LEVI, Primo
Nacque a Ferrara il 25 giugno 1853 da Bonajuto, commerciante di vestiti, e da Rosa Castelfranchi. L'origine israelitica, da lui subordinata all'integrazione nell'identità nazionale italiana, non lo condizionò mai più di tanto, né sul piano religioso né su quello dell'appartenenza; allo stesso modo, la provenienza ferrarese fu subito quasi cancellata dalla scelta di stabilirsi, sedicenne, a Milano, attrattovi da quel fervore e vivacità di vita che, attraverso le sue avanguardie intellettuali, meglio gli pareva esprimere, nei campi della letteratura e dell'arte, la vitalità dell'Italia appena unificata ("milanese di Ferrara", si sarebbe autodefinito con risonanza stendhaliana). Lo prese con sé C. Arrighi, che gli affidò la critica d'arte della Cronaca grigia e nello stesso tempo lo introdusse negli ambienti della scapigliatura lombarda permettendogli di legarsi di profonda amicizia a L. Perelli e di conoscere lo scrittore G. Rovani, il pittore T. Cremona e, più tardi, C.A. Pisani Dossi.
Nacque così un vero e proprio cenacolo letterario, aperto a interminabili discussioni da cui emergevano l'anticonformismo e il fastidio per la tradizione classicheggiante, il rifiuto delle convenzioni e il desiderio di svecchiare e sprovincializzare la cultura nazionale, mantenendo un legame sentimentale con la migliore tradizione risorgimentale, opponendosi al servilismo culturale verso l'estero e moltiplicando l'interesse per gli sperimentalismi più arditi. Obiettivo di fondo del L. e dei suoi sodali era quello di favorire l'affermazione dei giovani talenti capaci di combattere ogni accademismo e ridare nerbo alla vita intellettuale della nuova Italia; minore l'attenzione per la politica, giudicata generalmente con occhio critico verso le posizioni della Destra storica soprattutto in fatto di relazioni internazionali.
In questa chiave si svolse la prima produzione giornalistica del L., dotato, sin dalla giovinezza, di una facilità impressionante di scrittura e sorretto da una notevole sicurezza di giudizio nelle arti predilette, la pittura e la musica; presto altre testate (la Gazzetta di Milano, poi La Ragione) si sarebbero avvalse della collaborazione del giovane critico, abituato sin dall'inizio a firmarsi con vari pseudonimi (Primo, e più tardi Italicus, fino all'adozione di quel L'Italico scelto per indicare l'attaccamento a un'idea forte della patria). Caratterizzati da stile scorrevole e da una buona personalità critica, i suoi interventi lo segnalarono presto come elemento tra i più promettenti del giornalismo lombardo; il suo nome era però inseparabile da quelli di Perelli e Dossi; con loro aveva costituito un sodalizio spirituale in cui ciascuno aveva la sua specializzazione ma il quadro teorico-estetico di riferimento era unico. E quando, all'inizio del 1878, F. Crispi volle rilanciare come organo personale di stampa un foglio romano da tempo in crisi, La Riforma, ritenendo indispensabile trovare un contatto forte con l'ambiente milanese, chiamò a sé i tre intellettuali e assegnò a ognuno di essi un compito. Così, mentre a Perelli toccarono le spinose funzioni amministrative (come responsabile finanziario e titolare, dal 16 genn. 1878, dello Stabilimento tipografico italiano che stampava il foglio) e a Dossi quelle critico-letterarie, il L., trasferitosi a Roma dall'inizio del 1878 e passato nel giro di un anno da redattore a direttore del giornale, ebbe l'incarico di tradurre in editoriali secchi e incisivi il pensiero di un personaggio come Crispi, deciso a fare dell'Italia la potenza egemone del Mediterraneo.
