Principio di proporzionalita. Scelte sanzionatorie e sindacato di legittimita
Il principio di proporzionalità rappresenta un limite cui è soggetta ogni forma di esercizio del pubblico potere ed un canone di controllo sulle limitazioni dei diritti fondamentali, con ampi richiami anche nella giurisprudenza delle Corti europee. In materia penale, almeno nell’esperienza italiana, esso ha per lo più interessato il controllo sull’equilibrio sanzionatorio della fattispecie, trovando affermazione in un orientamento costante della Consulta che ritiene censurabili asimmetrie punitive irragionevoli tra fattispecie sostanzialmente assimilabili. Nondimeno, anche nelle recenti pronunce della Corte sul punto – le sentenze 23.3.2012, n. 68 e 31.5.2012, n. 134 – il paradigma argomentativo utilizzato ne evidenzia la “giustiziabilità” solo nel prisma della ragionevolezza-eguaglianza, ritenendo conditio sin qua non per una decisione di accoglimento l’individuazione di un cd. tertium comparationis che evidenzi la sperequazione sanzionatoria.
Due recenti pronunce della Corte costituzionale – le sentenze 23.3.2012, n. 68 e 31.5.2012, n. 134 – offrono una preziosa occasione per riflettere sul principio di proporzione in materia penale, al fine di metterne in luce – nel prisma di una indiscussa ambientazione costituzionale – l’attuale grado di vincolatività per il legislatore e per l’interprete, visualizzando anche le ulteriori prestazioni che, ad un confronto comparatistico, allo stesso possono essere ascritte.
Il principio di proporzione (o proporzionalità) rappresenta un «grande principio costituzionale di carattere generale»1, se non persino un principio di rango sovracostituzionale (Überverfassungsrang)2: esso esercita, del resto, un influsso sull’intero diritto dei pubblici poteri, dal diritto tributario, al diritto amministrativo, sino al diritto penale ed al diritto di polizia.
Proprio in tale ultimo ambito, peraltro, sembra possibile collocarne la genesi, dove ha preso corpo – alla fine del diciottesimo secolo – come limite di azione per le autorità di pubblica sicurezza3: se però in quell’originario contesto – ed in quel milieu culturale – poteva apparire «poco più che un canone di moderazione del principio monarchico»4, l’evoluzione successiva ne ha visto ampliare il raggio di azione ed ispessire le istanze garantistiche5, elevandolo a testata d’angolo dello “stato di diritto”6 quale primario criterio di controllo sul rispetto dei diritti fondamentali7, e vestendolo della stessa livrea, come testimonia – in relazione alla sua più precipua declinazione penalistica – l’art. 49, co. 3, della Carta di Nizza, ai sensi del quale «Le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato».
È appena il caso di sottolineare, dunque, che l’istanza di proporzionalità della punizione è solo una delle proiezioni del principio: del resto, anche nel panorama penalistico attuale, l’idea-limite che lo anima ne coltiva le prestazioni in un ambito sovraordinato e ben più esteso rispetto a quello dell’adeguatezza della pena, attestandolo come canone fondamentale per la stessa giustificazione del diritto penale8. È in questa veste, in effetti, che il principio in esame viene tematizzato, tra l’altro9, nel contesto tedesco10 o spagnolo11, secondo un paradigma composito che scandisce la proporzione (Verhältnismäßigkeit/proporcionalidad) in sotto-criteri (nella tassonomia tradizionale: idoneità/necessità/proporzione in senso stretto), ed articola il giudizio in un “esame a tre livelli” (dreistufige Prüfung)12, che peraltro ha offerto una fondamentale matrice seguita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE dove esso è ormai affermato – al pari del principio di legalità, di eguaglianza, e di tutela dei diritti fondamentali – come «principio generale dell’ordinamento comunitario»13.
Nella prospettiva penalistica, e dall’angolatura italiana, si impone dunque un preliminare sforzo di “disambiguazione”: le istanze garantistiche altrove ascritte al (generale) principio di proporzione come canone di controllo sull’an, sul quomodo e sul quantum della sanzione penale sono infatti ripartite tra diversi principi, primi fra tutti i principi di offensività (specie in punto di legittimità dello scopo perseguito e del mezzo impiegato, attraverso il tradizionale controllo su “beni” e “tecniche di tutela”) e di sussidiarietà/extrema ratio (con riferimento alla necessarietà del mezzo prescelto rispetto ad uno meno invasivo), oltre che al più generale canone della ragionevolezza.
