Prime considerazioni sulla riforma del lavoro
Ad un anno dagli ultimi decreti legislativi approvati dal Governo Renzi in attuazione della l. 10.12.2014, n. 183, il contributo analizza gli effetti prodotti dalla riforma del lavoro (cd. Jobs act) e svolge le prime considerazioni. Otto sono i decreti legislativi adottati in attuazione della legge delega e molte sono le novità introdotte: dal contratto di lavoro a tutele crescenti alle collaborazioni etero organizzate; dalla riforma degli ammortizzatori sociali all’istituzione dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro.
L’opera ha dato conto ampiamente delle importanti novità normative introdotte nel corso del 2015 dal cd. Jobs act.
Il 2016 costituisce un anno di assestamento, come si vede dagli specifici contributi contenuti nel volume.
Il d.lgs. 24.9.2016, n. 185, correttivo dei decreti legislativi del 2015, che il governo ha approvato ha introdotto modifiche di adattamento del tutto circoscritte per rispondere ad esigenze specifiche emerse dall’esperienza applicativa.
Le controversie e le tensioni interpretative persistenti in dottrina hanno finora trovato scarso eco nelle decisioni dei giudici – peraltro poco numerose – finora intervenute in materia. E nonostante i non pochi dubbi di costituzionalità sollevati dalla stessa dottrina, non risulta ancora nessuna ordinanza di remissione alla Corte costituzionale.
Gli interventi normativi in via di approvazione, in primis quelli sul lavoro autonomo e agile, appaiono in continuità con le linee direttrici dei decreti approvati lo scorso anno attuativi della l. delega 10.12.2014, n. 183, come segnalato fin dalle prime indicazioni del governo.
In questo scritto vorrei svolgere qualche considerazione per dar conto dello stato di applicazione delle varie norme, utilizzando anche i primi dati del monitoraggio avviato dal Ministero del lavoro. Il periodo rilevato dal monitoraggio (dall’inizio del 2015 al giugno 2016) è troppo breve per permettere valutazioni definitive, ma è utile per verificare la maggiore o minore corrispondenza delle prassi attuative con le indicazioni del legislatore e per dare un primo giudizio circa l’impatto della riforma sul mercato del lavoro1.
Inoltre un apprezzamento documentato dell’impatto delle riforme è rilevante anche in sede di giudizio costituzionale, per decidere se le scelte del legislatore riflettono un bilanciamento costituzionalmente tollerabile (o corretto) secondo il criterio di proporzionalità fra gli interessi e i valori in gioco.
Secondo questo test le tendenze finora rilevabili possono fornire elementi utili per ridimensionare alcune critiche di incostituzionalità rivolte da parte della dottrina su punti centrali della riforma quali la liberalizzazione del contratto a termine, il sostegno al contratto a tempo indeterminato e la modifica dell’art. 18 st. lav.
In ogni bilancio di questo tipo va richiamato un caveat generale, cioè il fatto che la regolazione del lavoro ha un’incidenza limitata sulle dinamiche dell’economia e dell’occupazione, tanto più in un’epoca, come l’attuale, di alta instabilità e turbolenza economica. Gli economisti hanno discusso ampiamente di questi limiti; in particolare hanno rilevato l’incerta rilevanza delle norme protettive del lavoro (EPL) sull’andamento dell’occupazione, mentre hanno registrato una incidenza di queste norme sulla segmentazione del mercato del lavoro, cioè sul rapporto fra i lavori protetti dell’area centrale del mercato (i core workers) ben tutelati dalla legge e i lavori atipici o periferici, che sono sollecitati a crescere anche dalla minore rigidità della regolazione e dai minori costi.
Fra gli interventi del Jobs act sui rapporti di lavoro, due si segnalano per il loro significato di sistema. Il primo riguarda le modifiche introdotte nella disciplina del contratto di lavoro a termine e del contratto a tempo indeterminato, due contratti centrali nella configurazione del lavoro. Il secondo intervento ridefinisce i confini fra contratti di lavoro subordinato e collaborazioni.
Non si sono palesate controversie nell’interpretazione delle tendenze qualitative e quantitative dell’occupazione, in particolare dell’andamento dei due tipi di rapporti.
Pur scontando la non completa comparabilità dei dati provenienti dalle diverse fonti (Inps, Ministero del lavoro e Istat), alcune tendenze risultano chiare2. Questi dati indicano un consistente aumento dei contratti a tempo indeterminato nel corso del 2015 rispetto agli anni precedenti. Tale aumento è del 62% e addirittura del 76% per i giovani con meno di 30 anni. La quota degli avviamenti a tempo indeterminato sul totale delle attivazioni nel corso del 2015 è salita dal 9.4% al 17% fra gli under 25 e dal 15.8% al 24.3% nella classe di età 25/34 anni. Circa due terzi di questi contratti a tempo indeterminato rappresentano trasformazioni di contratti a termine
o di apprendistato. Il che corrisponde all’obiettivo del legislatore di favorire non solo l’assunzione ex novo di lavoratori a tempo indeterminato, ma anche la “stabilizzazione” di contratti temporanei.
È indubbio che l’agevolazione contributiva ha giocato un ruolo cruciale per modificare l’equilibrio fra i due tipi di contratto. Lo si vede dalle oscillazioni nel tempo delle assunzioni con contratti a tempo indeterminato. La metà del dicembre 2015, ultimo mese dell’esonero contributivo massimo, segna il picco delle assunzioni, dopodiché la tendenza si modifica. Il saldo annualizzato, cioè la differenza fra assunzioni e cessazioni, continua a essere positivo: a giugno 2016 è pari a 582.000. Ma la dinamica delle assunzioni segna un rallentamento dei contratti a tempo indeterminato (33,4% sul primo semestre del 2015). Il calo è da ricondurre al forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato registrato nel 2015, anno in cui tali contratti hanno beneficiato dell’abbattimento integrale dei contributi previdenziali a carico del datore per tre anni.
Le assunzioni a tempo indeterminato nel 1° semestre 2016 ammontano comunque a 650.637 e le trasformazioni di rapporti a termine a 150.556. Sono cresciute anche le assunzioni con contratto di apprendistato (113.000, + 14,4 sul 2015), il che sembra riflettere anche il fatto che questo contratto è tornato ad essere conveniente rispetto al contratto a tempo indeterminato, a seguito della riduzione degli incentivi a favore di questo.
Le tendenze finora rilevate, specie in tema di andamento dei contratti a termine e a tempo indeterminato sono destinate ad affrontare un test decisivo nei prossimi anni, a fronte della annunciata fine degli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato, oltre che in relazione alla debole e instabile crescita economica.
