Abstract
Principio di legalità riceve nella esperienza giuridica un significato ed una portata diversa secondo che esprime il primato della legge come manifestazione della sovranità del popolo (significato forte) oppure si limita a nominare la subordinazione di tutti, a cominciare dalle autorità pubbliche, al diritto (da chiunque posto: in questo caso legge non vuol dire atto del parlamento ma genericamente atto normativo). Nel primo significato principio di legalità si distingue da Stato di diritto (o rule of law) e prevale come principio su quello evocato dall’altro; nel secondo significato diventa sinonimo o al più momento interno dello Stato di diritto. Diversa, anche se collegata, è la distinzione tra legalità formale e legalità sostanziale. La voce si occupa in modo prevalente del principio in senso forte, e lo esamina in rapporto separatamente alla normazione, alla pubblica amministrazione, alla giurisdizione; chiarisce nello stesso tempo come e perché da un lato tale principio viene diminuito dal primato del diritto europeo e dall’altra parte viene eluso e violato attraverso l’estendersi ed il prevalere di atti normativi diversi dalla legge del Parlamento.
Al fine di intendere il senso, la portata, le articolazioni del principio di legalità negli Stati contemporanei è necessario chiarire alcuni punti essenziali del contesto entro cui il principio oggi si colloca.
I cardini di questo contesto che qui ci interessano più di altri sono la divisione dei poteri e lo Stato di diritto. Col primo principio si decide di istituire e si pratica un meccanismo istituzionale per il quale il potere pubblico è diviso tra diversi corpi o strutture organizzative, e segmentato in diverse funzioni attribuite in misura variabile ai diversi corpi; col secondo principio si decide di istituire e si pratica un meccanismo in base al quale anche il potere pubblico (compreso il potere militare) è subordinato al diritto.
Questi obbiettivi fondamentali hanno una qualche possibilità di realizzarsi se viene fatta distinzione tra normazione (e cioè previa posizione di norme), attuazione (e cioè insieme di comportamenti che si pretende siano conformi alle norme), controllo (e cioè esistenza di meccanismi capaci di valutare se i comportamenti tenuti sono stati conformi o non conformi alle norme, e di adottare ed applicare le misure previste con lo scopo di ristabilire per quanto possibile il diritto violato e punire i colpevoli). Ritroviamo così le tre funzioni fondamentali degli Stati per quanto riguarda i poteri pubblici: la funzione legislativa (in senso ampio: sarebbe meglio dire normativa, come vedremo), quella esecutiva, quella giurisdizionale. Però tutto il meccanismo esige qualcosa in più: la esclusività del potere giudiziario (per cui in principio, salve eventuali eccezionali deroghe previste in costituzione, solo il potere giudiziario accerta definitivamente se violazione del diritto c’è stata e solo esso dispone le misure conseguenti previste in astratto dal diritto), e la indipendenza dei giudici.
Sia sul principio di divisione dei poteri sia sullo Stato di diritto ai nostri fini le precisazioni precedentemente esposte sono sufficienti. Qui ovviamente ci si chiede che cosa distingue in modo specifico il principio di legalità dal principio di divisione dei poteri e dallo Stato di diritto, ipotizzando che una specificità vi sia o vi possa essere.
Nel principio di legalità la parola chiave ovviamente è “legalità”, che a sua volta è una parola derivata da “legge”. “Legge” può essere intesa, in molte lingue e comunque in italiano, sia genericamente come insieme di norme vincolanti sia come atto che esprime la volontà del popolo (la legge del parlamento). Nel primo significato principio di legalità perde specificità rispetto allo Stato di diritto, nel senso che diventa una componente interna allo Stato di diritto, e cioè quella componente che ricorda che prima della amministrazione e prima del giudice ha da esserci la legge, e cioè in questo caso il diritto. Nel secondo senso principio di legalità è distinto da Stato di diritto (e da rule of law) perché non si limita a ribadire che il potere pubblico, in tutte le sue manifestazioni, è subordinato al diritto, ma pretende in più che al centro del diritto stia la legge della assemblea rappresentativa del popolo, alla quale tutti gli altri atti sono subordinati (salva la costituzione). In questo secondo senso il principio di legalità riguarda il rapporto anzitutto tra la legge come atto formale e tutti gli altri atti, e poi in particolare il rapporto tra: a) la legge e gli altri atti normativi, b) la legge e gli atti della pubblica amministrazione, c) la legge e gli atti della giurisdizione.
