Principio di autorità
Uno dei maggiori teorici sociali del 20° sec., James Coleman (1990), ha proposto di definire l’autorità come quel rapporto sociale che nasce dal diritto di ogni essere umano di controllare il proprio comportamento e dal diritto di trasferire ad altri tale diritto. Questa definizione, come molte altre che sono state proposte nel corso della storia delle scienze sociali, è discutibile. Potremmo però considerarla un utile punto di partenza per una riflessione sulle forme di autorità che sembrano affermarsi agli esordi del 21° secolo. Essa, infatti, mette in luce una duplice dimensione dell’autorità: da un lato è qualcosa che qualcuno (individuo, gruppo, istituzione ecc.) esercita su qualcun altro, dall’altro lato è qualcosa che colui o colei sui quali viene esercitata (che di nuovo possono essere individui, gruppi o istituzioni) riconosce in qualche modo come legittima. Le proprietà del rapporto di autorità sono quindi l’asimmetria verticale e la reciprocità. Il rapporto non è tra ‘uguali’ e chi è sottoposto all’autorità non la subisce passivamente, ma investe chi la esercita del diritto di farlo in base a qualche principio e convinzione. L’accento posto sulla dimensione della legittimazione consente di distinguere l’autorità da altre forme di potere, prive appunto di tale proprietà. In questa prospettiva, gli internati nei lager nazisti non erano sottoposti all’autorità, bensì al potere dei loro aguzzini.
La definizione di Coleman è peraltro assai simile a quella che un secolo prima aveva dato Max Weber (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922), per il quale i tipi di autorità si distinguono in base alle tre forme di legittimazione che egli identifica: tradizionale, carismatica e legale-razionale. L’autorità quindi è quella forma di potere che viene esercitato legittimamente, non solo dal punto di vista di chi lo esercita e della società in generale, ma anche di chi lo subisce. La tipologia weberiana è di portata molto generale, in quanto può essere applicata a tutti quegli ambiti dell’organizzazione sociale dove vi è qualcuno che comanda e qualche altro che ubbidisce in quanto ritiene legittimo il comando; essa è tuttavia stata applicata principalmente a quella sfera di rapporti dove la dimensione ‘politica’ risulta dominante.
In questo saggio non ci occuperemo, se non di sfuggita, delle forme di autorità che riguardano la sfera propriamente ‘politica’, ma tratteremo invece quelle dinamiche che si affermano nella fase storica attualmente attraversata dalle società moderne concernenti i rapporti di autorità nelle sfere familiare, educativa, lavorativa e, in senso lato, ‘culturale’.
La prima autorità che un individuo incontra nella vita è quella dei genitori, o di chi ne fa le veci. Qui l’asimmetria in termini di potere è all’inizio nettissima: il neonato della specie umana resta per un periodo prolungato praticamente in balìa dell’autorità dei suoi genitori, anche se la dimensione della reciprocità non è, a partire dai primi giorni di vita, per nulla assente. Il neonato è infatti ben presto in grado di influenzare il comportamento dei genitori nei suoi confronti. A mano a mano che acquisisce autonomia (per es., quando impara a camminare), il bambino sperimenta sempre più l’autorità in termini di norme che gli vietano di fare certe cose. La norma si presenta con il volto della proibizione. L’autorità in questo caso è quasi sempre benevola in quanto è spesso fonte di gratificazioni (soprattutto alimentari), anche se i divieti provocano invariabilmente frustrazioni che il bambino non è ancora in grado di percepire come orientate all’interesse della sua sopravvivenza. Il bambino ha bisogno di figure dotate di autorità capaci di guidarlo e di rassicurarlo nell’esplorazione del mondo. Con il processo di crescita l’asimmetria in termini di autorità è tuttavia destinata ad attenuarsi fino a raggiungere prima un punto di equilibrio, quando i figli acquisiscono pienamente lo status di membri adulti, per squilibrarsi spesso di nuovo quando i genitori, anziani, diventano a loro volta dipendenti dall’assistenza dei loro figli e quindi dalla loro autorità, non senza che ciò possa provocare dei conflitti.
La strutturazione dei rapporti di autorità tra genitori e figli varia moltissimo da epoca a epoca, da cultura a cultura e da famiglia a famiglia. Prima o poi l’autorità dei genitori sui figli deve cessare, prima o poi i genitori di necessità devono abdicare. Nella società tradizionale, ma anche nella ‘prima modernità’, il rischio era che ciò avvenisse troppo tardi e che un adulto non raggiungesse la piena autonomia se non con la morte dei genitori. Oggi, nella ‘modernità avanzata’, il rischio è che l’abdicazione avvenga troppo presto. Nelle nostre società agli albori del 21° sec. le forme tradizionali di autorità familiare patriarcale, fondate su una rigida divisione dei ruoli sessuali tra maschi e femmine e su un forte divario generazionale, non sono del tutto scomparse, ma sono certamente in via di estinzione. In certe regioni per una ragazza può ancora essere difficile sposare un partner contro il parere dei genitori. In generale, i rapporti di autorità in famiglia tra i generi e i figli sono diventati più equilibrati, ma anche più incerti e labili. Quando ciò accade, nei rapporti di autorità si inseriscono meccanismi di negoziazione.
Che i ruoli maschili e femminili non siano più di-stinti e asimmetrici come un tempo è del tutto evidente. La subordinazione della donna all’autorità del padre prima e del marito poi, soprattutto per quanto concerne i rapporti al di fuori della sfera domestica, permane in molte culture. Anche nelle società tradizionali, la donna ha spesso esercitato una certa autorità all’interno delle mura domestiche sulle questioni legate alla gestione della vita quotidiana, mentre l’uomo ha goduto di autorità nelle decisioni più importanti riguardanti la famiglia e le relazioni nella sfera pubblica. Tuttavia, nelle società cosiddette avanzate la parità tra i generi è stata, se non proprio raggiunta, sensibilmente avvicinata. Gli indicatori sociali di questo processo danno un quadro inequivocabile: i tassi di scolarità femminili hanno in moltissimi Paesi superato quelli maschili, l’accesso delle donne al lavoro è aumentato in misura notevole. Di fronte a una figlia o a una moglie istruita e in grado di mantenersi autonomamente, l’autorità del padre o del marito ha certamente perso legittimazione. Inoltre, le trasformazioni nel diritto di famiglia, la diffusione di metodi facilmente accessibili di controllo delle nascite e di una legislazione che riconosce, entro certi limiti, il diritto della donna in tema di interruzione della gravidanza, hanno fortemente contribuito a modificare in senso più egualitario i rapporti di autorità nella coppia.