Il progetto crispino di sfondare a Milano non andò in porto; in piena sintonia con lo statista siciliano, ovvero dando esecuzione alle sue direttive e spingendosi fino a manipolare le notizie per mettere nella luce migliore la sua azione di governo, il L. fece del giornale il portavoce di una linea che vedeva nella Francia il principale ostacolo alle aspirazioni italiane nel Mediterraneo (donde la rottura con F. Cavallotti con cui negli anni milanesi aveva simpatizzato), che auspicava un rapporto stretto con la Germania, sosteneva l'opportunità dell'espansione coloniale in Africa e si spingeva fino a invocare un ricambio del personale diplomatico in modo da aprire la strada a elementi meno legati alla tradizione di prudenza della Destra. In politica interna, il tema nevralgico fu quello delle relazioni Stato-Chiesa, che il L. trattò attaccando frequentemente la Santa Sede e Leone XIII per la stretta collaborazione del Papato con la Francia, avendo su questo punto un ottimo informatore nel cardinale G.A. von Hohenlohe, esponente minoritario in Vaticano di un indirizzo filogermanico (e più tardi oggetto di un paio di scritti apologetici del Levi).
Nei quindici anni in cui fu alla guida della Riforma, il L. trovò anche il tempo per dedicarsi a un'intensa attività pubblicistica con una serie di lavori che confermavano l'ampiezza dei suoi interessi e ribadivano come al centro delle sue valutazioni critiche, riguardanti musica o pittura, letteratura o teatro, vi fossero sempre, pur se mai smaccatamente, il criterio dell'italianità della produzione artistica e il riconoscimento del merito maggiore nel contributo eventualmente dato alla valorizzazione della cultura italiana e alla sua affermazione nel mondo.
Per quanto misurata ne fosse la prosa, il senso dei suoi interventi, che sul piano estetico tendevano comunque a sottolineare i meriti di chi usava linguaggi innovativi (Cremona, F.P. Michetti, T. Patini in pittura, G. D'Annunzio in letteratura), sul piano del costume stava tutto nella rivendicazione all'Italia di una sua misconosciuta dignità o superiorità (tale il giudizio sull'opera di G. Verdi rispetto a quella di R. Wagner nel volume L'elogio della pazzia. Der Ring des Nibelungen, raccolta di vari articoli del L., edita a Roma nel 1883 da Perelli, al pari di altri lavori di questi anni, e dedicata "a Giuseppe Rovani, anima italiana, intelletto universale"). Una certa fortuna ebbe poi il libretto Abruzzo forte e gentile (Roma 1883, ma sul frontespizio 1882), buon esempio di reportage impressionistico destinato, con il binomio del titolo, "a fondare una vulgata di lunga durata, non immune da mistificazioni, dell'immagine regionale" (Storia d'Italia, p. 257), dove peraltro era tipico di una certa cultura il giudizio sul brigantaggio, definito "espressione morbosa di qualità che un popolo libero, uno Stato indipendente, potrebbero senza pena trasformare in virtù" (p. 40).
Il 17 dic. 1893 il L. lasciò la direzione della Riforma (che dal 1885 al 1890 aveva arricchito di un supplemento trimestrale, la Riforma illustrata, in cui aveva ospitato ricordi, scritti e testimonianze di esponenti della democrazia risorgimentale): lo avevano sfiorato, negli ultimi tempi, le vicende della Banca romana, intervenuta più volte in soccorso del giornale. Il ritorno al potere di Crispi gli porse dunque l'occasione per un incarico ufficioso come collaboratore del ministro degli Esteri A. Blanc e "come anello di collegamento tra la Consulta e la presidenza del Consiglio" (Serra, p. 75). Giornalista prestato all'amministrazione, il L. si occupò tra l'altro della redazione dei Documenti diplomatici italiani ("Libri verdi") e dei rapporti con la stampa, fino a quando, per sfruttare la sua competenza in materia coloniale e soddisfare il desiderio di Crispi di avere un elemento capace di servire i suoi progetti di espansione in Africa orientale, il 5 maggio 1895 fu assegnato alla testa dell'Ufficio per la Colonia Eritrea e i protettorati. Alla caduta di Crispi, però, il posto, molto ben remunerato, fu soppresso e il L. collocato in disponibilità, cosa che per lui - mai entrato nella carriera diplomatica - significava l'anticamera del licenziamento.
