principato
Principato civile di Giorgio Cadoni
La definizione del sintagma principato civile data da M. nel cap. ix del Principe, a tale p. intitolato, è così semplice e chiara che non richiede commento. «Civile» è infatti detto il p. al quale un «privato cittadino» ascende «non per sceleratezza o altra intollerabile violenzia», come coloro a cui era dedicato il capitolo precedente, «ma con il favore delli altri sua cittadini» (§ 1). Tuttavia, subito le cose si complicano. Infatti, colui che di una repubblica in crisi intende fare un p. deve decidere se valersi del «favore del populo» o di «quello de’ grandi», poiché «in ogni città si truovono questi dua umori diversi» (§§ 1-2), costantemente in lotta; ed è questa, la loro lotta, che, superato il limite oltre il quale nessuna mediazione è possibile, offre all’ambizioso privato occasione di realizzare il suo proposito.
I conflitti che si sviluppano all’interno della società hanno spesso attirato la preoccupata attenzione degli antichi, che ne avevano tratto motivo di viva esecrazione e fosche previsioni. Per apprezzare la ‘rivoluzionaria’ novità delle considerazioni che M. dedica a questo tema, sempre al centro della sua filosofia politica, occorre aprire il primo libro dei Discorsi e leggere i capp. iv-vi, che demoliscono un’ininterrotta tradizione di pensiero alla quale aderiva, senza scadere nella banalità dei più, anche Francesco Guicciardini, duramente critico nei confronti dell’«estravagante» amico. Ma per constatare come M. segua, anche nel Principe, una via «non ancora da alcuno trita», è sufficiente considerare che il capitolo De principatu civili ravvisa in uno dei momenti più critici a cui può giungere il conflitto sociale, unanimemente considerato dagli autori prodromo di sicura rovina, un’occasione di profondo rinnovamento dello Stato che, mediante il doloroso sacrificio della libertà repubblicana, può ritrovare vitalità e forza. Delle lotte che il geniale Segretario considera inevitabili e, a certe condizioni, del tutto benefiche, il cap. ix del Principe attribuisce l’intera responsabilità, con irriverente autonomia nei confronti dell’ideologia dominante, alle classi che occupano il vertice della gerarchia sociale: i «grandi», sempre animati da un’aspra volontà di dominare e opprimere il popolo; il quale, da parte sua, si limita a respingere come gli è possibile l’oppressione alla quale i grandi vorrebbero sottoporlo. Ma a questo proposito qualche altra osservazione si rende necessaria, perché non sempre nelle opere di M. il popolo presenta il volto che il cap. ix, e alcuni altri, gli assegnano. Cominciamo con il dire che nel cap. v del primo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio la moderazione degli «ignobili» (scil. non nobili) appare determinata dall’impossibilità d’innalzarsi a classe dominante. Al riguardo, lo scrittore osserva, sì, che gli «ignobili» sono assai migliori custodi della «libertà»» di quanto non lo siano i «nobili»; ma precisa: «potendo meno sperare di usurparla che non possono i grandi»; e poco dopo: «non la potendo occupare loro» (§ 8). E c’è dell’altro, perché neppure può considerarsi certo che si tratti di un limite invalicabile, visto che ai suoi ideali antagonisti, che gli avevano ricordato la scalata data dai plebei alle più alte cariche della Repubblica e il maligno «furore» con cui «cominciorono, poi, col tempo, a adorare quelli uomini che vedevano atti a battere la nobilità» (§ 11), M. non oppone alcuna obiezione dirimente. Soprattutto, in Discorsi I xxxvii – la cui importanza non è inferiore a quella del tema trattato, la crisi della Repubblica e la sua trasformazione in impero – l’«ambizione» dei plebei, che scatenarono la tempesta dalla quale furono travolte le istituzioni repubblicane, è ritenuta pari a quella della nobiltà senatoria. Vuol dire, questo, che l’asserto su cui è costruito il capitolo dedicato al «principato civile» deve essere considerato tanto debole da mettere in pericolo l’intero edificio? Niente affatto. Ma, per convincersene, occorre tenere ben presenti le concrete circostanze che offrono a un ambizioso privato occasione di conquistare il vertice dello Stato mediante un’«astuzia fortunata» (Principe ix 1). Del «principato civile» M. dice infatti con chiarezza non inferiore a quella con cui ne aveva dato la definizione:
El principato è causato o dal populo o da’ grandi, secondo che l’una o l’altra di queste parte ne ha l’occasione: perché vedendo e’ grandi non potere opprimere [lezione congetturale, opportunamente suggerita da Giorgio Inglese, sulla scorta del testo di Agostino Nifo («cum noverint se populos opprimere non posse»), in De principatibus, ed. Inglese, 1994, pp. 20-21, e solo ora accolta a testo nell’edizione del Principe, 2013] el populo, cominciano a voltare la reputazione a uno di loro e fannolo principe per potere sotto la sua ombra sfogare il loro appetito; il populo ancora, vedendo non potere resistere a’ grandi, volta la reputazione a uno e lo fa principe per essere con la sua autorità difeso (§ 3).
Nonostante ciò che è stato osservato circa l’«ambizione» delle classi subalterne, il presupposto su cui poggia Principe ix appare dunque inattaccabile, poiché, quando i grandi stanno per sopraffarlo, il popolo non potrebbe proporsi un fine diverso da quello di sottrarsi all’aggressione di cui è vittima. Il p. «civile» sorge, infatti, in una repubblica nella quale la libido dominandi dei grandi non conosce più limite e il popolo, che non intende soccombere, non ne ha tuttavia l’autonoma capacità. È dunque ovvio, come è stato detto all’inizio, che il futuro principe debba scegliere i propri alleati. E la sua scelta dovrà essere quella che assicura maggiore forza e stabilità al suo «stato». Che il favore dei grandi non sia esente da gravi pericoli è implicito nel fatto che la loro condizione sociale non differisce da quella del concittadino di cui agevolano l’ascesa. Costui è, infatti, «uno di loro», al quale con estrema riluttanza si sottometteranno, pur avendo avuto bisogno di lui per opprimere il popolo:
Colui che viene al principato con lo aiuto de’ grandi si mantiene con più difficultà che quello che diventa con lo aiuto del populo, perché si truova principe con di molti intorno che gli paiono essere sua equali, e per questo non gli può né comandare né maneggiare a suo modo (§ 4).
Ovviamente, chi è giunto al p. con il favore del popolo dovrà affrontare l’ostilità dei grandi ma, «per essere pochi», potrà facilmente sbarazzarsene; mentre, «per essere troppi», non potrà mai «assicurarsi» del popolo che gli fosse nemico (§ 7). Ciò che segue genera qualche imbarazzo, acuito dalla ripetizione del medesimo sintagma, poiché M. afferma che il peggio che possa fare il «populo inimico» – ma questa volta bisogna intendere: che gli fosse diventato nemico – è abbandonare il principe, cioè fargli mancare il suo aiuto quando più ne avrebbe bisogno. Cosa di cui la filosofia politica dello scrittore e lo stesso capitolo De principatu civili non consentono di sottovalutare l’importanza, che non impedisce tuttavia a M. di sottolinearne la minore gravità rispetto a quello che, in analoghe circostanze, avrebbero fatto i grandi, sempre pronti, «essendo in quelli più vedere e più astuzia», a passare al nemico, se potranno sperare di ottenere «gradi» dal vincitore (§ 8). Nonostante l’equivoco che potrebbe produrre una troppo rapida lettura, M. non dice che il popolo è un nemico meno temibile dei grandi; bensì che l’eventuale ‘tradimento’ del popolo è meno probabile e meno pericoloso di quello dell’altro «umore» sociale. E se si riflette su ciascuna delle due ipotesi prese in considerazione, se ne comprende immediatamente la ragione. Al contrario del popolo, i grandi disporranno del potere di cui colui che li ha scelti come alleati non ha potuto privarli; e, quando se ne presenterà l’occasione, non esiteranno a rivolgerlo contro di lui; mentre il popolo, in cambio del favore che ha accordato al principe, si accontenterà di «essere con la sua autorità difeso» (§ 3), e, nella peggiore delle ipotesi, non potrà che limitarsi ad abbandonarlo. Alla luce della tesi che il capitolo enuncia, e si sforza di dimostrare, l’argomento, per quanto incontrovertibile, appare assai debole: ma questo non consente di mettere in dubbio la scelta che il «privato cittadino» deve compiere, quando di scegliere abbia la possibilità. E M. non si stanca di addurre argomenti in favore del popolo. «È necessitato ancora – scrive tra l’altro – el principe vivere sempre con quello medesimo populo; ma può bene fare sanza quelli medesimi grandi, potendo farne e disfarne ogni dì, e tòrre e dare a sua posta reputazione loro» (§ 9). Il concetto implicito nell’osservazione sullo scarso numero dei grandi ne viene notevolmente rafforzato; sarà, tuttavia, prudente evitare di attribuire con troppa fretta al verbo «disfare» il tragico significato che assume in altri luoghi machiavelliani: sia perché è qui l’opposto-contrario di «farne», cioè crearne, sia perché il capoverso che segue invita a distinguere i grandi disposti a legare indissolubilmente la loro sorte a quella del principe – e che non siano troppo avidi – da coloro che se ne astengono; i quali vengono a loro volta divisi in due categorie a seconda lo facciano «per pusillanimità e difetto naturale d’animo» oppure «per arte e per cagione ambiziosa». Da questi ultimi il signore si dovrà attentamente «guardare, e temergli come s’e’ fussino scoperti nimici, perché sempre nelle avversità aiuteranno ruinarlo» (§§ 12-13); mentre di tutti gli altri potrà servirsi per amministrare lo Stato. Il consiglio è in linea con la maniera non violenta mediante la quale è stato conquistato il potere, e vi è motivo di dubitare che se ne possa dedurre che il principe «civile» deve sterminare coloro di cui è assolutamente sconsigliabile che si serva, anche se ciò non significa che debba vietarsi la violenza.