Nonostante questi processi di ridefinizione dei rapporti di autorità nella coppia incontrino ancora in diverse società forti resistenze culturali, è fuori discussione che le decisioni importanti per la vita della famiglia rientrano sempre più in uno spazio di negoziazione all’interno della coppia, dove la distribuzione dell’autorità risulta in prospettiva sempre meno rigida. Nei rapporti tra le generazioni, la figura del ‘padre padrone’, disegnata da Gavino Ledda nell’omonimo romanzo autobiografico (1975) che narra l’educazione di un pastore sardo, è ormai del tutto scomparsa anche nelle aree arretrate dove è sopravvissuta più a lungo. Peraltro, l’autorità del padre in famiglia si era già affievolita con la separazione tra luogo di lavoro e luogo di abitazione, costringendo i maschi adulti a lunghe assenze dalla vita familiare e a una posizione marginale nell’educazione della prole. L’avvento della manifattura e della fabbrica aveva segnato l’inizio di un progressivo isolamento della sfera privata, prevalente dominio della donna, dalla sfera pubblica, appannaggio dei maschi adulti. Il modello del marito-padre-procacciatore di risorse nelle attività di produzione del reddito e della moglie-madre-organizzatrice della vita privata, e quindi del consumo delle risorse, che ha prevalso a lungo nelle società industriali, è diventato oggi in gran parte obsoleto ed è facile prevedere che lo sarà in futuro sempre di più.
Negli anni Sessanta dello scorso secolo, in un fortunato libro che è stato tradotto in molte lingue, lo psicologo tedesco Alexander Mitscherlich (Auf dem Weg zur vaterlosen Gesellschaft, 1963) aveva messo in guardia contro gli effetti negativi sulla formazione della personalità di bambini e adolescenti di quella che aveva chiamato ‘una società senza padri’, priva quindi di figure di autorità dalle quali emanciparsi affermando una propria identità. Egli temeva che l’assenza del padre avrebbe prodotto un vuoto interiore e un bisogno di autorità sostitutive, favorendo così l’affermazione di leader carismatici e di regimi autoritari, oppure un piatto conformismo. Il tema del rapporto tra autorità e famiglia era stato al centro delle ricerche di Max Horkheimer, Erick Fromm e Herbert Marcuse nella Germania degli anni Trenta. Per questi autori, le frustrazioni accumulate sul luogo di lavoro da operai e impiegati sottoposti all’autorità del capitale si riportavano poi in famiglia, dove i padri risultavano incapaci di porsi come modelli positivi nei confronti dei figli, sia che si mostrassero succubi sia che assumessero invece un ruolo di despota. Molti anni dopo, altre ricerche hanno messo in luce il rapporto tra esperienze lavorative dei genitori, forme di autorità e stili educativi nei confronti dei figli. Secondo Melvin Kohn (Class and conformity, 1969; trad. it. 1974), nelle famiglie operaie prevale un addestramento dei figli alla sottomissione e alla conformità, mentre nelle classi medie l’educazione è orientata piuttosto a promuovere l’autonomia. Alla luce del valore tipicamente borghese dell’autono-mia i genitori dovrebbero gradualmente lasciare ai figli la quantità di libertà che essi sono in grado di poter gestire in modo autonomo e responsabile. La difficoltà nell’applicazione di questo principio consiste evidentemente nella fissazione della soglia al di là e al di qua della quale la libertà concessa è troppa o troppo poca.
Svariati fattori sono intervenuti nel corso degli anni a intaccare l’autorità dei genitori. Altre fonti di autorità si sono aggiunte, spesso in funzione sostitutiva rispetto alla famiglia, mettendone in crisi la capacità di influire sui processi di crescita. Prima di tutto, se un tempo si parlava di assenza del padre, ora, con la crescente diffusione del lavoro extradomestico delle donne, si può parlare di (parziale) assenza di entrambi i genitori, soprattutto dopo la prima infanzia.
La non presenza di entrambi i genitori per una gran parte della giornata espande i tempi e gli spazi dove la loro autorità è almeno parzialmente sospesa, a meno che i loro comandi non siano stati già sufficientemente fatti propri dai figli (dove i comandi sono stati interiorizzati, l’autorità agisce anche senza la presenza fisica delle persone che la esercitano). In questi spazi-tempi i figli o sono sottoposti ad altre autorità (la scuola o il gruppo dei pari), o sono esposti all’influenza dei media e apprendono modelli di comportamento spesso dissonanti con quelli trasmessi, implicitamente o esplicitamente, dalla famiglia. Molti genitori hanno adottato la televisione come un utile mezzo per tenere occupati e custodire i figli quando non vogliono o non possono occuparsene direttamente, ed è nota la difficoltà che incontrano quando vogliono mettere un argine alla fruizione dei media da parte dei loro figli. L’esposizione prolungata e precoce all’uso delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione fa sì che i giovani imparino assai presto, al di là dei contenuti, a padroneggiarle e assumano quindi il ruolo di esperti ai quali gli adulti (genitori e insegnanti) ricorrono quando devono risolvere problemi di funzionamento. In questi casi, il rapporto tra chi insegna e chi apprende viene letteralmente ribaltato.
Nell’infanzia, nell’adolescenza e nell’età giovanile il gruppo dei pari esercita sicuramente una forma di autorità sui propri membri che può essere concorrente rispetto a quella dei genitori. Nel gruppo dei pari sono presenti forme più o meno esplicite di leadership, ma non è questo l’aspetto che qui ci interessa. È il gruppo stesso in quanto tale a esercitare autorità sui suoi membri, facendo leva sul bisogno di accettazione e di riconoscimento che ogni giovane in cerca di una propria identità avverte in misura variabile, ma comunque notevole. Consapevoli di questa concorrenza, i genitori cercano spesso di condizionare la formazione dei gruppi, indirizzando i loro figli verso associazioni e luoghi fidati (gruppi scout, società sportive, oratori ecc.), oppure di esercitare un certo controllo sulle amicizie, sui tempi e sui luoghi di incontro, sulle attività svolte. I tentativi di mantenere sotto controllo le esperienze di gruppo possono essere più o meno efficaci a seconda dell’età e della determinazione con la quale vengono perseguiti. È certo, ed è comunque auspicabile, che prima o poi l’autorità dei genitori in tema di amicizie frequentate venga meno, lasciando che sia l’individuo stesso ad assumersi la responsabilità della scelta del proprio gruppo dei pari.
