Principio della domanda e conversione dell’azione
Il processo amministrativo è un giudizio improntato, in via generale, sui canoni propri dei processi di natura soggettiva. Ciò significa che in esso trova espressione il principio della domanda, di cui si ha esplicito riscontro agli artt. 34, co. 1, e 41, co. 1, c.p.a. Il modello della pluralità delle azioni, nella cui ottica si è posto il giudizio amministrativo dopo l’adozione del Codice, ne ha tuttavia reso più complessa l’applicazione. Le maggiori problematiche si sono riscontrate in relazione alla conversione delle azioni, di cui agli artt. 32, co. 2, e 34, co. 3, c.p.a., nonché alla “modulazione degli effetti caducatori” della pronuncia di annullamento, secondo l’indirizzo inaugurato dalla sent. Cons. St. n. 2755/2011. Su tali tematiche ha avuto modo di pronunciarsi, da ultimo, l’Adunanza Plenaria, con la sent. n. 4/2015.
Il processo amministrativo si caratterizza in generale come processo di natura soggettiva. Ciò significa che esso è volto alla tutela di una situazione giuridicamente protetta di cui il soggetto che ne è titolare (o afferma di esserne titolare) lamenta una lesione, e ne chiede dinnanzi all’organo giurisdizionale a ciò deputato la soddisfazione che non ha potuto conseguire (e che ritiene avrebbe dovuto conseguire) al di fuori del giudizio. Ciò significa, inoltre, che il processo deve essere attivato dal soggetto che tale tutela richiede, attraverso l’esercizio dell’azione giurisdizionale; e del pari da questi deve essere specificato nei suoi elementi l’oggetto della domanda giudiziale, sia in relazione allo strumento (annullamento dell’atto, risarcimento dei danni, ecc.) che si ritiene più idoneo a tutelare la propria situazione giuridica (petitum), sia in relazione ai vizi lamentati (causa petendi, almeno per l’azione di annullamento). Il processo amministrativo, al pari di quello civile, risponde quindi al principio della domanda, espresso dagli artt. 99 e 112 c.p.c., i quali trovano in esso riscontro, oltre che in virtù del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a., anche in relazione al disposto degli artt. 41, co. 1, e 34, co. 1, c.p.a., a norma dei quali, rispettivamente, «le domande si introducono con ricorso» e il giudice adotta le pronunce previste dal Codice «nei limiti della domanda». È perciò un processo improntato (anche, seppur in maniera mitigata, nell’istruttoria) al principio dispositivo; e pure nei casi eccezionali in cui si riscontra una legittimazione c.d. oggettiva (ad es. quella dell’AGCM ex art. 21 bis, l. 10.10.1990, n. 287) tali caratteri non vengono necessariamente meno del tutto.
La situazione ha assunto una maggiore complessità nel momento in cui il processo amministrativo è stato improntato al paradigma della pluralità delle azioni; per cui la rispondenza al principio della domanda deve essere più attentamente valutata in relazione al rimedio richiesto, che in tanto potrà essere disposto dal giudice in quanto appunto oggetto della domanda della parte.
Su tale profilo, incide la regola dell’art. 32, co. 2, c.p.a., secondo cui «il giudice qualifica l’azione proposta in base ai suoi elementi essenziali. Sussistendone i presupposti, può sempre disporre la conversione delle azioni». Secondo tale norma, al giudice è deputato il compito di dedurre la qualificazione giuridica della domanda senza tenere conto della formula utilizzata dalla parte (petitum formale), ma solo avendo riguardo della sua effettiva pretesa (petitum sostanziale). È questo un potere, doveroso nel suo esercizio, di carattere prettamente interpretativo, espressione del più generale principio secondo cui iura novit curia.