Si è finora supposto che chi aspira al p. possa scegliere i suoi alleati. Ma che non sempre la «fortuna» offra questa favorevole occasione non cambia la sostanza della «regola». Pertanto, colui che dai grandi fosse stato innalzato al potere dovrà innanzi tutto cercare di «guadagnarsi el populo», cosa non troppo difficile, purché «pigli la protezione sua». M. aggiunge che «puosselo guadagnare el principe in molti modi», che non intende specificare, perché «variano secondo el subietto» (§§ 14-18); e l’affermazione provoca disagio, o, per lo meno, il desiderio di chiarimenti. Infatti, secondo ciò che avevamo letto poco innanzi, quei «modi» si riducevano a uno: prendere la protezione del popolo; e di proteggere il popolo c’è una sola maniera: abbattere il potere dei grandi. Al riguardo, il cap. xvi del primo libro dei Discorsi (§§ 19-22) narra con fredda impassibilità che, Clearco, tiranno di Eraclea, «tagliò a pezzi tutti gli ottimati con una estrema sodisfazione de’ popolari» e assicurò così una stabile base alla sua autorità, mal ripagando la fiducia di coloro che lo avevano condotto al potere «contro alla disposizione popolare». Sarebbe probabilmente sbagliato trarne la conclusione che tutti coloro che hanno ottenuto il p. dai grandi debbano agire con altrettanta spietatezza; e si può supporre che M. abbia preferito porre l’accento sul fatto che i «modi» di conquistare il consenso del popolo «variano secondo el subietto» (Principe ix 17) al fine di evitare che la necessità della violenza occupi interamente lo spazio di svolgimenti che tendono a escluderla; ma sembra difficile non cogliervi il segno di un’oggettiva difficoltà.
Mentre il capitolo volge a conclusione, M. ne riassume con fermezza la tesi fondamentale con un perentorio ammonimento che non ammette eccezioni: «Concluderò solo che a uno principe è necessario avere il populo amico, altrimenti non ha nelle avversità remedio» (§ 18). Che non valga soltanto per i principi «civili» è confermato dall’unico esempio citato dal capitolo, quello del re spartano Nabide, al quale il favore del popolo aveva permesso di resistere alle soverchianti forze, romane e achee, da cui Sparta era assediata. Esempio, tuttavia, inquietante, perché, per affermare che Nabide ebbe «il populo amico», occorreva trascurare la concorde testimonianza degli antichi storici, e in particolare trarre dalla quarta deca di Tito Livio una conclusione che rovescia il giudizio dell’autore.
A chi avesse pensato di opporre «quello proverbio trito, che chi fonda in sul populo fonda in sul fango» (§ 20) alla tesi che aveva esposto con razionale passione, M. replica (§§ 20-22) che, effettivamente, un «cittadino privato» non dovrebbe illudersi, come i Gracchi a Roma e Giorgio Scali a Firenze, di potersi fare scudo del favore popolare «quando fussi oppresso da’ nimici o da’ magistrati»; ma un principe che tenga saldamente in mano le redini del potere e sappia infondere nel popolo la fiducia e il coraggio necessari «mai si troverrà ingannato da lui» e potrà constatare di aver edificato il suo «stato» su solide fondamenta.
A questo punto si potrebbe credere che l’esegesi sin qui condotta consenta di abbracciare l’intero capitolo con uno sguardo sintetico che faccia emergere l’intenzione da cui dipese la sua genesi e, con ciò, il suo autentico significato. Ma l’ultimo capoverso pone problemi di tale complessità da dissolvere quest’illusione. Tentare di risolverli non è certo facile, come è dimostrato dal fatto che, intorno a quel capoverso, denso ed ellittico, e per di più complicato dalla nuova accezione in cui è preso l’aggettivo «civile», la discussione non si è ancora spenta. Le linee iniziali ne racchiudono tutte le difficoltà. Vi si legge infatti: «Sogliono questi principati periclitare quando sono per salire da lo ordine civile allo assoluto. Perché questi principi o comandano per loro medesimi o per mezzo de’ magistrati» (§§ 23-24). Se ne può dedurre che «questi principati», e dunque tutti «questi principati», sono in origine organizzati secondo l’«ordine civile» ed esposti pertanto al rischio implicito nel (necessario?) passaggio all’«ordine assoluto», la cui essenza ci è ancora ignota? Pare di sì. Per mettere a fuoco la difficoltà insita in tale passaggio, lo scrittore distingue i principi che «comandano per loro medesimi» da quelli che esercitano il potere per «mezzo de’ magistrati», e spiega che, al sopraggiungere dei «tempi avversi», coloro che occupano le magistrature si varranno del potere di cui dispongono per tentare di prendere il posto del principe, e il principe non riuscirà ad annientare la rivolta dei «magistrati», ossia a conquistare l’«autorità assoluta», perché il popolo, ormai abituato a ricevere per loro tramite i suoi «comandamenti», gli negherà aiuto (§§ 24-25). Ma «autorità assoluta» è un evidente sinonimo di «ordine assoluto»; e poiché l’articolazione del ragionamento dimostra che «autorità assoluta» e «comandare per sé» (e non attraverso i «magistrati») sono la stessa cosa, lo saranno anche «comandare per sé» e «ordine assoluto»; e così i loro opposti-contrari, «ordine civile» e «comandare per mezzo de’ magistrati». Se questo è vero, posto che tutti «questi principati» sono inizialmente retti secondo l’«ordine civile», è impossibile non trarne la conseguenza che «questi principi», cioè quelli che governano «questi principati», esercitano inizialmente il potere «per mezzo de’ magistrati». Ma allora occorre anche ammettere che la distinzione tra i principi che comandano «per loro medesimi» e quelli che comandano «per mezzo de’ magistrati» non riguarda la loro situazione originaria – nella quale, peraltro, non sono costretti a permanere – ma quella in cui li trovano i «tempi» quando divengono «avversi». Dei «magistrati», infatti, occorre liberarsi al più presto, e il passaggio al «comandare per sé», o, se così si preferisce dire, all’«ordine assoluto» – che chi abbia qualche conoscenza dei Discorsi non vorrà confondere con la tirannide – esporrà a pericoli particolarmente gravi coloro che, per effettuarlo, attendono di esservi costretti dall’incombere dei «tempi avversi», senza considerare che «e’ cittadini e sudditi, che sogliono avere e’ comandamenti da’ magistrati, non sono in quelli frangenti per ubbidire a’ suoi» (§ 25). L’implicita, ancorché ovvia, conclusione è che il tentativo deve essere compiuto finché i «tempi» sono ancora «quieti», quando può essere portato a compimento con relativa facilità.
Ma quali sono «questi principati»? Senza dubbio quelli a cui è dedicato il capitolo, i principati «civili», tanto civili-ottimatizi, quanto civili-popolari. Per conseguenza è impossibile non vedere che anche questi, i p. civili-popolari, non possono evitare di essere governati, all’atto del loro sorgere, attraverso i«magistrati». È stato acutamente osservato da Gennaro Sasso (1988 e 1993) che, a essere circondato dalle magistrature attraverso cui i «grandi» intendono sottoporlo al loro controllo, sarà innanzi tutto il principe civile-ottimatizio, per il quale liberarsene equivale a imporre una decisa svolta filopopolare alla sua politica e quindi a mutare radicalmente il carattere del p. conquistato con il favore dei grandi. L’osservazione è pertinente e inoppugnabile. Tuttavia, se non si abbandona il concetto che il «principato civile» è quello ottenuto senza violenza, non mancano ragioni per ammettere che anche il principe che si è valso del favore popolare è inizialmente costretto a tollerare l’esistenza delle magistrature repubblicane che hanno favorito la sua impresa. Senza dirlo a chiare lettere, M. gli ricorda che, se non ha saputo mettere a frutto i «tempi quieti» per cominciare finalmente a governare «per sé medesimo», viene a trovarsi in una condizione non dissimile da quella del principe civile-ottimatizio, poiché, questa almeno sembra esserne la ragione, quando i tempi divengono «avversi», il popolo, convinto di dovere la protezione di cui gode nei confronti dei grandi a coloro dai quali riceve gli ordini del principe, non sarà disposto a esporre la vita per difenderlo. «E tanto più è questa esperienza periculosa, quanto la non si può fare se non una volta» (§ 27).
«Però – è la conclusione – uno principe savio debbe pensare uno modo per il quale e’ sua cittadini sempre e in ogni qualità di tempo abbino bisogno dello stato e di lui, e sempre poi gli saranno fedeli» (§ 27; corsivo nostro). Sembra che quest’ultimo avvertimento intenda sottolineare ancora una volta la necessità di passare all’«ordine assoluto» prima che divenga impossibile. Ma il dubbio è inevitabile. Perché, per obbedire al consiglio che gli è stato offerto, il principe non ha bisogno di «pensare», cioè trovare, «uno modo» di ottenere il risultato: deve soltanto adottare il comportamento che le precedenti considerazioni suggerivano con evidenza. E non sarà forse avventato supporre che, in realtà, M. si stia preoccupando del caso in cui mai il principe abbia disposto dei «tempi quieti», in cui i pericoli ai quali tutti i governanti sono esposti sono ancora limitati, e pertanto lo esorti a cercare la maniera di prepararsi ad affrontare questa difficilissima situazione. Come, in realtà, non è specificato. Ma l’invito a fare in modo che «e’ sua cittadini sempre e in ogni qualità di tempo, abbino bisogno dello stato e di lui», richiama la necessità di non consentire – tenendo, come era stato detto, «con lo animo e ordini suoi animato l’universale» (§ 22) – che i sudditi dimentichino che a lui, e non ai magistrati, devono la protezione che li mette al riparo dalle prepotenze dei grandi.
Che la teoria esposta a proposito del principe «civile» costituisca una preziosa regola di condotta – come è dimostrato dagli esempi di Clearco, Agatocle e Cesare Borgia – anche per chi con mezzi molto diversi ha conquistato il potere, è stato già detto. Ci si domanderà, forse, perché, ammesso che questo sia vero, una tesi la cui validità si estende ben oltre il caso particolare del «principato civile» sia stata esposta proprio nel capitolo a questo intitolato. La spiegazione è tanto banale che apparirà forse superflua. Infatti, una volta deciso di discutere il caso di colui che ottiene il p. «con il favore delli altri sua cittadini», M. aveva osservato che occorre tuttavia scegliere quello di uno dei due «umori» sociali e politici che in ogni Stato perseguono opposti fini. Per esaminare quale di essi assicuri maggiore forza e stabilità non vi era dunque occasione migliore né sede più appropriata del cap. ix.
