrere dal 1.1.2018. Inoltre, sia il requisito anagrafico per il pensionamento di vecchiaia sia il numero di anni di contributi utile per la pensione anticipata sono progressivamente adeguati agli indici forniti dall’Istat sulla crescita delle aspettative di vita, e sono quindi soggetti a revisione ogni tre anni. La disciplina attualmente in vigore collega pertanto i requisiti per il pensionamento agli indici forniti dall’Istat sulla crescita delle aspettative di vita. Il d.m. 5.12.2017 ha già stabilito un aumento di cinque mesi a decorrere dal 2019, e da allora la frequenza con la quale viene effettuato il calcolo diventerà biennale prevedendosi un aumento massimo di tre mesi.
Altro elemento di innovazione previsto dal co. 4 dell’art. 24 riguarda incentivi alla prosecuzione dell’attività lavorativa sino ai settant’anni d’età prevedendo più alti coefficienti di trasformazione per il calcolo contributivo, che consentano di ottenere un assegno pensionistico maggiore. Inoltre, la riforma Fornero ha imposto il blocco degli adeguamenti per assegni superiori a tre volte il trattamento minimo nel biennio 2012-2013. La novità sulla perequazione è però stata oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 30.4.2015, che ne ha dichiarato l’illegittimità, dando il via ai rimborsi per la mancata indicizzazione. Per l’attuazione dei principi affermati dalla Consulta è stato emanato il d.l. 21.5.2015, n. 65 (cd. decreto Poletti) la cui legittimità è stata confermata da una nuova sentenza della Corte costituzionale recante la data del 25.10.2017, n. 250.
La pensione di vecchiaia è il trattamento pensionistico spettante al compimento di una determinata età anagrafica unitamente alla maturazione di un’anzianità contributiva minima di vent’anni. La l. Fornero ha inasprito considerevolmente i requisiti anagrafici per accedere alla pensione di vecchiaia ordinaria. Dal 1.1.2012 si richiedono sessantasei anni d’età per tutti i lavoratori pubblici e per i soli uomini del settore privato (dipendenti e autonomi). La riforma ha mantenuto il meccanismo di innalzamento automatico in considerazione delle future aspettative di vita che a partire dal 2016 ha comportato un incremento di complessivi sette mesi. Le lavoratrici del settore privato hanno assistito ad un graduale aumento dei requisiti anagrafici. A decorrere dal 1.1.2018 il requisito è unificato imponendosi sessantasei anni e sette mesi per tutte le categorie di lavoratori. Si prevede inoltre che, per coloro il cui trattamento pensionistico è calcolato esclusivamente col metodo di calcolo contributivo (cioè i lavoratori contribuenti a partire dal 1.1.1996), la pensione dovrà necessariamente avere un importo non inferiore al maggiore tra i seguenti valori:
- 1,5 volte l’assegno sociale vigente nel 2012, incrementato in base alla crescita del Pil negli anni successivi;
- 1,5 volte l’assegno sociale in vigore al momento del pensionamento.
La verifica del limite minimo appena citato non è prevista in caso di accesso alla prestazione a settant’anni di età (requisito incrementato di sette mesi per via dell’adeguamento alle speranze di vita), richiedendosi in tal caso solo 5 anni di contribuzione accreditata.
Nonostante il requisito contributivo minimo per la prestazione pensionistica di vecchiaia sia fissato in venti anni l’ordinamento contempla delle eccezioni, consentendo il pensionamento di vecchiaia con quindici anni di contributi in due ipotesi corrispondenti alla cd. Deroga Amato (d.lgs. 30.12.1993, n. 502), e all’Opzione contributiva Dini (l. n. 335/1995).
La Deroga Amato permette di raggiungere la pensione di vecchiaia con quindici anni di contributi purché gli anni di contribuzione versata siano ascrivibili al periodo antecedente la data del 31.12.1992; oppure in presenza di un’autorizzazione al versamento dei contributi volontari intervenuta entro la medesima data. Analoga eccezione opera in caso di contestuale possesso dei seguenti tre requisiti: quindici anni di contribuzione effettiva da lavoro dipendente; venticinque anni di anzianità contributiva (primo contributo versato almeno venticinque anni prima della data della pensione); almeno dieci anni lavorati in modo discontinuo, vale a dire dieci anni in cui figuri un periodo lavorato inferiore alle cinquantadue settimane. La circ. Inps, 1.2.2013, n. 16, ammettendo la perdurante validità della Deroga Amato, ha stabilito che i requisiti di età validi per la deroga siano quelli attinenti alla pensione di vecchiaia, così come determinati dalla l. Fornero.