Invero, se in molti casi la qualificazione dà luogo ad un’operazione interpretativa estremamente semplice, in altri casi essa può presentarsi in chiave più complessa, potendo finanche prospettarsi al giudice la possibilità di articolare in concreto la domanda della parte, in ipotesi formulata come costitutiva di annullamento, in relazione all’interesse concretamente fatto valere in giudizio, al fine di disporre quelle ulteriori misure di cui all’art. 34, lett. c), c.p.a.; il che potrebbe porre l’operazione qualificatoria comunque in contrasto con il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (e con il diritto di difesa delle parti), perlomeno laddove non venga provocato il contradittorio ex art. 73, co. 3, c.p.a.
Il secondo periodo della disposizione regola invece la conversione dell’azione, cioè il mutamento di uno dei suoi elementi (petitum o causa petendi), che il giudice può disporre ricorrendone i presupposti. Ciò almeno laddove non lo si intenda, come è pur possibile, quale mera endiadi con il precedente periodo, nel senso, cioè, di costituire la conversione un’evenienza meramente consequenziale alla riqualificazione dell’azione, nella quale la stessa si risolverebbe1.
Anche a volersi optare per la prima opzione, comunque, la portata della norma non è chiara. Pare ragionevole ritenere che la sussistenza dei presupposti debba essere riferita, in primo luogo, all’esistenza dei presupposti processuali dell’azione in cui è convertita quella proposta2; inoltre, il rispetto del principio della domanda parrebbe esigere, quantomeno, quale canone minimo, l’insussistenza dei presupposti dell’azione originaria3 (ciò che giustificherebbe la conversione), nonché la continenza in quest’ultima dell’azione che risulta dalla conversione (con il che si permetterebbe un mutamento, ma non un ampliamento della domanda)4. Ma rimane comunque oscuro se detta conversione possa essere proposta d’ufficio.
Una conferma di questa impostazione si ha prendendo in considerazione l’unica ipotesi di conversione dell’azione positivamente disciplinata, a dire quella di cui all’art. 34, co. 3, c.p.a., secondo cui «quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori». In tale ipotesi si ha, infatti, l’impossibilità di decidere nel merito la domanda originariamente proposta (l’azione di annullamento è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse), la sussistenza dei presupposti processuali in relazione all’azione conseguente alla conversione (deve sussistere l’interesse ai fini risarcitori) e la continenza della seconda azione in quella originaria (la domanda si converte da costitutiva in dichiarativa, non in azione di condanna al risarcimento che come tale non dovrebbe considerarsi ricompresa in quella di annullamento). Anche in questo caso è controverso se il giudice possa procedere in via ufficiosa5.
È a fronte di tale incerta normativa che si riscontrano le maggiori perplessità giurisprudenziali, che hanno dato luogo a risultati in più occasioni discutibili.
Da ultimo, il problema della conversione delle azioni ha interessato l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che si è espressa in proposito con la sentenza 13.4.2015, n. 4.
La vicenda riguardava una procedura concorsuale impugnata sotto vari profili, della quale la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha riscontrato l’illegittimità, venendosi però definitivamente a pronunciare a circa quindici anni dal suo espletamento. Il ricorrente aveva chiesto l’annullamento degli atti impugnati e aveva più volte ribadito, da ultimo nell’udienza di discussione, di avervi interesse nonostante il decorso di un lungo periodo dallo svolgimento della prova. In ragione di tali circostanze è stata allora rimessa all’Adunanza Plenaria, con ord. 22.1.2015, n. 2846, la questione se il giudice amministrativo possa non disporre l’annullamento della graduatoria di un concorso di cui si è riscontrata l’illegittimità, e disporre che al ricorrente spetti unicamente un risarcimento del danno, quando la pronuncia giurisdizionale sopraggiunga a distanza di moltissimi anni dalla approvazione della graduatoria e dalla nomina dei vincitori e sia per questi ultimi (ai quali i vizi non erano imputabili) particolarmente pregiudizievole.