Per quanto riguarda il rapporto tra la legge in senso formale e ogni altro atto, il principio di legalità (in questo specifico senso) dice che qualunque atto del potere pubblico nel quale è contenuta una decisione che si impone unilateralmente ai destinatari non è valido se non è fondato sulla legge della assemblea rappresentativa del popolo (legge a sua volta che deve essere conforme alla costituzione, per cui sempre più spesso si preferisce dire principio di legalità costituzionale). In questo principio, se ovviamente condiviso e tenuto fermo dall’ordinamento, si esprime col massimo di chiarezza la distinzione tra principio di legalità e Stato di diritto, e la supremazia del principio entro lo Stato di diritto (lo Stato di diritto beninteso non viene negato, ma diventa una costruzione subordinata al principio di legalità; se invece la legalità viene intesa e praticata come generica subordinazione al diritto, allora il rapporto si inverte e il principio di legalità in questo senso più debole diventa un aspetto, una componente dello Stato di diritto). In questa voce la espressione “principio di legalità” viene intesa in senso forte (salvo che non venga detto il contrario o dal contesto sia chiaro che ci si riferisce al senso debole), perché da un lato solo nel senso forte l’espressione acquista una sua specificità e autonomia rispetto a Stato di diritto, e dall’altro lato è necessario chiarire tutte le implicazioni e le articolazioni che il principio riceve al fine di poter concludere se ed in che misura un determinato ordinamento segue ed applica il principio nel suo significato forte oppure se e in che misura segue in realtà ed applica il modello dello Stato di diritto (e dunque non segue e non applica il principio di legalità nel senso forte).
Questa distinzione tra legalità in senso forte e legalità in senso debole come sopra descritta non va confusa con la distinzione tra legalità formale e legalità sostanziale, che riguarda un diverso problema, anche se connesso. La legalità diventa formale quando la legge, qualunque sia il suo contenuto, si impone al di sopra di ogni altro atto, cosicché, traendo le conseguenze di tale sovranità, la legge può sostituirsi se e quando vuole alla pubblica amministrazione (è il caso delle leggi provvedimento su cui torneremo, non per caso sospette di illegittimità costituzionale), può attribuire poteri senza limiti a qualche autorità (è il caso delle ordinanze di necessità e urgenza, che per questa ragione la dottrina, i giudici e la Corte costituzionale hanno col tempo cercato di limitare al massimo), può addirittura sostituirsi ai giudici (è il caso ad esempio dello scioglimento con legge di una associazione, la quale, poiché lo scioglimento è stato deciso con legge, di fatto non ha strumenti per difendersi davanti ai giudici, che debbono applicare la legge); la legalità è sostanziale quando la legge formale, e per conseguenza tutti gli atti che la legge prevede come attuazione ed esecuzione di essa, delimita a sufficienza il potere che essa attribuisce (e quindi ne resta essa stessa limitata). La legalità costituzionale, se è stata istituita e dispone di un giudice a sua tutela, relega questa distinzione a pochi casi marginali nel complesso dell’ordinamento, perché la costituzione disciplina la stessa legge e costituisce un complesso e stringente insieme di vincoli posti alla legge del parlamento, cosicché la legalità è quasi sempre sostanziale nel senso prima descritto, ed i casi di legalità formale diventano pochi e costituzionalmente sospetti se non illegittimi (come vedremo).
Torniamo dunque alla legalità in senso forte, e cioè al significato della formula secondo cui ogni potere deve essere fondato sulla legge del parlamento (o atto equiparato alla legge se così dispone la costituzione).
“Fondato sulla legge” si limita a dire che un certo potere “x” trova il fondamento ultimo in una legge, ma non dice affatto che il potere “x” viene disciplinato in tutti i suoi aspetti dalla legge. Possiamo immaginare una legge la quale dica: “ il Governo è autorizzato ad emanare per dieci anni atti con forza di legge in qualunque materia esso decida”. La legalità, certamente formale in questo esempio, sarebbe apparentemente rispettata, però tale legge sarebbe sicuramente incostituzionale per il diritto italiano (ed in generale per tutti gli Stati effettivamente democratici). L’esempio serve a chiarire che “fondato sulla legge” esige una più esatta e completa delimitazione. L’analisi degli ordinamenti moderni, e comunque di quello italiano, costringe rapidamente ad articolare questa esigenza: “fondato sulla legge” non ha lo stesso significato e la stessa portata se riferito alla normazione, oppure alla attività delle amministrazioni pubbliche, oppure al potere giudiziario. I tre casi vanno trattati in modo distinto.
Atto o fatto normativo, sul piano concettuale, significa atto o fatto abilitato ad introdurre norme generali e astratte. In questo senso gli atti o fatti normativi nella esperienza giuridica sono infiniti (anche il regolamento di una biblioteca è in questo senso un atto normativo). Per ragioni ovvie il sistema giuridico seleziona solo alcuni di tali atti o fatti, e li disciplina con norme specifiche (ad esempio si applica ad essi il principio ignorantia legis non excusat; per una trattazione sufficiente si rinvia alle voci specifiche in materia). Sono gli atti normativi che alcuni studiosi propongono di chiamare “in senso dogmatico” (mentre quelli concettualmente normativi vengono chiamati “normativi in senso teoretico”). Ne consegue che nel sistema possono esistere, ed in generale esistono molti atti concettualmente normativi che non ricevono però il trattamento specifico riservato agli atti normativi in senso dogmatico, ed all’inverso esistono atti normativi in senso dogmatico o per il trattamento che non sono generali e astratti sul piano concettuale. Sono questioni che eccedono il raggio d’azione di questa voce: l’unica cosa che qui va ribadita è che essi sono comunque subordinati al diritto, e quindi o direttamente alla costituzione o alla legge del parlamento conforme a costituzione, con tutto quel che ne consegue.