Al di là dell’influenza di agenzie concorrenti, vi sono inoltre altri fattori che contribuiscono a minare l’autorità dei genitori. Pensiamo, per es., al fatto che molti figli hanno raggiunto un livello di istruzione superiore a quello dei genitori. Per costoro non è più possibile porre dei divieti oppure emettere dei comandi senza dare adeguate spiegazioni delle ragioni che li inducono a farlo, in quanto dispongono di capacità argomentative insufficienti rispetto ai loro figli.
Le tendenze alla trasformazione dell’autorità nella famiglia messe in evidenza nelle pagine precedenti operano in modo oggettivo e indicano con ogni probabilità processi largamente irreversibili, destinati a durare anche negli anni a venire. Non devono tuttavia essere interpretati in chiave deterministica. I loro effetti dipenderanno infatti da come le persone coinvolte, cioè i genitori e i figli, decideranno di agire nel quadro dei vincoli posti da queste tendenze. Vi saranno genitori che, di fronte alle difficoltà di esercitare la loro autorità, si dichiareranno impotenti e abdicheranno completamente, rinunciando alle loro prerogative (e responsabilità). Altri, invece, non rinunceranno a fissare dei ‘paletti’ e a vigilare che non vengano oltrepassati. Vi sono figli che, di fronte al permissivismo dei genitori, si muoveranno incerti e privi di orientamento, altri che cercheranno altrove dei riferimenti di autorità più affidabili, altri si scontreranno con le norme imposte e si ribelleranno ai genitori che hanno posto dei confini da non oltrepassare, e altri ancora assumeranno essi stessi quei confini come criteri normativi sui quali calibrare i loro comportamenti.
L’autorità dei genitori, a seconda dei modi e delle forme nei quali viene esercitata, può favorire la crescita, vale a dire fornire quelle sicurezze che consentono di agire in modo autonomo e responsabile, oppure può inibirla e ostacolarla. Una carenza così come un eccesso di autorità rischiano di produrre allo stesso modo effetti indesiderabili, anche se di segno diverso. In prospettiva, non è difficile prevedere che, di fronte all’invadenza delle influenze esterne, i genitori stessi si percepiscano come impotenti a orientare la crescita dei loro figli, lasciandoli quindi privi di un’importante sponda di orientamento. Di conseguenza, una parte del disagio dei giovani è senz’altro da attribuire alla rinuncia da parte dei genitori all’esercizio della loro autorità.
La famiglia quanto meno condivide con la scuola la responsabilità dell’educazione, e anzi, molto spesso, delega di fatto alla scuola compiti che le sono (o dovrebbe-ro esserle) propri, come, per es, l’apprendimento delle ‘buone maniere’, il rispetto delle regole, il controllo dell’aggressività. Spesso gli insegnanti lamentano l’assenza da parte degli studenti delle più elementari regole di buon comportamento e ne attribuiscono la responsabilità alla carenza dell’educazione familiare.
Il rapporto tra autorità dei genitori e autorità degli insegnanti non è privo di difficoltà. Quando convergono, le due fonti di autorità si rafforzano reciprocamente, quando invece divergono rischiano di delegittimarsi a vicenda. In parte, i fattori che hanno indebolito l’autorità dei genitori valgono anche nel caso degli insegnanti. A essi si aggiunge però in molti casi la propensione di alcuni genitori, in caso di tensioni e conflitti tra studenti e insegnanti, a schierarsi comunque dalla parte dei loro figli. Un atteggiamento iperprotettivo verso i figli finisce per intaccare le fondamenta dell’autorità degli insegnanti e, dal momento che quella della scuola è la prima autorità istituzionale che un individuo incontra nella vita, la delegittimazione degli insegnanti rischia di estendersi per analogia all’autorità di tutte le altre istituzioni pubbliche.
Al di là di come si configura il rapporto tra famiglia e scuola, possiamo chiederci su che cosa si fonda l’autorità dell’insegnante. In primo luogo sulla sua competenza professionale, una qualità che gli allievi imparano presto a riconoscere. La competenza professionale è fatta di diverse componenti: la padronanza della materia insegnata; l’efficacia dell’insegnamento, vale a dire la padronanza dei metodi didattici in generale e di quelli specifici della propria disciplina; la capacità di valutare gli apprendimenti; la capacità di organizzare la cooperazione tra gli allievi e di mantenere l’ordine in classe e un clima collaborativo; la capacità di comunicazione empatica, cioè di suscitare delle emozioni positive da parte degli allievi. Quando questi sospettano che l’insegnante non sappia bene la propria materia, quando sistematicamente non sono in grado di capire le sue lezioni, quando ritengono che i suoi criteri di valutazione siano oscuri oppure applicati in modo arbitrario, quando si rendono conto che l’insegnante non riesce a mantenere la disciplina e a creare un clima collaborativo e quando non riesce a farsi apprezzare per le sue qualità umane, è allora assai probabile che la sua autorità sia fortemente compromessa.
Quasi tutte queste competenze si acquisiscono nel processo di formazione professionale, solo l’ultima, la capacità di comunicare empaticamente, richiede tratti della personalità che dipendono più dalla propria storia che da quanto si è appreso. Se l’autorità dell’insegnante, come molti a ragione sostengono, è in crisi, vuol dire soprattutto che qualcosa non funziona a dovere nella qualità del processo di formazione, selezione e reclutamento. In primo luogo, la professione docente, in seguito alla scolarizzazione di quote crescenti di popolazione, ha subito un forte incremento quantitativo, e quando si verificano processi di questo tipo il reclutamento delle nuove leve tende a essere meno selettivo. Inoltre, il prestigio di cui gode (al di là degli aspetti retributivi) non è certo tale da attirare alla professione i laureati culturalmente più preparati. In secondo luogo, la formazione professionale degli insegnanti, priva, almeno in Italia, di una sedimentata tradizione, non ha ancora trovato una soluzione istituzionale soddisfacente. A fronte di queste carenze bisogna tenere presente che, con l’avvento della scolarità di massa, il compito degli insegnanti si è reso senza dubbio più difficile in quanto quest’evento ha portato nella scuola una popolazione proveniente da ceti la cui cultura era molto distante dalla cultura ‘scolastica’ e che, a contatto con questa, ha incontrato notevoli difficoltà. Insegnare a chi viene da una famiglia di genitori istruiti è relativamente facile, insegnare a una popolazione che ha scarsa familiarità con quelle dimensioni della cultura che vengono valorizzate a scuola è molto più difficile, richiede doti e competenze piuttosto rare e, non da ultimo, una capacità elevata di sopportare le frustrazioni.