Si prospettava quindi una conversione dell’azione di annullamento in azione risarcitoria, che il giudice avrebbe dovuto disporre d’ufficio, sulla base della “valutazione di tutte le circostanze”, cioè ponderando gli interessi di tutte le parti, in particolare in relazione alla sottrazione del “bene della vita” ai controinteressati al fine di soddisfare una mera chance del ricorrente, peraltro di difficile attuazione.
A supporto di tale tesi si sono richiamati essenzialmente due argomenti. Il primo è quello relativo al principio enunciato da Cons. St., VI, 10.5.2011, n. 2755, secondo cui è possibile per il giudice amministrativo, in presenza di particolari circostanze, “modulare” l’effetto costitutivo di annullamento di una sentenza che riscontri l’illegittimità di un atto, fino ad arrivare ad escluderlo del tutto per disporre unicamente l’effetto conformativo.
Giova ricordare che in quella vicenda si discuteva della validità di un piano faunistico venatorio, impugnato da parte di un’associazione ambientalista in ragione del mancato espletamento della VAS. L’esclusione degli effetti caducatori si sarebbe resa necessaria, secondo il Consiglio di Stato, perché se all’accoglimento del ricorso avesse fatto seguito il venir meno del piano si sarebbe avuta la conseguenza paradossale di eliminare qualsiasi regolamentazione e prescrizione relativa allo svolgimento della caccia, in palese contrasto non solo con le esigenze di tutela sottese alla normativa di settore, ma anche con lo stesso interesse posto alla base dell’impugnazione.
Il secondo argomento concerneva invece l’art. 34, co. 3, c.p.a. In proposito, pur dandosi riscontro del contrasto giurisprudenziale in merito alla necessarietà dell’espressa richiesta dell’interessato per procedere alla conversione dell’azione7, si è ritenuto, però, che tale questione interpretativa non fosse rilevante, atteso che nella controversia all’esame della Quinta Sezione la conversione dell’azione si sarebbe dovuta disporre in ragione dell’inidoneità dell’annullamento a dare una tutela effettiva al ricorrente a fronte dello sproporzionato danno per i controinteressati.
L’Adunanza Plenaria, investita della questione, non ha però accolto la tesi oggetto dell’ordinanza di rimessione. Questa, infatti, secondo il Supremo consesso amministrativo, si sarebbe posta in contrasto con il principio della domanda e con la natura soggettiva della giurisdizione amministrativa, che impedirebbero, in un caso come quello in esame, di mutare d’ufficio la domanda del ricorrente.
In proposito non sarebbero pertinenti i richiami effettuati dalla Quinta Sezione. In merito alla sentenza n. 2755/2011, infatti, la modulazione o finanche l’esclusione degli effetti caducatori era stata disposta in presenza di particolari presupposti attinenti all’interesse del ricorrente, mentre nella vicenda rimessa alla Plenaria si era ritenuto sussistente l’interesse all’annullamento. Analogamente, in relazione alla conversione ex art. 34, co. 3, c.p.a., in disparte la questione se questa possa essere disposta o meno in via ufficiosa, si richiede comunque la sopravvenuta carenza di interesse all’annullamento, ciò che invece era escluso nel caso di specie. Insomma tali poteri sarebbero esercitabili in relazione al concreto atteggiarsi dell’interesse del ricorrente, non invece per una ponderazione degli interessi delle parti.
Le pronunce appena esaminate hanno il merito di porre in evidenza due dei principali problemi che si sono riscontrati in relazione al principio della domanda nel contesto della pluralità delle azioni che caratterizza il processo amministrativo.
Il primo è quello relativo alla modulazione e finanche all’esclusione degli effetti caducatori di una pronuncia di annullamento, potere in relazione al quale la riferita sentenza n. 2755/2011 ha inaugurato un fecondo filone giurisprudenziale che ne ha fatto ampia applicazione8. Il problema è quello di valutare in che limiti il giudice amministrativo possa effettivamente disporre degli effetti caducatori dell’annullamento senza porsi in contrasto con il principio della domanda, senza, cioè, andare contro il petitum oggetto della domanda giudiziale.