Si è potuto rilevare che l’aumento dei contratti a tempo indeterminato non è attribuibile solo alle agevolazioni fiscali, bensì risente anche della nuova normativa dell’art. 18 st. lav. che ha ridotto i rischi e i costi del licenziamento.
Tale conclusione deriva dal confronto fra l’andamento delle assunzioni con contratti a tempo indeterminato nelle imprese più grandi ove il Jobs act ha modificato il regime dei licenziamenti e quelle più piccole (sotto i 15 dipendenti), dove tale regime è restato sostanzialmente immutato. Si può verificare infatti che la crescita dei contratti a tempo indeterminato è stata più accentuata nel primo gruppo di imprese che nel secondo3.
Le cessazioni dei contratti di lavoro continuano a ridursi nel 1° semestre del 2016 (8,5%, sullo stesso periodo del 2015)4. Particolarmente significativo è il confronto fra i licenziamenti dei rapporti di lavoro attuati nell’anno precedente il 6.3.2015, regolati dal vecchio art. 18, e quelli decisi nell’anno successivo, all’entrata in vigore del Jobs act. Il confronto è significativo perché indica un modesto incremento nel numero massimo di licenziamenti nel secondo gruppo (+14.435), che peraltro non compensa la impennata delle attivazioni, con la conseguenza che l’incidenza dei licenziamenti nel primo anno di lavoro scende dall’8,7%, registrato con il vecchio regime, al 7.1%, riscontrato con la nuova normativa5.
Anche qui si tratta di prime indicazioni. Ma pur con le dovute cautele, i dati non sembrano avallare la preoccupazione da molti espressa che il superamento della reintegrazione prevista nel vecchio art. 18 st. lav. avrebbe comportato una impennata di licenziamenti.
Il dato è tanto più significativo perché l’eventuale licenziamento ingiustificato nel primo anno di lavoro comporta una sanzione indennitaria alquanto contenuta, in quanto la nuova regola dell’art. 18 st. lav. rapporta rigorosamente la sanzione all’anzianità di servizio. In effetti, la debolezza delle sanzioni indennitarie del nuovo art. 18 per i licenziamenti ingiustificati è ritenuto un aspetto alquanto discutibile, anche da chi non critica l’impianto riformatore generale, né il superamento della regola della reintegrazione.
La regolazione dei licenziamenti collettivi è cambiata solo per quanto riguarda la conseguenza della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, mentre il d.lgs. 4.3.2015, n. 22 e il d.lgs. 14.9.2015, n. 148 hanno profondamente cambiato la disciplina di contesto relativa agli ammortizzatori sociali.
In particolare la diminuzione della durata delle casse integrazioni, che risponde all’obiettivo di riequilibrare il rapporto fra politiche passive e politiche attive6, è destinata a influire sulla gestione delle vertenze relative alle ristrutturazioni aziendali, riducendo gli spazi per accordi collettivi sostenuti da interventi assistenziali della Cassa (anche) in assenza di prospettive concrete di ripresa dell’attività aziendale.
L’andamento dei contratti a termine fornisce ulteriori informazioni circa l’impatto delle riforme, peraltro bisognose di non poche specificazioni. All’approvazione del d.l. 20.3.2014, n. 34 ha fatto seguito una impennata delle assunzioni a termine, che a fine anno 2014 sono state pari a 232.000.
I dati del 2015 e della prima metà del 2016 registrano analogamente una crescita delle trasformazioni dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato (488.194 nel 2015). Confermano l’apprezzamento per il nuovo contratto a termine, ma per la prima volta gli occupati a tempo indeterminato nel 2015 crescono di più, tre volte tanto7.
Pur con la cautela segnalata all’inizio, è significativo che le tendenze rilevate segnalano un riequilibrio fra i due tipi di rapporti nel senso indicato dalla nuova normativa, cioè a sostegno della diffusione del contratto a tempo indeterminato; anche se il ricorso ai contratti a termine, reso più flessibile dalla normativa, resta consistente8.
Al riguardo si rileva criticamente da molti che il superamento delle causali non è controbilanciato dal tetto del 20% al numero massimo di contratti attivabili nella singola impresa né dal modesto incremento dei costi contributivi (1.5%) sugli impieghi a termine.
In realtà proprio le caratteristiche strutturali di questi contratti suggeriscono cautela nel giudicare l’efficacia delle diverse tecniche giuridiche di controllo e ne segnalano la debole incidenza, come testimonia la controversa storia delle causali e delle relative “leggine” riparatrici.
D’altra parte l’utilità della tecnica delle causali, per la sua residua capacità di controllare eventuali abusi, andrebbe valutata tenendo conto anche dei costi dell’implementazione, compresi quelli della gestione del contenzioso giudiziario.
Nel valutare l’efficacia complessiva della regolazione di questi contratti va rilevato che anche altri limiti previsti dalla normativa italiana ed europea si sono dimostrati alquanto deboli. Così è stato per il limite massimo (36 mesi) di durata del contratto che è stato sovente prolungato dalla contrattazione collettiva decentrata e nazionale.
Inoltre la stessa contrattazione ha più volte previsto la possibilità di alzare il tetto del 20% posto dal d.lgs. 15.6.2016, n. 81 alla quantità di lavoratori a termine impiegabili nella stessa azienda.
Un altro dato significativo emerso dalle prime rilevazioni è che, mentre il 2015 e la prima parte del 2016 hanno registrato una ripresa dell’occupazione dipendente (+321.000 occupati), – dato significativo tenendo conto dell’andamento debole dell’economia9 – i contratti di collaborazione hanno subito una consistente riduzione. I dati del 2015 indicano un calo di 203.351 contratti: stima probabilmente per eccesso del numero dei collaboratori interessati, dato che un singolo individuo può svolgere collaborazioni per più committenti. La variazione tendenziale delle collaborazioni risulta accelerata nella seconda metà dell’anno, ove si segnala una loro riduzione del 50,8% in concomitanza con la approvazione del d.lgs. n. 81/2015, che ridefinisce la nozione di collaborazione. Ma i dati più recenti indicano una rinnovata crescita dei rapporti di lavoro autonomo, (nel 2° trimestre 2016 +1.2%); a conferma che essi, depurati da forme improprie, sono destinati in prospettiva a svilupparsi.
L’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, tra le norme più discusse, ridefinisce il confine tra lavoro subordinato e collaborazioni, sostituendo al criterio della eterodirezione tradizionalmente usato per identificare la subordinazione di ieri all’art. 2094 c.c. il diverso criterio della etero organizzazione.