Atti normativi nel senso di atti trattati come normativi dal sistema, nel nostro come in qualunque altro ordinamento giuridico, ce ne sono più di uno (nel nostro ordinamento ci sono le leggi costituzionali, le leggi ordinarie, le leggi regionali, i decreti-legge, i decreti legislativi, i molti tipi di regolamento, ed altri ancora). Il problema che il sistema deve risolvere è come farli coesistere senza lacune e contraddizioni. A questo fine soccorrono gli istituti della abrogazione (nelle sue diverse forme), della deroga, della riserva (ed in particolare della riserva di legge, nelle sue due varianti di riserva assoluta e riserva relativa), della preferenza di legge, della gerarchia e della competenza. Proprio perché sono istituti che danno corpo ed operatività al sistema delle fonti normative, essi stanno necessariamente in rapporto col principio di legalità, secondo le modalità che saranno esaminate, e dunque sono essenziali per comprendere tale principio nelle sue articolazioni e manifestazioni (sia nel senso forte qui seguito, sia nel senso debole presente in molte esperienze).
Comincio con gli istituti della riserva di legge e della preferenza di legge. Sono antitetici, l’uno esclude l’altro; la riserva di legge potenzia e garantisce al massimo il principio di legalità in senso forte, la seconda invece caratterizza proprio lo Stato di diritto (e la rule of law, che è l’equivalente inglese dello Stato di diritto; non per caso rule of law è l’espressione che nelle traduzioni in inglese sostituisce Stato di diritto, e viceversa dall’inglese in altre lingue).
La riserva dice che un certo oggetto astratto indicato dalla costituzione (ad esempio la individuazione dei reati e delle pene conseguenti) può essere disciplinato in generale ed in astratto soltanto dalla legge del parlamento (o atto con forza di legge se la costituzione li prevede) e da nessun altro atto normativo.
Da secoli viene fatta distinzione tra riserva assoluta e riserva relativa (distinzione che si è imposta e viene accolta pacificamente per la impossibilità pratica che in tutte le materie riservate alla legge venga seguito il criterio rigoroso prima enunciato): la riserva relativa dice che la disciplina normativa dell’oggetto riservato spetta anzitutto alla legge, ma che la legge può demandare ad altro atto (di altro soggetto, senza forza di legge, emanato con procedure diverse) il completamento della disciplina per aspetti giudicati secondari. Con la riserva relativa il principio di legalità viene attenuato, ma resta fermo: a) che la legge o atto con forza di legge viene temporalmente per primo; b) che l’atto secondario che integra la legge in tanto è ammesso in quanto la costituzione implicitamente lo ammette; c) che l’atto integrativo resta comunque subordinato alla legge che in ogni momento può riprendersi tutto lo spazio lasciato all’atto secondario; d) che la misura del potere demandato dalla legge all’atto normativo secondario dipende sempre dalla legge che in prima battuta disciplina e deve disciplinare l’oggetto sottoposto a riserva sia pure relativa.
La preferenza di legge (o comunque il meccanismo comunque chiamato che realizza quello che qui secondo tradizione viene chiamata preferenza di legge, traducendo l’espressione tedesca originaria Gesetzesvorrang, mentre riserva di legge viene detta Gesetzesvorbehalt) nasce in sistemi opposti a quelli guidati dal principio di legalità in senso forte: in tali sistemi la costituzione, anche quando prevede riserve di legge (in generale per quanto riguarda il diritto di proprietà ed i diritti di libertà), prevede nello stesso tempo che coesistano due competenze normative su tutte le altre materie o comunque su altre materie, quella della legge in senso formale e quella del sovrano (e del suo governo se così l’ordinamento prevede); naturalmente anche in questo caso è necessario stabilire un principio d’ordine che dica qual è l’atto normativo da applicare se ambedue i soggetti hanno deciso di introdurre norme tra loro incompatibili; il principio della preferenza di legge dice che in tal caso la legge del parlamento prevale sull’atto normativo dell’esecutivo. Questo meccanismo era tipico dello Stato tedesco per tutto l’ottocento fino alla prima guerra mondiale (e non per caso è in questo Paese che viene inventato il nome Stato di diritto e analizzata la figura della preferenza di legge distinta e in qualche modo opposta alla figura della riserva di legge), è ancora tipico della Gran Bretagna, che da un lato conosce la sovranità della legge del Parlamento e dall’altro però ammette che esistano ancora i poteri di prerogativa regia (i cui atti dunque in tali materie cedono di fronte alla legge ma solo se legge c’è e sussiste incompatibilità tra norme di legge e norme introdotte dagli atti di prerogativa), ha attraversato tutta l’esperienza italiana, nella quale si sono continuamente scontrate due tendenze in materia di regolamenti dell’esecutivo, la tendenza democratica, che ammetteva regolamenti soltanto se previsti da una legge formale, e la tendenza conservatrice che invece in materie non coperte da riserva di legge ammetteva i regolamenti spontanei dell’esecutivo, salva la preferenza della legge se una legge interveniva in modo incompatibile sullo stesso oggetto.