Invero, in relazione a quella pronuncia già in altra sede9 si è avuto modo di sostenere che l’obiettivo perseguito dall’associazione ambientalista nel caso di specie non era l’annullamento dell’atto impugnato, bensì la dichiarazione di invalidità dello stesso ai soli fini della condanna della P.A. alla emanazione di un provvedimento che sostituisse quello illegittimamente adottato ed effettivamente tutelasse l’interesse di cui l’associazione stessa era portatrice. In questo quadro, il non annullamento seguito dagli effetti conformativi nient’altro significa se non un condanna della P.A. ad emanare il provvedimento richiesto: si è quindi nell’ambito proprio delle azioni di condanna ad un facere specifico, ammesse ora in via generale in forza del combinato disposto degli artt. 30, co. 1, e 34, lett. c), c.p.a.; e, all’interno di queste, di un’azione automa di condanna ad un facere, giacché il ricorrente non aveva interesse al venir meno dell’atto difforme da quello che la P.A. avrebbe dovuto legittimamente adottare se non laddove il primo fosse effettivamente sostituito dal secondo. In ragione di ciò, si è quindi giustificata l’applicazione del principio del “non annullamento” per i casi in cui risulti funzionale ad una statuizione di condanna, qualora la relativa domanda sia stata proposta.
Se, quindi, attraverso il “non annullamento” il giudice vuole garantire l’effettiva pretesa fatta valere dal ricorrente, esso potrà considerarsi, ricorrendo determinati presupposti, conforme al principio della domanda; negli altri casi il giudice non potrà invece disporre degli effetti caducatori.
Sul punto si deve invero segnalare che il giudice amministrativo ha talvolta utilizzato estensivamente tale facoltà, rapportandola alla complessiva valutazione degli interessi in gioco: in disparte quei casi ove ciò che veniva in questione era in realtà soltanto l’irretroattività degli effetti dell’annullamento10, si è infatti assistito alla modulazione degli effetti caducatori al fine di consentire il contestuale esame del ricorso principale e del ricorso incidentale11, ovvero, come nella vicenda oggetto dell’ordinanza di rimessione, per evitare un nocumento eccessivo ai controinteressati rispetto all’esiguo vantaggio ottenibile dal ricorrente vincitore.
Correttamente, dunque, l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 4/2015 ha collegato il principio espresso dalla sentenza n. 2755/2011 (peraltro altamente discusso nella sua ammissibilità) all’interesse della parte che ha proposto la domanda, unico parametro che il giudice potrebbe tenere in conto.
La seconda problematica riguarda i presupposti per procedere alla conversione dell’azione, in particolare con riferimento all’ipotesi prevista dall’art. 34, co. 3, c.p.a.
Si è detto, sul punto, che perché possa procedersi ad una conversione della domanda intesa in senso proprio, cioè ad un mutamento del petitum o della causa petendi, dovrebbero, da un lato, risultare sussistenti i presupposti processuali dell’azione che risulta dalla conversione, e, dall’altro, insussistenti quelli dell’azione originaria; quest’ultima, inoltre, dovrebbe necessariamente contenere la nuova azione, perché la conversione giustificherebbe la possibilità di ottenere qualcosa di diverso, ma non qualcosa di più. Si è aggiunto, inoltre, che tali elementi si ritrovano nella fattispecie di cui all’art. 34, co. 3, c.p.a., in relazione alla conversione dell’azione di annullamento in azione di accertamento dell’illegittimità dell’atto ai fini risarcitori. Discussa è, tuttavia, la possibilità per il giudice di procedere in via ufficiosa alla conversione.