Tra le competenze del docente che abbiamo indicato merita soffermarsi su quella che riguarda la valutazione del rendimento scolastico degli studenti. La sua importanza deriva dal fatto che la valutazione ha a che fare con un problema cruciale in ogni organizzazione sociale, vale a dire la distribuzione delle ricompense. Non è esagerato affermare che il valore della giustizia distributiva è rilevante per definire la nostra civiltà e l’idea di ‘buona società’, oltre a essere al centro della riflessione della filosofia sociale da almeno due millenni. Il problema della valutazione è direttamente connesso al valore della giustizia distributiva. Oltre a insegnare, la scuola deve accertare se e in che misura i suoi insegnamenti hanno prodotto degli effetti in termini di apprendimenti ed è compito del docente procedere periodicamente alla verifica degli stessi. Il pensiero pedagogico moderno insiste sulla necessità che la valutazione svolga in primo luogo una funzione orientativa per il discente, in modo che questi possa rendersi conto dei suoi progressi e delle sue carenze e comportarsi in modo tale da consolidare i primi e colmare le seconde. Non si può negare, tuttavia, che la valutazione implichi anche un aspetto distributivo, sia cioè anche una distribuzione di premi e punizioni. È infatti inevitabile che un bel voto venga vissuto soggettivamente come un premio e produca una gratificazione, mentre un brutto voto sia vissuto come una punizione e produca una frustrazione. L’autorità dell’insegnante si esplica quindi, tra l’altro, nel potere di distribuire premi e punizioni, anzi la funzione di valutazione è una prerogativa dell’autorità stessa dell’insegnante.
A ciò si aggiunge che ogni studente che riceve una valutazione positiva o negativa di fatto opera sempre una comparazione con le valutazioni ottenute dai compagni in un’ottica più o meno esplicitamente competitiva. Per quanto alcuni educatori vogliano negarlo, la competizione è sempre presente in modo più o meno intenso e più o meno latente o manifesto nella vita scolastica. Il problema non è di negarne il valore, ma di riconoscerne la presenza e di chiarire i modi con i quali si manifesta. Dove c’è competizione è importante che ci siano delle regole, che sia chiaro chi e come ha il compito di formularle, chi e come le deve rispettare e chi e come deve vigilare che vengano rispettate. I giovani che praticano uno sport, soprattutto se si tratta di uno sport di squadra, sanno bene che senza regole e senza un arbitro per farle rispettare ogni partita si trasformerebbe rapidamente in una rissa collettiva. L’assenza di regole è la condizione che a livello individuale produce anomia e, a livello collettivo, si avvicina di più alla hobbesiana ‘guerra di tutti contro tutti’, che alla lunga impedisce la sopravvivenza stessa della società.
La prima regola delle pratiche scolastiche di valutazione dice che a essere valutate devono essere le prestazioni che, a loro volta, devono essere il più possibile oggettivamente misurabili. Tutte le volte che gli insegnanti violano questa regola, la loro autorità agli occhi degli studenti viene incrinata. Quando, per es., gli insegnanti tollerano la pratica della copiatura durante le verifiche in classe, quando non rendono espliciti i criteri in base ai quali le prestazioni sono valutate, quando nascondono l’esito della valutazione, trasmettono implicitamente agli studenti il messaggio che i voti sono il risultato di un processo non trasparente dove le prestazioni individuali in termini di apprendimento sfuggono alla valutazione. La copiatura, in particolare, che spesso gli insegnanti tollerano per quieto vivere o perché l’hanno praticata essi stessi quando erano studenti, costituisce una violazione palese della regola della competizione in base alla quale le ricompense devono essere distribuite a seconda del merito. La non trasparenza dei criteri di valutazione fa nascere il sospetto che i voti siano distribuiti in modo arbitrario e quindi soggettivo, favorendo alcuni e penalizzando altri.
Anche nel caso della valutazione si tratta di una relazione asimmetrica, la cui asimmetria deve essere riconosciuta come legittima da chi occupa la posizione subordinata. Non è privo di significato che il senso comune studentesco distingua tra l’insegnante autoritario e l’insegnante autorevole. Gli studenti riconoscono l’autorevolezza dell’insegnante ‘severo ma giusto’, mentre definiscono autoritario il docente che non consente loro di valutare il suo operato in termini di giustizia e lassista l’insegnante, come si dice nel linguaggio comune, ‘di manica larga’, che appiattisce i meriti distribuendo a tutti generosamente voti alti. L’insegnante autorevole non si sottrae alla responsabilità di valutare, ma, rendendo espliciti i criteri di valutazione, consente agli studenti di verificare la correttezza della loro applicazione ed, entro certi limiti, consente anche un margine di negoziazione, riconoscendo eventualmente i propri errori nell’applicazione dei criteri. L’insegnante autoritario ha per definizione sempre ragione e non può mai ammettere di aver sbagliato, in quanto l’ammissione dell’errore viene vissuta come una perdita di autorità; l’insegnante autorevole, al contrario, acquista autorevolezza agli occhi dei suoi studenti proprio nel momento in cui riconosce la possibilità di sbagliarsi. Per non essere autoritario, invece, l’insegnante lassista finisce per non essere neppure autorevole. La crisi dell’autorità nella scuola deriva dal fatto che agli insegnanti autoritari sono subentrati in buona parte più insegnanti lassisti che non insegnanti autorevoli. Peraltro, John Dewey (Democracy and education, 1916), il filosofo precursore di un’educazione democratica fondata sulla libertà, già all’inizio del 20° sec. aveva messo in guardia contro una scuola che al potere dell’insegnante volesse sostituire il potere del fanciullo.
