contraddizione, principio di
Aristotele, nel libro 4° della Metafisica, dopo aver detto che alla metafisica, come scienza dell’essere in quanto essere, compete lo studio degli assiomi, dichiara che il più sicuro di tutti è quello che tradizionalmente chiamiamo principio di c., e che viene definito da Aristotele nel modo seguente: «È impossibile che la stessa cosa, a un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto» (1005 b 19-20). Questo, ribadisce Aristotele, è il più sicuro di tutti i principi. Infatti è impossibile per chicchessia credere che la stessa cosa sia e non sia, come secondo alcuni avrebbe sostenuto Eraclito. Alla enunciazione del principio di c. Aristotele fa seguire la confutazione di tutti coloro che lo negano e che Aristotele stesso definisce «eraclitei». Da quanto egli dice si capisce chiaramente che per Aristotele il principio di c. non è semplicemente un principio logico, ma ‘ontico’ od ‘ontologico’, perché affonda le sue radici nelle caratteristiche della sostanza. Infatti, egli osserva, tutti coloro che lo negano sopprimono la sostanza e l’essenza delle cose, perché essi devono necessariamente affermare che tutto è accidente (➔), e che non esiste l’essenza dell’uomo e l’essenza dell’animale, in quanto la sostanza di una cosa significa che l’essenza di essa non può essere niente altro. Ma sopprimendo la sostanza essi sopprimono per ciò stesso il soggetto (ὑποκείμενον) della predicazione, perché se tutte le cose si dicono come accidente, non potrà esserci nulla che funga da soggetto primo degli accidenti, mentre l’accidente esprime sempre un predicato di qualche soggetto (1005 b 19-21 segg.). La conseguenza ultima di tutto ciò, secondo Aristotele, sarà l’impossibilità di dire alcunché di determinato. Infatti se relativamente a un medesimo soggetto sono vere, a un tempo, tutte le affermazioni contraddittorie, saranno la medesima cosa una trireme, una parete e un uomo, e tutte quante le cose si ridurranno a una sola. Se dico infatti che l’uomo è non-uomo, mi sarà impossibile definire lui come qualsiasi altra cosa (1008 b 2 segg.). Entra qui in gioco – a conferma degli stretti legami esistenti in Aristotele fra logica e ontologia – la fondamentale differenza fra c. e contrarietà (➔), esaminata da Aristotele nel cap. 14 del De interpretatione, la seconda parte dell’Organon. In base a quanto esposto da Aristotele in quella sede, si comprende facilmente che i contraddittori, diversamente dai contrari, non hanno un genere comune se non l’Universo intero, e quindi dire, per es., che uomo è anche non-uomo equivale a farne una sola cosa con l’intero cosmo. Il principio di c. cominciò a vacillare, in Età moderna, soprattutto a opera di Cusano, che nella Dotta ignoranza e nel cap. 25 del De Beryllo affermò esplicitamente che Aristotele aveva sbagliato nel concepire i contraddittori come reciprocamente escludentesi. Che esista un modo migliore di risolvere la contraddizione, infatti, è dimostrato dall’Uno della tradizione neoplatonica, che precedendo ogni dualità ne implica la coincidenza. Cusano adotta come modello il commento di Proclo al Parmenide platonico, dove si trova l’affermazione che al di sopra dell’intelletto, ossia nell’Uno, il principio di c. non ha più valore. Hegel si muoverà lungo la stessa strada di Cusano, anche se quest’ultimo – che egli probabilmente non conosceva – non sembra la sua fonte diretta. La sua fonte è in realtà lo stesso commento di Proclo al Parmenide e le altre opere della letteratura neoplatonica, dalle quali egli poté ricavare sin dagli anni giovanili tutto quello che gli serviva per trasformare il principio di non contraddizione in principio di contraddizione. Contro Kant, che aveva mantenuto sia il principio di c. (sebbene limitandone la portata ai soli giudizi analitici e facendone non un principio ontico, ma un principio di logica formale) sia la differenza fra contraddittori e contrari, Hegel sosterrà costantemente, in entrambi i casi, i principi opposti, secondo i quali la c. si risolve unificando i contraddittori, e non esiste alcuna differenza fra c. e contrarietà.