Sul significato di questo criterio10 esistono posizioni diverse che continuano ad affaticare la dottrina, mentre la giurisprudenza non ha ancora avuto modo di dare indicazioni significative. É prevedibile, ma andrebbe verificato con verifiche di dettaglio, che le convenienze economiche introdotte dal legislatore favoriscano l’attrazione nell’ambito del lavoro subordinato specie di quelle di collaborazione caratterizzate da forme di svolgimento e di organizzazione vicine a quelle tipiche della subordinazione.
Una evoluzione in tal senso sarebbe coerente con l’adozione del nuovo criterio della etero organizzazione al posto di quella tradizionale e ne rafforzerebbe la fragile tenuta qualificatoria.
In realtà l’allargamento dell’area della subordinazione è sollecitato dalle modifiche intervenute nei sistemi produttivi e nelle modalità del lavoro, già colte da parte della giurisprudenza. Le implicazioni future di questa scelta dipenderanno da come la nuova normativa influenzerà le decisioni dei giudici, e per altro verso dall’evoluzione delle modalità concrete del lavoro, specie nel confine mobile fra autonomia e organizzazione.
È indubbio peraltro che la nuova norma ha comportato uno spostamento dei confini fra lavoro subordinato e autonomo, con un ampliamento dell’ambito del lavoro subordinato a scapito di quello autonomo, e specificamente di quell’“area grigia” costituita dalla cd. parasubordinazione.
Il rilievo di questa ridefinizione dei confini dipenderà anche dalla disciplina ora in via di approvazione al Senato relativa al lavoro autonomo, cioè alla fattispecie confinante finora trascurata da un legislatore da sempre concentrato sul tipo (tuttora) principe del lavoro, quello subordinato.
I voucher sono aumentati a ritmi superiori al 65% annuo, giungendo nel 2015 a una cifra di oltre 115 milioni venduti, di cui oltre il 64% nel Nord Italia; con un allargamento della platea da 360.000 prestatori del 2012 a 1.380. 000 nel 2015, ma con un incasso medio per ogni lavoratore sostanzialmente stabile intorno a 470 euro annuo11.
Nel primo semestre 2016 la crescita nell’uso dei voucher è continuata, sia pure in misura meno intensa (69.9 milioni venduti, +40,1%, rispetto al primo semestre 2015).
Si tratta di una tendenza preoccupante che segnala un uso anomalo e non controllato dell’istituto. Tale preoccupazione ha motivato il governo a intervenire sull’art. 49 del d.lgs. n. 81/2015 col decreto correttivo d.lgs. n. 185/2016. Al fine di garantire la piena tracciabilità dei buoni il decreto prevede che la comunicazione preventiva debba essere effettuata dal datore di lavoro (imprenditore) almeno 60 minuti prima dell’inizio della prestazione mediante sms o posta elettronica, con la indicazione dei dati del lavoratore, del luogo e durata della prestazione.
Il monitoraggio dei prossimi mesi dovrà dare indicazioni sull’efficacia di questo obbligo di tracciabilità nel riportare l’uso dei voucher entro i limiti voluti dal legislatore. Se questi correttivi non fossero sufficienti crescerebbe la pressione per approvare modifiche normative dirette a circoscrivere la fruibilità dell’istituto a settori, soggetti e prestazioni definite, come era prima della l. 28.6.2012, n. 92.
La crescita di forme di lavoro marginali, come quelle pagate a voucher, è riscontrabile anche in altri paesi europei. Essa ripropone l’esigenza non solo di controllare che l’impiego dei voucher non sia fraudolento, ma di garantire ai lavoratori che li utilizzano trattamenti retributivi e previdenziali adeguati alle prestazioni svolte.
Non a caso l’ordinamento tedesco è intervenuto a più riprese nel regolare queste prestazioni, stabilendo trattamenti standard per vari tipi di “piccoli lavori” e introducendo una forma di salario minimo legale per rispondere in particolare, se non esclusivamente, all’urgenza di elevare il livello alquanto basso dei compensi per questi mini jobs.
La questione è stata finora elusa dal nostro ordinamento, nonostante la l. delega n. 183/2014 indicasse l’intenzione del governo di affrontarla. L’allargarsi di aree di lavoro marginale aggrava l’urgenza di un intervento legislativo sul salario minimo che garantisca quanto meno uno standard di reddito a questi tipi di lavori.
La norma del Jobs act di notevole importanza è il nuovo art. 2103 c.c. che amplia i poteri del datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore.
L’esigenza di fondo, colta dal legislatore sulla base della giurisprudenza, è quella di adattare le regole e gli spazi della mobilità anzitutto orizzontale, nonché l’idea stessa di professionalità, al mutato contesto produttivo.
L’allargamento degli spazi per la mobilità orizzontale dei lavoratori attuata dalla norma è rilevante non solo perché conferma e rafforza precedenti giurisprudenziali, peraltro non univoci, che avevano interpretato in modo flessibile il concetto di equivalenza delle mansioni, ma perché sposta il giudizio circa tale equivalenza dal giudice alla contrattazione collettiva, in particolare alle indicazioni di questa in ordine agli inquadramenti professionali. Lo fa in base alla convinzione che le parti sociali siano più adatte del giudice a tener conto dei contenuti professionali del lavoro nei diversi contesti produttivi.
Il nuovo art. 2103 c.c. offre così alla contrattazione collettiva un’occasione importante non solo (o non tanto) per risolvere singoli casi controversi di mobilità orizzontale (o anche di mobilità in pejus), quanto per rivedere i sistemi di inquadramento del personale12. Gli attuali contratti, spesso fermi da decenni, sono di solito molto minuziosi, statici e senza più riscontro nella realtà delle imprese.
Ritengo che per corrispondere alle esigenze di flessibilità raccolte dalla norma non sia tanto rilevante ampliare o restringere l’ambito delle categorie di inquadramento, mantenendole come limite statico alla modificabilità delle mansioni, quanto definire fra le parti percorsi per guidare la mobilità affinché si realizzi un giusto contemperamento fra esigenze aziendali e interessi dei lavoratori.
Un’ulteriore novità nella modifica dell’art. 2013 c.c. riguarda l’obbligo formativo previsto dalla norma in caso di mutamento delle mansioni come contrappeso all’ampliamento degli spazi di flessibilità. L’obbligo è comprensibilmente previsto come eventuale, cioè in quanto sia necessario a porre il dipendente nella condizione di adeguare la propria professionalità13. Ciò comporta in capo al datore di lavoro, che è il soggetto obbligato, doveri specifici di formazione, anche teorica, ma necessariamente calata nel concreto dei contenuti delle nuove mansioni.La norma non prevede sanzioni specifiche per l’inosservanza di tali doveri; ma questo non significa che la violazione dell’obbligo sia priva di conseguenze. Il mancato o non completo assolvimento di tale obbligo da parte del datore comporta la non imputabilità al lavoratore di eventuali prestazioni inadeguate e se del caso la legittimità per il dipendente di rifiutare lo svolgimento di attività non rispondenti alle sue capacità, cui non è stato professionalmente preparato14.