La seconda eccezione per poter ottenere la pensione con 15 anni di contributi riguarda la cd. Opzione contributiva Dini di cui possono beneficiare soggetti in possesso di:
- quindici anni di contributi;
- non oltre diciotto anni di contributi alla data del 31.12.1995;
- almeno cinque anni di contributi versati dal 1996 in poi.
La riduzione del requisito contributivo rispetto ai vent’anni richiesti in via ordinaria comporta però il ricalcolo dell’assegno pensionistico secondo il metodo puramente contributivo. Per quanto concerne i requisiti anagrafici si applicano le disposizioni della l. Fornero inerenti la pensione di vecchiaia, in maniera corrispondente a quanto previsto dall’Inps circa la Deroga Amato.
La pensione anticipata – in vigore dal 1.1.2012 in sostituzione del precedente istituto della pensione di anzianità – è accessibile prima del raggiungimento dei requisiti necessari per la pensione di vecchiaia purché si sia maturata una anzianità contributiva di quarantadue anni e dieci mesi per gli uomini e quarantuno anni e dieci mesi per le donne. Anche gli anni contributivi necessari alla pensione anticipata sono soggetti all’adeguamento alle speranze di vita. La disciplina originaria prevedeva, inoltre, dei disincentivi in caso di richiesta della pensione anticipata prima dei sessantadue anni d’età anagrafica (riduzione dell’assegno pensionistico pari all’1 per cento per ogni anno di anticipo entro un massimo di due anni; la percentuale di penalizzazione si elevava al 2 per cento per gli anni ulteriori ai primi due) la cui applicazione è stata sospesa da interventi successivi e poi abolita dalla l. di bilancio per il 2017. Per i lavoratori di prima occupazione successiva al 1.1.1996 (caratterizzati dal sistema di calcolo contributivo puro) per accedere alla pensione anticipata è necessario avere un’età non inferiore a sessantatré anni (cui si aggiungono sette mesi per gli adeguamenti alle aspettative di vita frattanto intervenuti), oltre che vantare un’anzianità contributiva di almeno vent’anni. In tal caso il multiplo dell’assegno sociale per determinare il limite minimo di pensione passa da 1,5 a 2,8.
Per i lavoratori “precoci” in possesso di almeno dodici mesi di contribuzione all’età di 19 anni, addetti a mansioni usuranti, è previsto il pensionamento anticipato al raggiungimento del requisito contributivo di quarantuno anni (cd. “quota 41”).
Il cantiere normativo immediatamente successivo alla riforma delle pensioni Fornero è stato orientato ad individuare soluzioni correttive alle rigidità della normativa vigente che, come già visto, procrastina l’accesso alla pensione obbligatoria di base esponendo la popolazione lavorativa sempre più anziana ad elevati rischi occupazionali e pensionistici. In questo contesto merita rilievo l’istituto del cd. esodo incentivato, introdotto già dalla riforma Fornero del mercato del lavoro ex art. 4, l. 28.6.2012, n. 92, che tuttora consente, sulla base di accordi tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali in azienda (Rappresentanze sindacali aziendali), per i lavoratori cui manchino non più di quattro anni al pensionamento di vecchiaia, l’accesso anticipato al trattamento pensionistico.
