Principio della non contestazione e art. 115 c.p.c.
La l. n. 69/2009, modificando il co. 1 dell’art. 115 c.p.c., ha codificato nel nostro sistema processuale il cd. principio della non contestazione, ovvero l’obbligo per il giudice di assumere in decisione senza bisogno di prova i fatti allegati in giudizio da una parte e non specificamente contestati dalla controparte costituita. Di qui l’esigenza di analizzare gli orientamenti giurisprudenziali che vanno emergendo in sede di prima applicazione della novità legislativa sui profili più controversi e problematici, anche alla luce delle soluzioni interpretative ed applicative avanzate in dottrina ed in giurisprudenza prima che il richiamato principio venisse esplicitato dal legislatore.
Il lungo dibattito intorno all’applicabilità del cd. principio di non contestazione anche nel nostro sistema processuale1, accompagnato da significativi interventi della Cassazione2, finalmente ha condotto, con la l. n. 69/2009, alla sua esplicita codificazione nel co. 1 dell’art. 115 c.p.c., il quale, ora, espressamente prevede che «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita».
La formulazione, oltre a rendere esplicita l’esistenza anche per il nostro processo civile di un principio che già si era ritenuto di ricavare in via di interpretazione sistematica3 e la cui applicabilità, dunque, non può essere limitata alle sole controversie successive all’entrata in vigore della l. n. 69/20094, risolve alcuni problemi, pure emersi dal dibattito intorno all’istituto in esame, ma ne lascia irrisolti altri, come vedremo nel prosieguo.
2.1 Fondamento del principio
La collocazione del riferimento ai fatti non contestati nel co. 1 dell’art. 115, che – come noto – impone al giudice l’obbligo di fondare la decisione sulle prove proposte dalle parti o dal P.M., potrebbe indurre a pensare che il legislatore abbia inteso imporre al giudice l’obbligo di considerare «come veri» i fatti non specificamente contestati tra le parti costituite. Indurre a pensare, cioè, che il risultato della non contestazione sia lo stesso delle prove, cioè rendere (presuntivamente o fittiziamente) veritieri i fatti allegati5. Non ci pare, tuttavia, che la collocazione della disposizione scelta dal legislatore assuma una tale fondamentale rilevanza, al punto da attribuire allo stesso legislatore la volontà di riconoscere alla non contestazione la funzione di imporre al giudice di ritenere i fatti non specificamente contestati «come se fossero veri» nonostante non siano stati sottoposti alla verifica probatoria. Piuttosto, la collocazione nell’art. 115 del riferimento ai fatti non specificamente contestati risponde all’esigenza, opportuna, di ricomprendere anche questa categoria di fatti (oltre che i fatti notori e le massime di esperienza) fra le deroghe che lo stesso art. 115 pone – sia pure per ragioni diverse – al principio generale con il quale esso si apre, nel limitare i poteri del giudice in materia probatoria, e cioè al principio secondo cui nel decidere il giudice deve fondarsi sulle prove indicate dalle parti e dal P.M. «salvi i casi previsti dalla legge». Peraltro, alla base del ragionamento secondo cui la collocazione del riferimento ai fatti non specificamente contestati porterebbe a ritenere che il legislatore voglia imporre al giudice di assumere questi fatti in decisione «come veri» vi è un equivoco di fondo, essendo evidente (dal punto di vista logico ancor prima che processuale) che non può essere l’atteggiamento assunto dalla controparte nei confronti del fatto allegato a rendere (processualmente) vero tale fatto, cioè ad offrire al giudice – così come accade con le prove – elementi di conoscenza dei fatti accaduti fuori del processo.