Resta in ogni caso possibile l’intervento del giudice e delle parti sociali, per verificare l’uso corretto della flessibilità funzionale per evitare abusi e discriminazioni. Un abuso di tale flessibilità può ad esempio riscontarsi nel caso in cui il lavoratore assegnato a nuove mansioni si trovi costretto all’inattività per il mancato assolvimento dell’obbligo formativo15.
L’art. 2013 c.c., così novellato, che riconosce al datore di lavoro la possibilità di spostare il lavoratore – unilateralmente o per accordo – anche a mansioni di livello inferiore, ha causato le maggiori preoccupazioni; preoccupazioni motivate dal rischio «di consegnare al datore uno strumento idoneo a svalutare la professionalità e con essa la dignità del lavoratore»16.
La norma apre delicati problemi interpretativi: in primis quello di distinguere uno spostamento che configura uno jus variandi in pejus in capo al datore di lavoro da una modifica concordata con il lavoratore non solo per salvare l’occupazione ma per l’interesse all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.
La previsione di questa seconda ipotesi è particolarmente innovativa, perché le parti sono libere di definire le mansioni e lo stesso trattamento corrispettivo, a condizione che l’accordo sia raggiunto «nelle sedi di cui all’art. 2113 cod. civ., o alle commissioni di certificazione di cui all’art. 76 del decreto 278/2003».
Altrettanto innovativa è l’indicazione secondo cui la professionalità posseduta dal lavoratore può essere scambiata non solo con il posto di lavoro, ma con beni diversi quali l’obiettivo di migliorare le proprie condizioni di vita e di acquisire nuove professionalità17. Tale allargamento delle possibilità alle scelte personali dei dipendenti corrisponde a esigenze emergenti specie dai nuovi lavori; per questo il legislatore abilita il contratto individuale – sia pure assistito – a prevedere modifiche anche radicali delle condizioni di lavoro e retributive.
Un altro aspetto cruciale della norma destinato a impegnare gli interpreti, riguarda le condizioni a cui le modifiche degli assetti organizzativi aziendali possono giustificare l’esercizio dello jus variandi in pejus. Si tratta di decidere se l’esercizio dello jus variandi sia giustificato ancora come extrema ratio, cioè quando sia l’unica alternativa al licenziamento per giustificato motivo, data l’assenza di posizioni di lavoro nel livello di inquadramento posseduto dal lavoratore, o sia ammissibile anche per esigenze organizzative non configurabili come possibili motivi di licenziamento.
La prima alternativa comporterebbe una sostanziale conferma dei precedenti orientamenti giurisprudenziali; la seconda realizzerebbe una loro correzione con una ulteriore dilatazione a favore del datore di lavoro dei compiti esigibili dal lavoratore, compensati solo dal mantenimento dell’inquadramento.
È ritenuta più plausibile l’ipotesi che la giurisprudenza riconfermi la propria tesi del demansionamento come extrema ratio, «anche considerando che la delega parla di un interesse del lavoratore alla professionalità»18.
La seconda parte delle riforme del lavoro riguarda la disciplina degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive. In Italia tale disciplina ha una storia, se possibile, ancora più tormentata di quella delle altre aree normative fin qui analizzate.
L’obiettivo perseguito dal Jobs act, che si pone, a distanza di vent’anni, in continuità con le proposte risalenti alla Commissione Onofri, è di introdurre in Italia, come in quasi tutti i paesi europei, un sistema di tutele del reddito in caso di inattività e di disoccupazione provvisto dei caratteri dell’universalità e accompagnato da una rete di servizi all’impiego e da politiche attive del lavoro.
La normativa dei vari decreti (d.lgs. nn. 22/2015, 148/2015, 150/2015) ha segnato indubbiamente passi in avanti su questa strada. Risulta comprovato dai dati che gli interventi riformatori, dalla l. n. 92/2012 ai d.lgs. nn. 22/2015 e 148/2015, hanno esteso l’ambito degli ammortizzatori, sia di quelli in costanza di rapporto sia di quelli a sostegno alla disoccupazione, a una platea sempre più vasta di lavoratori, compresi quelli delle PMI. La Nuova assicurazione sociale per l’impiego (Naspi) include ora la quasi totalità, il 97.2%, dei lavoratori a tempo indeterminato, con percentuali dell’89.4% per i lavoratori a tempo determinato, in passato largamente esclusi.Anche l’ambito di applicazione della cassa integrazioni guadagni (CIG) si è progressivamente esteso e ora lascia scoperta solo una quota stimata al 13%19.
L’estensione universale degli ammortizzatori ha dovuto peraltro fare i conti con il mutato scenario economico dei mercati del lavoro, alquanto più turbolento rispetto a quello degli anni ’90, e con la scarsità delle risorse finanziarie; elementi questi che hanno indotto anche paesi più solidi del nostro a ridimensionare durata e livello delle tutele del reddito.
Infatti anche in Italia all’ampiamento in senso universalistico dei soggetti beneficiari ha fatto riscontro una riduzione della durata della cassa integrazione guadagni straordinarie (CIGS) e una diminuzione progressiva del livello della indennità di disoccupazione. Gli istituti sono stati ricondotti entro i limiti della corrispettività fra contributi versati e tutele garantite, superando l’impianto assistenziale delle CIGS in deroga e della indennità di mobilità, invero del tutto anomalo nel quadro europeo.
In particolare il contenimento temporale delle CIGS ha permesso di liberare risorse per estendere l’indennità di disoccupazione a soggetti fino allora esclusi.
Il ridisegno del sistema delle tutele è accompagnato nel Jobs act da una accentuazione del ruolo delle politiche attive e da una revisione delle relative strutture di governo.
Questa è la scelta più innovativa e di maggiore rilevanza sistematica del ciclo di riforma. Essa ha riorientato l’asse degli interventi pubblici, rimodulando le garanzie all’interno del rapporto di lavoro e rafforzando sia i sostegni al reddito sia gli strumenti di attivazione per i lavoratori esposti a rischi di crisi e in condizione di disoccupazione.
Questa linea di policy si pone effettivamente in discontinuità con la nostra tradizione, così da rappresentare – come si dice – un cambio di paradigma.