In giurisprudenza si sono affermati differenti orientamenti. Secondo un primo indirizzo non è necessaria una specifica istanza dell’interessato affinché il giudice accerti l’illegittimità dell’atto, atteso che la ratio della norma sarebbe appunto quella di permettere al giudice, una volta accertata la sopravvenuta carenza di interesse all’annullamento e la sussistenza dell’interesse all’accertamento ai fini risarcitori, di convertire l’azione astenendosi dal pronunciare l’improcedibilità del ricorso12.
Un secondo orientamento ritiene però questa tesi in contrasto con il principio della domanda, giacché sarebbe demandato al giudice, in via ufficiosa, il mutamento del petitum. La conversione, allora, in tanto potrebbe essere disposta in quanto vi sia stata un’espressa manifestazione dell’interesse all’accertamento dell’illegittimità dell’atto, il cui contenuto, secondo alcune pronunce, potrebbe limitarsi alla mera allegazione dell’interesse stesso13, mentre, secondo altre, dovrebbe essere supportato da elementi concreti sulla possibile sussistenza di un danno14, in taluni casi richiesti in maniera particolarmente marcata15.
Vi è poi un ulteriore indirizzo giurisprudenziale secondo cui qualora la domanda di annullamento del ricorrente sia dichiarata improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, non sussiste alcun residuo interesse alla trattazione del ricorso ai fini di un successivo risarcimento del danno se non risulta presentata, già nel ricorso stesso o in un separato giudizio, la domanda risarcitoria16.
Sul punto bisogna distinguere. Richiedere che il ricorrente, per ottenere l’accertamento dell’illegittimità dell’atto ai fini risarcitori, debba necessariamente aver già proposto la domanda risarcitoria,
o persino averne dimostrato la fondatezza, si risolve in un controsenso, perché in questa ipotesi l’accertamento dell’illegittimità dell’atto avverrebbe non a seguito della conversione dell’azione di annullamento in azione dichiarativa, ma appunto per la proposizione dell’azione risarcitoria, la quale postula comunque (anche laddove esperita in via autonoma) un sindacato sull’illegittimità dell’atto adottato, al fine di dimostrare l’ingiustizia del danno. La norma di cui all’art. 34, co. 3, c.p.a. sarebbe dunque del tutto irrilevante17.
La ratio di questa disposizione, invece, va ricercata nell’autonomia dell’azione risarcitoria, sancita dal Codice del processo amministrativo, per cui è possibile chiedere il risarcimento anche senza aver impugnato l’atto illegittimo, entro 120 giorni dalla sua adozione. Se però il ricorrente è interessato anche all’annullamento dell’atto, può procedere in due diversi modi: può chiedere contestualmente annullamento e risarcimento; ovvero può chiedere soltanto l’annullamento, essendogli concessa in questo caso la possibilità di esperire l’azione risarcitoria «nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza» (art. 30, co. 5, c.p.a.). Ora, è di tutta evidenza che se, una volta proposta unicamente l’azione di annullamento, l’interesse del ricorrente viene meno nel corso del giudizio, questi si vedrebbe pronunciata una sentenza di improcedibilità; gli sarebbe pertanto preclusa la possibilità di usufruire della facoltà prevista al co. 5 dell’art. 30, e quindi di chiedere successivamente il risarcimento dei danni, perché l’illegittimità dell’atto non è stata accertata18. Questa conseguenza risulterebbe del tutto incongrua rispetto all’assetto sistematico dell’azione risarcitoria: proprio per questo motivo, in ragione, cioè, della necessità di collegare l’accertamento dell’illegittimità dell’atto compiuto in sede impugnatoria all’esperimento dell’azione risarcitoria, si prevede allora che il giudice possa comunque dichiarare l’illegittimità quando non sussiste più l’interesse all’annullamento; perché tale declaratoria non è funzionale soltanto alla caducazione dell’atto, ma anche all’eventuale successivo esperimento della domanda risarcitoria.