2.2 Gli effetti derivanti dall’applicazione del principio
In realtà, anche alla luce della scelta del legislatore, occorre ribadire quanto tradizionalmente si sostiene come effetto della non contestazione, e cioè la relevatio ab onere probandi nei confronti della parte che ha allegato il fatto non contestato. In altri termini, la non contestazione non è uno strumento probatorio, in quanto non è in grado di offrire al giudice alcun elemento di conoscenza dei fatti allegati, ma rileva solo sul piano dell’art. 2697 c.c. ovvero sul piano della ripartizione dell’onere della prova6. Piuttosto, come già rilevato in altra occasione7, l’ammissibilità del principio si giustifica alla luce della ricostruzione sistematica delle norme che disciplinano poteri ed oneri delle parti nel processo civile, ed in particolare delle norme che disciplinano il potere monopolistico delle parti di allegare in giudizio i fatti di causa. Di fronte ad una determinata allegazione fattuale la controparte ha il potere sia di contestare (con l’indicazione, eventuale, di prove contrarie), sia di avanzare vere e proprie eccezioni. Nell’un caso come nell’altro ci muoviamo nell’ambito del potere monopolistico delle parti di allegazioni dei fatti di causa. Ebbene, nel momento in cui il co. 1 dell’art. 115 impone che, laddove la parte intenda contestare i fatti ex adverso allegati, lo debba fare in modo specifico, colora una tale attività della parte imponendole di non limitarsi alla mera negazione, ma di specificare la sua contestazione, formulandola come un’allegazione diversa e di segno contrario rispetto all’allegazione dedotta dalla controparte. Dunque, intervenuta la non contestazione il fatto allegato non diventa vero in quanto provato, ma molto più semplicemente diventa non coperto dall’onere della prova per la parte che l’ha allegato. Se questa è l’efficacia che determina la non contestazione è evidente che rispetto al fatto non specificamente contestato intatti rimangono i poteri del giudice di rilevare, rispetto ad esso, eccezioni rilevabili d’ufficio fondate su fatti emergenti dalle allegazioni. Il «deve» che il co. 1 dell’art. 115 rivolge al giudice, dunque, non può essere inteso come vincolo di ritenere vero il fatto non contestato, ma come obbligo di assumerlo anche se non supportato da prova, sempreché lo stesso fatto non possa essere ritenuto insussistente o infondato dal giudice sulla base delle iniziative processuali che egli ha comunque il potere di esercitare. Diverso, invece, il discorso da fare rispetto alle prove disponibili d’ufficio sul fatto non contestato: questo potere ci pare sia inibito al giudice proprio perché, se si consentisse ciò, si impedirebbe di fatto l’operatività stessa del co.1 dell’art. 1158. Inoltre, la rilevata connessione della non contestazione all’autoresponsabilità delle parti per quanto allegano o non allegano in giudizio determina che il nuovo co. 1 dell’art. 115 sia destinato a trovare applicazione:
a) con riferimento a tutti i fatti allegati dalla controparte, sia principali che secondari, a nulla rilevando la previsione del rilievo ufficioso delle conseguenze giuridiche di questi fatti (come avviene, ad es., per i fatti cd. secondari)9;
b) anche quando il rapporto oggetto della controversia si fondi su contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad probationem; questa rileverà soltanto quando il fatto sia controverso e bisognoso di prova; e ciò, a differenza di quel che accade con riferimento a rapporti per i quali sia richiesta la forma scritta ad substantiam, essendo questa materia sottratta alla disponibilità delle parti;
c) anche nei casi di litisconsorzio necessario, di intervento volontario o coatto di terzo o di intervento del P.M., tutte le volte in cui la non contestazione sia riferibile a tutte le parti contro le quali producono effetti i fatti allegati.
Più discussi, invece, rimangono alcuni ulteriori profili applicativi del principio in questione, sui quali occorre soffermarsi.
3.1 I processi su diritti indisponibili
Anzitutto, in sede di prima applicazione del principio in questione se ne è esclusa l’utilizzabilità nell’ambito dei giudizi su diritti indisponibili ed in particolare nel giudizio per disconoscimento della paternità promosso ai sensi dell’art. 244 c.c.10 La conclusione è senz’altro condivisibile, essendo orientamento tradizionale l’esclusione dell’operatività del principio di non contestazione con riferimento a processi su diritti indisponibili. E questo, anche nel silenzio del novello legislatore sul punto. Una tale conclusione è agevolmente giustificata dalla circostanza che, se il legislatore attribuisse alle (dichiarazioni e comportamenti delle) parti gli stessi poteri di «condizionamento» della formazione del convincimento giudiziale che esse tradizionalmente hanno nei processi su diritti disponibili, si determinerebbe un’evidente alterazione della stessa natura indisponibile che le situazioni oggetto del processo hanno sul piano della disciplina sostanziale. Si riconoscerebbe, cioè, la possibilità che le parti, con i loro comportamenti e dichiarazioni processuali, ottenessero tramite la pronuncia della sentenza ciò che esse non potrebbero ottenere tramite l’autonomia privata. Con la conseguenza che, per effetto di ciò, verrebbe di fatto accresciuto il grado di dispositività (o meglio, verrebbe attenuato quello di indisponibilità) che sulle situazioni soggettive dedotte in giudizio le parti hanno sul piano sostanziale. Peraltro, escludere l’operatività della «non contestazione» come relevatio ab onere probandi per i fatti allegati dalla controparte nell’ambito dei processi aventi ad oggetto diritti indisponibili non significa che essa non assuma alcun rilievo sul piano della formazione del convincimento giudiziale. È opinione comune, infatti, quella secondo cui, nell’ambito dei processi aventi ad oggetto diritti indisponibili, la «non contestazione» rilevi non come relevatio ab onere probandi a favore della parte su cui l’onere grava, ma – proprio per la particolare natura dei diritti in contesa – come comportamento processuale dal quale, alla luce dell’art. 116, co. 2, c.p.c. il giudice può, al più, ricavare «argomenti di prova», a supporto delle prove vere e proprie già assunte su iniziativa della parte onerata o d’ufficio dal giudice11.