La necessità di modificare l’assetto del diritto del lavoro del Novecento in tale direzione è stata da tempo acquisita in altri paesi europei come risposta delle grandi trasformazioni dei sistemi produttivi e del lavoro che si sono profilate all’orizzonte già sul finire del secolo20.
Gli anni di ritardo hanno condizionato la portata della nostra riforma.
L’impianto strutturale dei centri pubblici per l’impiego (CPI) è rimasto sostanzialmente immutato negli anni21. I dati relativi al personale operativo non sono neanche lontanamente paragonabile a quello dei paesi vicini, che hanno impiegato consistenti risorse umane e finanziarie, incrementate spesso negli anni della crisi, per sostenere i lavoratori disoccupati. Per di più questo personale è distribuito in modo diseguale sul territorio nazionale, con una maggiore concentrazione nelle regioni del Sud.
A tale debolezza delle politiche attive hanno fatto riscontro non poche anomalie del sistema delle tutele cd. passive.
Le difficoltà di correggere queste anomalie da parte dei vari legislatori sono testimoniate dal prolungarsi di istituti anomali come le casse in deroga e la mobilità, nonché per altro verso, dai reiterati e non ancora esauriti interventi sui cd. lavoratori esodati.
Le situazioni di molte crisi aziendali, che persistono oltre i limiti di durata delle casse integrazioni, costituiscono un test della capacità della nuova normativa di resistere alla richiesta di proroghe: una resistenza in passato largamente sconfitta.
La pressione della crisi sugli ammortizzatori sociali ha provocato risposte diverse. La circolare del Ministro del lavoro 26.7.2016, n. 24 prevede la possibilità di autorizzare la CIGS a favore di aziende sottoposte a fallimento o a concordato con continuità aziendale. Si sono rilanciate misure di sostegno nelle cd. aree di crisi complessa (interventi per la reindustrializzazione e ammortizzatori sociali) previste dai cd. decreto crescita del 2012, specificate dal d.m. 9.6.2015, e ora riprese dal d.lgs. n. 185/2016.
Da ultimo il recente documento sulle politiche del lavoro (1.9.2016) elaborato da Confindustria, CGIL, CISL e UIL avanza una serie di proposte generali per affrontare la gestione delle crisi occupazionali.
Le parti sociali ribadiscono la necessità di potenziare strumenti di politiche attive per la ricollocazione dei lavoratori anche appoggiata sui fondi bilaterali. Nel contempo chiedono al governo la possibilità di prolungare, in misura variabile di 12 e 24 mesi, il limite massimo di fruizione della cassa straordinaria per le imprese interessate da programmi di riorganizzazione e di crisi. Mentre la sollecitazione al governo di rafforzare le misure di politica attiva è opportuna, la richiesta di una ulteriore estensione della cassa integrazione rischia di riaprire un uso assistenzialistico di questo ammortizzatore in contrasto con la normativa del Jobs act diretta a contrastarlo.
In passato l’aver ceduto a tale richiesta ha vanificato per anni il tentativo di riformare il sistema attuato con la l. 23.7.1991, n. 223.
L’intervento del Jobs act sui servizi all’impiego e sulle politiche attive ha l’ambizione di ridefinire in modo organico l’assetto del sistema, raccogliendo le istanze di modifica e mirando a superare le contraddizioni accumulatesi nel tempo22.
I d.lgs. nn. 148 e 150 del 2015 intervengono a precisare diversi aspetti del sistema, riprendendo tratti di normative precedenti e ispirandosi alle migliori pratiche europee. Delle esperienze più avanzate si colgono due tratti centrali: a) l’intervento combinato di strutture pubbliche, con ruoli di garanzia dei servizi essenziali, e di operatori privati, abilitati a servizi di qualità; b) la previsione di percorsi di accompagnamento dei soggetti chiamati ad attivarsi nella ricerca di impiego.
La novità principale del d.lgs. è la istituzione dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) a cui viene assegnato un ruolo centrale nella governance del sistema, con il compito di guidare l’intero sistema di politiche del lavoro e la stessa gestione degli istituti principali.
Al di là dei giudizi sulla qualità normativa del nuovo assetto, alcuni presupposti per un suo efficace funzionamento si confermano fragili.
A monte l’opera di razionalizzazione è resa incerta dalla presenza di competenze regolatorie e gestionali in capo alle Regioni, concorrenti con i poteri statali. Un tale assetto di competenze diviso tra Stato e Regioni, impedisce di configurare l’Anpal, secondo quanto avviene in altri paesi europei, come un centro decisionale e gestionale unitario delle politiche del lavoro, sia pure con articolazioni amministrative sul territorio.
La sfasatura di competenze ostacola inoltre una piena integrazione fra i servizi all’impiego, svolti dalle strutture decentrate tuttora controllate dalle Regioni, e le decisioni riservate all’Inps circa la erogazione dei sussidi di disoccupazione, compresa la possibilità di sospenderla o terminarla ogniqualvolta i beneficiari dei sussidi non si attivino nella ricerca di impiego o nella formazione.
Questa divisione di ruoli rende difficile l’effettiva implementazione della cd. condizionalità delle prestazioni erogate dagli ammortizzatori alla attivazione dei soggetti beneficiari e contribuisce a indebolire l’obiettivo del Jobs act di prevedere un sistema di tutele attive. Cosicché questa parte della nuova normativa continua a essere l’anello debole delle riforme del mercato del lavoro.
Per supplire a tale mancanza si è cercato di governare in via convenzionale il sistema (a partire dal 2009 fino ad oggi) con il metodo degli accordi o convenzioni tra Stato e Regioni, cui hanno fatto seguito intese dirette fra autorità statali (Ministero del lavoro ed ora Anpal) con le singole Regioni e tra Regioni e parti sociali. Senonché, come si è rilevato da molti23, questi pur apprezzabili tentativi non sono stati sufficienti a dare indirizzi univoci alle politiche del lavoro, specie a fronte di Regioni storicamente renitenti a seguire le linee guida statali.
Nonostante le carenze storiche del nostro sistema non mancano nelle esperienze passate dei servizi all’impiego casi di buone pratiche che possono essere utili a costruire nel futuro, come testimoniano le meritorie ancorché episodiche ricerche sul tema.
Un istituto di politica attiva potenzialmente molto rilevante è l’assegno individuale di ricollocazione. Secondo la disciplina dell’art. 17, d.lgs. n. 22/2015 e dell’art. 23 del d.lgs. n. 150/2015, l’assegno si configura come strumento organizzativo generalizzato di sostegno al lavoratore disoccupato nella ricerca di nuove occasioni di lavoro.