Più di recente, la l. 11.12.2016 n. 232 (l. di bilancio per il 2017), nel solco tracciato dalle leggi di stabilità precedenti, ha previsto da un lato eccezionali uscite anticipate legate a particolari condizioni di disagio, dall’altro una generalizzata possibilità di prepensionamento per il tramite del ricorso ad un prestito “ponte”. Si tratta del cd. APE Volontario, una misura sperimentale prevista dal 1.5.2017 fino al 31.12.2018 (la l. di bilancio per il 2018 ha prorogato di un anno la fruibilità di tale misura) definita come un «anticipo finanziario a garanzia pensionistica», rispetto al quale l’Inps, con la circ. 13.2.2018, n. 28, ne ha illustrato le modalità operative. Esso consiste in un prestito erogato per dodici mensilità e assistito da una polizza obbligatoria che copre il rischio di premorienza. Possono servirsi di tale strumento di anticipo pensionistico finanziato soggetti non titolari di trattamenti pensionistici diretti, con almeno sessantatré anni di età, iscritti ad una delle gestioni Inps e a cui manchino non più di tre anni e sette mesi al pensionamento di vecchiaia. Si richiede anche il possesso del requisito contributivo minimo di vent’anni. Inoltre, l’importo della futura pensione, attesa al raggiungimento degli ordinari requisiti anagrafici di vecchiaia, non dovrà essere inferiore a 1,4 volte il trattamento minimo Inps al netto della rata di ammortamento corrispondente all’APE richiesta. Il prestito ottenuto è infatti restituito, a partire dal primo pagamento della futura pensione, in un periodo di vent’anni mediante una trattenuta che viene effettuata dall’Inps all’atto del pagamento di ciascun rateo pensionistico.
Una variante dell’anticipo finanziario appena descritto è l’APE Aziendale, rispetto al quale l’aggravio della rata della restituzione del prestito è compensato, in tutto o in parte, dal datore di lavoro (questa misura evoca in parte il già ricordato esodo incentivato di cui all’art. 4, l. n. 92/2012). L’APE Aziendale, infatti, prevede un accordo individuale fra lavoratore e azienda in virtù del quale quest’ultima si impegna a versare all’Inps, in un’unica soluzione entro la scadenza contributiva del mese di decorrenza dell’APE, una cifra pari almeno all’equivalente della contribuzione volontaria (nel 2016 fissata al 32,87 per cento della retribuzione imponibile delle ultime cinquantadue settimane) calcolata per tutta la durata dell’anticipo. In questo modo il montante contributivo del lavoratore sarà incrementato, così come di conseguenza l’importo della futura rata di pensione. Sono esclusi dalla richiesta dell’APE aziendale i lavoratori del pubblico impiego.
La medesima manovra ha introdotto una terza misura sperimentale corrispondente alla cd. APE Sociale con periodo di vigenza analogo a quello delle forme precedentemente descritte (sebbene per l’eventuale proroga al 2019 servirà un ulteriore intervento legislativo), da cui tuttavia differisce per il fatto di consistere in una prestazione (di natura mista, assistenziale e previdenziale) erogata direttamente dall’Inps a soggetti espressamente individuati dalla legge e considerati meritevoli di tutela che abbiano compiuto almeno sessantatré anni di età e che non siano già titolari di pensione diretta. È inoltre necessario possedere almeno trent’anni di anzianità contributiva (per i lavoratori che svolgono attività difficoltose o rischiose l’anzianità contributiva minima richiesta è di trentasei anni). L’anticipo in questione si rivolge ai lavoratori dipendenti pubblici e privati, agli autonomi (ma non ai liberi professionisti) e ai lavoratori iscritti alla gestione separata che si trovino in una delle seguenti condizioni:
a) disoccupati che abbiano finito integralmente di percepire, da almeno tre mesi, la prestazione per la disoccupazione loro spettante;
b) assistono, al momento della richiesta e da almeno sei mesi, il coniuge o un parente di primo grado convivente (genitore, figlio) con handicap grave;
c) sono invalidi civili con un grado di invalidità pari o superiore al 74 per cento;
d) svolgono da almeno sei anni in via continuativa attività rischiosa o difficoltosa tra le categorie espressamente individuate dalla legge di bilancio.
Fonti normative
Art. 38, co. 2, Cost.; art. 117, co. 2, lett. o), Cost; d.lgs. 30.12.1992, n. 503; l. 8.8.1995, n. 335; art. 24 d.l. 6.12.2011 n. 201; l. 22.12.2011, n. 214; art. 4 l. 28.6.2012, n. 92; l. 11.12.2016, n. 232.
Bibiliografia essenziale
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