In particolare, offensività e sussidiarietà – pur dimostrando una capacità per lo più argomentativa, o di semplice indirizzo politico, ed essendo riconosciuti soprattutto come “criteri informatori di politica criminale”14 – manifestano, nondimeno, una radicata autonomia concettuale, ed una forza centripeta che finisce col circoscrivere il ruolo della proporzione a quello di mero criterio di controllo sull’equilibrio sanzionatorio15.
In questa più limitata dimensione – che si è proposto di definire “proporzione formale”16 – del resto, esso è tradizionalmente riconosciuto dalla Corte delle leggi, che ne ha sviluppato i contorni muovendo dal principio di ragionevolezza-eguaglianza (art. 3, co. 1, Cost.), seppur in una linea evolutiva maturata soprattutto alla luce della finalità rieducativa della pena (e dunque in prospettiva utilitaristica: art. 27, co. 3, Cost.), sino ad affermarne il fondamentale valore orientativo già sul piano degli indirizzi politico-criminali: da un lato si è chiarito, in più occasioni, che «il principio di eguaglianza, di cui all’art. 3, primo comma, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, di modo che il sistema sanzionatorio adempia, nel contempo, alla funzione di difesa sociale ed a quella delle posizioni individuali …»17; dall’altro si è ribadito anche di recente che una pena non conforme a proporzione vanifica, già a livello di previsione legislativa astratta, la finalità rieducativa della pena, che, ove sproporzionata, sarà fatalmente avvertita come ingiusta dal condannato18.
In ogni caso, è proprio nel contesto del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) che può essere ravvisato – almeno allo stato – il solo spazio di “giustiziabilità” del principio di proporzione, segnato peraltro da confini alquanto angusti su cui vigila il proverbiale self restraint della Corte: secondo i suoi insegnamenti costanti, infatti, non solo la selezione delle condotte punibili – la scelta dei beni/interessi/valori da proteggere e le stesse tecniche di tutela – ma anche la commisurazione delle sanzioni è materia affidata alla discrezionalità del legislatore, involgendo “apprezzamenti tipicamente politici”, cosicché la Corte – per non sostituirsi al legislatore – può censurarli solo ove essi «trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione»19. In altri termini, l’affermata valenza del principio di proporzione del trattamento sanzionatorio (e non della sola pena) come fondamentale direttrice di razionalità legislativa prende corpo, in sede di controllo di legittimità, solo nelle forme del controllo di ragionevolezza-eguaglianza, sulla base dei presupposti (e con i limiti) di cui subito si dirà: e questa corrispondenza biunivoca segna forse il profilo in relazione al quale la tematizzazione del principio in esame sconta un certo ritardo rispetto ad esperienze a noi vicine, e dove quindi attende maggiori sviluppi.
Le prestazioni del principio di proporzione, tuttavia, non si riducono a questo: anche la valenza ermeneutica del principio è stata, infatti, recentemente oggetto di chiara esplicitazione, ove si è affermato che nel caso di previsione, entro una medesima norma, di fattispecie connotate da diverso disvalore, spetta «al giudice fare emergere la differenza tra le varie condotte tramite la graduazione della pena tra il minimo e il massimo edittale»20.
Su questo versante, dunque, è al travaglio ermeneutico del giudice comune che risulta affidato il compito più delicato, sollecitandolo a ricostruire la ratio della norma penale anche in ragione della severità della sanzione21, ed a selezionare i quadri di tipicità congeniali alla soglia di disvalore espressa dalla cornice edittale, espungendo dalla fattispecie – nei limiti in cui il dato normativo lo consenta – i fatti incapaci di attagliarsi al “tipo di lesione valoriale” che la tariffa della pena – sin dalla celebre lezione di Jhering – chiaramente segnala22.
In sede di controllo di legittimità, del resto, i tracciati giurisprudenziali recenti lasciano emergere con chiarezza le caratteristiche “ereditarie” del principio di proporzione, e i condizionamenti imposti alla sua “giustiziabilità costituzionale”: se si eccettua qualche pronuncia più originale e “meno ortodossa” (ad es., C. cost., 25.7.1994, n. 341, in materia di oltraggio), il rapporto di filiazione diretta con il principio di eguaglianza lo vuole ancora rigorosamente vincolato al relativo schema triadico centrato su un precipuo teritum comparationis, in assenza del quale la (pur evidente) sproporzione appare destinata a sottrarsi al controllo della Corte.