Per quanto riguarda il rapporto tra principio di legalità e riserve di legge mi limito ad enunciare apoditticamente le tesi che ritengo corrette (tutte contestate da altri giuristi): 1) è sempre possibile basandosi sulla realtà della vita costruire nuovi oggetti che non rientrano in nessuna delle materie oggetto di riserva di legge; 2) per conseguenza è possibile applicare direttamente il principio di legalità in questi casi non coperti da riserva di legge, e dunque concludere che, affinché una autorità disciplini normativamente qualcosa non compreso in una riserva di legge, è necessaria sempre una legge che indichi ed attribuisca il qualcosa (l’oggetto) a qualche autorità (è il fondamento minimo del potere normativo); in tal modo si risolve la disputa intorno ai regolamenti indipendenti di cui parla la lettera c) del co. 1, art. 17, l. 23.8.1988, n. 400: i regolamenti spontanei dell’esecutivo non sono ammessi perché violano comunque il principio di legalità, ma è ammesso che in materie non coperte da riserva di legge, né assoluta né relativa, la legge si limiti ad attribuire potere regolamentare sopra un determinato oggetto all’autorità “x”, senza dire nient’altro sul contenuto delle norme che il soggetto può introdurre (che comunque restano subordinate alle leggi); 3) la riserva relativa non viene rispettata se la legge si limita a dire ciò che è stato detto nel precedente numero 2: essa esige molto di più e cioè la ragionevole distinzione tra aspetti principali dell’oggetto, che vanno disciplinati con legge, e aspetti secondari, che possono essere demandati ad altra autorità con atto senza forza di legge.
Vediamo ora come il principio di legalità reagisce sui criteri di gerarchia e competenza in materia di fonti normative, e viceversa.
La parola “gerarchia” indica nel nostro tema che un atto normativo (e quindi tutte le norme in esso contenute) è più “forte” di un altro atto normativo (e delle sue norme): tradotto in un meccanismo giuridico operativo vuol dire che quello superiore può abrogare quello inferiore, e viceversa quello inferiore non può abrogare l’atto superiore (lo stesso si può dire nel caso di deroga, distinta dalla abrogazione, di cui per ragioni di spazio non verrà detto altro rinviando alla voce Abrogazione).
Però per stabilire se tra due atti c’è o non c’è gerarchia è necessario che un terzo atto, ipotizzato per definizione superiore ad ambedue, abbia appunto deciso che tra i due esiste gerarchia, oppure parità. Tale atto è anzitutto e ovviamente la costituzione (anche se non scritta).
Eguale la conclusione per quanto riguarda il criterio della competenza: in questo caso si immagina che un atto, ovviamente superiore, abbia stabilito che un certo atto ha una determinata competenza, talvolta generale su qualsiasi oggetto tranne quelli attribuiti ad altro atto, talvolta soltanto su una determinata materia o determinate materie, talvolta addirittura soltanto per una volta per uno specifico oggetto. Anche in questo caso il primo e fondamentale atto o fatto normativo che introduce e rende obbligatori criteri di competenza rispetto ad altri atti dell’ordinamento è la costituzione, scritta o non scritta.
Se un atto, in base alla costituzione o comunque in base ad un atto legittimo ad esso gerarchicamente superiore, è competente soltanto su una o determinate materie o oggetti, e se questo atto pretende di disciplinare una materia o oggetto sul quale non è competente, tale atto è invalido per questo solo fatto. Alla attribuzione di competenza l’atto gerarchicamente superiore può aggiungere la riserva, e in tal caso l’atto è competente soltanto su “x” e soltanto tale atto è competente su “x”.
Se invece un atto, in base a costituzione o comunque in base ad un atto gerarchicamente ad esso superiore (gerarchia originaria, possiamo dire), è a sua volta gerarchicamente subordinato ad un altro, ma in astratto, come tipo di atto, è competente sulle stesse materie o oggetti attribuite a quest’altro, se sulla materia oppure oggetto sui quali ambedue in astratto sono competenti è già in vigore l’atto gerarchicamente superiore oppure sopravviene l’atto gerarchicamente superiore, ed in ambedue i casi esiste incompatibilità tra i contenuti normativi dei due, allora quello gerarchicamente superiore impedisce a quello inferiore di entrare in vigore oppure lo abroga, e non viceversa.
In base a questi criteri diventa automatico costruire più livelli del sistema normativo, in ciascuno dei quali collocare tutti gli atti subordinati a quello superiore e sovraordinati a quello inferiore. In tal modo nell’ordinamento italiano (ma in generale in tutti gli ordinamenti democratici) si crea il livello costituzionale (nel quale è compreso il diritto dell’Unione europea secondo quanto diremo tra breve), il livello legislativo, il livello regolamentare. Se poi è possibile costruire altri livelli verso il basso è questione che va risolta in base a quanto stabilito nel sistema in ciascun livello superiore ad altri.