In questo caso l’integrazione fra interventi di sostegno al reddito e forme di attivazione non è di portata generale, perché vi osta la divisione delle competenze fra Stato e Regioni, ma si realizza specificamente nel funzionamento dell’assegno. Infatti, il sostegno economico a disposizione del lavoratore è condizionato in misura prevalente ai risultati delle politiche attive messe in atto dall’operatore pubblico o privato che prende in carico il disoccupato24. Cosicché questi operatori sono incentivati ad attivarsi per conseguire il compenso previsto per il servizio ai disoccupati.
Nel d.lgs. n. 150/2015 l’assegno costituisce anche il principale veicolo per il coinvolgimento di attori privati e pubblici nella pratica di politiche attive.
L’entrata a regime della riforma è destinata a costituire un test decisivo non solo per questo istituto ma per l’intero funzionamento dei servizi all’impiego, perché a quel punto tutti i disoccupati di più di quattro mesi e percettori di Naspi potranno richiedere l’assegno individuale di ricollocazione al CPI presso cui hanno stipulato il patto di servizio e utilizzarlo presso gli stessi oppure presso altri soggetti pubblici e privati accreditati dalle Regioni o dall’Anpal a livello nazionale. Molto dipenderà dalla capacità di accoglienza e di servizio che questi vari soggetti sapranno dimostrare nei confronti dei lavoratori disoccupati.
Esperienze come quella trentina mostrano che la offerta di presa in carico per la ricollocazione è stata accolta con favore dagli interessati, ottenendo alte percentuali di riposta e ha costituito un veicolo per aumentare la capacità di servizio generale dei CPI.
Analoghe risposte incoraggianti vengono dal bando della Regione Lazio indirizzato ai disoccupati da 12 mesi, che ha provocato iscrizioni di oltre 12.000 disoccupati a fronte di soli 2000 posti disponibili25.
Il capitolo delle riforme del lavoro relativo ai rapporti sindacali e alla contrattazione collettiva ha un posto importante nei disegni del governo, ma è stato finora riempito solo in parte.
I due provvedimenti fin qui approvati sono di portata diversa, ma orientati in direzioni simili: l’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015 sui rinvii legislativi alla contrattazione collettiva e l’articolo della legge di stabilità (art. 1 co. 182190, l. 28.12.2015, n. 208) sulla contrattazione relativa ai premi di produttività e al welfare aziendale.
La prima norma è importante perché interviene in una materia come i rapporti fra contrattazione e legge alquanto contrastata, come testimoniano le controversie non sopite relative all’art. 8 della l. 14.9.2011, n. 148.
Come ho già illustrato altrove26 l’art. 51 è importante, non solo perché conferma con l’autorevolezza del legislatore il precedente orientamento giurisprudenziale che aveva riconosciuto al contratto aziendale la stessa natura giuridica e la stessa efficacia del contratto nazionale, ma perché lo fa in un contesto diverso da quello in cui si è formata la precedente giurisprudenza. Questa si riferiva a una contrattazione aziendale migliorativa delle condizioni fissate in sede nazionale, talché le sentenze di allora (peraltro non numerose) erano passate quasi inosservate. Il principio dell’equivalenza dei livelli contrattuali ha oggi una portata qualitativamente diversa e non a caso controversa, a fronte della diffusione degli accordi aziendali derogatori in pejus.
L’art. 51 non attribuisce, a differenza dell’art. 8 della l. n. 148/2011, competenza esclusiva e prioritaria alla contrattazione decentrata. Ma non è neppure neutrale. La tradizionale gerarchia delle fonti contrattuali è alterata non solo quando si privilegia il contratto decentrato ma anche quando, come nell’art. 51, il rinvio è indifferenziato ai vari livelli; proprio perché in assenza di vincoli legislativi ogni livello è competente a negoziare le condizioni di lavoro con piena efficacia esterna (verso terzi).
Il segnale proveniente dal legislatore con l’art. 51 è dunque chiaro: esso contribuisce a rendere meno rigida l’attuale struttura contrattuale centralistica, affidando alle parti il compito di gestire le modalità del decentramento.
Il secondo intervento legislativo in materia di contrattazione contenuto nella l. di stabilità 2016 (l. n. 208/2015, art. 1, co 182190) ha in comune con il primo l’obiettivo di favorire lo sviluppo della contrattazione decentrata. Il legislatore concentra la propria attenzione su due oggetti di particolare importanza per favorire i contenuti di tale contrattazione: i premi di produttività e il welfare aziendale27.
Il sostegno della contrattazione decentrata è anche qui sia normativo, consistente nel riconoscimento di pari statuto giuridico con la contrattazione nazionale, sia economico, tramite gli incentivi fiscali agli accordi sui premi di produttività e sul welfare aziendale.
L’analisi qui svolta sull’implementazione dei vari istituti riformati in questi anni permette qualche considerazione di sintesi, ancorché di prima approssimazione.
Valutazioni complessive sugli esiti della riforma saranno possibili quando i vari interventi normativi avranno avuto applicazione per un tempo adeguato e si potranno analizzare sulla base di dati più completi.
Così è avvenuto in altri paesi, in primis per le leggi tedesche cd. Hartz, la cui applicazione è stata oggetto di analisi giuridiche e di ricerche empiriche durate vari anni ad opera non solo delle istituzioni pubbliche ma dei maggiori centri di ricerca di quel paese.
Le tendenze finora rilevabili forniscono sostegno a giudizi sul funzionamento della riforma più equilibrati di quelli avanzati da una parte della nostra dottrina.
Il cambiamento più significativo della riforma per l’assetto della nostra disciplina è quello di avere spostato l’attenzione dalle tutele tradizionali del diritto del lavoro incentrate sul rapporto individuale di lavoro alle protezioni e ai servizi e politiche attive del lavoro.
Tale nuova impostazione è ricca di incognite, come hanno sperimentato anche paesi che l’hanno adottata prima di noi, perché, come si è detto, la “sicurezza dinamica” affidata alle politiche attive del lavoro è più difficile e rischiosa di quella statica, appoggiata sulle tutele del posto di lavoro28. Essa implica non una rinuncia al ruolo regolatorio del diritto del lavoro, bensì la modifica dei suoi contenuti e delle sue tecniche, resa necessaria per adeguare la regolazione al mutato contesto dell’economia globale e dei mercati del lavoro.
La direzione di marcia segnata dal Jobs act è chiara su due punti fondamentali: nella disciplina dei rapporti di lavoro il riequilibrio fra contratti a termine e contratti a tempo indeterminato; nella ridefinizione dei confini fra lavoro subordinato e collaborazioni autonome; nella regolazione del mercato del lavoro la estensione in senso universalistico degli ammortizzatori sociali e nella previsione di strumenti innovativi per i servizi e per le politiche attive del lavoro.