L’autorità nelle scuole non è soltanto quella esercitata sugli studenti da parte dei docenti. In materia disciplinare l’autorità passa di solito agli organi collegiali e ai capi d’istituto. La questione è assai rilevante, in quanto sembra che la scuola sia negli ultimi anni divenuta teatro di un numero crescente di atti di trasgressione, bullismo, vandalismo e violenza verso altri studenti e verso docenti, atti che allarmano l’opinione pubblica. È difficile accertare se la frequenza di questi atti sia effettivamente in crescita, oppure sia in crescita soltanto la frequenza con la quale vengono rilevati, resi pubblici e riportati dai media. È possibile che la presenza a scuola di una frazione della popolazione studentesca che mal si adatta alla sua cultura e alle sue regole e di un’altra quota che non trova a scuola stimoli sufficienti per la propria crescita morale e intellettuale, abbia incrementato la frequenza di fenomeni di devianza. Basti pensare alla diffusione dell’uso di sostanze psicoattive da parte di un numero consistente di giovani. Quando questi atti non arrivano alle istanze giudiziarie, sono in genere il consiglio e il dirigente di istituto a doversene occupare in prima istanza. La materia è ovviamente delicata per i riflessi educativi che le punizioni hanno sui trasgressori, ma anche sugli altri studenti. La difficoltà di identificare i colpevoli, le dinamiche di omertà che si generano tra i compagni, la minaccia talvolta avanzata di punire indiscriminatamente un’intera classe se i colpevoli non vengono denunciati, il ruolo spesso ambiguo giocato dalle famiglie, sono tutti aspetti che richiedono attenta considerazione. Sono certamente passati i tempi in cui venivano inflitte agli studenti pene corporali e punizioni esemplari e l’età dei trasgressori induce giustamente alla cautela nell’attribuire l’etichetta di ‘devianti’ a personalità ancora in formazione. Tuttavia, la strategia adottata da una parte dei dirigenti coinvolti di minimizzare questi episodi e le sanzioni relative, anche per non compromettere il ‘buon nome’ della scuola agli occhi dei suoi utenti attuali e potenziali, non sembra certo la più idonea sul piano educativo. Se i dirigenti si deresponsabilizzano, altrettanto faranno gli insegnanti, gli studenti e le loro famiglie. L’autorità può essere clemente soltanto se è in grado di dimostrare fermezza.
L’autorità nella scuola non si esaurisce nel rapporto con gli studenti. Gli insegnanti stessi sono parte di un’organizzazione gerarchica e, in linea di principio, devono rispondere ai loro superiori, vale a dire, essenzialmente, ai capi di istituto. Nell’ordinamento del sistema scolastico italiano l’autorità dei dirigenti scolastici è assai circoscritta nel timore che essa possa ledere il principio della libertà di insegnamento. Questo principio gode in Italia di una tutela costituzionale (art. 33), poiché i padri della Repubblica, memori degli abusi del regime fascista, hanno voluto impedire che il potere politico potesse interferire pesantemente sulla scuola con forme di indottrinamento ideologico-politico. Questo retaggio del passato, unito a fattori di difesa sindacale e corporativa, ha ostacolato da un lato l’introduzione di pratiche di valutazione del lavoro dei docenti e, dall’altro lato, ha reso molto gravoso l’avvio di procedimenti disciplinari in caso di gravi inadempienze o di comportamenti per qualche verso censurabili da parte degli insegnanti. In un corpo professionale composto da centinaia di migliaia di addetti (in Italia gli insegnanti sono ca. 800.000) è normale che una minima quota (anche solo del 2-3‰) possa commettere inadempienze talora gravi. Gli ostacoli frapposti a sanzionare questi comportamenti hanno come conseguenza che spesso i docenti coinvolti restino nella scuola e continuino a insegnare, con un danno al prestigio dell’intera professione. Se a ciò si aggiunge l’assenza di strumenti di valutazione della qualità del lavoro, ne risulta che nella scuola vi è una quota, per quanto ridotta, di docenti deplorevoli sul piano etico-professionale o incapaci sul piano tecnico-professionale con grave danno per il prestigio della professione e anche delle autorità scolastiche. Una scuola che voglia esercitare autorità sugli studenti deve essere in grado di esercitare autorità prima di tutto su sé stessa, ovvero sul proprio personale. La scuola è la prima istituzione sociale che un individuo incontra nel suo percorso di vita, in essa si plasmano le idee nei confronti dell’autorità che lo accompagneranno in seguito nell’attività lavorativa e nei rapporti con tutte le altre istituzioni sociali.
Qualsiasi cosa facciano nelle società complesse della modernità avanzata, gli individui si trovano costantemente coinvolti in modi e forme di operare diversi a seconda delle organizzazioni. Dal soldato addestrato per combattere all’operaio nella fabbrica, dall’impiegato nell’ufficio all’utente di un servizio, dal militante in un partito all’iscritto a un sindacato, dal semplice membro di un’associazione volontaria al fedele in una confessione religiosa, tutte queste figure sono parte di un’organizzazione nella quale subiscono, o esercitano, qualche forma di autorità. Qui fermeremo l’attenzione sulle forme di autorità che riguardano l’organizzazione del lavoro, data l’ovvia centralità che il lavoro occupa nella vita sociale della maggior parte degli individui. Anche le istituzioni educative che abbiamo appena preso in esame sono organizzazioni nella quali sono presenti diverse figure le cui attività lavorative devono essere coordinate da un’autorità: la loro peculiarità di agenzie che contribuiscono a plasmare le idee delle giovani generazioni intorno ai fenomeni di autorità ne giustificano, come si è fatto, una trattazione separata. Ora rivolgiamo l’attenzione ad altri tipi di organizzazione del lavoro.
Riprendendo la definizione di autorità di Coleman riportata precedentemente, anche nell’organizzazione del lavoro l’autorità può essere vista come risultante dal diritto del lavoratore di trasferire ad altri il controllo sul proprio comportamento. Non è facile applicare questa definizione ai rapporti di schiavitù e servitù, dove sembra essere del tutto assente una volontà autonoma da parte dello schiavo e del servo di disporre del diritto di cedere al padrone o al signore il controllo sul proprio comportamento. Tuttavia, anche nei casi in cui il rapporto di autorità raggiunge il massimo grado di asimmetria, non viene mai a mancare un elemento di reciprocità: lo schiavo in cambio della completa sottomissione ottiene almeno la prospettiva che il padrone gli garantisca la sopravvivenza, il servo la promessa di protezione.