Giunto all’altezza del quale, M. aveva ormai piena consapevolezza del proposito che lo aveva indotto a iniziare la stesura dell’«opuscolo» in gran parte dedicato a una tesa riflessione sul «principato nuovo». E nel trattare di quello «civile» il suo pensiero sarà andato all’eroe chiamato ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam, anche se l’ultimo capitolo del trattato non era stato ancora scritto. Solo se si scorge nel perentorio consiglio offerto al principe «nuovo» (ché tale è quello «civile») la «regola» che doveva guidare l’azione dell’ideale personaggio in grado di vincere quell’estrema sfida mediante la sua «estraordinaria» virtù – solo se si fa questo, si comprende perché, per evitare uno dei più gravi errori che avevano perduto «questi nostri principi», incapaci di comprendere la necessità di avere «il populo amico» e di «assicurarsi de’ grandi» (cap. xxiv), era necessario che la fiducia nella «regola» dettata dal cap. ix non fosse scossa dalle considerazioni che lo scrittore avrebbe formulato nel cap. xix, dove la tesi che ci era apparsa priva di eccezioni è sottoposta a notevoli mutamenti e persino a un radicale rovesciamento. Segnalare la ‘contraddizione’, se così la si vuole definire, non costituisce un buon motivo per tentare di risolvere la difficoltà mediante indimostrabili congetture circa tardi interventi, compiuti dall’autore senza prendersi cura delle disarmonie che introducono nel testo. Le impostazioni del cap. xix non sono il risultato di un’inspiegabile dimenticanza o di un profondo ripensamento, ma dell’analisi di situazioni storiche e politiche che richiedevano di modificare, e, come si è detto, persino di rovesciare, ciò che il cap. ix sostiene con pretese di astratta universalità e assolutezza. Fondamentale è l’esempio della Francia, la cui consolidata unità era stata contrapposta alla disgregazione italiana fin dal Ritratto di cose di Francia, in cui il quondam Segretario aveva annotato le considerazioni suggeritegli dalle frequenti esperienze compiute come «mandatario» presso la corte francese. Ovviamente M. non ha dimenticato la divisione della società in due gruppi sociali animati da opposte «ambizioni», né la gravità della «corruzione» che accompagna la presenza di ceti feudali, come accadeva in alcuni dei maggiori Stati italiani. Tuttavia, constata che la monarchia francese era riuscita a includerli in un articolato ed efficiente sistema di potere che consentiva di sottrarre il popolo ai loro soprusi. La formula che riassume il risultato della sua lunga meditazione sulla grand’ monarchie (come Claude de Seyssel amava definirla) presuppone analisi e considerazioni che le sue parole lasciano soltanto intravedere: «E di nuovo concludo che uno principe debbe stimare e’ grandi, ma non si fare odiare dal populo» (Principe xix 24).
Il nesso con la teoria del p. popolare, che si coglie senza eccessiva difficoltà nell’esame degli «ordini» francesi (si veda la funzione antinobiliare svolta dal parlamento di Parigi), muta profondamente quando lo scrittore affronta quello del medio e tardo impero romano. Seguendo con fedeltà spesso letterale la Storia dell’impero romano del greco Erodiano, che leggeva (come è stato documentato con grande accuratezza da Laurence Arthur Burd nel suo prezioso commento) nella traduzione latina pubblicata da Angelo Poliziano nel 1493, M. osserva che gli imperatori succedutisi da Marco Aurelio a Massimino il Trace si trovarono nella necessità di preferire il favore dell’esercito a quello del popolo. E il fatto che, a eccezione di qualcuno, dotato, come Settimio Severo, di non comune «virtù», o favorito dall’essere asceso al trono per diritto ereditario, abbiano avuto, tutti, «tristo fine» non implica che una diversa scelta fosse possibile, poiché è necessario «fuggire con ogni industria l’odio di quelle università che sono più potenti» (§ 32), e più potenti erano appunto gli eserciti. Il testo precisa che a questa difficoltà non erano esposti i moderni regnanti, a eccezione dell’imperatore ottomano e del sultano d’Egitto (§ 62). Non è però a dire che il contrasto tra le considerazioni rispettivamente svolte nei capp. xix e ix ne venga attenuato, ma bisogna comprendere che la logica che impone di favorire le aspirazioni delle truppe non differisce da quella da cui discende la teoria del p. «popolare»; e che, se tra i due capitoli vi è contraddizione, la contraddizione nasce, in concreto, nella necessità di riconoscere il limite imposto da ben determinate situazioni a una tesi che ne sembrava priva, poiché tale, nel cap. ix, era necessario che apparisse. Che la teoria che vi è svolta non fosse stata abbandonata, lo prova il cap. xxiv, che mostra come, insieme con l’eccezionale virtù del «principe nuovo», quella teoria costituisca un essenziale momento della strategia che avrebbe dovuto consentire a «questa misera Italia» di emergere dall’abisso in cui stava sprofondando.
L’idea che l’arroganza di «quegli uomini i quali dalle leggi per la loro insolenzia non possono essere corretti», cioè quei «potenti» di cui M. illustra l’anarchico comportamento, renda necessaria l’introduzione di un forte potere centrale che si sforzi di disciplinarli è presente anche in Discorsi I xviii, che alcuni tuttora ritengono, con argomenti da altri respinti, ma mai efficacemente confutati, steso prima del Principe. Peraltro, in quel capitolo nel quale lo scrittore si sforza di conservare quanto era possibile dell’antica libertà repubblicana, l’impresa appare segnata da un dubbio tanto forte da rasentare l’impossibilità (§§ 28-30). Nel trattato sui p. prevale la volontà d’inventare una via in grado di sventare la catastrofe verso cui l’Italia era avviata. Ma non solo di questo si tratta, poiché il riformatore deciso a tentare di ripristinare l’«equalità» sarà circondato dall’indifferenza di un popolo che l’«inequalità» ha reso politicamente inerte, mentre colui a cui è dedicato il cap. ix del Principe sarà sostenuto dall’attivo favore del popolo, che non intende subire l’oppressione a cui i «grandi» stanno tentando di sottoporlo. Venuta meno la tensione che aveva sorretto la redazione del Principe, morta la speranza che l’Italia potesse riemergere dalla triste condizione in cui l’inettitudine dei governanti l’aveva precipitata, M. si convinse che, nei tempi moderni, l’immagine dello Stato monarchico che aveva tracciato quando non aveva ancora rinunciato a quella speranza non trovava posto nella «realtà effettuale». Discorsi I lv lascia scorgere come le tesi del cap. ix appartenessero a un altro tempo e a un altro mondo:
Trassi adunque di questo discorso questa conclusione: che colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una republica, non la può fare se prima non gli spegne tutti; e che colui che dov’è assai equalità vuole fare uno regno o uno principato, non lo potrà mai fare se non trae di quella equalità molti d’animo ambizioso ed inquieto e quelli fa gentiluomini in fatto, e non in nome, donando loro castella e possessioni, e dando loro favore di sustanze e di uomini, acciocché, posto in mezzo di loro, mediante quegli mantenga la sua potenza, ed essi, mediante quello, la loro ambizione; e gli altri siano constretti a sopportare quel giogo che la forza, e non altro mai, può fare sopportare loro (§ 27).
Il passo richiede pazienza e attenzione. Che la repubblica esiga «equalità» non è cosa nuova. E neppure lo è che, dove vi è «equalità», sia impossibile, o estremamente difficile, creare un regno. Quello che è nuovo è il rovesciamento del principio secondo cui l’«inequalità» esige la presenza di un forte potere centrale nel suo reciproco, secondo cui un regno esige «inequalità». Si noti, però, che lo scrittore sta parlando dell’innaturale tentativo d’imporre una costituzione monarchica a una società che, essendo caratterizzata da «equalità», non è disposta a tollerarla, e solo «constretta» sopporterebbe quel «giogo».
È nel Discursus florentinarum rerum che la teoria del p. popolare riceve il suo esplicito capovolgimento. Nell’impossibilità di condurre in questa sede le lunghe analisi che questo testo richiederebbe (sia per quanto concerne le circostanze in cui fu redatto, sia per quanto concerne le tesi che vi sono sostenute), ci limiteremo a osservare che la nuova immagine dello Stato monarchico non concede più alcuno spazio a quella teoria. Le ragioni per le quali ciò è accaduto esigono un chiarimento non privo d’importanza. È stato giustamente osservato da molti che la forma di governo criticata con maggior durezza dal Discursus è quella dei Medici, e in particolare quella di Cosimo il Vecchio, della quale M. afferma che non fu né «vero principato» né «vera repubblica», per essere stato Cosimo costretto «a deliberare per assai quello che [...] voleva condurre» (§ 10), con la conseguenza che fu più di una volta sul punto di perdere il potere ottenuto con il consenso del popolo fiorentino. Si è dunque ritenuto di poter identificare la situazione di Cosimo con quella del principe «civile» che esercita la propria autorità «per mezzo de’ magistrati». Ma la cosa è assai meno certa di quanto non si sia creduto. Perché, osservando che quei principi «stanno al tutto con la voluntà di quelli cittadini che a’ magistrati sono preposti», M. intende metterli in guardia contro il pericolo che questi ultimi, nei «tempi avversi», gli si volgano contro; mentre, per quanto riguarda Cosimo, si dice che la presenza dei «magistrati» fu causa di una permanente difficoltà a esercitare il comando. Nel cap. ix del Principe si presume inoltre che «nei tempi quieti» sia possibile sbarazzarsi dei magistrati senza invincibili difficoltà, non essendo colui che di questi si vale un privato che si sforza di influenzarli affinché operino nel senso da lui desiderato, ma un autentico principe, riconosciuto dal popolo come tale. In ogni caso, le critiche rivolte ai governi medicei non sono in grado di spiegare il tramonto del principato «popolare», la cui unica forma vitale, quella nella quale il principe comanda «per sé», non può essere confusa con gli «stati di mezzo». Talché la spiegazione bisogna cercarla nel negativo giudizio che lo scrittore si era convinto di dover dare delle monarchie contemporanee. E ne offre testimonianza il fatto che, sebbene in un primo momento avesse ripetuto nel Discursus ciò che aveva detto in Discorsi I lv, subito dopo aggiunge un argomento che estende inequivocabilmente la regola a tutti i «principati»: «Perché un principe solo, spogliato di nobilità, non può sostenere il pondo del principato; però è necessario che infra lui e l’universale sia un mezzo che gli aiuti sostenerlo» (§ 51). Se l’oggettiva descrizione della realtà assume un’apparenza prescrittiva, e M. innalza a modello l’esistente, è perché l’esperienza acquisita lo ha convinto che la storia contemporanea faceva della teoria che aveva posto al centro del capitolo De principatu civili uno dei pericolosissimi sogni di cui si nutrono gli spiriti deboli. Quanto sia mutata la sua visione dell’unico regno che con quella teoria intratteneva un rapporto non superficiale, lo prova l’immagine della monarchia francese offerta dal Discursus, descritta come una piramide gerarchica della quale il re occupa il vertice e il popolo la base, schiacciato sotto il peso dei ceti feudali. Quale giudizio ne desse l’autore possiamo soltanto immaginarlo. Per un giudizio esplicito sugli Stati monarchici effettivamente esistenti, occorre rivolgere l’attenzione verso le disincantate parole pronunciate da Fabrizio Colonna nel libro I dell’Arte della guerra:
Tanto più debbe uno regno bene ordinato fuggire simili artefici, perché solo essi sono la corruttela del suo re e in tutto ministri della tirannide. E non mi allegate all’incontro alcuno regno presente, perché io vi negherò quelli essere regni bene ordinati. Perché i regni che hanno buoni ordini, non danno lo imperio assoluto agli loro re se non nelli eserciti; perché in questo luogo solo è necessaria una subita diliberazione e, per questo, che vi fia una unica podestà (§§ 78-80).