Nell’applicazione delle diverse normative di riforma permangono ritardi e debolezze e continua la necessità di implementare le politiche di attivazione al lavoro nelle attività organizzattive e gestionali di attuazione.
La necessità di potenziare tutte le politiche dello sviluppo è particolarmente forte in Italia, perché la prolungata debolezza della crescita e delle politiche attive sta aumentando la pressione sul sistema degli ammortizzatori appena riformato, ma ancora esposto al rischio di ricadere nelle tentazioni assistenzialistiche del passato.
Per questo la sollecita attuazione del programma delineato dalla recente normativa costituisce un test importante non solo per reggere il nuovo equilibrio fra politiche attive e passive del lavoro ma anche per validare le innovazioni di sistema del Jobs act.
Più positivo – anche se tuttora sub judice – è il bilancio dell’altra parte della riforma, quella riguardante la nuova disciplina dei rapporti di lavoro.
Stando ai primi dati del monitoraggio le scelte del legislatore sembrano trovare un significativo riscontro nella prassi applicativa.
La promozione economica e normativa dei contratti a tempo indeterminato si è dimostrata efficace, anche se in dimensioni contenute a causa della debolezza della nostra crescita economica e occupazionale. I contratti a termine non sono “cannibalizzati” da quelli a tempo indeterminato; né d’altra parte sono esplosi per la abolizione delle causali, come prospettavano alcuni critici della riforma.
Anche la scelta del legislatore di ridefinire i confini fra lavoro subordinato e lavoro autonomo o parasubordinato sembra trovare conferma dai primi dati.
La parte della riforma relativa alle relazioni industriali, pur incompiuta, contiene indicazioni significative a favore del decentramento della contrattazione collettiva.
La indicazione è coerente con la scelta di policy del Jobs act di contribuire alla flessibilità complessiva dei rapporti individuali e collettivi di lavoro. Sostenere gli accordi decentrati significa puntare sul livello della contrattazione a più diretto contatto con l’organizzazione del lavoro e con le realtà produttive, e più in grado di influire su di esse.
Gli incentivi previsti per premi di produttività e welfare aziendale possono agevolare lo sviluppo di una contrattazione utile a entrambe le parti. Più incerti sono gli andamenti e gli esiti della contrattazione decentrata nella gestione delle varie forme di flessibilità; anche perché il legislatore ha ampliato gli ambiti di discrezionalità delle imprese riducendo i limiti preesistenti senza porre specifici contrappesi.
Con tutto ciò le modalità di uso delle flessibilità dipendono ancora dalle strategie delle parti: in primis dalla capacità dei sindacati di negoziare contenuti innovativi anche su istituti tradizionali come la classificazione del personale, dalla volontà delle parti di coinvolgere i diversi gruppi di lavoratori presenti nelle aziende, nonché dalla valorizzazione più convinta che in passato delle forme di partecipazione incentivate dallo stesso legislatore.
Da parte sua il legislatore dei prossimi mesi ha davanti opzioni di policy rilevanti. Per non lasciare ‘sola’ la contrattazione decentrata difronte al difficile compito di gestire la flessibilità in modo sostenibile, servono interventi diretti a sostenerla in questo compito.
La legge può intervenire utilmente in vario modo. Anzitutto può stabilire le regole fondamentali sulla rappresentatività sindacale, compresa quella degli imprenditori, e sulla efficacia della contrattazione, specie aziendale. Un intervento legislativo che rafforzasse, senza snaturarle, le norme di autoregolazione concordate dalle maggiori confederazioni, contribuirebbe ad aumentare la autorevolezza delle parti e la stabilità del sistema contrattuale.
Su questi temi, che possono prefigurare una nuova legislazione di sostegno, è chiamato a pronunciarsi il nostro legislatore.
Le misure previste dal Jobs act non solo modificano tratti importanti della normativa del lavoro ma incidono in profondità nelle dinamiche sociali e dell’occupazione. Per ciò stesso il loro impatto andrà verificato nel tempo e dipenderà dall’andamento delle principali variabili economiche, in primis dall’intensità e dalla qualità della crescita, oltre che dal seguito applicativo che avranno le singole misure.
Per apprezzare con cognizione di causa l’incidenza effettiva della riforma è importante non solo che si continui a usare il sistema di monitoraggio appena avviato, ma che questo si accompagni con strumenti di analisi e valutazione più complessi e protratti nel tempo. Una tale strumentazione è essenziale per affrontare con consapevolezza i difficili test applicativi cui la riforma sarà sottoposta negli anni a venire e per migliorare il funzionamento delle varie misure anche con opportune correzioni.
Infine non va dimenticato che l’efficacia di queste misure – come sempre per le riforme di sistema – sarà legata non solo alle vicende economiche e sociali del paese, ma alla qualità e stabilità delle istituzioni e alla coerenza delle loro iniziative riformatrici.
Note
1 In questo caso l’analisi dei dati è resa più difficile dalla diversa impostazione delle varie fonti rilevanti: Inps, Ministero del lavoro e Istat; vedi una spiegazione delle divergenze fra tali fonti in Dell’Aringa, C.Barbini, M.De Novellis, F., Il 2015 del mercato del lavoro italiano, in I contratti di lavoro, Magnani, M.Pandolfo, A. Varesi, P.A, a cura di, Torino, 2016, 333 ss.
2 Cfr. Ministero del lavoro, Monitoraggio e valutazione delle riforme del mercato del lavoro, in Quaderni di monitoraggio, n. 1/2016, consultabile su www.lavoro.gov.it, ove anche raffronti fra le diverse parti, e la Relazione annuale del presidente Inps 2016, con gli allegati, in www.inps.it.
3 Relazione Annuale del presidente Inps 2016, cit., 11; Leonardi, M., Recenti tendenze del mercato del lavoro, in Guida pratica ai servizi al lavoro, Treu, T., a cura di, 2016, 89 ss.; Monitoraggio del Ministero del lavoro, cit., 6.4, tab. 1618, fig. 10, anche per raffronto tra le tre serie di dati. Dell’Aringa, C.Barbini, M.De Novellis, F., op. cit., 333.