L’art. 34, co. 3, c.p.a. fa dunque riferimento alla conversione dell’azione di annullamento in azione di accertamento, senza che l’azione risarcitoria sia direttamente considerata. L’equivoco è del resto evidente anche in relazione a quelle pronunce che richiedono, per procedere alla conversione dell’azione, la dimostrazione, più o meno marcata, della sussistenza di un danno; ovvero nella stessa ordinanza di rimessione alla Plenaria, ove sarebbe stato lecito attendersi, a tutto concedere, una conversione ufficiosa dell’azione di annullamento non già in un’azione risarcitoria, bensì (in linea con il disposto dell’art. 34, co. 3, c.p.a., peraltro espressamente richiamato) in un’azione di accertamento dell’illegittimità dell’atto ai fini risarcitori.
Più complessa la questione relativa alla necessità che vi sia un’espressa manifestazione dell’interesse all’accertamento dell’illegittimità qualora venga meno l’interesse all’annullamento.
In proposito, va tenuto presente che l’accertamento relativo alla sussistenza o all’insussistenza dell’interesse a ricorrere è un compito ufficioso del giudice, svolto al fine di valutare l’ammissibilità, e l’eventuale sopravvenuta improcedibilità, della domanda (artt. 35, lett. b) e c), e 84, co. 4, c.p.a.). Nell’ipotesi che ci interessa, il giudice, una volta rilevata, d’ufficio o su sollecitazione di parte, l’improcedibilità del ricorso, sarebbe poi chiamato a valutare la sussistenza dell’interesse (all’accertamento) ai fini risarcitori. Salvo il caso in cui questo non sia stato già nel corso del giudizio espressamente manifestato in senso positivo o negativo, ovvero che ciò non risulti implicitamente, ma univocamente, dai fatti di causa, tale valutazione rischierebbe però di porsi in maniera soltanto ipotetica, atteso che andrebbe effettuata in merito ad un’azione dichiarativa la quale si pone in rapporto con un’altra azione, quella risarcitoria, il cui successivo esperimento è solo eventuale19. Dovrebbe allora ritenersi che il giudice sia sempre tenuto all’accertamento dell’illegittimità dell’atto ai fini risarcitori, salvo che l’interesse a detto accertamento non risulti inequivocabilmente (anche se in ipotesi non esplicitamente) escluso dai fatti di causa.
Si tenga però presente che, in ogni caso, essendosi per l’ipotesi di conversione al cospetto di una questione ufficiosa, su di essa dovrebbe comunque essere provocato il contraddittorio ex art. 73, co. 3, c.p.a. La soluzione preferibile potrebbe allora essere quella di ammettere, in ragione della circostanza che la domanda risultato della conversione non è stata proposta dalla parte, che quest’ultima in sede di contradditorio possa esprimersi sull’interesse all’accertamento (laddove questo, si ripete, non risulti indiscutibilmente escluso). Ciò perché diversa è la situazione relativa ad una valutazione ufficiosa dell’interesse a fronte di una domanda esperita dalla parte, ove l’interesse è da questa affermato con la proposizione della domanda stessa, rispetto a quella concernente la medesima valutazione sulla domanda risultato della conversione, ove tale affermazione manca.
Non sarebbe invece necessario, come sostenuto da una parte della giurisprudenza, l’allegazione di elementi concreti sulla sussistenza del danno, che si risolverebbe in una valutazione parzialmente anticipatrice del merito.
In questo modo, al rilievo ufficioso del giudice sull’interesse all’accertamento ai fini risarcitori sopperirebbe la necessità che esso sia comunque posto in rapporto con una dichiarazione della parte; mentre sarebbe escluso che il giudice pronunci l’improcedibilità e non proceda alla conversione per il solo fatto che tale dichiarazione non sia stata già precedentemente resa. Il rispetto del principio della domanda, che potrebbe sembrare in discussione in ragione di una conversione automatica dell’azione prevista ex lege, sarebbe dunque garantito dal rispetto del principio del contraddittorio20, che impedisce che la conversione della domanda possa avvenire prescindendo dalla volontà di chi l’ha proposta. Ciò che varrebbe quale principio generale, anche in relazione alla conversione ex art. 32, co. 2, c.p.a.