La critica concerne, in primo luogo, il professionismo militare. Ma questo non consente d’ignorarne l’altro obiettivo verso cui è diretta, costituito, con evidenza, dall’assolutismo monarchico, che il testo non esita a definire «tirannide». Assoluto, si dirà, non è anche il potere del principe «popolare»? Dal punto di vista giuridico-costituzionale, certamente lo è, come è confermato dalla spregiudicata determinazione con la quale annienta la classe dominante; tuttavia trova un essenziale limite pratico, e grave errore sarebbe dimenticarlo, nella necessità di agire nell’esclusivo interesse del popolo. I principi che M. non distingue dai tiranni, i principi dei suoi tempi, governano contro il popolo. Lo prova il parallelo che il testo stabilisce con Augusto e Tiberio, dei quali dice che «pensando più alla potenza propria che all’utile publico, cominciarono a disarmare il popolo romano per poterlo più facilmente comandare, e a tenere continuamente quegli medesimi eserciti alle frontiere dello Imperio» (§ 87). Di seguito si legge: «E perché ancora non giudicarono bastassero a tenere in freno il popolo e senato romano, ordinarono uno esercito chiamato pretoriano, il quale stava propinquo alle mura di Roma e era come una rocca addosso a quella città» (§ 88). Il parallelo è formalmente imperfetto, perché i moderni sovrani non si servivano di truppe stipendiate a questo specifico fine, ma della nobiltà feudale, per costringere il popolo all’obbedienza. Tuttavia, svela ugualmente bene la natura dei rapporti tra i moderni sovrani e i loro sudditi, e consente di comprendere meglio il tramonto della teoria del principato popolare.
Bibliografia: Fonti: Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, I 5; II 12, 35, 38, 41, 47, 48; III 15, 16, 18, 50; IV 4, 16, 23; VI 3, 17; VII 1, 17; VIII 4, 14.
Per gli studi critici si vedano: H. Baron, Machiavelli. The republican citizen and the author of the Prince, «The English historical review», 1961, 76, 299, pp. 217-53; V. Masiello, Crisi sociale e riforma politica: la strategia del “principato civile”, in Id., Classi e Stato in Machiavelli, Bari 1971, pp. 49-124; C. Lefort, Le travail de l’oeuvre. Machiavel, Paris 1972, pp. 381-93; G. Cadoni, Machiavelli. Regno di Francia e “principato civile”, Roma 1974, pp. 82100; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 197-276, 351-540; P. Larivaille, Nifo, Machiavelli, principato civile, «Interpres», 1989, 9, pp. 150-95; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., nuova ed. Bologna 1993, pp. 382-95; P. Larivaille, Il capitolo IX del Principe e la crisi del “principato civile”, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ott. 1997, Roma 1998, pp. 221-39; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006, pp. 65-69, 221-39; G. Cadoni, Per alcune questioni di critica machiavelliana, «La cultura», 2007, 1, pp. 49-82, in partic. pp. 49-65, 76-79; G. Cadoni, Machiavelli de Principatibus, «La cultura», 2008, 2, pp. 229-306 (errata-corrige nel numero successivo de «La cultura»).
Principato misto di Giorgio Inglese
Nella classificazione machiavelliana, p. misto è quello che risulta dall’innesto di un possedimento ‘nuovo’ su di uno Stato ereditario, o comunque ‘antico’ per colui che ne è il signore: «Ma nel principato nuovo consistono le difficultà. E prima, s’e’ non è tutto nuovo, ma come membro – che si può chiamare tutto insieme quasi misto – le variazioni sue nascono in prima da una naturale difficultà, quale è in tutti e’ principati nuovi» (Principe iii 1; corsivo nostro). Il cap. iii dell’opuscolo tratta appunto de principatibus mixtis. Ma lo spunto era già nel cap. i: «e’ [principati] nuovi, o e’ sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che gli acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna» (§ 3; corsivo nostro). Al dominio tematico del p. misto appartengono anche il cap. iv (Cur Darii regnum, quod Alexander occupaverat, a successoribus suis post Alexandri mortem non defecit), il v (Quomodo administrandae sunt civitates vel provinciae quae, ante quam occuparentur, suis legibus vivebant), e il § 9 del cap. xx («quando uno principe acquista uno stato nuovo che come membro si aggiunga al suo vecchio, allora è necessario disarmare quello stato, eccetto quegli che nello acquistarlo sono suti tua partigiani: e quegli ancora col tempo e con le occasioni è necessario renderli molli e effeminati, e ordinarsi in modo che solo le arme di tutto il tuo stato sieno in quelli tuoi soldati propri che nello stato tuo antico vivevano appresso di te»).
Nonostante l’etichetta imposta da M. all’argomento, non v’è dubbio che il problema della conquista e della successiva integrazione di una «provincia esterna» si ponga in modo quasi identico per un p. come per una repubblica: tanto è vero che, in tutti e tre i capitoli, gli esempi positivi, proposti al principe destinatario, sono tratti dall’esperienza della Repubblica romana. La versione di Agostino Nifo segue molto da presso il testo machiavelliano, ma evita il termine misto: «Novus [principatus] aut penitus novus est [...] aut novus est non quidem omni ex parte, sed uti novum admodum membrum hereditario alicui principatui annexum [...]» (De regnandi peritia I i). «Diximus principatum novum esse aut quia omnino novus est, aut qui ut membrum alicui antiquiori ab aliquo rege propriis viribus connectitur. Nunc de modis atque legibus quibus ipsum regnum novum alteri antiquiori connexum servetur [...] dicamus» (III ii).
Le battute iniziali del cap. iii del Principe contrappongono la «difficultà» propria di un p. nuovo alla relativa facilità di mantenere lo Stato che si sia ereditato: «Ma nel principato nuovo consistono le difficultà [...]». Ciò posto, è logico che, in difformità dallo schema offerto nel cap. i, il discorso prenda le mosse dal problema di un p. il cui ‘nuovo’ signore si trovi a essere già signore di uno Stato ereditato, e insomma dal caso di un principe ereditario che non si accontenti di mantenere lo Stato, ma si volga alla conquista (rimane implicito quanto è detto in Discorsi I vi 34, circa la stretta «necessità», per uno Stato, di ordinarsi alla conquista e di attuarla). È anche logico – benché un’espressione letteraria non ben risolta abbia talora disorientato i lettori – che M. entri nel tema a partire da «una naturale difficultà quale è in tutti e’ principati nuovi», perciò idealmente esorbitante dai confini del capitolo. Tale «difficultà» consisterebbe nel desiderio di miglioramento che è «naturale» negli «uomini», e che li induce prima a ribellarsi al loro signore, poi a non contentarsi di chi ne ha preso il posto; per la precisione, mentre il ‘primo’ desiderio di miglioramento costituisce difficoltà per qualsiasi genere di Stato (in qualche misura, anche per il p. ereditario), sarebbe il ‘secondo’ desiderio di mutamento, cioè quello nato dalla rapida delusione popolare, a segnare di difficoltà la sussistenza del p. ‘nuovo’. Al motivo generico, addirittura psicologico, dell’inquietudine umana (Ghiribizzi al Soderino: «Li uomini s’infastidiscono del bene e del male si dolgono»), si somma infatti il dato specifico delle «infinite [...] ingiurie», ossia dei danni e fastidi, che «si tira dreto» l’instaurazione di un nuovo potere. Ma qui M. già caratterizza la difficoltà di «tutti e’ principati nuovi» in quella che incontra un conquistatore, già «fortissimo in su li esserciti», cioè il signore di un p. misto:
tu hai nimici tutti quegli che hai offesi in occupare quello principato, e non ti puoi mantenere amici quelli che vi ti hanno messo, per non gli potere satisfare in quel modo ch’e’ si erano presupposti e per non potere tu usare contro di loro medicine forte, sendo loro obligato: perché sempre, ancora che uno sia fortissimo in su li esserciti, ha bisogno del favore de’ provinciali a entrare in una provincia (Principe iii 3).
Mentre nel cap. i si proponeva, quale esempio di p. misto, l’acquisto del Regno di Napoli da parte del re cattolico, il cap. iii analizza la politica italiana dei re di Francia, dal 1494 al 1512 – una vicenda centrale nell’«esperienza delle cose moderne» che nutre l’opuscolo, e ricca di attualità nei mesi successivi alla battaglia di Novara (6 giugno 1513) e alla pace del 6 novembre 1513 fra Leone X e Luigi XII. Il capitolo De principatibus mixtis si risolve così nella discoverta delle cagioni cui va addebitato l’esito infelice delle guerre francesi. Lasciata da parte l’avventura di Carlo VIII, M. mette a fuoco l’esperienza di Luigi. La «naturale difficultà» di cui s’è detto pare sufficiente a spiegare come mai, nel febbraio 1500, bastò che Ludovico il Moro si affacciasse in armi nel Comasco perché Milano si liberasse dall’occupazione francese («perché quegli populi che gli avevano aperte le porte, trovandosi ingannati da la opinione loro e da quello futuro bene che si avevano presupposto, non potevano sopportare e’ fastidi del nuovo principe», iii 4); non però a motivare la «rovina di Francia» (lettera a F. Vettori, 26 ag. 1513, Lettere, p. 290) seguita nel 1512-13. Si rende dunque necessaria una riflessione approfondita sugli «stati quali acquistandosi si aggiungono a uno stato antico di quello che acquista» (§ 8).
M. distingue anzitutto il caso in cui le due parti del p. misto «sono della medesima provincia» da quello in cui esse non lo sono. La facile sottomissione di Borgogna, Bretagna, Guascogna, Normandia alla corona di Francia dà esempio del primo tipo: la somiglianza di «costumi» fra le regioni (è questo il dato che identifica una «provincia») ha fatto sì che questi domini, spente le dinastie locali, potessero venire incorporati al Regno senza «alterare né loro legge né loro dazi» (§ 10). Un principe si è sostituito al precedente, e non ha avuto da affrontare specifiche ragioni di resistenza.