Cominciò allora, e si protrasse con qualche discontinuità fino al 1915, la stagione della collaborazione ai periodici dell'area liberal-conservatrice, dalla Nuova Antologia alla Rivista d'Italia (che diresse anche), dalla Rivista politica e letteraria (anch'essa diretta di fatto da lui con lo pseudonimo Italicus) alla Rassegna contemporanea e alla Tribuna: l'attenzione era sempre rivolta ai protagonisti e agli eventi più significativi della cultura nazionale in tutte le sue espressioni, ma non poco spazio era riservato alle figure emergenti o poco note (F. Vitalini, A. Vertunni, P. Mariani, G. Boni) e ai ricordi personali, soprattutto in materia di critica d'arte (P. Canonica, M. Bianchi).
Non mancarono, peraltro, lavori più complessi, come il volume commissionatogli dal Comune di Livorno e dedicato a Luigi Orlando e i suoi fratelli per la patria e l'industria italiana (Roma 1898). Si tratta di un profilo d'insieme di una classica famiglia siciliana legata a Crispi, distintasi prima sul fronte patriottico e poi assurta a modello di imprenditorialità capace di sfidare l'industria inglese nel settore armatoriale. Altra opera fu il lungo e autobiograficamente partecipe "preludio" ai primi due volumi dell'edizione Treves delle Opere di C. Dossi (Milano 1910), giunto a coronamento di un rapporto d'amicizia che aveva conosciuto qualche ombra (a Dossi non piaceva una certa sicumera del collega), ma cui il L. aveva già reso pubblico omaggio con un paio di saggi che avevano contribuito a far conoscere lo scrittore (Carlo Dossi e i suoi libri, Milano 1873; Quistioni di cuore e di codice, per l'ultimo degli Ambrosiani, ibid. 1900). D'altronde fu proprio il preludio alle Opere dossiane che gli fornì il pretesto per annunciare l'avvio di una raccolta di documenti (Pei nuovi Cento anni ne sarebbe stato il titolo, ispirato a Rovani) da depositare presso l'Archivio storico cittadino per offrire la cronistoria "di un periodo e di un centro che furono tra i massimi della nuova vita italiana" (Dossi, Opere, II, p. XI; cfr. anche P. Levi, Pei nuovi Cento anni, in Corriere della sera, 3 dic. 1908).
Tra i vari articoli scritti dal L. in questi anni, uno in particolare, dedicato a difendere l'operato de L'on. Prinetti ministro degli Affari esteri (in Riv. politica e letteraria, 1903, n. 3, pp. 4-12), parve annunciare un suo riposizionamento a ridosso dell'area cattolico-liberale. Sta di fatto che quattro anni dopo, con il cattolico T. Tittoni, ministro degli Esteri del governo Giolitti, il L. fu nominato membro della commissione incaricata di preparare la riforma dell'ordinamento dei consolati italiani; in quella sede, mentre chiese di eliminare la norma che impediva il passaggio dalla carriera consolare a quella delle ambasciate, sostenne con vigore la necessità di specializzare il personale consolare a seconda che operasse in Oriente o in Occidente e di sensibilizzarlo alla promozione dell'export italiano. Meno di un mese dopo, il 5 ag. 1907, fu nominato console generale di prima classe e venne chiamato a prestare servizio al ministero con l'incarico di seguire personalmente i progetti di espansione economica italiana sui mercati internazionali.
Ciò fece presto di lui "l'esperto del ministero per gli affari economici nei Balcani" (Webster, p. 425), un settore cui erano interessate l'Ansaldo da un lato, la finanza vaticana dall'altro, e che negli anni successivi fu l'oggetto delle sue assidue analisi e talvolta dei suoi viaggi, con risultati però che, raramente corrispondendo alle attese, erano indici di una complessiva debolezza intrinseca del fattore politico-diplomatico non meno che di quello industriale. Esito certamente migliore ebbe l'impegno prodigato dal L. su un altro versante, quello della diffusione della lingua italiana all'estero e del sostegno statale alle scuole per le comunità italiane, nel quadro di un'azione volta a mantenerne vivo il senso di appartenenza al Paese d'origine.