Decisivo, dunque, è il riscontro di una pertinente fattispecie comparativa, che consenta sia di misurare la dissimmetria sul piano sistematico, sia di offrire i riferimenti normativi per porvi eventualmente rimedio, senza aprire ad (inammissibili) interventi “creativi” da parte della Corte: «in assenza di precisi punti di riferimento che possano condurre a soluzioni costituzionali obbligate», infatti, «né una pronuncia caducatoria, né una pronuncia additiva potrebbero introdurre nuove sanzioni penali o trasporre pene edittali da una fattispecie ad un’altra, senza l’esercizio, da parte del giudice delle leggi, di un inammissibile potere discrezionale di scelta»23.
3.1 L’illegittimità del minimo edittale del sequestro di persona a scopo di estorsione
Sotto il primo profilo, è emblematica la travagliata vicenda che ha condotto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della fattispecie di sequestro di persona a scopo di estorsione prevista dall’art. 630 c.p. (C. cost. n. 68/2012).
In effetti, la questione di costituzionalità concernente la spiccata severità del minimo edittale della pena (venticinque anni di reclusione) previsto per tale reato – di sproporzione evidente specie al cospetto di un referente criminologico profondamente mutato ed ormai caratterizzato da sequestri di minimo significato lesivo – era stata in un primo tempo prospettata – sempre nel quadro del paradigma della ragionevolezza-eguaglianza – invocando l’estensione dell’attenuante delineata dall’art. 3, co. 3, della l. 26.11.1985, n. 718 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979), in rapporto alla fattispecie – prevista al medesimo art. 3 – del cd. sequestro di ostaggi.
La Corte, tuttavia, aveva ritenuto tale fattispecie inidonea a fungere da corretto medium comparativo, essendo – al di là di talune affinità strutturali – «più ampia e generica del sequestro estorsivo in relazione all’obiettivo della condotta, normativamente identificato nel fine di costringere un terzo a compiere o ad omettere un qualsiasi atto», e prestandosi la stessa, pertanto, «a ricomprendere anche fatti assai meno negativamente connotati di quelli sorretti da una finalità estorsiva»24.
Successivamente, la questione è stata riproposta prospettando come tertium comparationis la fattispecie di sequestro a scopo di terrorismo ed eversione (art. 289 bis c.p.), e reclamando l’estensione alla norma impugnata dell’attenuante applicabile, ai sensi dell’art. 311 c.p., al peculiare delitto contro la personalità dello Stato: e la Corte, nella sentenza n. 68/2012, ritenendo questa volta pertinente tale diversa fattispecie comparativa (peraltro diffondendosi in una scrupolosa argomentazione al riguardo25), ha finalmente affermato la propria possibilità di intervento, concludendo per la fondatezza della questione in punto di art. 3 Cost., e ritenendo conseguentemente assorbita la censura sollevata – con riferimento all’art. 27, co. 3, Cost. – in punto di proporzione26.
Per inciso, la sequenza appena ripercorsa dimostra come lo snodo decisivo nell’articolazione delle censure di legittimità in esame è rappresentato dal riscontro in termini di omogeneità tra norme, posto che la violazione del canone di ragionevolezza può essere apprezzata «solo in quanto ci si trovi di fronte a fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio»27.
In questa prospettiva, l’individuazione della fattispecie comparativa e il suo grado di assimilabilità (o di identità) con la fattispecie al centro della doglianza grava tutta, peraltro, sulla capacità di ricognizione del giudice a quo: scelta vertiginosa per il rimettente, poiché rischia di condizionare l’esito della questione, non potendo la Corte correggere autonomamente l’opzione per un tertium inconferente.
3.2 La sentenza di inammissibilità sulla pena accessoria “fissa” per le ipotesi di bancarotta
Quanto al secondo aspetto, il rischio a cui si espongono le rimessioni volte a censurare la sproporzione di un determinato trattamento sanzionatorio, fuori dai cardini del modello ternario che innesca la “copertura” dell’art. 3, co. 1, Cost., è quello di sollecitare interventi “creativi”, non rispondenti “a rime costituzionali obbligate” e come tali inammissibili per la Corte.
Tale rischio si è concretizzato, ad esempio, nella recente impugnativa concernente la pena accessoria prevista per le fattispecie di bancarotta fraudolenta, non a caso esitata in una pronuncia di inammissibilità (C. cost. n. 134/2012).