Ben diversa è la situazione quando la diversità di «provincia» si concreti in diversità «di costumi e di ordini» (fino all’eventuale diversità fra ordine monarchico dello Stato antico e ordine già repubblicano della città conquistata: cfr. cap. v). All’esame storico M. fa precedere, nell’ordine dell’esposizione, un elenco di cinque «rimedi» possibili: che il principe vada a risiedere nella provincia acquistata (esempio del turco Maometto II che fece di Costantinopoli la sua capitale; l’esempio non vale se lo Stato conquistatore è una repubblica); che stabilisca colonie come ceppi (compedes) per il nuovo Stato, piuttosto che angariarne gli abitanti con un esercito d’occupazione; «farsi capo e defensore de’ vicini minori potenti»; «ingegnarsi di indebolire e’ potenti di quella»; «guardarsi che [...] non vi entri uno forestiere potente quanto lui» (§ 21). Di questi rimedi, o norme d’azione, i primi due non hanno concretezza in relazione alla politica di Luigi XII; i rimanenti tre disegnano il problema della conquista come problema di valutazione e governo dei rapporti di forza nella regione in cui si inserisce il principe conquistatore. Disegnano una politica di egemonia sull’intera area, a protezione del territorio che viene effettivamente annesso allo Stato ‘antico’ (le particolari difficoltà della sua incorporazione non vengono affrontate e sono per certi aspetti rinviate alla trattazione dei capp. iv, v e xx). Da un altro punto di vista: la conquista diretta (incorporazione nello Stato antico) di un territorio viene pensata come piattaforma per un più ampio disegno egemonico.
Enunciati e ragionati i «rimedi» (§§ 12-23), M. li conferma narrando la condotta dei Romani in Grecia, riportata punto per punto alle quattro prescrizioni valide per una repubblica conquistatrice: «e’ mandorno le colonie, intrattennono e’ meno potenti sanza crescere loro potenza, abbassorno e’ potenti e non vi lasciorno prendere riputazione a’ potenti forestieri» (§ 24). Come è noto, il paradigma romano fu impiegato da M., come criterio per giudicare la politica di Luigi XII, fin dalla sua prima legazione in Francia:
[dissi a Roano] che questa Maestà doveva [...] seguire l’ordine di coloro che hanno per lo addrieto volsuto possedere una provincia esterna, che è diminuire e’ potenti, vezzeggiare li sudditi, mantenere li amici e guardarsi da’ compagni, cioè da coloro che vogliono in tale luogo avere equale autorità (lettera da Tours ai Dieci, 21 nov. 1500, LCSG, 1° t., p. 525).
La coincidenza è notevole; si noti, tuttavia, come la sequenza del 1500 non comprenda l’invio di colonie (precetto, come si disse, privo di attualità nel caso di specie), trovandosi al suo posto un suggerimento generico relativo alla condizione dei sudditi diretti, da ‘vezzeggiare’ (aspetto che in Principe iii 18 è appunto dato come motivazione per preferire lo stabilimento di colonie al mantenimento di un esercito occupante); inoltre il consiglio di «mantenere li amici» sarà precisato nella pura fisica dei rapporti di forza: «intrattennono e’ meno potenti sanza crescere loro potenza», i Romani proteggevano gli Stati meno potenti senza però consentire che aumentassero la loro potenza. L’esempio recita: «furno intrattenuti da loro gli achei e gli etoli [...], né mai e’ meriti [loro] feciono ch’e’ permettessino loro accrescere alcuno stato» (§ 25). Tale articolazione della regola non ha riscontro nel giudizio su Luigi XII, i cui errori sono così sintetizzati: «Aveva dunque fatto Luigi questi cinque errori: spenti e’ minori potenti; accresciuto in Italia potenza a uno potente; messo in quella uno forestiere potentissimo; non venuto a abitarvi; non vi messo colonie» (§ 42). L’inosservanza delle norme che erano state prospettate per prime ai §§ 11-20 scivola in coda, per la carenza di concretezza che si è già indicata. Gli altri tre errori di Luigi si riconoscono nell’appoggio fornito ad Alessandro VI in danno delle signorie dell’Italia centrale (§ 37), che somma in sé i primi due, e nella divisione del Regno di Napoli con Ferdinando il Cattolico, «forestiere potentissimo» (§§ 39-41). La superiorità del rigore analitico machiavelliano rispetto agli schemi astratti si rivela finalmente nel giudizio sul ‘sesto’ e decisivo errore di Luigi, quello di «tòrre lo stato a’ viniziani» (§ 43-44; guerra della lega di Cambrai, 1509-11). Solo in apparenza la guerra contro Venezia rispondeva alla norma di ‘abbassare i potenti di una provincia’; in sostanza, invece, l’indebolimento della Repubblica di San Marco rendeva praticabile un’alleanza fra la stessa, Giulio II e la Spagna al fine di cacciare i francesi dalla Lombardia (lega Santa dell’ottobre 1511), e si risolveva così nell’aumentare il peso di un ‘provinciale’ potente (il papa) e del «forestiere potentissimo» (Ferdinando). Luigi XII non ha saputo calcolare correttamente il ‘parallelogramma delle forze’ che avrebbe salvaguardato la conquista di Milano, e si è lasciato fuorviare da irrealistici disegni su Napoli (nel 1500-01) e su Cremona, Brescia e Bergamo (nel 1508-09).
È cosa veramente molto naturale e ordinaria desiderare di acquistare: e sempre, quando li uomini lo fanno che possano, saranno laudati o non biasimati; ma quando non possono e vogliono farlo a ogni modo, qui è lo errore e il biasimo (§ 40).
I capp. iv e v si occupano delle difficoltà nel mantenere gli Stati conquistati, a seconda dell’ordine politico vigente in loro prima della conquista. M. distingue anzitutto (iv 2-4) fra p. in cui il sovrano governa per mezzo di ministri (antico impero persiano, impero ottomano), e p. il cui monarca è, invece, attorniato da baroni (Francia). In base a questa tipologia, la difficoltà della conquista si distribuisce diversamente: data l’assenza di potentati interni ostili al sovrano, penetrare in uno Stato simile a quello del Turco è più difficile, ma mantenervisi, dopo avere sconfitto e annientato il sovrano, è più facile; per lo stesso motivo, penetrare in una provincia ordinata come la Francia è più facile, mantenervisi è più difficile. Il capitolo si svolge a partire da un quesito essenzialmente storiografico (Cur Darii regnum, quod Alexander occupaverat, a successoribus suis post Alexandri mortem non defecit); e la stessa descrizione del Regno di Francia pare più aderente al passato prossimo che al presente, visto quel che M. scrive nel Ritratto di cose di Francia (5-6):
ad ogni altro principe circumvicino bastava loro l’animo a assaltare el reame di Francia; e questo perché sempre aveva o uno duca di Brettagna, overo uno duca di Ghienna o di Borgogna o di Fiandra, che li faceva scala e davagli passo e ricettavalo [...] Ora essendo la Brettagna, la Ghienna, il Borbonese e la maggiore parte di Borgogna suddita ossequentissima a Francia [...] mancono a tali principi questi mezzi di poter infestare el reame di Francia
(e si noti che proprio l’assorbimento di Bretagna e Borgogna nel dominio reale francese è ricordato nel cap. iii del Principe). Forzata è anche l’assimilazione, agli «stati ordinati come quello di Francia», di Gallia, Spagna e Grecia al tempo della conquista romana: M. si limita a osservare che in quelle province si trovavano «spessi principati», la memoria dei quali, per il tempo che persistette, rese incerto il dominio di Roma. Nondimeno, il dominio fu più forte della ‘memoria’ che gli si opponeva, e infine la spense: sì che la diversa difficoltà nel ‘mantenere’, per i diadochi e per i Romani, si risolve nel tempo più o meno lungo che agli uni e agli altri fu necessario a consolidare l’acquisto.
Di ben maggiore rilievo teorico, e di notevolissima felicità letteraria, è il cap. v, dedicato al ‘modo di trattare’ le città e le province «consuete a vivere con le loro legge e in libertà», ossia come repubbliche. Il discorso si rivolge a un principe, cui è riservato il suggerimento di «andarvi ad abitare personalmente». Ma l’interesse di M. è puntato sull’alternativa fra gli altri due modi: «ruinarle» o «crearvi dentro uno stato di pochi che te le conservino amiche» (§ 2). Sarebbe riduttivo individuare nel problema di Pisa (evocato al § 7) l’attualità del capitolo nel quadro di un opuscolo indirizzato a Lorenzo de’ Medici. L’attualità del capitolo è invece tutta di pensiero, e va cercata nell’irresistibile insorgere del tema repubblicano pur entro un discorso programmaticamente dedicato al principato. È qui la miglior prova dell’omogeneità teorica fra Principe e Discorsi, anche se, con una punta di paradosso, il tema repubblicano si presenti, sì, come affermazione dell’indomabile valore della «libertà», ma dal punto di vista di uno Stato (principesco o repubblicano) che tale libertà deve piegare. L’esempio antico prova inequivocabilmente che il modo spartano di tenere le città conquistate («creandovi uno stato di pochi») è inferiore a quello dei Romani (che «le disfeciono»). La conquista della Grecia torna dunque sotto l’analisi di M., ma con un approfondimento sostanziale. Mentre nel cap. iii la politica seguita alla vittoria di Cinoscefale era stata approvata («furno intrattenuti da loro gli achei e gli etoli»), nel cap. v si dà atto che la scelta di riconoscere la libertà ai Greci «non successe» e che i Romani furono, cinquant’anni dopo, «constretti disfare» Corinto, smurare Tebe e ridurre la Grecia allo stato di provincia. Come si disse, il quadro logico del cap. iii (analisi di uno spazio geopolitico come campo di forze) è diverso da quello che sostiene il v (assorbimento di un’entità statuale in un’altra). In questa prospettiva, il riferimento alle città e province «use a vivere sotto uno principe» torna, al § 8, solo come termine di paragone (e in evidente antitesi agli Stati «consueti a vivere con le loro leggi e in libertà», § 1). La città abituata al p. ricade nel tipo del principato ‘orientale’, e il nuovo principe, spenta la vecchia dinastia, può guadagnarsela con facilità (sarebbe il caso delle cittadine romagnole conquistate e guadagnate dal Valentino, se quei vecchi signori non fossero piuttosto da riguardarsi come ‘tiranni’). «Ma nelle republiche è maggiore vita, maggiore odio, più desiderio di vendetta: né gli lascia né può lasciare riposare la memoria della antiqua libertà; tale che la più sicura via è spegnerle, o abitarvi» (§ 9). Quando si prescinda dall’estrema aggiunta (o abitarvi), dettata più da spirito di sistema che da altro, la spinta ad affermare il valore della «libertà» (→) riesce qui talmente forte che l’unica norma ricavabile dall’esempio romano viene a essere quella di «spegnere» le repubbliche sottomesse (norma che Nifo attribuisce senza mezzi termini ai «tyranni et qui apud eos prudentiores habentur»). Ma così M. tace un aspetto certamente essenziale della politica di Roma nei confronti dei popoli sottomessi: l’assimilazione attraverso la concessione della cittadinanza o la federazione. Questo modo «circa lo ampliare» è attentamente studiato ed elogiato da M., fin dal discorso Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (→), in alternativa razionale a «rovinare le città e mandare gli abitatori ad abitare a Roma [...] o spogliarle degli abitatori vecchi e mandarvi de’ nuovi», e soprattutto in Discorsi II iv.