3.2 I comportamenti processuali che integrano «non contestazione»
Un secondo profilo problematico che emerge dall’applicazione della nuova formulazione del co. 1 dell’art. 115 riguarda la puntuale individuazione dei comportamenti processuali della parte in grado di integrare la specifica contestazione richiesta dal legislatore per impedire l’operatività del principio in esame12. Il problema dell’individuazione dei comportamenti non contestativi solo in parte è stato affrontato dalla giurisprudenza che nel passato ha fatto applicazione del principio di non contestazione. Ora, se mettiamo in relazione il nuovo co. 1 dell’art. 115 con gli artt. 167 e 416, laddove fissano l’onere di «prendere posizione » sui fatti ex adverso allegati, si trae agevolmente la conclusione che, nel momento in cui la parte intenda assolvere l’onere di prendere posizione sui fatti ex adverso allegati avanzando la contestazione degli stessi, debba farlo in modo specifico e puntuale. È questo il vero passo in avanti che fa il legislatore del 2009. Per questa ragione ci pare fuorviante sostenere che nel co. 1 dell’art. 115 sia stato introdotto l’onere di contestazione dei fatti allegati dalla controparte. Piuttosto, sussistendo già l’onere di prendere posizione sui fatti allegati dalla controparte, il legislatore del 2009 si preoccupa di puntualizzare che, se si intende esercitare un tale onere contestando i fatti allegati, vi è la necessità che la contestazione sia specifica. Di conseguenza, non vi è dubbio che fra i comportamenti processuali idonei a produrre la pacificità dei fatti allegati dalla controparte debba essere annoverata l’ammissione, implicita o esplicita. È parimenti indubbio che la non contestazione debba essere intesa secondo un significato ben più ampio di quello di ammissione. Ma – proprio alla luce del nuovo co. 1 dell’art. 115 – parimenti è da ritenere che lo stesso fenomeno ricorra tutte le volte in cui la controparte: a) o mantenga il silenzio sui fatti ex adverso allegati13; b) oppure li contesti in modo del tutto generico14; c) oppure quando ottemperi all’onere ma in modo da non contraddire i fatti costitutivi della domanda; e dunque, ad es., in caso di impostazione della propria difesa su circostanze o argomentazioni incompatibili con il loro disconoscimento15 oppure di contestazione solo in jure della domanda16 oppure in caso di proposizione di eccezioni di merito non incompatibili con la negazione dei fatti costitutivi della domanda (proposizione di eccezione di pagamento o di eccezione di compensazione o di eccezione di prescrizione), oppure di proposizione di sole eccezioni in rito senza accompagnare queste con la contestazione specifica (ma, evidentemente, subordinata al rigetto delle prime) dei fatti ex adverso allegati17. Mentre, per le stesse ragioni è da ritenere inidonea ad integrare il presupposto della non contestazione la dichiarazione di «non sapere», ossia di ignorare i fatti allegati a fondamento della domanda e sempreché si tratti di fatti che, nel caso di specie, effettivamente potrebbero non essere conosciute (perché in caso contrario, e dunque laddove si tratti di fatti che la parte onerata dell’onere di prendere posizione non può non conoscere, l’onere non può ritenersi correttamente assolto mediante la dichiarazione di non sapere)18. Continua a rimanere del tutto irrilevante, invece, ai fini dell’applicazione del co. 1 dell’art. 115, la posizione del contumace (volontario o involontario che sia), stante il riferimento di tale disposizione alla sola «parte costituita». Ma questa scelta del legislatore, che già nel passato ci parve irragionevole e paradossale19, ancor più ci appare tale oggi, perché di fatto determina un ingiustificato favor per la parte contumace.