Al centro della questione stava una censura indirizzata contro la predeterminazione legale – nella misura “fissa” di dieci anni – della sanzione accessoria (inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e incapacità ad esercitare uffici presso qualsiasi impresa) prevista per le ipotesi di bancarotta fraudolenta (art. 216, ult. co., l. fall.).
Censura indubbiamente meritevole di apprezzamento, posto che la giurisprudenza costituzionale ha già da tempo chiarito il proprio sfavore per le ccdd. pene fisse, precisando che «In linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono … in armonia con il ‘volto costituzionale’ del sistema penale ed il dubbio di legittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente ‘proporzionata’ rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato»28; e pur ribadendo il limite della ragionevolezza come consueto argine invalicabile in sede di sindacato, per evitare di sovrapporre «altre valutazioni di merito a quella operata dal legislatore nell’ambito della sua competenza esclusiva»29.
Nonostante la tendenziale frizione tra le ccdd. pene fisse e il principio (di eguaglianza e) di proporzione, nella pronuncia in esame la questione è stata appunto dichiarata inammissibile in ragione della formulazione del petitum: si domandava alla Corte, in effetti, di aggiungere al disposto dell’art. 216 l. fall. le parole «fino a», al fine di rendere applicabile l’art. 37 c.p., ai sensi del quale «Quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato».
Ebbene, la Corte – conformemente ad un nutrito orientamento30 – ha considerato un tale intervento inaccessibile, ed eccedente i propri poteri, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore: in particolare, non ritenendo l’“addizione” richiesta rispondente “a rime costituzionali obbligate”, posto che la soluzione prospettata rappresentava solo una di quelle astrattamente ipotizzabili, potendosi prevedere anche «una pena accessoria predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque a dieci anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all’entità della pena detentiva».
Una dimostrazione in più della perdurante “dipendenza ancillare” del sindacato di proporzione dagli schemi della ragionevolezza-eguaglianza: al di fuori dei quali, come sembra, le geometrie sanzionatorie – per sconnesse che siano – appaiono inaccessibili al vaglio di legittimità.
1 Vassalli, G., Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, XII.
2 In questa dimensione può essere colto, ad esempio, il costante richiamo al principio di proporzione nelle pronunce della C. eur. dir. uomo (principio «primordiale» e «onnipresente» nell’interpretazione e applicazione della Convenzione: sul punto, Grabarczyk, K., Les principes généraux dans la jurisprduence de la CEDU, Marseille, 2008, 227 ss.) dove esso costituisce un criterio impiegato per valutare se l’intervento statale (ad es., una sanzione o una limitazione) che incida su un diritto fondamentale sia o meno arbitrario (operando dunque anche come strumento di riequilibrio del “margine nazionale di apprezzamento”). Solo a titolo di esempio, si veda C. eur. dir. uomo, 14.12.2010, O’Donoghue e a. contro Gran Bretagna, §§ 86 ss., concernente le limitazioni al diritto di contrarre matrimonio per gli stranieri (ma cfr. anche, per un analogo richiamo al principio di proporzione con riferimento a una questione similare, la sentenza della C. cost., 8.7.2010, n. 245).
3 Saurer, J., Die Globalisierung des Verhältnismässigkeitsgrundsatzes, in Der Staat, 2012, 3 ss.
4 Risolvendosi «nel porre in rapporto una gamma definita di strumenti ispettivi, investigativi, repressivi, a disposizione delle forze dell’ordine, con la finalità tipica dell’attività di polizia di garantire la sicurezza e la tranquillità dei cittadini», dove il controllo di Verhältnismäßigkeit implicava sì un riscontro di idoneità e necessità dei mezzi rispetto al fine pubblico perseguito, ma non poteva certo incorporare alcun «‘bilanciamento’ in senso tecnico, in quanto mancava una valutazione comparativa di tutti gli interessi e i beni coinvolti nell’azione statale»: Scaccia, G., Il principio di proporzionalità, in AA.VV., L’ordinamento europeo, a cura di S. Mangiameli, Milano, 2006, 225 ss., 230.
5 Un ampio affresco è offerto ora dai contributi di Schlink, B., Proportionality (1), in Rosenfeld, M.-Sajo, A., edited by, The Oxford Handbook of Comparative constitutional law, Oxford, 2012, 718 ss., 728 ss. (anche muovendo dal rapporto reato/pena), e Barack, A., Proportionality (2), ivi, 738 ss. (analizzando più specificamente il principio come criterio di legittimità di una norma sub-costituzionale che limiti un diritto costituzionale); inoltre, Saurer, J., op. cit., 3 ss.