Con il passaggio dal lavoro servile al lavoro salariato, ovvero, per dirla con Weber, al lavoro ‘formalmente libero’, il rapporto di subordinazione personale si trasforma in un rapporto di scambio di mercato dove l’oggetto dello scambio è una data qualità/quantità di forza lavoro da erogare a determinate condizioni dietro il pagamento di un corrispettivo di norma in denaro. Il rapporto di autorità nell’organizzazione del lavoro assume la forma di un contratto che prevede reciprocità delle prestazioni. Weber parla di lavoro ‘formalmente libero’, proprio in relazione alla natura contrattuale del rapporto. Se lo schiavo aveva bisogno della ‘frusta’ per fare quello che gli prescriveva il padrone, con il lavoro salariato nessuno obbliga il lavoratore a firmare il contratto se non la fame.
Nel mondo globalizzato del 21° sec. non sono del tutto scomparse le forme arcaiche di organizzazione del lavoro che hanno segnato la storia di epoche remote. Gli immigrati clandestini che prestano la loro opera nelle fabbriche nascoste che producono beni di marca falsificati, i braccianti stagionali che lavorano in agricoltura all’epoca del raccolto, le giovani donne sfruttate dal racket della prostituzione rappresentano forme per certi versi assimilabili alla schiavitù e servitù antica e feudale più che al lavoro salariato. Queste forme sono probabilmente destinate a persistere non solo nelle aree arretrate del mondo, ma anche ai margini delle società cosiddette avanzate, soprattutto laddove sono deboli le istituzioni di tutela dei diritti umani e del lavoro subordinato.
L’organizzazione del lavoro ha subito nel tempo grandi trasformazioni. Il caso della burocrazia da un lato e dell’impresa industriale dall’altro sono emblematici per cogliere la variabilità nel tempo e nello spazio dei modi di esercizio dell’autorità. I caratteri del modello ideale di burocrazia rimandano alla classica definizione di Weber: ogni membro dell’organizzazione svolge un compito determinato, ha cioè una sua sfera di competenza, viene selezionato in base alle sue capacità di svolgere i compiti assegnatigli, deve rispondere del suo operato al superiore diretto e deve nel caso comandare coloro che nel suo ufficio gli sono gerarchicamente sottoposti. Un’organizzazione di questo tipo è rappresentabile nella forma di una piramide con una base molto ampia e un vertice ristretto e molti gradi intermedi. L’organizzazione che tradizionalmente rispecchia meglio di ogni altra questo modello e che ha influenzato tutte le altre, pubbliche e private, è quella militare. La gerarchia militare si snoda lungo una catena di comando piuttosto lunga: dal capo supremo delle forze armate fino ad arrivare ai sergenti che comandano una squadra di una decina di soldati. A ogni livello si possono ricevere ordini soltanto dal proprio superiore diretto e impartirne soltanto ai propri sottoposti diretti; infatti, un generale che desse un ordine a un tenente delegittimerebbe l’autorità di tutti coloro che occupano le posizioni intermedie, minando così i principi fondamentali su cui si regge l’organizzazione stessa. Amministrazioni pubbliche, carceri, ospedali, banche, scuole hanno per lungo tempo adottato l’una o l’altra delle possibili varianti di questo modello di esercizio dell’autorità.
Come ha sottolineato, tra gli altri, Reinhard Bendix (Work and authority in industry, 1956), il modello mi-litare ha lasciato la propria impronta anche sull’organizzazione del lavoro nell’industria. Dalle prime manifatture alla fabbrica fordista l’organizzazione del lavoro industriale ha invariabilmente preso la forma di una piramide composta di molti strati e di lunghe catene di autorità. Nella manifattura l’autorità era intervenuta per disciplinare i tempi di lavoro, per organizzare la divisione dei compiti e per controllare la qualità della produzione. Dal punto di vista spaziale, la manifattura era organizzata quasi come un panoptikon, cioè un carcere nel quale ogni lavoratore veniva controllato a vista e quindi sottoposto alla supervisione diretta del suo capo.
Con il crescente uso delle macchine mosse da fonti di energia non umana, molti aspetti del controllo sulle prestazioni di lavoro sono state trasferite dall’uomo alla macchina. L’operaio che lavora alla catena di montaggio, la realizzazione più tipica della fabbrica di tipo fordista, deve seguire i ritmi impostigli dalla macchina stessa e il suo lavoro si limita all’esecuzione di una serie di semplici movimenti al servizio di essa. L’impresa fordista è tipicamente un’impresa di grandi dimensioni che produce beni di massa altamente standardizzati, dove la tecnologia condiziona pesantemente le prestazioni di un gran numero di addetti, le catene gerarchiche sono lunghe, ramificate e convergenti verso il vertice della piramide.
Con l’affermazione delle organizzazioni sindacali, il lavoratore, per meglio tutelare i propri interessi, ha ceduto al sindacato il diritto di rappresentarlo nella contrattazione della retribuzione e delle condizioni di lavoro, quindi anche dei modi di esercizio dell’autorità alla quale è sottomesso. In particolare, l’asimmetria in termini di forza contrattuale si è notevolmente ridotta con il passaggio alla contrattazione collettiva tra le rappresentanze sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro. Tuttavia allo stesso tempo il lavoratore si è visto sottoposto, oltre che all’autorità dell’imprenditore sul posto di lavoro, anche a quella del sindacato e dei suoi rappresentanti.
Nella fase di dominio del modello fordista il problema che si pongono i sindacati dei lavoratori, ma anche gli imprenditori più illuminati e gli studiosi dell’organizzazione, riguarda l’attenuazione degli aspetti più ‘disumanizzanti’ del lavoro e la loro compensazione con soddisfazioni da ricercare al di fuori del lavoro; la contrattazione avviene quindi principalmente sulla riduzione dell’orario di lavoro, sui ritmi, sulle ferie e, ovviamente, sui salari.
Negli ultimi decenni del 20° sec. si incominciano a osservare segni di cambiamento che annunciano le trasformazioni destinate ad affermarsi nel secolo successivo. Il primo fattore di trasformazione riguarda l’impatto delle nuove tecnologie dell’automazione, della microelettronica, dell’informazione e della comunicazione sull’organizzazione del lavoro, tutti elementi che hanno l’effetto di introdurre nella stessa un maggior grado di flessibilità. Il secondo fattore concerne la crescente internazionalizzazione, non solo dei mercati finanziari e dei flussi di merci, servizi e persone, ma anche dell’organizzazione della produzione che viene frequentemente frammentata in fasi e in Paesi diversi. Il terzo fattore, connesso ai precedenti, enfatizza il ruolo crescente assunto dalla risorsa ‘conoscenza’ e ‘capitale umano’ costituito dagli addetti alla progettazione, innovazione ed elaborazione delle informazioni in ogni fase del processo di produzione e distribuzione.