3.3 La preclusione per la contestazione dei fatti allegati dalla controparte
Non v’è dubbio, però, che il profilo più rilevante per il corretto coordinamento fra non contestazione e ragionevole durata del processo riguarda l’individuazione del termine preclusivo per l’esercizio del potere della parte di contestare i fatti ex adverso allegati. Anche in questo caso, infatti, non vi era nel passato e non vi è oggi unanimità di opinioni..2.2 Secondo un primo indirizzo, siccome non è dato rinvenire né nell’art. 167 (e, per il processo del lavoro, nell’art. 416), né nell’art. 115, né in altre disposizioni del codice alcuna norma che espressamente fissi un termine di decadenza per l’esercizio del potere di contestazione delle allegazioni avversarie, questo potere della parte potrebbe essere esercitato nel corso dell’intero giudizio di primo grado ed anche in sede di udienza per la precisazione delle conclusioni. Secondo un altro orientamento, invece, sebbene non si rinvenga alcuna disposizione che fissi un termine di decadenza per l’esercizio di questo potere, la decadenza si potrebbe (o meglio, si dovrebbe) ricavare dall’impostazione generale che ha assunto il processo di cognizione ordinario a seguito delle riforme del 1990 (e quello del lavoro, a seguito della riforma del 1973), impostazione fondata sull’individuazione di una prima fase della trattazione – da ricollegare alla prima udienza di trattazione – dedicata alla fissazione non solo del quod decidendum, ma anche del quod probandum. Di conseguenza – sempre secondo questo modo di ragionare – la contestazione dei fatti allegati dalla controparte potrebbe aversi solo entro la chiusura della prima udienza di trattazione e – salva la possibilità per la parte di chiedere ed ottenere un provvedimento di rimessione in termini ex art. 153, co. 2, c.p.c. – dovrebbe essere esclusa dopo il maturare di una simile decadenza. Come detto, il problema emerge per il fatto che manca una previsione espressa che sanzioni con la decadenza la mancata contestazione dei fatti allegati dall’avversario entro la chiusura della prima udienza di trattazione o anche prima, come avviene, ad es., per il sistema tedesco20. Già in altre occasioni21 abbiamo osservato come la tesi che ricollega alla chiusura della prima udienza di trattazione la preclusione del potere di contestazione dei fatti ex adverso allegati appare essere la più convincente e non tanto – o comunque non solo – perché è quella che meglio si adatta all’impostazione data al nostro processo di cognizione dalle riforme del 1990-1995, ma anche perché, in realtà, un appiglio normativo per individuare nella chiusura della prima udienza di trattazione il termine di decadenza anche per l’esercizio del potere di contestazione delle allegazioni avversarie ci pare si possa rinvenire proprio nella formulazione del co. 1 dell’art. 115 e del co. 6 dell’art. 183. Se la contestazione specifica richiesta dal co. 1 dell’art. 115 non si concreta in altro che nell’allegazione di un fatto diverso da quello allegato dalla controparte, idoneo a negare la sua fondatezza, questo potere potrà essere esercitato dalle parti nei limiti in cui viene loro riconosciuto il potere di allegazione dei fatti in giudizio22. Ora, come noto anche dopo le riforme del 1990-1995, nel nostro codice continua a mancare una disposizione che espressamente fissi la preclusione con riferimento all’allegazione dei fatti in giudizio. Questo non ha impedito, tuttavia, di ricavarla proprio dalla disciplina sulla fase introduttiva del giudizio, ed in particolare dall’art. 183, co. 6. Il fatto che quest’ultima disposizione preveda che il giudice, a chiusura della prima udienza di trattazione, nel concedere alla parte che lo chieda un termine perentorio per la cd. appendice scritta debba concedere un ulteriore termine di 30 giorni non solo per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni formulate dall’altra parte, ma anche per «replicare» alle medesime domande ed eccezioni non si giustifica in altro modo che con l’individuazione, proprio nella chiusura della prima udienza di trattazione e salva la rimessione in termini, di un termine preclusivo anche per la contestazione delle allegazioni avversarie. La previsione che il legislatore sottoponga alla concessione dell’ulteriore termine di 30 giorni sia il potere si proporre eccezioni dopo la chiusura della prima udienza di trattazione, sia il potere di replicare alle allegazioni della controparte non si spiega in altro modo se non ammettendo che – terminate le attività di cui all’art. 183 ed esaurito l’eventuale termine successivo di 30 giorni di cui all’art. 183, co. 6, n. 1 – le parti non possano più né sollevare eccezioni, né contestare le allegazioni avversarie23.