4 Monitoraggio, Ministero del lavoro, cit., n. 6.4, tab. 1618; nella Relazione del presidente Inps, 2016, presentata al Parlamento il 7.7.2016, si rileva (9 ss.) che il calo del 12% è maggiore di quanto ci si sarebbe potuto aspettare per il (debole) miglioramento della congiuntura; nel 2010 erano diminuiti del 3% sul 2009 nonostante la ripresa di quell’anno fosse stata più accentuata. Sull’impatto relativo dell’incentivo normativo e di quello economico v. Dell’Aringa, C., Il Jobs Act: principi ispiratori, contenuti e primi effetti, di prossima pubblicazione, in Scritti in memoria di F. Neri; Sestito, P.Viviano, E., Hiring incentives and/or firing cost reduction? Evaluating the impact of the 2015 policies on the italian labour market, Banca d’Italia, Occasional Paper n. 325, Roma, 2016.
5 L’aumento dei licenziamenti segnalati negli ultimi mesi si spiega con la nuova norma dell’art. 26 del d.lgs. 14.9.2015, n. 151 secondo cui le dimissioni devono essere fatte esclusivamente con modalità telematiche. Di conseguenza le dimissioni comunicate informalmente o per fatti concludenti (abbandono del lavoro) non sono più considerate come tali, a differenza del passato; per terminare il rapporto è necessario formalizzare un licenziamento.
6 Treu, T., Gli elementi di continuità nelle riforme del lavoro fino al Jobs Act, in Il Diario del lavoro, 2015, 247 ss.
7 Leonardi, M., Recenti tendenze, cit., 90 ss.; Ministero del lavoro, Monitoraggio, tab. 10 e 11.
8 Si tratta di una «proficua competizione-divisione di ruoli fra questi due tipi di contratti», Carinci, F., A proposito del Jobs Act, in Argomenti dir. lav., 2015, 1109 ss.
9 Ministero del lavoro, Monitoraggio, cit.
10 Treu, T., In tema di Jobs Act, Il riordino dei tipi contrattuali, in Giorn. dir. rel. ind., 2015, 163 ss.; Id, Tipologie contrattuali all’area del lavoro autonomo, in Libro dell’anno del Diritto 2016, Roma, 2016, 340; Perulli, A., Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 235/2014; Magnani, M., Autonomia , subordinazione coordinazione, in I contratti di lavoro, cit., 1 ss.; Del Conte, M., Promesse e prospettive del Jobs Act, in Dir. rel. ind., 2015, 939 ss. Infine, v. anche in Riv. dir. lav., 2016, 1, rispettivamente 91 ss.; 65 ss.; 37 ss. i contributi di Santoro Passarelli, G., Pellini, M., Tria, L.
11 Ministero del lavoro, Monitoraggio, spec. tabella 25.
12 Liso, F., Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel d.lgs. 81/2015 e sua alcuni recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 257/2015, 8, l’autore sottolinea che il compito così affidato alla contrattazione collettiva viene agevolato dalla assenza della garanzia retributiva che nel vecchio 2013 era prevista nel caso di spostamento a mansioni equivalenti. In senso contrario, Visionà, S., Breve cronistoria dell’intervento del Jobs Act in materia di pensioni e considerazioni sulla nuova mobilità, in La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, Piccinini, T-Pelaggi, A.-Sordi, P., a cura di, Juridica ed., 2016, 51 ss.
13 Cfr. fra i precedenti giurisprudenziali Cass., 14.4.2011, n. 8527.
14 Cfr. De Angelis, L., Note sulla nuova disciplina delle mansioni e dei suoi (difficilissimi) rapporti con la delega, in WP
C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 263/2015; Buconi, M.L., L’obbligo formativo, in La nuova disciplina delle mansioni, cit., 96 ss.
15 Così Visionà, S., Breve cronistoria, cit., 56, che menziona anche l’ipotesi in cui le nuove mansioni abbiano contenuti talmente diversi dalle precedenti da non poter essere svolte adeguatamente neppure attraverso la formazione (un cenno in questo senso anche in Cass., 10.5.2016, n. 9467). Tal caso limite, se non inesistente, perché una formazione ben finalizzata è in grado di modificare anche di molto le competenze professionali del lavoratore, come confermano non poche esperienze di riconversione professionale; Perina, L., La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in Tutela della professionalità nel nuovo art. 2103 del codice civile, in La nuova disciplina delle mansioni, cit. 88 ss.
16 Così Visonà, S., Breve cronistoria, cit., 52.
17 Tursi, A.Varesi, P.A., Istituzioni di diritto del lavoro, Padova, 2016, 353. Analoga valutazione della volontà del lavoratore si riscontra nella norma per cui il prestatore pur tenuto a svolgere temporaneamente le mansioni superiori affidategli, può opporsi all’assegnazione definitiva, col diritto a ritornare alle mansioni del livello di provenienza.
18 Liso, F., Brevi osservazioni, cit., 12.
19 v. i dati Inps in XV Rapporto Annuale, luglio 2016, 55, in www.inps.it.
20 Cfr. Treu, T., Riequilibrio delle tutele e flexsecurity, in Magnani, M.Tiraboschi, M., a cura di, La nuova riforma del lavoro, Milano, 2012, 72 ss.; Ravelli, F., Jobs Act e trattamento di disoccupazione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2015, 497 ss.
21 Dati Isfol: 500 CPI con 8.900 operatori in www.isfol.it.
22 Cfr. per tutti Del Conte, M., La filosofia del nuovo sistema dei servizi per l’impiego e le sue radici sul territorio, in Varesi, P.A.Bresciani, D., a cura, Il racconto di trent’anni di politiche attive del lavoro nel nostro paese, in corso di stampa.
23 Da ultimo Varesi, P.A., I livelli essenziali dei servizi per l’impiego e la sfida della Garanzia Giovani, in Dir. rel. ind., I, 2014, 186 ss.
24 Anche il nostro sistema ha previsto una condizionalità non “meccanica”, basata prevalentemente su limiti e sanzioni, ma sostenuta da istituti di promozione e affidata alla responsabilità delle parti: una condizionalità definita soft da Caruso, B.Cuttone, M., Verso il diritto del lavoro della responsabilità: il contratto di ricollocazione fra Europa, Stato e Regioni, cit.
25 Valente, L., Tre domande e quattro risposte sul governo del mercato del lavoro, in Lav. dir., 2016, 222 ss.
26 Cfr. diffusamente Treu, T., I rinvii alla contrattazione collettiva, in I contratti di lavoro, cit., 243 ss.
27 Cfr. In generale in V. in questo volume, Diritto del lavoro, 2.2.1 Premi di risultato e legge di stabilità 2016; Treu, T., a cura, Welfare aziendale 2.0, Milano, 2016.
28 L’espressione è di Hansenne, M., Labour flexibility: the quest for competitiveness versus the need for social protection, in Reconciling labour flexibility with social cohesion: ideas for political action, Council of Europe publ., Strasbourg, 2006, 27 ss.