In questa ricostruzione schematica di un sistema normativo (o meglio di più possibili sistemi normativi) il principio di legalità in senso forte gioca un ruolo centrale (se rigorosamente seguito) perché esso dice che la legge ordinaria non può legittimare atti con forza di legge: la individuazione di tali atti può essere fatta soltanto dalla costituzione. Nello stesso tempo il principio di legalità deve conciliarsi con la decisione del livello costituzionale di prevedere e tutelare atti normativi particolari che stano immediatamente sotto la costituzione ma non stanno sotto le leggi, perché hanno una competenza ad essi riservata dalla costituzione. Però solo la costituzione può fondare tali atti normativi: in altre parole la legge ordinaria non può sottrarre a se stessa materie ed oggetti riservandoli ad atti di altri soggetti. Quanto al terzo livello, quello regolamentare, è la stessa Costituzione italiana a prevederlo, sia pure con incertezze e lacune che qui non possono essere esaminate, ma da un lato la legge resta libera di individuare sempre nuovi tipi di atto regolamentare (nel rispetto delle riserve di legge, del criterio della competenza e del principio di legalità), e dall’altro è in astratto immaginabile, se il sistema non si oppone, che possano esservi atti normativi di un livello ancora inferiore.
La gerarchia che si trova nel sistema italiano per un verso è in principio abbastanza semplice e dà il massimo di portata al principio di legalità, per un altro verso con la inserzione dell’ordinamento italiano entro quello dell’Unione europea e con il ribaltamento dei rapporti di competenza tra Stato e Regioni introdotto dalla l. cost. 19.1.2001, n. 3 è divenuta confusa proprio a livello costituzionale.
Da un lato il testo costituzionale italiano ha esplicitato che hanno forza di legge, oltre che ovviamente la legge del parlamento, soltanto gli altri atti indicati dal testo costituzionale, cosicché anche la legge ordinaria del parlamento non può istituire atti con forza di legge (pari ordinati cioè a se stessa) e può istituire altri atti normativi purché non vadano contro i principi costituzionali e restino comunque subordinati alla legge; come si vede, con questi criteri (sempre che vengano rispettati e seguiti) il principio di legalità rivela tutta la sua forza e la sua portata a vantaggio della rappresentanza del popolo italiano (a conferma della sovranità del popolo proclamata nell’art. 1).
Esattamente all’opposto l’inserzione nella Unione europea, mediante un trattato ratificato con legge ordinaria (si noti), ha indotto politici e giudici, a cominciare dalla Corte costituzionale, a ritenere questo accadimento fondato su una interpretazione dell’art. 11 Cost., che ha condotto alla sorprendente e paradossale conclusione secondo cui il diritto dell’Unione europea prevale non solo sulla legge ordinaria (come oggi dice espressamente il nuovo primo comma dell’art. 117, introdotto però con la citata l. cost. n. 3/2001) ma sulla stessa Costituzione, salvo i cd. controlimiti, e cioè i principi supremi dell’ordinamento (come ha detto la Corte costituzionale): a parte il fatto che nessuno è in grado di elencare quali sono tali principi supremi (e quindi quali sono effettivamente tali controlimiti), il risultato automatico è che il testo costituzionale viene idealmente diviso, in forza di tale interpretazione dell’art. 11 (che costituisce così un caso visibile e incontestabile di Grundnorm nel senso kelseniano della espressione), in due parti: una parte, quantitativamente minore, dai confini indeterminati, che è superiore anche al diritto dell’Unione europea (i controlimiti), e la restante parte che è invece derogabile dal diritto dell’Unione europea.
La riforma del 2001 ha ribaltato il rapporto tra legge nazionale e legge regionale: mentre fino a quella riforma la legge nazionale aveva una competenza generale, una competenza cioè su qualsiasi materia tranne quelle eventualmente riservate alla legge regionale, e la legge regionale evidentemente una competenza limitata alle sole materie elencate in Costituzione o in leggi costituzionali, dopo la riforma il rapporto è invertito: è la legge regionale che ha un competenza generale (residuale si preferisce dire per la ragione che apparirà evidente tra poco), mentre la legge statale è competente soltanto sulle materie elencate nell’art. 117 o eventualmente in altri articoli della Costituzione; il numero di tali sedicenti materie è però talmente alto e pervasivo, ed in alcuni casi la loro portata così estesa, che nascono continue controversie tra Stato e Regioni intorno alla ripartizione della funzione legislativa e di fatto la legislazione regionale è appunto residuale, quel poco che resta dopo aver esaurito ed interpretato l’elenco delle materie statali.
Nel legame tra Repubblica italiana e Unione europea il principio di legalità nel senso forte qui seguito ha perso quasi del tutto la sua possibile esistenza ed anche il principio di legalità in senso debole ha perso significato, per la banale ragione che nel diritto dell’Unione, sovraordinato alla legge ed alla stessa costituzione salvi i controlimiti, non esiste l’equivalente della legge come manifestazione della volontà del popolo attraverso i rappresentanti da esso eletti, ma complesse forme di normazione nelle quali comunque prevalgono nettamene gli esecutivi degli Stati dell’Unione. Non per caso ma coerentemente l’ espressione “principio di legalità” non figura nel lessico dell’Unione, mentre domina l’espressione Stato di diritto, e la sua traduzione inglese rule of law (che non va tradotta come “governo della legge” ma “come governo del diritto”). Anche nella V repubblica francese, e cioè nella patria del principio di legalità proclamato dalla rivoluzione francese sotto la suggestione roussoviana della loi come espressione della volonté générale, oggi, correttamente in base al testo ed alla pratica della costituzione vigente, si parla di Stato di diritto e nei manuali di diritto costituzionale è scomparso, perfino negli indici analitici, l’espressione principe de legalité.