6 Emblematico il titolo della monografia di Beatty, D.M., The Ultimate Rule of Law, Oxford, 2004.
7 L’art. 52 (Portata dei diritti garantiti) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce che «1. Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui».
8 Oltre al lavoro di Schlink, B., op. cit., 722 s., nella prospettiva penalistica si vedano Appel, I., Verfassung und Strafe, Berlin, 1998, 171 ss.; Lagodny, O., Strafrecht vor den Schranken der Grundrechte, Tübingen, 1996, 10 ss. e passim, dove tutta l’indagine si sviluppa sulla criteriologia citata; Stächelin, G., Strafgesetzgebung im Verfassungsstaat, Berlin, 1998, 101 ss.; sui rapporti tra teoria del bene giuridico e Verhältnismäßigkeitsprinzip, si veda ancora Hefendehl, R.-Von Hirsch, A.-Wohlers, W., Die Rechtsgutstheorie. Legitimations des Strafrechts oder dogmatisches Glasperlenspiel?, Baden-Baden, 2003 (ed in particolare i contributi di Hassemer, W., Sternberg-Lieben, D., Lagodny, O., Böse, M., Bunzel, M.), ed ancora Hassemer, W., Perché punire è necessario, Bologna, 2012, 153 ss.
9 In prospettiva generale, aperta ad una comparazione tra sistemi di civil law e di common law, si rinvia ancora a Barack, A., op. cit., 740 ss.; anche nel contesto francese – sulla traccia dell’art. 8 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – si assume il principio di proporzionalità materiale in termini più comprensivi, facendovi convergere le diverse istanze poste a giustificazione del diritto penale (extrema ratio, necessarietà): cfr., ad es., Giudicelli Delage, G., Droit pénal del la dangerosité – Droit pénal de l’ennemi, in Rev. Sc. Crim. et Droit pén. comp., 2010, 69.
10 La nota impostazione tedesca, e la relativa criteriologia, hanno peraltro influenzato anche recenti analisi critiche sulla politica criminale dell’Unione europea: si veda, ad es., il Manifesto per una politica criminale europea (European criminal policy initiative), in www.zis-online.com, che utilizza appunto il principio di proporzione – ed i suoi sotto-criteri – come possibile guida per il legislatore europeo. Sul punto, peraltro, si rinvia alla recente critica di Böse, M., The Principle of Proportionality and the Protection of Legal Interests (Verhältnismäßigkeit und Rechtsgüterschutz), in ECLR, n. 1, 2011, 34 ss., secondo il quale – a fronte dell’impraticabilità di un concetto “materializzato” di interesse meritevole di protezione e delle insufficienze del principio di ultima ratio – l’unico requisito di legittimazione del diritto penale deriverebbe dal processo legislativo.
11 Sul tema, soprattutto, Aguado Correa, T., El principio de proporcionalidad en derecho penal, Edersa, Madrid, 1999, passim (ma per una visione molto più ampia ed articolata, e più prossima al “modello italiano”, Díez Ripollés, J.L., La racionalidad de las leyes penales, ed. Trotta, Madrid, 2003, 109 ss.); per un bilancio recente (ed alquanto desolante) sugli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, cfr. Lascurain, J.A., Rigoroso o deferente? Il controllo della legge penale da parte del Tribunal constitucional, in ius17@unibo.it, 2012, 11 ss., ove si segnalano tratti di analogia con la giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht, anche se il Tribunal constitucional – nel valutare il coefficiente di “invasività” dell’opzione penale rispetto al diritto sacrificato – non ancora la dottrina della proporzionalità alla teoria dello Stato di diritto, bensì al contenuto proprio di ogni singolo diritto.
12 O persino a quattro livelli, per chi alle valutazioni in termini di idoneità (Geeignetheit/rational connection), necessità (Notwendigkeit o Erforderlichkeit/necessity) e adeguatezza o proporzione in senso stretto (Verhältnismäßigkeit im engerem Sinne o Übermassverbot/balancing) premette anche il controllo sulla ammissibilità del mezzo e dello scopo perseguito dalla disposizione di legge (che deve corrispondere ad un pubblico interesse, o appunto legittimo e non arbitrario: cd. zulässiger Zweck/proper purpose).