Nella lettera a Francesco Vettori del 31 gennaio 1515 si mette a tema il caso di un p. tutto ‘nuovo’, per il signore che se ne impadronisce, ma costituito di parti diverse; i relativi suggerimenti di M. coincidono solo in parte con i ‘rimedi’ descritti nel Principe («assai più difficultà si truova a mantenere quelli [stati] che sono di nuovo composti di diverse membra [...] Debbe pertanto chi ne diventa principe pensare di farne un medesimo corpo e avvezzarli a riconoscere uno il più presto che può; il che si può fare in due modi: o con il fermarvisi personalmente o con preporvi uno suo luogotenente che comandi a tutti», Lettere, p. 350; corsivo nostro).
Bibliografia: Fonti: N. Machiavelli, Il Principe e altri scritti, introduzione e commento di G. Sasso, Firenze 1963, pp. 16-49; Machiavel, De principatibus. Le Prince, commentaire et notes de J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, Paris 2000, pp. 231-67.
Per gli studi critici si vedano: M. Martelli, La struttura deformata. Studio sulla diacronia del capitolo III del Principe, «Studi di filologia italiana», 1981, 39, pp. 77-120; G. Inglese, De principatibus mixtis. Per una discussione sulla diacronia del Principe, «La cultura», 1982, 20, pp. 276-301; G. Cadoni, In margine a un dibattito sul terzo capitolo del Principe, «Storia e politica», 1983, 22, pp. 138-52; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006, pp. 53-54, 59-62.
Principato nuovo di Paul Larivaille
«Ma nel principato nuovo consistono le dificultà» (Principe iii 1). Così, dopo due brevissimi capitoli dedicati, il primo, a una rassegna dei vari tipi di Stati, il secondo, tralasciando le repubbliche, agli Stati ereditari, M., nell’attacco del lunghissimo cap. iii, laconicamente approdava all’oggetto principale del suo «opuscolo De principatibus». E subito a mettere l’accento su una prima, «naturale dificultà», comune a tutti i «principati nuovi», «nuovi tutti» o non tutti nuovi che fossero, proveniente dal fatto che
li òmini mutano volentieri signore, credendo migliorare; e questa credenza li fa pigliare l’arme contro a quello; di che s’ingannono, perché veggano poi per esperienzia avere peggiorato. Il che depende da un’altra necessità naturale e ordinaria, quale fa che sempre bisogni offendere quelli di chi si diventa nuovo principe e con gente d’arme e con infinite altre iniurie che si tira drieto el nuovo acquisto, in modo che tu hai inimici tutti quelli hai offesi in occupare quello principato, e non ti puoi mantenere amici quelli che vi ti hanno messo per non li potere satisfare in quello modo che si erano presupposto, e per non potere tu usare contro di loro medicine forti, sendo loro obligato (Principe iii 1-3; la presente citazione e le seguenti sono tratte dall’ed. a cura di M. Martelli, 2006).
Dopo un accenno alla quasi immediata cacciata dei francesi da Milano nel 1499, mera illustrazione del sempre possibile esito della prima «naturale dificultà» comune a «tutti e’ principati nuovi», M. inizia ad analizzare le «cagioni» che – nonostante i provvedimenti più efficaci dettati dalla precedente esperienza – spiegano la seconda espulsione degli eserciti di Luigi XII, nel 1512, e a identificare i rimedi che avrebbero consentito al re di «potersi mantenere meglio nello acquisto» (§§ 4-7). Un’operazione, questa, che insieme necessitava e a fortiori attesta l’aggiunta (concordemente osservata in Martelli 1981 e Inglese 1982) di vari elementi non presi in considerazione nella prima stesura del testo, a cominciare da una distinzione fondamentale tra l’acquisto di «stati [...] della medesima provincia e della medesima lingua», come «la Brettagna, la Borgogna, la Guascogna e la Normandia, che tanto tempo sono state con Francia» (§§ 8-9), e quello di «stati in una provincia disforme di lingua e di costumi e di ordini» (§ 11). Nel primo caso, nonostante
qualche disformità di lingua [...] chi le acquista, volendole tenere, debbe avere dua respetti: l’uno, che il sangue del loro principe antiquo si spenga; l’altro, di non alterare né loro legge né loro dazi: talmente che, in brevissimo tempo, diventa con esso loro il principato anti-quo tutto un corpo (§§ 9-10).
Importanti difficoltà presenta invece l’acquisto di Stati in «una provincia disforme», che richiedono «gran fortuna e grande industria a tenerli», e tra i «maggiori remedii» atti ad assicurare una possessione «più secura e più durabile», un paio di soluzioni ignote ai re di Francia: andarvi ad abitare, come i sovrani turchi che dopo il 1453 avevano stabilito la loro residenza a Costantinopoli, in modo da veder nascere e poter domare presto i disordini, nonché da offrire ai nuovi sudditi una maggiore facilità di appellarsi a loro contro eventuali abusi dei loro ufficiali (§§ 11-13); o «mandarvi colonie» che a guisa di ceppi li leghino al «principato antiquo», le quali costano assai meno delle truppe di occupazione, «sono più fedeli, offendono meno, e li offesi non possono nuocere sendo poveri e dispersi» (§§ 14-20).
La prima metà del paragrafo successivo (21), visibilmente fuori posto dopo più paragrafi dedicati alla possibilità di inviare coloni in alternativa alla presenza sul luogo del principe, anticipatamente compendia le tre prescrizioni fondamentali ricavabili dalla lunga evocazione del comportamento esemplare dei «Romani nelle province che pigliorono» in Grecia: favorire i «meno potenti» senza lasciarne aumentare la potenza, «abbassare» i potenti, e non lasciar «prendere reputazione a’ potenti forestieri» (§§ 22-25). A conclusione di questi precetti generici, M. aveva aggiunto di suo una precisa raccomandazione a «tutti e’ principi savi»: un invito insistente ed espressamente ispirato al suo vissuto politico personale a fare come i Romani, a prevedere cioè gli inconvenienti futuri e a rimediarvi sempre, senza mai cedere alla tentazione «che tuttodì è in bocca de’ savi de’ nostri tempi, di godere el benefizio del tempo» (§§ 26-30).
Tornando, munito di questi precetti, a esaminare il comportamento del re di Francia, M. si accinge a dimostrare «come elli ha fatto el contrario di quelle cose che si debbono fare per tenere uno stato [in una provincia] disforme» (§ 31). Appena «messo in Italia dalla ambizione de’ Viniziani [...] ognuno se li fece incontro per essere suo amico» (§§ 32-34), di modo che con poca difficoltà, per mezzo di questi numerosi staterelli «deboli e paurosi, chi della Chiesa, chi de’ Viniziani», avrebbe potuto «assicurarsi di chi ci restava grande» (§ 36). Invece, aiutando Cesare Borgia a occupare la Romagna, aveva contribuito ad accrescere la potenza della Chiesa, a tal punto che, «perché [Alessandro VI] non divenissi signore di Toscana, fu forzato venire in Italia»; e non contento di avere così rafforzato un potente, aveva – «dove lui era primo arbitro di Italia» – con il trattato di Granada tra Francia e Spagna introdotto nella penisola «uno che potessi cacciarne lui» (§§ 37-39).
All’evocazione dei fatti vissuti da vicino dall’ex Segretario, soprattutto durante le sue legazioni sia alla corte di Francia sia presso Cesare Borgia, seguono due conclusioni o, se si vuole, una conclusione in due tempi, che alla lezione concretamente ricavabile dalla condotta del re di Francia ne aggiunge una insieme più generale e più personalmente impegnativa. L’elenco liminare dei cinque errori di Luigi XII, a cominciare dagli ultimi ricordati nel testo – «spenti e’ minori potenti; accresciuto in Italia potenzia a un potente; messo in quella uno forestiere potentissimo» –, seguiti in posizione chiastica dai primi, presumibilmente aggiunti in una seconda fase redazionale del capitolo – «non venuto a abitarvi; non vi messo colonie» –, compendia una serie di falli gravi, ma superabili senza il sesto errore, del tutto irragionevole: «tòrre lo stato a’ Viniziani» (§§ 42-43). Quindi, dopo un paio di supposizioni in inciso sulle motivazioni del re, sfociate in due sortite tipicamente machiavelliane, ma non pertinenti al tema delle presenti pagine, il riassunto conclusivo del capitolo – «Ha perduto dunque el re Luigi la Lombardia per non avere osservato alcuno di quelli termini osservati da altri che hanno preso province e volutole tenere» (§ 47) – è ora affiancato da una perorazione pro domo sua a proposito del ricordo, di cui non è rimasta traccia nella corrispondenza diplomatica del tempo, di una famosa risposta data a Georges d’Amboise, cardinale di Rouen, negli ultimi giorni di ottobre o i primi di novembre 1500 (Marchand, in Machiavel, Il Principe / Le Prince, nouvelle éd. critique par M. Martelli, 2008, d’ora in poi Marchand 2008). Al ministro di Luigi XII, il quale a Nantes gli aveva detto «che li Italiani non si intendevano della guerra», M. asserisce di aver risposto «ch’e’ Franzesi non s’intendevano dello stato [=di politica], perché, intendendosene, non lascerebbano venire la Chiesa in tanta grandezza» (§ 48). E come prova della propria perspicacia e lungimiranza politica, aggiunge ora, a più di dodici anni di distanza, la seguente frase dalla quale trae addirittura la «regola generale, la quale mai o di rado falla: che chi è cagione che uno diventi potente, ruina» (§ 50): «e per esperienzia s’è visto che la grandezza in Italia di quella [=la Chiesa] e di Spagna è stata causata da Francia, e la ruina sua causata da loro» (§ 49).