1 Si rinvia, in proposito, a Carratta, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995.
2 Cass., S.U., 23.1.2002, n. 761, in Foro it., 2002, I, 604, con nota di Proto Pisani; Cass., 13.9.2003, n. 13467, ivi, 2004, I, 1480 ss., con nota di De Santis; Cass., 13.6.2005, n. 12636, ivi, 2006, I, 1492 ss., con nota di De Santis e ibidem, 1873 s., con nota di Cea; da ultimo, Cass., 10.11.2010, n. 22837. Nel senso della vigenza del principio, oggi codificato dall’art. 115 c.p.c., anche prima di tale codificazione ed anche nell’ambito del processo amministrativo, v. TAR Calabria - Catanzaro, 8.4.2011, in Foro amm. – TAR, 2011, 1400.
3 V., dopo la riforma del 2009, Mandrioli, in Mandrioli-Carratta, Come cambia il processo civile, Torino, 2009, 33 ss.; Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, III, XXI ed., Torino, 2011, 39 ss.; Carratta, «Principio della non contestazione» e limiti di applicazione nei processi su diritti indisponibili, in Fam. dir., 2010, 572 ss.; Balena, in AA.VV., La riforma della giustizia civile, Torino, 2009, 31 ss.; Battaglia, Sull’onere del convenuto di «prendere posizione» in ordine ai fatti posti a fondamento della domanda (riflessioni sull’onere della prova), in Riv. dir. proc., 2009, 1512 ss.; Cea, La modifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio di non contestazione, in Foro it., 2009, V, 266 ss.; Id., L’evoluzione del dibattito sulla non contestazione, ivi, 2011, V, 99 ss.; Fabiani, Il nuovo volto della trattazione e dell’istruttoria, in Corr. giur., 2009, 1161 ss.; Ianniruberto, Il principio di non contestazione dopo la riforma dell’art. 115 c.p.c., in Giust. civ., 2010, II, 309 ss.; Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bologna, 2009, 122 ss.; Sassani, L’onere della contestazione, in Giusto proc. civ., 2010, 401 ss.; Pagni, L’onere di contestazione dei fatti avversari, dopo la modifica dell’art. 115 c.p.c., in Giur. it., 2011, 237 ss.; Tedoldi, La non contestazione nel nuovo art. 115 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2011, 76 ss.; Mocci, Principio del contraddittorio e non contestazione, ibidem, 316 ss.; Pacilli, Osservazioni sul principio di non contestazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 299 ss.
4 Vale a dire alle sole controversie instaurate successivamente al 4 luglio 2009: così invece Trib. Catanzaro, 18.1. 2011, in www.dejure.giuffre.it; Trib. Rovigo, 14.2.2011, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it. Invece, sulla natura ricognitiva della nuova formulazione del co. 1 dell’art. 115 c.p.c., Trib. Piacenza, 2.2.2010, in Giur. mer., 2010, 1322.
5 In questo senso v. Trib. Piacenza, 4.6.2009, in Resp. civ. prev., 2009, 2948 ss. Anche Taruffo, Sub art. 115, in Carratta-Taruffo, Dei poteri del giudice, in Comm. c.p.c., a cura di Chiarloni, Bologna, 2011, 492 ritiene che la collocazione del riferimento ai fatti non contestati nel co. 1 dell’art. 115 indurrebbe a pensare che il legislatore «abbia inteso imporre al giudice l’obbligo di considerare ‘come veri’ i fatti non specificamente contestati tra le parti costituite ».
6 Carratta, Il principio, cit., 282 ss.; v. anche Cea, La tecnica della non contestazione nel processo civile, in Giusto proc. civ., 2006, 173 ss.; Taruffo, La semplice verità, cit., 132 ss.; Patti, Le prove. Parte generale, Milano, 2010, 13 ss.
7 Carratta, Il principio, cit., 238 ss.
8 Ad una diversa conclusione perviene Taruffo, Sub art. 115, cit., 493 ss., ma ritenendo che il legislatore imponga al giudice di assumere «come veri» i fatti non specificamente contestati.