Se il fordismo ha espresso la grande impresa, il postfordismo esprime organizzazioni di dimensioni più ridotte, di struttura più flessibile, disperse su un territorio tendenzialmente vasto, con catene più corte di autorità e forte incentivazione delle capacità di innescare processi di innovazione e autorganizzazione. La metafora più appropriata per illustrare questa forma di organizzazione non è più la piramide, bensì la rete. Nella rete ogni nodo scambia energia, informazioni, conoscenze: in breve, beni materiali e immateriali con gli altri nodi. Ogni unità deve coordinarsi in modo interattivo con altre unità esterne, ma gode anche di un certo grado (variabile) di autonomia. Nella produzione industriale, per es., alle forme di integrazione verticale in cui al limite tutte le fasi della lavorazione, dall’estrazione della materia prima alla commercializzazione del prodotto finito, avvengono all’interno della stessa impresa, si sostituiscono forme di integrazione orizzontale tra una molteplicità di imprese, ognuna delle quali svolge un compito collegato a monte e a valle con altre imprese, ognuna delle quali può avere una pluralità di fornitori e di clienti. Questo passaggio produce evidenti effetti sulle forme di autorità, nel senso che molti rapporti un tempo regolati da strutture autoritarie si trasformano in rapporti negoziali e contrattuali dove i contraenti si assumono obbligazioni reciproche e ognuno è in grado di tutelare e far valere le proprie ragioni. Da qualche tempo le imprese hanno scoperto i vantaggi del cosiddetto outsourcing, vale a dire la convenienza di ricorrere al mercato piuttosto che produrre al proprio interno una serie di beni e servizi, con una ricaduta significativa sulle catene di autorità. Come ha chiarito Robert Boyer (1986), alle forme organizzative fondate sull’autorità sono subentrate forme di regolazione.
Qualche esempio può aiutare a chiarire la portata di questo processo. Si pensi alla proliferazione di imprese che si limitano ad assemblare pezzi prodotti anche in Paesi e continenti diversi, alla diffusione, soprattutto nel settore della distribuzione, dei rapporti di ‘agenzia’, alle società di professionisti che forniscono servizi di consulenza, ma anche alle cooperative di servizi che operano per conto sia di privati sia della pubblica amministrazione. L’ingegnere che lavora come socio in una società di progettazione di nuove linee di trasporto urbano dovrà certo coordinare i propri interventi con gli assessorati all’urbanistica, ma organizzerà il proprio lavoro in modo relativamente autonomo senza essere sottoposto all’autorità del capoufficio, il quale si trasforma semplicemente in un cliente da soddisfare. L’avvocato che opera nel quadro di uno studio legale specializzato in diritto societario internazionale lavorerà per una pluralità di clienti, anche di grandi dimensioni, ma non sarà certo sottoposto all’autorità delle direzioni delle imprese che hanno richiesto le sue competenze. L’agente locale di una compagnia di assicurazioni che opera su scala mondiale dovrà certo rispettare i termini del contratto di ‘agenzia’, eppure non è assimilabile a un impiegato o anche a un quadro intermedio, se non altro per il fatto che potrà gestire il tempo di lavoro con molta maggiore libertà e i suoi compensi dipenderanno dai rapporti con la sua clientela. Il ricercatore universitario facente parte di una équipe di scienziati che studiano una nuova molecola per la cura di qualche ma-lattia non è in alcun modo sottoposto all’autorità dell’impresa farmaceutica che eventualmente produrrà il farmaco se la sua ricerca avrà dato i risultati sperati. Lo stesso vale anche per il volontario che collabora con una cooperativa che si occupa per conto dell’unità sanitaria locale dell’assistenza domiciliare agli anziani di un dato territorio. Perfino nel campo delle organizzazioni militari, diverse operazioni sono affidate a corpi professionali che agiscono in base a protocolli che definiscono le condizioni di ingaggio.
Tutti questi esempi, e moltissimi altri se ne potrebbero fare, indicano che all’interno delle organizzazioni e negli interstizi tra esse si sono moltiplicate le posizioni lavorative, caratterizzate da compiti i quali richiedono competenze specialistiche di tipo professionale e dotate quindi di un notevole grado di autonomia. Nel linguaggio degli esperti di organizzazione si dice che le funzioni di staff prendono il sopravvento sulle funzioni di line. Questo slittamento dell’autorità a favore di coloro che dispongono di un sapere tecnico specialistico riflette un fenomeno più generale che si può riscontrare in tutte le sfere dell’organizzazione sociale: la crescente autorità fondata sul sapere e quindi sulla scienza.
Nelle pagine che precedono abbiamo visto che nella famiglia, nelle istituzioni educative e nelle organizzazioni lavorative le strutture di autorità si sono modificate nel corso del tempo e come queste trasformazioni siano in atto al tempo presente e siano destinate a evolvere ulteriormente nel prossimo futuro. Da quando sono venute meno le promesse messianiche legate alle ‘grandi narrazioni’ di tipo religioso o ideologico, risulta tuttavia difficile prevedere con una precisione accettabile e su basi scientificamente affidabili, in quali direzioni le trasformazioni in atto si evolveranno. Per alcuni siamo di fronte a fenomeni accelerati e irreversibili di crisi dell’autorità in generale, crisi che non potrà che innescare processi di decadenza morale, di anomia individuale e di disgregazione sociale. Per altri assistiamo invece alla sostituzione delle forme arcaiche di autorità con nuove forme di asservimento, più subdole perché apparentemente connesse a maggiori spazi di libertà individuale nella sfera, per es., del consumo. Per altri ancora le trasformazioni dell’autorità aprono effettivamente prospettive di autorealizzazione individuale in una società dove gli individui sono sempre più interdipendenti e nello stesso tempo padroni del proprio destino.
Da quando, a partire dal 18° sec., i processi di mo-dernizzazione hanno trascinato le società umane in una spirale di mutamento accelerato, si sono invariabilmente generate correnti di pensiero contrapposte: da un lato coloro che vivono il presente con la nostalgia del passato e prevedono sviluppi tendenzialmente apocalittici per il futuro e, dall’altro lato, coloro che vedono nelle trasformazioni in atto l’avverarsi di promesse di emancipazione.