La l. cost. n. 3/2001, con le sue confuse regole in tema di riparto della funzione legislativa tra Stato e regioni, ha determinato un contenzioso senza fine, che si rinnova continuamente ad ogni nuova legge statale o regionale, cosicché arbitro della ripartizione, nella inerzia del parlamento, è divenuta la Corte costituzionale: anche per questo aspetto parlare di principio di legalità nel senso forte qui seguito ha perduto verità e adeguatezza.
Nei due casi trattati nel paragrafo precedente la perdita di significato e di mordente del principio di legalità deriva pur sempre da decisioni politiche. Ma una diversa perdita di significato e di mordente deriva continuamente dal modo fraudolento mediante il quale vengono interpretate ed attuate altre norme costituzionali, in modo tale che del principio si rispetta l’apparenza ma non la sostanza. Ricordo qui gli scandalosi abusi commessi mediante decreti-legge e decreti legislativi, il mancato rispetto della riserva relativa di legge, i regolamenti delegificanti, le ordinanze di necessità ed urgenza, i decreti sostanzialmente normativi di autorità amministrative definiti “non regolamentari”, i poteri normativi delle autorità indipendenti. In tutti questi casi, con l’acquiescenza di fatto, ora complice ora rassegnata, di tutte le cariche dello Stato che avrebbero potuto opporsi alla degenerazione, istituti pur previsti dal testo costituzionale ed istituti fondati soltanto sulla legge ordinaria (nel rispetto formale cioè, si badi all’ironia delle cose, del principio di legalità) sono stati interpretati ed applicati in modo tale che il baricentro del potere normativo si è quasi totalmente spostato ora a favore del governo, ora a favore dei ministri, ora a favore di altre autorità, e della legge come espressione canonica della sovranità del popolo non rimane pressoché nulla. Per ciascuno dei tipi di atto ricordati e per ciascun caso di elusione o vera e propria violazione della Costituzione sarebbe necessaria una lunga e accurata dimostrazione: si rinvia per questo aspetto alle voci specifiche nelle quali vengono trattati i temi elencati.
Il principio di legalità ha senso se viene fatta rigorosa distinzione tra previa norma o insieme di norme, e cioè prescrizioni generali e astratte, e gli innumerevoli atti concreti, collocati nel tempo e nello spazio rispetto a specifici soggetti, atti che sono attuazione ed esecuzione delle norme generali e astratte. Sotto questo aspetto non c’è distinzione tra amministrazioni pubbliche, o potere esecutivo, e giurisdizione. Il principio di legalità li comprende ambedue. Però esso si articola in modo diverso nei due campi perché deve tener conto delle specificità di essi. Qui ci occuperemo del legame tra principio di legalità e pubbliche amministrazioni e rinvieremo al prossimo paragrafo quello tra lo stesso principio e la giurisdizione.
Le amministrazioni pubbliche esistono perché le norme, da sole, non modificano la realtà: è necessario che esseri umani in carne ed ossa si comportino come le norme prescrivono (il che ammette e non può non ammettere che di fatto il diritto può anche rimanere violato). Le amministrazioni pubbliche sono quelle strutture alle quali il diritto ha affidato vari compiti, elencati e disciplinati dal diritto, da realizzare nella realtà. Un compito però è interdetto alle amministrazioni pubbliche: quello di accertare definitivamente se violazione del diritto c’è stata e ordinare le misure che secondo diritto debbono seguire a questo accertamento definitivo; questo compito spetta alla giurisdizione (vi sono casi nei quali spetta alle p. a. svolgere controlli del genere: essi però non sono definitivi, restano soggetti al controllo definitivo dei giudici). Nello stesso tempo il sistema basato sulla divisione dei poteri e sullo Stato di diritto (in questo caso non c’è differenza tra Stato di diritto e principio di legalità) vieta alla giurisdizione di esercitare compiti che il diritto ha riservato alle pubbliche amministrazioni (i giudici non possono sostituirsi alle pubbliche amministrazioni), così come vieta ai giudici di introdurre nel sistema norme generali e astratte (di formulare con valore vincolante norme generali e astratte).
Attuare ed eseguire il diritto (cioè in questo caso far sì che la realtà empirica diventi o resti conforme alle prescrizioni del diritto) non è un compito meccanico, automatico. Esistono gli atti dovuti, e cioè atti per la cui emanazione il diritto prevede che sia sufficiente l’accertamento di alcuni dati in numero finito facili da accertare; ma enormemente maggiore è il numero di atti discrezionali, come si dice tecnicamente, e cioè atti per la cui costruzione ed emanazione la pubblica amministrazione deve compiere valutazioni, spesso numerose e complesse, che non stanno nella legge, ma vanno fatte caso per caso in base alla realtà accertata o talvolta presunta o ipotizzata o sperata. Il principio di legalità serve a delimitare lo spazio di tale discrezionalità, che è proprio quello costruito dalle norme (se bene o male, in modo stringente o vago e confuso, sono questioni che riguardano appunto la buona legislazione, i molti modi mediante i quali costruire e scrivere buone leggi e gli infiniti modi mediante i quali scrivere leggi cattive o pessime). A questo punto l’unico modo per trattare del principio di legalità in riferimento alla organizzazione e al funzionamento delle pubbliche amministrazioni diventa l’analisi di tutto ciò che compiono, hanno l’obbligo o il potere di compiere, le pubbliche amministrazioni attuando ed eseguendo il diritto, e l’analisi di quanto stabiliscono i giudici quando sono chiamati a controllare il buon esercizio di tale discrezionalità, e descrivere i molti casi tipici e ricorrenti (ad esempio per quanto riguarda il vizio dell’eccesso di potere), e quindi in questa voce non si può dire altro sul tema.