Ai problemi esaminati nel precedente, se ne aggiunge ad apertura del cap. iv un altro, uscito dalla «continua lezione delle [cose] antique»: il fatto che, dopo la morte di Alessandro Magno, il regno di Dario da lui appena conquistato non si ribellò ai suoi successori. Ma si tratta per M. di un’anomalia solo apparente, della quale approfitta per chiarire un rapporto finora non evocato tra le condizioni del mantenimento e quelle della conquista di due tipi di p.: quelli «per uno principe e tutti li altri servi» (iv 2), come quello di Dario e, modernamente, del Turco, che «hanno el loro principe con più auttorità» (§ 4) e sono più difficili da conquistare, ma poi facili da tenere; e quelli «per uno principe e per baroni» che «hanno stato e sudditi proprii, li quali li ricognoscono per signori» (§§ 2-3), come la Francia, in cui si possono sempre trovare baroni scontenti per «aprire la via a quello stato e facilitarti la vittoria: la quale di poi a volerti mantenere, si tira drieto infinite dificultà e con quelli che ti hanno aiutato e con quelli che tu hai oppressi» (§ 14).
Dopo due capitoli quasi esclusivamente dedicati alla presa di possesso e al mantenimento dei p., senza né trattare dei mezzi usati per acquistarli (conquiste militari, perlopiù), né fare più che un cenno per inciso alla duttilità degli Stati non «usi a vivere liberi» (iii 9), il cap. v reintroduce fin dal titolo due temi forse un po’ affrettatamente lasciati «indrieto»: «el ragionare delle republiche» (ii 1), e l’appena accennato caso di Stati «usi a vivere sotto uno principe»: In che modo si debbino governare le città e’ principati li quali, inanzi fussino occupati, si vivevano con le loro legge. Di nuovo, logicamente, la parte riguardante i p. occupa una proporzione vistosamente ridotta del testo, aggiungendo solo al già detto che, essendo «più tardi a pigliare l’arme [...] con più facilità se li può uno principe guadagnare e assicurarsi di loro» (v 8); mentre l’essenziale del capitolo tratta degli Stati «consueti a vivere con le loro leggi e in libertà» (§ 1), evocando tre modi di tenere le città: «ruinarle; [...] andarvi a abitare personalmente; el terzo, lasciarle vivere con le sua legge, traendone una pensione e creandovi dentro uno stato di pochi [=governo oligarchico] che te le conservino amiche» (§ 2); ma poi, dopo l’asserzione che «più facilmente si tiene una città usa a vivere libera con il mezzo de’ sua cittadini che in alcuno altro modo, volendola preservare» (§ 3) e l’evocazione di esempi spartani e romani tutti negativi, approdata alla conclusione che «in verità non ci è modo sicuro a possederle altro che la ruina» (§ 6), termina con una dozzina di righe che, nonostante l’attenuazione insita nell’idea dell’«abitarvi» posteriormente aggiunta – in un’epoca in cui poteva proporsi un trasferimento di Lorenzo de’ Medici nel suo nuovo ducato di Urbino (Ridolfi 1978; Martelli, in Il Principe, a cura di M. Martelli, 2006, d’ora in poi ed. Martelli 2006) –, suonano come un inno tra commosso e tragico alla perennità degli ideali repubblicani:
chi diviene patrone di una città consueta a vivere libera e non la disfacci, aspetti di essere disfatto da quella, perché sempre ha per refugio nella rebellione el nome della libertà e li ordini antichi sua [=le sue istituzioni politiche], li quali né per la lunghezza de’ tempi né per benefizii mai si dimenticano; e per cosa che si faccia o si provegga, se non si disuniscano o dissipano, li abitatori non sdimenticano quello nome né quelli ordini, e sùbito in ogni accidente vi ricorrono: come feciono i Pisani dopo cento anni che ella era posta in servitù da’ Fiorentini. [...] Ma nelle republiche è maggior vita, maggiore odio, più desiderio di vendetta; né li lascia né può lasciare riposare la memoria della antiqua libertà: tale che la piú sicura via è spegnerle o abitarvi (v 6-7, 9).
Avendo, con questo omaggio alle repubbliche, finito di sgombrare il terreno circostante, M. introduce ora il lettore all’argomento centrale del suo trattato, i «principati al tutto nuovi e di principe e di stato» (vi 1), e cioè alla ‘instituzione’ del fondatore ex novo di un principato mediceo: operazione richiedente il ricorso a «grandissimi essempli», da proporre «a uno omo prudente [...] acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore» (§ 2).
Posto che «diventare di privato principe presuppone o virtù o fortuna, [...] Moisè, Ciro, Romulo, Teseo e simili» (§§ 5 e 7), i più eccellenti tra quelli che lo diventarono, non ebbero dalla fortuna altro che l’occasione, ma
non arebbono possuto fare osservare [...] lungamente le loro constituzioni, se fussino stati disarmati; come [in epoca recente] intervenne a fra’ Girolamo Savonerola: il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non crederli; e lui non aveva modo a tener fermi quelli che avevano creduto, né a far credere e’ discredenti (§ 23).
Il cap. vii, De’ principati nuovi che s’acquistano con le arme e fortuna di altri, ovviamente inizia con una prognosi diametralmente opposta a quella precedente, riguardante «quelli che per propria virtù» sono diventati principi: coloro che lo diventano per fortuna «non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano, ma tutte le difficultà nascono quando sono posti» (§ 1). Presto tuttavia, dopo un breve accenno a Francesco Sforza divenuto duca di Milano per virtù, entra in scena Cesare Borgia, che «acquistò lo stato con la fortuna del padre e con quella lo perdé», avendo però fatto intanto «tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare per mettere le barbe sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri li aveva concessi» (§ 7). Concretamente: prima di restare vittima di «una estraordinaria e estrema malignità di fortuna» (§ 9), e nonostante un suo finale, fatale errore, il duca Valentino, «avendo l’animo grande e la sua intenzione alta» (§ 42), è per M. un modello indiscutibile:
Chi adunque iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi de’ nimici, guadagnarsi delli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, seguire e reverire da’ soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi li ordini antichi, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenere l’amicizie de’ re e de’ principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia o offendere con respetto, non può trovare e’ più freschi essempli che le azioni di costui (§ 43).
Questo paragrafo basta non soltanto ad anticipare certi temi chiave dei capitoli a venire, ma, se non a riassumere, almeno a definire l’atmosfera dei trentacinque paragrafi precedenti, in cui M. rende lungamente conto del comportamento del Borgia con lusso di particolari, di alcuni dei quali può perfino offrire personale testimonianza («e lui mi disse [...]», § 41).
Degli altri «dua modi» (capp. viii-ix), che non si possono «al tutto o alla fortuna o alla virtù attribuire» (viii 1), il primo, con i suoi due esempi, uno antico e l’altro moderno, ‘mostrati’ «sanza intrare altrimenti ne’ meriti di questa parte» e, trattandosi di scelleratezze, la dichiarazione, a dir poco strana, che «a chi fussi necessitato, [...] basti imitargli» (viii 3) aggiunge poco alla materia dei capitoli precedenti; eccetto forse due prove che anche le scelleratezze potevano e sempre possono, nella Siracusa antica, come nella Fermo di Oliverotto, approdare alla fondazione di p. duraturi «sanza alcuna controversia civile» (§ 7); eccetto, soprattutto, nei paragrafi conclusivi del capitolo – rinuncia non segnalata o mancata cancellazione della dichiarazione iniziale? –, l’importante entrata «nei meriti» delle «crudeltà bene usate o male usate», che insieme suona come una giustificazione e un epilogo immaginabile della leggendaria crudeltà del Borgia («Bene usate si possono chiamare quelle, se del male è licito dire bene, che si fanno a un tratto per necessità dello assicurarsi, e dipoi non vi si insiste dentro, ma si convertiscono in più utilità de’ sudditi che si può», § 24) e come un’anticipazione della conclusione del capitolo successivo:
debbe soprattutto uno principe vivere con li sua sudditi in modo che veruno accidente o di male o di bene lo abbia a fare variare; perché venendo per li tempi avversi le necessità, tu non se’ a tempo al male, e il bene che tu fai non ti giova, perché è iudicato forzato e non te ne è saputo grado alcuno (§ 30).
Anche il «privato cittadino» diventato principe della sua patria «con il favore delli altri sua cittadini» del cap. ix, non essendo «a tempo ne’ periculi a pigliare l’auttorità assoluta» (§ 25), dovrà infatti «pensare uno modo, per il quale li sua cittadini sempre e in ogni qualità di tempo abbino bisogno dello stato e di lui, e sempre poi li saranno fedeli» (§ 27). Di modo che nella prospettiva specifica del trattato, anche il p. civile (v. supra), frutto del conflitto permanente fra i due «umori diversi» di cui si compone ogni città e dell’«astuzia fortunata» di un cittadino portato al potere «dal populo o da’ grandi, secondo che l’una o l’altra di queste parte ne ha l’occasione» (§ 3), più che di un p. vero e proprio, assume l’aspetto di uno Stato intermediario, via d’accesso all’«autorità assoluta». Uno Stato perpetuamente esposto alla pericolosa instabilità che gli deriva dal contrasto fra la volontà del nuovo principe e quella di «quelli cittadini che sono preposti a’ magistrati» (§ 24) – presumibile allusione implicita al restaurato governo mediceo anteriore al 1494, e forse anche ricordo della travagliata esperienza machiavelliana della Repubblica soderiniana, ma anche prima vera occasione di sviluppare lungamente un tema brevemente accennato nell’evocazione del comportamento del Valentino in Romagna (vii 26-28): l’assoluta necessità per un principe di «avere el populo amico, altrimenti non ha in le avversità remedio» (ix 4-22).
Con l’esortazione finale del cap. ix a «salire dall’ordine civile allo assoluto» (§ 23) giunge praticamente a conclusione la teorizzazione del p. nuovo e delle sue difficoltà iniziata nel cap. iii. Passando dal cap. xii in poi all’esame dei «principali fondamenti che abbino tutti li stati, così nuovi come vecchi o misti», e dal xv «a vedere quali debbano essere e’ modi e governi di uno principe co’ sudditi o con li amici», scarseggiano le occasioni di distinguere il principe o p. nuovo dagli altri.
In xvii 2-3 – in nome della regola applicata pure a Romolo in Discorsi I ix 7: «conviene bene che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi» – M. giustifica la crudeltà di Cesare Borgia che «aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede», mostrandosi, facendo ciò, «molto più pietoso che il populo fiorentino, il quale, per fuggire el nome di crudele, lasciò destruggere Pistoia»; e poche righe dopo aggiunge che «infra tutti e’ principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele per essere li stati nuovi pieni di pericoli» (§ 5), ricordandogli tuttavia insistentemente di
essere grave al credere e al muoversi, né si fare paura da se stesso, e procedere in modo temperato con prudenzia e umanità, che la troppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda intollerabile (§ 7).