Lo sguardo disincantato delle scienze sociali deve guardarsi dal farsi influenzare da visioni di questo tipo, che riflettono paure o speranze comprensibili ma scarsamente fondate su una sobria analisi della realtà e deve piuttosto, al di là della grande varietà di forme che le trasformazioni dell’autorità assumono nei diversi contesti, cercare di identificare quali sono i tratti comuni che sembrano attraversarle trasversalmente.
Un primo tratto riguarda l’eclissi definitiva dei criteri di legittimità di tipo tradizionale tipici dell’Ancien régime e fondati sulla credenza nell’immutabilità di ciò che è sempre stato, strutture di autorità comprese. Si pensi, per fare un solo esempio, alle trasformazioni subite dalla patria potestas esercitata dal padre sui figli, oppure all’autorità del marito sulla moglie. Le forme più arcaiche non sono certo scomparse e resistono in alcune zone del mondo, anche se sono sottoposte a un processo inesorabile di erosione. In questi casi, come in molti altri, le trasformazioni si leggono soprattutto nella legislazione che è intervenuta per tutelare i diritti della parte più debole del rapporto, delimitando gli ambiti e definendo i criteri in cui l’autorità può essere legittimamente esercitata.
Un secondo tratto si riferisce all’affermazione di criteri di legittimità fondati sulla contrattualizzazione dei rapporti. Il rapporto di autorità resta per definizione asimmetrico in quanto si stabilisce tra soggetti dei quali uno o alcuni comandano e l’altro o gli altri ubbidiscono; quando però il rapporto viene regolato contrattualmente, vengono fissati diritti e obbligazioni reciproche che pongono dei limiti all’esercizio dell’autorità.
Un terzo tratto, che è strettamente legato al prece-dente, concerne la negoziabilità dei termini che definiscono il rapporto di autorità. Come ha sostenuto Ralf Dahrendorf (Soziale Klassen und Klassenkonflikt in der industriellen Gesellschaft, 1957), ogni forma di autorità tende a produrre situazioni conflittuali il cui esito dipende dalla maggiore o minore istituzionalizzazione delle regole che governano il conflitto. Oggetto di negoziazione sono sia le regole sia ciò che di volta in volta costituisce la posta in gioco del conflitto.
Un quarto tratto, infine, riguarda la domanda ri-volta a chi detiene una posizione di autorità di rispondere, cioè dar conto, dei modi con i quali la esercita, non solo ai subordinati, ma alla collettività in generale. Il termine inglese accountability esprime nel modo migliore questo aspetto dell’autorità che assume rilevanza crescente nella modernità avanzata.
Questi processi non avvengono senza conflitti. In certi momenti e fasi storiche il principio di autorità nei vari ambiti dell’organizzazione sociale viene vivacemente, e talvolta anche violentemente, contestato. Ciò è accaduto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando si sono sviluppati in molti Paesi movimenti sociali di contestazione dell’autorità che hanno investito la famiglia, la scuola, la fabbrica e la cultura in generale. Nel continente europeo questi movimenti antiautoritari hanno fatto spesso ricorso all’apparato ideologico e al linguaggio della lotta di classe tipico delle correnti del marxismo-leninismo-maoismo, mentre negli Stati Uniti ha prevalso la componente libertaria e pacifista.
L’impatto a breve e a lungo termine di questi movimenti sulle strutture di autorità delle diverse società è stato molto diversificato. In alcuni casi, come in molti Paesi dell’Est europeo, i movimenti hanno incontrato una forte resistenza delle autorità costituite e hanno subito dure azioni repressive (si pensi alla Primavera di Praga), ma hanno preparato il terreno per le trasformazioni che sarebbero avvenute vent’anni dopo. Le risposte forti sono spesso l’espressione di poteri fragili, di cui si può aspettare il collasso quando, in mutate circostanze, se ne presentasse l’opportunità. In altri casi, le autorità sono arretrate fin quasi a rendersi invisibili per poi ricostituirsi più deboli una volta passata l’onda movimentista. Questo è stato l’atteggiamento assunto in alcuni ambiti e in alcuni Paesi, tra cui anche l’Italia, dove i movimenti hanno a volte incontrato autorità arrendevoli, disposte a trattare e a cedere senza però elaborare una risposta organica. In altri casi ancora, si sono prodotte tendenze riformiste che alla lunga hanno messo in moto processi di cambiamento, che hanno contenuto e incanalato le spinte dei movimenti.
Si può dire che, nei vari ambiti esaminati, i rischi maggiori si presentano sia con un eccesso sia con un difetto di autorità. In famiglia, un eccesso di autorità diventa inibitorio e ostacola l’acquisizione di autonomia e responsabilità, mentre una carenza di autorità, l’assenza di paletti che delimitino i confini del permesso e del vietato, producono disorientamento, insicurezza ed esposizione a rischi per l’integrità fisica e psichica del soggetto in crescita. In modo analogo, anche nelle istituzioni educative, l’eccesso, ma soprattutto la carenza, di autorità producono effetti negativi sulle condizioni che favoriscono i processi di educazione e di apprendimento. Lo stesso si dica per le organizzazioni produttive, dove sia l’assenza sia l’eccesso di autorità ostacolano lo stabilirsi di relazioni cooperative e, quindi, il raggiungimento dei fini istituzionali. È ovviamente difficile stabilire in astratto dove si colloca il punto di equilibrio tra il troppo e il troppo poco. Per i movimenti di impronta anarchica ogni forma di autorità è ‘troppa’, mentre i regimi autoritari tendono a ritenere che nessuna forma di autorità sia sufficiente. Tra questi due estremi si collocano le tendenze ‘democratiche’, le quali, da un lato riconoscono l’indispensabilità di strutture di autorità per il contenimento delle componenti dispersive e distruttive degli esseri umani e, dall’altro, mettono in guardia tanto contro gli abusi quanto contro gli arbitri che, in assenza di vigilanza e di controllo, sono propensi a commettere coloro i quali ricoprono posizioni di autorità.
Come sostiene Richard Sennett, per la democrazia il dominio è una malattia necessaria, ma l’autorità consente di organizzare la catena del comando in modo tale «che gli ordini non siano onnipotenti e universali» (Sennett 1980).
R. Sennett, Authority, New York 1980 (trad. it. Milano 1981).
R. Boyer, La théorie de la regulation, Paris 1986 (trad. it. Fordismo e postfordismo: il pensiero regolazionista, Milano 2007).
J. Coleman, Foundations of social theory, Cambridge (Mass.) 1990 (trad. it. Bologna 2005).