Restano però da ricordare due cose significative ed importanti. Spesso la legge autorizza le pubbliche amministrazioni a dettare norme rispetto a se stesse: cioè, in deroga al principio di divisione dei poteri, le medesime pubbliche amministrazioni sono spesso titolari contemporaneamente di poteri normativi e di poteri esecutivi (si pensi ad esempio al regolamento ministeriale, con il quale è lo stesso ministro che con suo regolamento disciplina suoi successivi atti amministrativi). Resta fermo però il principio di legalità, nel senso che, se la p. a. ha emanato legittimamente una atto normativo che disciplina i propri poteri, questa stessa p. a., quando esegue ed attua le norme resta vincolata al suo atto normativo: in caso contrario i suoi atti amministrativi sono illegittimi, con tutto quel che ne consegue.
Quasi come un inverso, è la legge che spesso prende il posto di un atto amministrativo, e cioè non ha per contenuto norme generali e astratte, ma un comune atto amministrativo, che diventa per così dire legge di se stesso. In principio le leggi-provvedimento non vengono ritenute incostituzionali, e la Corte costituzionale le ammette. Vi sono peraltro casi certi nei quali una legge-provvedimento non è ammissibile (ad esempio non è ammissibile una legge che ordini l’arresto di una persona), casi nei quali è la stessa Costituzione a prevedere leggi-provvedimento (la legge di bilancio è concettualmente una legge-provvedimento), e per molti, anche se non per tutti, non sono ammissibili, proprio in forza del principio di legalità, leggi-provvedimento meramente esecutive di precedenti leggi. Il tema è sottile e complesso e si rinvia alle voci che ne trattano per competenza e ai lavori specifici sul tema.
Il principio costituzionale che rappresenta la principale articolazione del principio di legalità per quanto riguarda i giudici sta nella prescrizione per cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 Cost.).
Come già sottolineato ripetutamente, il principio di legalità, in congiunzione col principio della divisione dei poteri, prescrive rispetto al potere giurisdizionale due cose strettamente correlate: da un lato spetta soltanto ai giudici accertare definitivamente se violazione del diritto c’è stata, e ordinare le misure che il diritto prescrive come conseguenza della violazione accertata; dall’altro però ai giudici è vietato introdurre norme generali e astratte (nel nostro ordinamento non solo nei confronti di soggetti esterni alla giurisdizione, ma anche nei propri confronti, ad esempio per quanto riguarda le norme processuali; l’art. 101 Cost. dice non solo che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, ma dice anche che i giudici applicano soltanto la legge, e cioè il diritto, non hanno il potere di creare diritto).
Vi sono poi specificazioni del principio di legalità in riferimento ai compiti dei giudici che sono più stringenti del generale e generico principio di legalità. Il caso più importante e significativo sta nel diritto penale. Qui vige quello che molti, per sottolineare questo aspetto, chiamano principio di stretta legalità: soltanto la legge del parlamento (o atto con forza di legge) può descrivere un comportamento qualificandolo come reato, e soltanto una legge (o atto con forza di legge) può decidere il tipo e la misura della pena conseguente. Si tratta di una riserva assoluta di legge, che però, in attuazione del principio di legalità nel campo penale, dice qualcosa di più che non si ricava immediatamente da essa: a) nel diritto penale, a differenza che nel diritto civile, è vietata l’analogia; b) nel diritto penale dire che i giudici accertano definitivamente se violazione del diritto c’è stata non è sufficiente per cogliere un punto essenziale, perché nessun’altra autorità al posto del giudice competente può accertare, sia pure non definitivamente, se reato c’è stato: in altre parole esiste una riserva di giurisdizione; c) nel diritto penale non è ammessa in nessun caso la retroattività della norma penale, né per quanto concerne la individuazione del comportamento punito penalmente né per quanto riguarda la determinazione della pena.
Però, a temperare ragionevolmente il rigore del principio di legalità nel campo dei reati e delle pene, è universalmente ammesso, e comunque pacificamente ammesso nel diritto italiano, che la legge non solo possa ma debba attribuire al giudice il potere, sulla base di criteri prestabiliti dalla stessa legge, di modulare la pena tra un massimo ed un minimo.
