I paesi del Medio Oriente sono caratterizzati da un profondo deficit democratico. Si tratta per la maggior parte di regimi autoritari, siano essi monarchie o repubbliche, contraddistinti da forti restrizioni delle libertà individuali e dei diritti politici. Fanno una parziale eccezione quelli che vengono considerati regimi ibridi, cioè quei paesi che presentano alcune caratteristiche dei sistemi democratici, pur mancando tuttavia di rule of law e accountability. In questa seconda categoria rientrerebbero il Libano, il Kuwait e l’Iraq. Proprio per queste caratteristiche i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa vengono inclusi nella classifica annuale di Freedom House tra gli stati non liberi o parzialmente liberi, nel caso di Kuwait, Libano, Marocco e Tunisia. Lo svolgimento di elezioni politiche e amministrative in alcuni di essi non è infatti sufficiente a caratterizzare un paese come democratico.
Per spiegare la mancanza di democrazia in questa parte del mondo sono state avanzate diverse argomentazioni, dagli ostacoli di carattere culturale – inconciliabilità dell’islam con i valori della democrazia occidentale – alla presenza delle più vaste riserve di petrolio conosciute (più del 60% delle riserve mondiali). Proprio gli elevati proventi ricavati dalle esportazioni di idrocarburi consentirebbero ai governi di mantenere un elevato sistema di welfare senza alcuna tassazione per i cittadini, assicurandosi in tal modo consenso e allo stesso tempo controllo politico e sociale. È questo in particolare il caso delle monarchie del Golfo, dove il grado di partecipazione dei cittadini alla vita politica è molto scarso. In questi paesi, con l’eccezione di Kuwait e Bahrain, non esistono infatti organi rappresentativi elettivi. Solo dal 2005, ad esempio, si svolgono in Arabia Saudita elezioni municipali parziali a suffragio maschile. Dopo lo scoppio della Primavera araba le monarchie del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, hanno varato ingenti pacchetti economici per mantenere la stabilità interna e reprimere ogni forma di dissenso e istanza di riforma.
L’autoritarismo dei regimi al potere, la longevità dei leader soprattutto nelle cosiddette ‘repubbliche personalistiche’, la mancanza di diritti politici e/o civili, l’elevato grado di corruzione, l’assenza o le forti restrizioni alla libertà di stampa e associazione sono tra le cause delle rivolte e delle proteste che dall’inizio del 2011 si sono verificate, seppur con modalità e intensità diverse, nella maggior parte dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, portando alla caduta di autocrati di lunga data in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen.
Malgrado le aspettative, la nascita di nuove democrazie nella regione è in là da venire. Si tratta infatti di processi di cambiamento di lungo periodo verso sistemi che assicurino una maggiore partecipazione politica. Le transizioni politiche si sono finora dimostrate complesse e difficili, sebbene ciò non riduca la portata delle trasformazioni innescate dalla primavera araba. In un contesto variegato e composito, l’elemento comune è rappresentato dalla vittoria delle forze islamiche, siano esse moderate o più conservatrici, nei paesi dove si sono svolte delle consultazioni elettorali – dalla Tunisia, all’Egitto, al Marocco. L’estraneità alla corruzione del gioco politico del periodo precedente e l’opposizione ai passati regimi contribuisce a spiegare l’emergere dei partiti islamici, sebbene essi non siano noti per un particolare attaccamento ai valori della democrazia e si discostino sotto diversi aspetti dai movimenti di piazza e dalle forze liberali e laiche che hanno costituito la spina dorsale delle rivolte. In particolare la progressiva diffusione del salafismo, espressione di un islam più conservatore e radicale, potrebbe incoraggiare un populismo di stampo religioso. Se in Tunisia il percorso di cambiamento appare nel complesso lineare sotto la guida del partito islamico moderato al-Nahdha, in Egitto si procede in maniera più oscillante, tra progressioni e battute d’arresto, e si assiste a una maggiore polarizzazione delle forze politiche. E ciò soprattutto dopo l’approvazione della nuova Costituzione, espressione dei Fratelli musulmani e non rappresentativa dell’intera compagine politica egiziana, che pone dubbi sul futuro orientamento del paese. Ancora più complessa è la situazione della Libia dove, diversamente da Egitto e Tunisia, occorre ricostruire da zero l’apparato statuale e amministrativo.
Nonostante un quadro eterogeneo, il principale elemento di novità che accomuna i paesi in transizione è rappresentato dall’emergere di una pluralità di forze politiche e di una società civile sempre più partecipe e consapevole dei propri diritti, che non esita a esprimere il proprio dissenso, anche in manifestazioni di piazza. Diversamente dal passato, i nuovi governanti di questi paesi devono rendere conto del loro operato ai propri cittadini.