Più o meno soggiacenti pure nel cap. xix, in particolare nei §§ 19-24, dedicati all’ordinamento del Regno di Francia, le difficoltà del p. nuovo affiorano nell’evocazione degli sforzi dei nuovi imperatori romani per fuggire «con ogni industria... l’odio di quelle università che sono più potenti» (§§ 28-33), prima di svanire per opera di Settimio Severo, da M. addirittura ammirato e celebrato come un bene avventurato Borgia ante litteram (§§ 41-49).
Il cap. xx, sull’utilità delle fortezze, lascia affiorare per due volte il tema:
Non fu mai [...] che uno principe nuovo disarmassi e’ sua sudditi, anzi, quando li ha trovati disarmati, li ha sempre armati [...] Ma quando uno principe acquista uno stato nuovo, che come membro si aggiunga al suo vecchio, allora è necessario disarmare quello stato, escetto quelli che nello acquistarlo sono suti tua partigiani, e quelli ancora col tempo e con le occasioni è necessario renderli molli e efeminati e ordinarsi in modo che tutte l’arme del tuo stato sieno in quelli soli tua proprii, che nello stato tuo antiquo vivono apresso di te (§§ 5 e 9).
Gli ultimi riferimenti al p. nuovo – nei primi paragrafi del cap. xxiv, che costituiscono un semplice epilogo di una precisa osservanza delle prescrizioni soprascritte che «fanno parere uno principe nuovo antico» (§ 1), e poi nella rovente exhortatio del cap. xxvi ad agire, ordinare una nuova fanteria «la quale resista a’ cavalli e non abbia paura de’ fanti» (§ 25) e liberare l’Italia dai barbari – hanno dato l’impressione (probabilmente fondata) di costituire due conclusioni diversamente impegnate, corrispondenti a ciascuno dei due dedicatari successivi del trattato: a Giuliano de’ Medici, di salute notoriamente malferma e poco incline agli affari militari, la prima; a Lorenzo, o in procinto di essere oppure già investito del ducato di Urbino, la seconda (ed. Martelli 2006; Marchand 2008).
Sebbene ancora privo di più o meno importanti aggiunte e, soprattutto, della fervida exhortatio finale a farsi il «redentore» dell’Italia più tardi indirizzata al secondo dedicatario, l’«opusculo De principatibus» era – fin dalla lettera del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori – già presentato come un trattato completo destinato «a un principe, e massime a un principe nuovo», composto – oltre una definizione di «che cosa è principato, di quale spezie sono» – di una serie di «cogitazioni» specifiche, corredate di esempi antichi e moderni, su «come [i principati] si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono» (Lettere, p. 296), e concluso – a quanto sembra – un paio di capitoli prima della fine della versione poi vulgata, con le taglienti considerazioni del cap. xxiv su «li principi d’Italia [che] hanno perso li stati loro» (ed. Martelli 2006; éd. Marchand 2008). Ma la recente anticipazione di oltre sei anni della data di composizione dei Ghiribizzi al Soderino (Ridolfi 1954, 1978, pp. 477 e segg.), la pubblicazione delle Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina (1988-2002) e l’Edizione nazionale dei volumi delle Legazioni. Commissarie. Scritti di governo (7 tt., 2002-2011), consentendo di ricostruire più precisamente sia le vicende della Repubblica durante il quasi quindicennio di presenza in cancelleria di M., sia l’evoluzione del suo pensiero, permettono ora di accertare che già anni prima, di fronte alla sempre più paralizzante fronda dell’opposizione ottimatizia, germogliava nella mente di Piero Soderini e dei suoi «amici» l’idea di una riforma radicale della vita politica fiorentina, cui il gonfaloniere non si risolse mai, rifiutandosi di «pigliare istraordinaria autorità e rompere, con le leggi, la civile equalità» (Discorsi III iii 8); ma di cui invece, posto che non fosse lui il primo a suggerirla, oltre a presumibilmente non essere l’ultimo a predicarne la necessità, M. era stato e restò in seguito un partigiano convinto: tanto più che «avendosi – secondo un precetto enunciato nei Ghiribizzi del 1506 – a giudicare l’opere sue e la intenzione sua dal fine», Soderini avrebbe potuto a tutti dimostrare di aver agito «per salute della patria e non per ambizione sua» (Discorsi III iii 11).
Anni prima del ritorno dei Medici, insomma, il gonfaloniere che ingenuamente «credeva col tempo, con la bontà, con la fortuna sua, col beneficare alcuno [...] potere superare quelli tanti che per invidia se gli opponevano sanza alcuno scandolo, violenza e tumulto» (III xxx 21), «ma come e’ vennero dipoi tempi dove e’ bisognava rompere la pazienza e la umiltà, non lo seppe fare; tal che insieme con la sua patria rovinò» (III ix 14), era stato ante litteram per M. un bell’esempio di «principe civile» andato in rovina per non essersi mai risolto ad affrontare quello che stava già diventando il momento eroico del suo pensiero politico: la tempestiva salita «dallo ordine civile allo assoluto» raccomandata a «uno principe savio» in conclusione di Principe ix. Qualunque ne fosse il motivo, il fallimento di Soderini era stato ai suoi occhi frutto della rinuncia a un «principato nuovo» fiorentino, e mutatis mutandis il cap. ix del Principe era stato la riproposta di una scommessa persa con Soderini: prima a Giuliano de’ Medici, e poi a Lorenzo, con in più la dedica e l’exhortatio che ne allargavano la posta dall’auspicata rigenerazione politica della piccola patria fiorentina a una redenzione dell’Italia intera. Pertanto, dal momento che «sotto il profilo della genesi ideale, non il principato costituisce il prius, ma [...] la repubblica», era logico aspettarsi nel Principe una «sostanziale contemporaneità di atteggiamenti e di pensieri» con i primi diciotto o venti capitoli dei Discorsi, «genesi ideale» del Principe, scritti o no che fossero prima che M. mettesse mano al trattato (Sasso 1993, pp. 353 e segg., 560). Resta che, se il «principe della città» corrottissima di Discorsi I xviii «riassume infatti in sé molti dei caratteri costitutivi» (Sasso 1993, pp. 364 e segg.) di quello del Principe, tra la pressoché impossibile quasi-monarchia prospettata nel capitolo dei Discorsi e la soluzione monarchica volontariamente teorizzata nel Principe corrono non poche differenze, le quali, oltre a suscitare seri dubbi sulla possibilità – cui neanche M. credeva molto – di vedere nella sua Firenze l’auspicata «podestà quasi regia» frenare «quegli uomini i quali dalle leggi, per la loro insolenzia, non possono essere corretti» (Discorsi I xviii 29), sono i germi annunciatori di un superamento della fede in una soluzione principesca propugnata nel Principe.
L’assillo dell’indecifrabilità delle intenzioni del principe fondatore o rifondatore, eluso et pour cause in Principe xviii dove sarebbe stato fuori luogo, posto ma non risolto in Discorsi I ix 7 a proposito di Romolo – «conviene bene che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi» –, aggirato più che risolto dalle fervide quanto utopistiche esortazioni all’amore della fama e della gloria in Discorsi I x, culmina infatti in Discorsi I xviii, là dove M. fa dipendere «la difficultà o impossibilità che è nelle città corrotte a mantenervi una republica o a crearvela» dal fatto conturbante che
radissime volte accaggia che uno buono, per vie cattive (ancora che il fine suo fusse buono), voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nello animo usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata (§ 27).
Quale che ne fosse l’occasione o causa concreta – paura dell’autocratismo crescente di Lorenzo de’ Medici, o scomparsa nel 1519 dell’«instrumento» di un possibile p. mediceo –, una via d’uscita M. pensò di averla finalmente trovata più tardi, dopo la scoperta o riscoperta di un concetto che restò poi per lui un criterio decisivo di giudizio: l’«equalità» (→ equalità e inequalità), esattamente «civile equalità», uguaglianza di tutti di fronte alla legge, che gli offrì l’opportunità di una soluzione realistica all’angoscioso problema. Distinguendo, in Discorsi I lv, tra repubbliche incorrotte (Roma antica, Germania moderna) in cui coesistevano «bontà», «equalità» e «vita civile», repubbliche da sempre in preda all’«inequalità» e alla corruzione («regno di Napoli, Terra di Roma, la Romagna e la Lombardia») e quelle di Toscana in cui, non essendo «alcuno signore di castella e nessuno o pochissimi gentili uomini», permane «tanta equalità che facilmente da uno uomo prudente, e che delle antiche civiltà avesse cognizione, vi s’introdurrebbe uno vivere civile» (§ 25), egli approdò a questa conclusione perentoria:
Constituisca adunque una republica colui dove è o è fatto una grande equalità, e all’incontro ordini un principato dove è grande inequalità; altrimenti farà cosa sanza proporzione, e poco durabile (§ 35).
Questa esortazione – che non ha più niente a che vedere con l’exhortatio del Principe, atto di fede senza oggetto in un «principato nuovo» mediceo ormai scomparso dalla prospettiva politica fiorentina e italiana – segna, se non un punto d’arrivo, la fine del momento eroico del pensiero politico machiavelliano.
M. restringe il suo interesse a Firenze; e poiché Firenze è per definizione terra adatta alla repubblica e insofferente del p., lascia che il p. si adegui passivamente alla situazione negativa rispetto alla quale è funzionale, l’«inequalità» e l’assenza di «vivere civile e politico» (Sasso 1967, p. 158).
Bibliografia: Fonti: N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, Roma 2001; N. Machiavelli, Il Principe, a cura di M. Martelli, corredo filologico a cura di N. Marcelli, Roma 2006; Machiavel, Il Principe / Le Prince, nouvelle éd. critique du texte par M. Martelli, introduction et trad. de P. Larivaille, notes de commentaire de J.-J. Marchand; suivi de A. Nifo, De regnandi peritia / L’Art de régner, texte établi par S. Mercuri, introduction, traduction et notes de P. Larivaille, Paris 2008.
Per gli studi critici si vedano: R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787; G. Sasso, Intorno a due capitoli dei Discorsi, in Id., Studi su Machiavelli, Napoli 1967, pp. 111-59; M. Martelli, La struttura deformata. Studio sulla diacronia del capitolo III del Principe, «Studi di filologia italiana», 1981, 39, pp. 77-120; G. Inglese, De principatibus mixtis. Per una discussione sulla diacronia del Principe, «La cultura», 1982, 20, pp. 276-301; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, nuova ed. Bologna 1993.