Il principio di legalità non ammette eccezioni nel diritto penale per quanto riguarda il divieto di retroattività delle norme, ma non lascia senza difesa il meccanismo della retroattività in altri campi. Si contendono in materia due posizioni abbastanza diverse, una tradizionale dei giudici italiani, ed un’altra che proviene dalla Corte europea sui diritti dell’uomo: la prima posizione dice che, tranne la materia penale, la retroattività negli altri campi in principio è ammessa, salvo che essa si traduca in violazione di altri principi costituzionali (ad esempio il principio di eguaglianza); la seconda dice al contrario che la retroattività in principio è vietata, a meno che sia possibile dimostrare che la retroattività tutela nel caso specifico un principio o interesse di ordine costituzionale.
Vi sono poi altri casi di riserva di giurisdizione previsti in Costituzione, casi che costruiscono il principio di legalità in modo specifico ponendo un legame immediato, senza mediazioni possibili, tra diritto (e cioè potere normativo) e giurisdizione (escludendo quindi una ipotizzabile mediazione della pubblica amministrazione o di altro soggetto). Il caso più importante si verifica in molti, anche se non in tutti i diritti di libertà. Esamino per tutti l’art. 13 Cost. sulla libertà personale. Questo articolo pone come regola (salva l’eccezione prevista nel terzo comma a favore della autorità di pubblica sicurezza in casi di necessità e urgenza) che soltanto l’autorità giudiziaria competente può limitare la libertà personale nei casi e nei modi previsti dalla legge. Questa prescrizione può trovare applicazione soltanto se la legge è generale e astratta, e soltanto se soltanto il giudice applica la legge nei confronti delle singole persone: è un caso nel quale comunque non sono ammesse le leggi-provvedimento (come già detto) e non sono ammessi provvedimenti restrittivi della libertà personale da parte di altre autorità. Esiste bensì una eccezione, ma soltanto nei casi di necessità e urgenza, tassativamente stabiliti dalla legge: questo significa: a) che la legge che attribuisce poteri alla autorità di pubblica sicurezza in casi non necessari e non urgenti è incostituzionale, con quello che ne consegue; b) tassativamente vuol dire che né l’autorità di pubblica sicurezza né l’autorità giudiziaria in sede di convalida possono applicare l’istituto della analogia; c) la prescrizione per cui il provvedimento della autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro 48 ore alla autorità giudiziaria, la quale deve pronunciarsi entro le successive 48 ore, pena la perdita di ogni efficacia del provvedimento, non solo conferma il principio per cui soltanto l’autorità giudiziaria ha il potere di dire l’ultima parola quando si tratta di accertare violazioni del diritto e ordinare le misure conseguenti, ma dice in più che tale controllo della autorità giudiziaria è obbligatorio (non dipende dalla volontà degli interessati, ad esempio) e deve avvenire nei tempi e nei modi indicati. Sono tutte prescrizioni ulteriori, in questo come in altri casi, che danno maggior forza ed efficacia al principio di legalità.
I giudici non si occupano soltanto di poteri pubblici e di atti di tali poteri, anzi per la maggior parte si occupano di controversie tra privati. Nel diritto privato domina il principio della autonomia privata, per cui i privati possono vincolare se stessi soltanto se lo vogliono e soltanto in condizioni di parità con altri privati. Il principio di legalità in questo campo circoscrive la libertà dei privati, delimita dall’esterno ciò che essi non possono decidere o fare, con l’intesa che dove non c’è divieto esiste libertà garantita dall’ordinamento.
I giudici, come tutti, debbono interpretare le parole del legislatore: l’interpretazione giuridica non è qualcosa che il diritto concede o può vietare, ma è il portato inevitabile del fatto che il legislatore manifesta la sua volontà mediante parole. Però, se il giudice è il solo che giudica definitivamente, l’interpretazione del giudice nel caso concreto diventa anch’essa definitiva e si sovrappone al testo del legislatore, e l’interpretazione dominante, soprattutto quella dei giudici supremi, si affianca ai testi del legislatore e diventa anch’essa diritto. Sul tema è possibile, e necessario per una comprensione almeno accettabile, scrivere libri. Qui basta ricordarlo e formulare la conclusione (non accettata da tutti).
Il principio di legalità in senso forte, che, quando vige una costituzione scritta, diventa principio di legalità costituzionale, da un lato pone al centro del sistema giuridico la legge come manifestazione della volontà del popolo attraverso i suoi rappresentanti, e quindi costituisce lo strumento principale attraverso cui si realizza il principio della sovranità popolare, dall’altro limita la stessa legge, sulla base della costituzione (e cioè di un atto ancora più alto riconducibile pur sempre alla volontà del popolo). Se e quanto vi riesca, esaminando non solo il contesto normativo generale ma la pratica che realizza o non realizza tale contesto normativo, è questione collegata ma diversa, che per essere discussa e valutata (come molto parzialmente si è tentato di fare) presuppone però che sia chiaro il criterio della valutazione, e cioè la chiarificazione di cosa significa principio di legalità.
Il principio di legalità, come del resto altri principi fondamentali (ad esempio quello di divisione dei poteri), non è scritto nella Costituzione italiana; del resto anche se una costituzione lo volesse scrivere, difficilmente potrebbe andare oltre la mera citazione del suo nome (così ad esempio l’art. 80, co. 1, GrundGesetz).
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