Tanto precisato, può allora suggerirsi una soluzione alternativa a quella prospettata nella vicenda oggetto della pronuncia dell’Adunanza Plenaria n.4/2015. È pacifico, infatti, da quanto fin qui considerato, che non potrebbe ammettersi una conversione dell’azione contro la volontà della parte interessata e in presenza della sussistenza dell’interesse ad una pronuncia sulla domanda originaria. Tuttavia, la valutazione della sopravvenuta carenza di interesse è rimessa al giudice, il quale può desumerla anche indipendentemente dalle dichiarazioni della parte (cfr. l’art. 84, co. 4, c.p.a. già richiamato).
Nel caso di specie, la domanda di annullamento era retta da un interesse c.d. strumentale, giacché la soddisfazione della pretesa sostanziale del ricorrente si sarebbe avuta in ragione della possibile reindizione della procedura a seguito dell’annullamento di quella impugnata. Ebbene, nella controversia in questione, era lecito dubitare della effettiva portata di tale interesse, giacché scarse si presentavano le possibilità di reindizione della medesima procedura concorsuale a quindici anni dal suo originario svolgimento. La Sezione avrebbe allora potuto, invece di ipotizzare una conversione dell’azione contro la volontà della parte, rilevare la sopravvenuta carenza di interesse all’annullamento, non risultando scriminanti sul punto le affermazioni del ricorrente; avrebbe poi dovuto, in presenza di un interesse all’accertamento ai fini risarcitori, pronunciare la conversione dell’azione di annullamento (non già in un’azione risarcitoria, bensì) in un’azione dichiarativa dell’illegittimità dell’atto, ovvero, in mancanza, limitarsi a pronunciare l’improcedibilità della domanda impugnatoria, secondo il disposto dell’art. 34, co. 3, c.p.a.
In questo modo, le esigenze sottese all’effettiva tutela delle parti potevano essere garantite in linea con le regole processuali proprie del nostro ordinamento giurisdizionale, senza invece invocare (peraltro in espresso contrasto con un principio cardine dei processi di natura soggettiva, cioè quello della domanda) un potere di ponderazione degli interessi in gioco che al giudice deve considerarsi in via generale estraneo.
Una situazione, quella appena descritta, che va a collocarsi all’interno di quella più generale tendenza, a cui si sta assistendo negli ultimi tempi, all’oggettivizzazione del processo amministrativo e alla svalutazione dei profili soggettivi che reggono (dovrebbero reggere) le esigenze di tutela fatte valere21; tendenza a cui la Plenaria sembra ora porre un freno.
1 In questo senso Corso, G., Art. 32, in Quaranta, A.Lopilato, V., a cura di, Il processo amministrativo, Milano, 2011, 326328, che ritiene questa l’unica interpretazione compatibile con il rispetto del principio della domanda. Si è data peraltro questa interpretazione (e si ritiene ancora preferibile, per la sua maggiore compatibilità con il principio della domanda) in Carbone, A., L’azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012, 211, ove si era pure qualificata quella di cui all’art. 34, co. 3, c.p.a. come ipotesi di conversione in senso proprio.
2 Cfr. sul punto, Follieri, F., Qualificazione e conversione dell’azione alla prova del principio della domanda, in Dir. proc. amm., 2013, 195 ss.
3 Si potrebbe discutere sull’impossibilità di accoglimento per motivi di merito, ma in tal caso si assisterebbe sempre alla conversione di un’azione infondata in un’azione (non solo ammissibile, ma anche) fondata, non avendo senso la conversione di un’azione infondata in un’altra infondata. In questo modo però tra i presupposti che devono sussistere per la conversione si finirebbe di fatto per includere, per l’ipotesi considerata, anche la fondatezza dell’azione risultato della conversione.
