prezzo
L’approccio macroeconomico
Dal punto di vista macroeconomico è rilevante conoscere soprattutto i movimenti correlati di ampi insiemi di prezzi. L’enfasi sul concetto di ‘movimenti correlati’, che avvengono cioè nella stessa direzione, si giustifica in quanto tali fenomeni sono importanti per le decisioni economiche aggregate di famiglie, imprese, governi, banche centrali. L’esempio più importante è quello dell’inflazione (➔ p), in particolare quella che riguarda i beni di consumo. Per i consumatori è essenziale conoscere non solo l’andamento dei prezzi relativi di singoli beni, ma anche quello del costo monetario aggregato del loro paniere di riferimento, che incide sul loro potere d’acquisito (➔ anche indicizzazione; scala mobile).
Allo scopo di misurare l’andamento nel valore di aggregati di beni e servizi sono state predisposte apposite tecniche statistiche, grazie alle quali si ottengono indici specifici. Un indice di prezzo è un indicatore sintetico per un aggregato di prodotti, di norma espresso su scala 100. Per cogliere il punto essenziale, si pensi a un insieme di n beni in quantità (q1,q2,…qn) e prezzi (p1,p2,…pn). Il loro valore monetario aggregato, quindi, è pari a (p1q1+p2q2+…+pnqn). L’indice ideale è P tale che P(q1+q2+…+qn)=(p1q1+p2q2+…+pnqn). L’anno t=0 in cui viene effettuata la rilevazione di (p10,p20,…pn0) e di (q10,q20,…qn0) si chiama anno base, e si assume convenzionalmente P0=100. In questo modo è possibile studiare l’andamento nel tempo di tale indice. Tra questi i due più importanti sono il deflatore del PIL (➔) e l’indice dei prezzi al consumo, anche noto come costo della vita. Nel primo caso le quantità di riferimento sono tutti i beni e servizi che entrano nella composizione del PIL, nel secondo viene costruito solo un paniere rappresentativo dei consumi finali delle famiglie. Dal confronto tra il costo della vita di un anno e quello dell’anno precedente si ricava quel che comunemente s’intende per tasso d’inflazione, ossia [(Pt/Pt−1)−1].
La conoscenza di tali indicatori svolge un ruolo importante nelle decisioni economiche aggregate. Si supponga che una famiglia nell’anno t riceva un reddito monetario di Ymt. Dati i prezzi (p1t,p2t,…pnt), essa può acquistare le quantità (q1t,q2t,…qnt), tali che (p1tq1t+p2tq2t+…+pntqnt)=Ymt. Utilizzando la nozione ideale data sopra, si può avere una misura diretta del potere d’acquisto o valore reale Yt del reddito della famiglia, in quanto Yt=Ymt/Pt=(q1t+q2t+…qnt). In generale, il valore reale di una grandezza monetaria si ottiene come rapporto tra essa e l’appropriato indice dei prezzi. Si supponga che la stessa famiglia, l’anno successivo, riceva un reddito monetario maggiore. Può dire di essere più ricca? Sin dalla Ricchezza delle nazioni (1776) di A. Smith, gli economisti hanno affermato il principio per cui la ricchezza non è data dalle disponibilità monetarie, ma dalla quantità di beni e servizi di cui gli individui possono disporre, ossia il valore reale delle disponibilità monetarie. Dunque, la famiglia di cui sopra può dirsi più benestante se nell’anno t+1 può comprare quantità maggiori dell’anno precedente (e non interessa la natura di tali beni e servizi, ma la loro quantità aggregata). Questa condizione può essere stabilita direttamente usando la precedente formula del valore reale: Ymt+1/Pt+1 deve essere superiore a Ymt/Pt. Ciò si realizza se l’aumento del reddito monetario è più alto dell’incremento dell’indice dei prezzi al consumo, cioè del tasso d’inflazione. Naturalmente può succedere anche l’opposto, per es. la famiglia riceve un reddito monetario costante, mentre l’indice dei prezzi al consumo cresce; in questo caso essa diviene più povera, potendo acquistare meno beni e servizi. ● La distinzione tra grandezze in valore monetario, o a prezzi correnti, e in valore reale, o a prezzi costanti, è utilizzata anche dagli istituti di statistica. Per molte variabili macroeconomiche (PIL, reddito nazionale ecc.) vengono prodotte entrambe le serie. Le considerazioni fatte per la singola famiglia si estendono a tutto il sistema economico: per es., si può dire che l’economia migliora se aumentano la produzione e la vendita dei beni e dei servizi (e non solo i loro prezzi), per cui il tasso di crescita dell’economia è dato dall’aumento del PIL a prezzi costanti.
I macroeconomisti hanno sempre dato molta importanza allo studio dell’andamento delle grandezze in valore monetario a fronte degli indici dei prezzi. Un filone di pensiero che risale fino alle origini dell’economia politica classica inglese ha elaborato una teoria (detta teoria quantitativa della moneta) che mette in relazione l’andamento delle due variabili. Si supponga che per decreto venga raddoppiata la quantità di moneta a disposizione di tutte le famiglie. Ciò non è sufficiente per dire che esse sono più ricche: lo sono, infatti, solo se possono acquistare più beni e servizi. Ma nell’insieme possono farlo se, nello stesso tempo, non si espande la produzione? Ovviamente no; se l’offerta di beni non sale a fronte della maggiore domanda, i prezzi devono aumentare e ciò viene registrato dall’indice dei prezzi. Quindi, se il sistema economico già opera al massimo della capacità produttiva, un incremento della disponibilità di moneta non può spingere verso l’alto la produzione, ma solo promuovere l’inflazione (neutralità della moneta, ➔ moneta, neutralità della). La questione continua a essere dibattuta e un aspetto cruciale del problema concerne il modo in cui reagiscono i prezzi. Alcuni autori, a partire da J.M. Keynes (The general theory of employment, interest and money, 1936), hanno osservato che la cosiddetta neutralità della moneta può non operare quando il sistema economico si trova lontano dal massimo della capacità produttiva, così che un’accresciuta disponibilità monetaria fa aumentare sia la domanda sia l’offerta (e non solo i prezzi, che anzi potrebbero rimanere invariati, cosiddetti ‘prezzi rigidi’). In seguito è stata posta ulteriore attenzione a situazioni in cui l’adattamento del valore d’acquisto delle merci all’incremento della domanda non è completo e immediato, ma procede lentamente e progressivamente nel corso del tempo (prezzi vischiosi). In tal caso, l’effetto iniziale è quello cosiddetto ‘keynesiano’, ampio sulle quantità e piccolo sui prezzi, ma via via riemerge quello ‘classico’, sicché nel lungo periodo ci si attende un ampio o completo aumento solo di questi ultimi.
Roberto Tamborini