9 In proposito rinviamo a Carratta, Il principio, cit., 267 ss. e 330 s., dove le ragioni che inducono ad ammettere l’operatività del principio della non contestazione negli identici termini sia per i fatti principali, sia per quelli cd. secondari; v., in senso adesivo, Cass., sez. lav., 17.4.2002, n. 5526, in Foro it., 2002, I, 2017 ss.; Rascio, Note brevi sul «principio di non contestazione» (a margine di un’importante sentenza), in Dir. e giur., 2002, 78 ss. Invece, nel senso che il principio di non contestazione interessi soltanto i cd. fatti principali e non anche quelli cd. secondari Cass., S.U., 23.1.2002, n. 761, cit.; più di recente Trib. Catanzaro, 18.1.2011, in www.dejure.giuffre.it.
10 Trib. Varese, ord., 27.11.2009, in Fam. dir., 2010, 571 ss., con nota adesiva di Carratta. Tuttavia, per una diversa conclusione Cass., 30.6.2009, n. 15326, che ammette l’applicabilità del principio anche con riferimento ai diritti a prestazioni previdenziali. Nel senso del testo anche Proto Pisani, La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero (note a prima lettura), in Foro it., 2009, V, 225; Patti, Le prove, cit., 20; invece, per l’estensione dell’operatività del co. 1 dell’art. 115 anche nelle controversie su diritti indisponibili Taruffo, Sub art. 115, cit., 495.
11 Su questo aspetto rinviamo a Carratta, Il principio, cit., 183 ss. e 204 ss.
12 Considera «frettolosa e inelegante» l’aggiunta dell’avverbio «specificamente» da parte del legislatore del 2009 Cavallone, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in Riv. dir. proc., 2010, 18.
13 Cass., 10.11.2010, n. 22837; Cass., 5.11.2010, n. 22598; Cass., 2.11.2009, n. 23142; nella giurisprudenza di merito, Trib. Sulmona, 12.5.2011, in www.ilcaso. it; Trib. Roma, 27.1.2011, ibidem.
14 A proposito dell’equivalenza fra contestazione generica e non contestazione v. Trib. Monza, 5.5.2011, in www.ilcaso.it; Trib. Modena, 3.7.2009, in Giur. mer., 2010, 980 ss.; Trib. Varese, 30.10.2009, in Giur. it., 2010, 1383; Trib. Catanzaro, 30.10.2009, ibidem, 1666, con nota adesiva di Frus, il quale ha escluso che per l’adempimento dell’onere sia sufficiente la semplice negazione dei fatti affermati dalla controparte; v. anche Trib. Piacenza, 2.2.2010, cit.; Trib. Monza, 5.1.2011, in www.ilcaso.it. Nel senso che la non contestazione debba emergere in sede processuale, a nulla rilevando il comportamento extraprocessuale, Trib. Lamezia Terme, 18.3.2010, in Corr. merito, 2010, 708. V., rispetto all’art. 416, co. 3, Cass., 3.7.2008, n. 18202; in precedenza, Pret. Parma, 16.5.1975, in Foro it., 1975, I, 1841 e in Dir. lav., 1976, II, 156, con nota contraria di D’Aloja. Invece, nel senso che la contestazione generica sia sufficiente a rendere controversi i fatti ex adverso allegati, Cass., sez. lav., 3.5.2007 n. 10182, in Riv. dir. proc., 2008, 559.
15 Così Cass., 24.11.2011, n. 23816.
16 V., per il rito-lavoro, Pret. Pavia, 16.10.1980, in Foro it., 1981, I, 2078 ss.
17 V., a questo proposito, per l’art. 186 bis, Trib. Milano, ord. 6.3.1995, in Fallimento, 1995, 774 ss., con nota di Patelli.
18 In senso analogo v. anche Trib. Cuneo, 5.10.2010, in Giur. mer., 2011, 1042.
19 Carratta, Il principio, cit., 294 ss.
20 V. § 275, Abs. 1 e 3; § 276, Abs. 2 e 3; e il § 277, Abs. 1 e 3 Z.P.O.
21 Carratta, Il principio, cit., 311 ss.; Id., A proposito dell’onere di «prendere posizione», in Giur. it., 1997, I, 2, 151 ss.
22 V. anche Cass., 1.10.2010, n. 24381, che ritiene inammissibile la contestazione non svolta in primo grado in considerazione delle preclusioni di cui all’art. 345 c.p.c.
23 In questo senso anche Trib. Roma, 27.1.2011, cit.