4 Resta fermo, inoltre, che la conversione non può avvenire in violazione di una norma espressa: così, non potrebbe convertirsi un’azione di annullamento proposta oltre il termine di 60 gg. in un’azione di accertamento dell’illegittimità dell’atto, perché l’art. 34, co. 2, seconda parte, c.p.a. vieta al giudice di conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto ritualmente impugnare, salvo il caso di conversione per sopravvenuta carenza di interesse all’annullamento ex art. 34, co. 3, c.p.a. di cui subito appresso.
5 Sul tema cfr. Verri, P., Declaratoria di illegittimità del provvedimento ai fini risarcitori, in Dir. proc. amm., 2014, 964 ss.
6 In Giustamm.it, 2015, con nota di Mazzamuto, M., Dalla dequotazione dei vizi “formali” alla dequotazione dei vizi “sostanziali”.
7 Cfr. infra.
8 Si veda la rassegna di giurisprudenza esaminata da D’Oro, F., Modulabilità degli effetti della sentenza di annullamento e conformazione dell’azione amministrativa, in Giustamm.it, 2014.
9 Cfr. Carbone, A., Azione di annullamento, ricorso incidentale e perplessità applicative della modulazione degli effetti caducatori, in Dir. proc. amm., 2013, 428 ss.
10 TAR Umbria, I, 18.1.2013, n. 20; TAR Liguria, II, 22.1.2014, n. 102.
11 TAR Lazio, II ter, 13.7.2012, n. 6418, che in tal modo riesce a pervenire all’esame contestuale dei due ricorsi senza porsi formalmente in contrasto con l’Ad. plen., 7.4.2011, n. 4 (poi tuttavia superata da Cons. St., A.P., 25.2.2014, n. 7, a seguito della sent. C. giust., 4.7.2013, C100/12, Fastweb).
12 Cons St., V, 12.5.2011, n. 2817.
13 TAR Lombardia, Milano, IV, 20.3.2013, n. 730.
14 Cons. St., VI, 20.7.2011, n. 4388.
15 TAR Toscana, I, 7.5.2015, n. 734.
16 Cons. St., V, 13.1.2014, n. 70; TAR Lazio, III, 23.4.2014, n. 4419.
17 Correttamente Cons. St., VI, 13.9.2012, n. 4863, ritiene che l’interesse al mero accertamento dell’illegittimità non sussista laddove la pretesa risarcitoria sia già stata ritualmente azionata in una distinta controversia.
18 Questa è almeno l’interpretazione che pare più coerente con la ratio sistematica della normativa. In termini differenti si pongono però talune pronunce che richiedono, perché si possa procedere all’accertamento dell’illegittimità dell’atto, la proposizione della domanda risarcitoria: cfr. TAR Lazio, n. 4419/2014, cit.; TAR Lombardia, Brescia, I, 12.3.2013, n. 252, secondo cui il successivo esperimento dell’azione risarcitoria ex art. 30, co. 5, c.p.a. non è precluso dall’esito di improcedibilità dell’azione di annullamento. Ciò che tuttavia priva ancor di più di rilevanza l’art. 34, co. 3, c.p.a.
19 E rispetto alla quale, come azione di condanna, la teoria processuale ritiene l’interesse ad agire in re ipsa, il resto attenendo al merito.
20 Il che dunque postula un’applicazione rigorosa dell’art. 73, co. 3, c.p.a., ciò che non sempre è dato riscontrare: cfr. in generale Saitta, F., La “terza via” ed il giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014, 827 ss.
21 Si rimanda a Carbone, A., Modelli processuali differenziati, legittimazione a ricorrere e nuove tendenze del processo amministrativo nel contenzioso sugli appalti pubblici, in Dir. proc. amm., 2014, 423 ss. Sui rapporti tra profili soggettivi e profili oggettivi del processo amministrativo si veda anche Cons. St., A.P., 27.4.2015, n. 5, su cui il commento di C. Contessa in questo Volume.