Nel frattempo, il L. era comunque riuscito a migliorare la propria posizione personale al ministero: inviato prima in missione straordinaria in Egitto (1908), il 29 ag. 1909 venne destinato a Salonicco da dove un regio decreto datato 1° ag. 1910 lo riportò al ministero con le funzioni di direttore generale degli affari commerciali. La cosa non piacque a molti giornali, che lanciarono una vera campagna di stampa per criticare la rapidità con cui un funzionario, da poco nominato console e non particolarmente versato negli affari commerciali, era stato promosso al rango di dirigente danneggiando altri più anziani di lui. Questo non impedì al L. di dedicarsi con zelo a un lavoro che, se aveva implicazioni economiche forti come la penetrazione italiana in Europa orientale, non minori ne aveva sul piano strategico in relazione al conflitto tra le potenze; in proposito il suo antico orientamento triplicista si era molto moderato, sicché, allo scoppio della Grande Guerra, dopo una tiepida adesione al neutralismo, egli non esitò ad approvare (anche con interventi pubblici) l'ingresso dell'Italia nell'intesa.
Il L. morì a Roma il 14 apr. 1917.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. storico del ministero degli Affari esteri, Carte Primo Levi (46 bb.), su cui è condotto il saggio di M. Cacioli, Un profilo: P. L., in L'amministrazione nella storia moderna, Milano 1985, II, pp. 2047-2111; Roma, Arch. centrale dello Stato, Carte F. Crispi - Deputaz. Storia patria Palermo, b. 153/1617; Milano, Ist. G. Feltrinelli, Carte F. Cavallotti (20 lettere del L. per il periodo 1878-88). Una ricostruzione puntuale della carriera del L. agli Esteri in La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915). Repertorio bio-bibliografico, Roma 1987, pp. 417 s. (comprende un ampio elenco delle pubblicazioni del L., incluse quelle minori); per le collaborazioni giornalistiche cfr. O. Majolo Molinari, La stampa periodica romana dell'Ottocento, I-II, Roma 1962, ad ind.; Id., La stampa periodica romana dal 1900 al 1926, I-II, ibid. 1977, ad indicem. Tra le fonti edite: G. Prinzivalli, P. L. l'Italico, Roma 1924; V. Castronovo, Per la storia della stampa italiana (1870-1890), in Nuova Riv. storica, XLVII (1963), pp. 151 s.; C. Dossi, Note azzurre, I-II, Milano 1964, ad ind.; G.P. Lucini, L'ora topica di Carlo Dossi, a cura di T. Grandi, Milano 1973, pp. 18, 34 s., 47, 54, 73 s., 87 s., 220; alcuni inquadramenti critici in E. Piscitelli, Francesco Crispi, P. L. e la "Riforma", in Rass. storica del Risorgimento, XXXVII (1950), pp. 411-416; F. Fonzi, Crispi e lo "Stato di Milano", Milano 1965, ad ind.; R. Webster, L'imperialismo industriale italiano 1908-1915. Studio sul prefascismo, Torino 1974, ad ind.; V. Castronovo, La stampa italiana dall'Unità al fascismo, Roma-Bari 1976, ad ind.; V. Castronovo - L. Giacheri Fossati - N. Tranfaglia, La stampa italiana nell'età liberale, ibid. 1979, ad ind.; A. Accame Bobbio, Le riviste del primo Novecento, Brescia 1985, ad ind.; E. Serra, Alberto Pisani Dossi diplomatico, Milano 1987, ad ind.; D. Frigo, Il ministero degli Esteri: le colonie, in Le riforme crispine, I, Amministrazione statale, Milano 1990, p. 296; G. Monsagrati, La Grecia di Carlo Dossi, in Boll. della Domus Mazziniana, XLIII (1997), pp. 21, 24 s., 33 s., 41 s., 44 s., 48 s.; Storia d'Italia (Einaudi), Le regioni dall'Unità a oggi, L'Abruzzo, a cura di M. Costantini - C. Felice, Torino 2000, ad indicem. Necr., in La Tribuna, 16 apr. 1917; L'Illustrazione italiana, 22 apr. 1917.