13 Anche in quest’ambito, peraltro, il canone della proporzionalità registra diverse direzioni di senso (cfr. Scaccia, G., op. cit., 233 ss., 239): esso opera, infatti, sia come parametro generale per il controllo sul corretto esercizio delle competenze comunitarie (sino alla espressa codificazione dell’art. 3-B del Trattato di Maastricht), in combinazione con il principio di sussidiarietà; sia come criterio di validità degli atti delle istituzioni europee e nazionali che incidano su posizioni giuridiche garantite dal diritto comunitario e quale canone di valutazione delle sanzioni comunitarie, che sono considerate invalide quando risultino sproporzionate rispetto agli obblighi la cui violazione sono dirette a punire, dunque come limite generale della legislazione limitativa dei diritti fondamentali (si veda ancora, al riguardo, il citato art. 52 della Carta di Nizza: supra nt. 7). Sotto entrambi i profili, peraltro, il principio è destinato ad operare anche in materia penale: sia come criterio di riparto delle nuove competenze penali indirette riconosciute con il Trattato di Lisbona, sia nella (tradizionale) prospettiva del controllo – da parte della Corte di Giustizia – circa le limitazioni apposte da una normativa nazionale (anche) penale ad una delle libertà fondamentali del Trattato. Da questa angolatura, il principio di proporzione vedrebbe convergere le proprie istanze e possibili prestazioni con il principio penalistico di sussidiarietà (al riguardo, fondamentali rilievi in Donini, M., Sussidiarietà penale e sussidiarietà comunitaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 141 ss.), non solo per chi lo ravvisa come «espressione del principio di proporzione» (così, in particolare, Maugeri, A.M., Il principio di proporzione nelle scelte punitive del legislatore europeo: l’alternativa delle sanzioni amministrative comunitarie, in L’evoluzione del diritto penale nei settori di interesse europeo alla luce del Trattato di Lisbona, a cura di G. Grasso-L. Picotti-R. Sicurella, Milano, 2011, 67 ss., 75 ss., 85 ss.; sul punto, inoltre, Sotis, C., I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, in Dir. pen. contemp., 2012, n. 1, 111 ss., 115 ss.).
14 Di modo che la loro violazione – in linea di principio – è stata riconosciuta dalla Corte censurabile, sostanzialmente, solo nei limiti del (più generale) criterio di ragionevolezza (è il caso del principio di sussidiarietà: emblematica, sul punto, C. cost., 18.7.1989, n. 409), anche se non vanno trascurati i più recenti orientamenti che sembrano assegnare al principio di offensività una autonoma capacità dimostrativa quanto meno al cospetto delle tipologie incriminatrici e “aggravatrici” costruite su presunzioni di pericolosità irragionevolmente fondate (solo) su condizioni o qualità soggettive: al riguardo, si consenta il rinvio a Manes, V., Principi di ragionevolezza e offensività, in Libro dell’anno del diritto 2012, Roma, 160 ss.
15 Peraltro, le diverse potenzialità del principio di offensività rispetto al principio di proporzione sono state chiarite, ad esempio, da Donini, M., Prospettive europee del principio di offensività, in Verso un codice penale modello per l’Europa. Offensività e colpevolezza, a cura di A. Cadoppi, Padova, 2002, 124, denunciando, in particolare, lo spiccato profilo “relativistico” di quest’ultimo rispetto al primo, che lo renderebbe incapace di garantire “l’imprescindibile selezione preliminare” affidata all’offensività del fatto; analogamente, volendo, Manes, V., Il principio di offensività nel diritto penale, Torino, 2005, 136 ss. (la critica non è peraltro condivisa da chi declina il principio di proporzione secondo un paradigma più composito: cfr. ancora Maugeri, A.M., Il principio di proporzione, cit., 78.).
16 Cfr. ancora Sotis, C., I principi di necessità e proporzionalità della pena, cit., 114, che lo identifica con il precetto dell’art. 49 della Carta dei diritti UE, contrapponendolo ad un principio di proporzionalità materiale focalizzato sul concetto di adeguatezza mezzi/scopi, e dunque aperto ad un bilanciamento da svolgersi sulla base di indici fattuali ed assiologici.
17 Cfr. C. cost. n. 409/1989.
18 Cfr. C. cost. n. 68/2012.
19 Cfr. C. cost., 2.2.2007, n. 22; ma anche C. cost. n. 409/1989.
20 Da ultimo, C. cost., ord., 21.7.2011, n. 224.
21 Anche se non espressamente dichiarata, questa peculiare orientazione teleologica nell’interpretazione del tipo sembra emergere, ad es., nella recente decisione Cass. pen., S.U., 5.6.2012, n. 21837 (in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Amarelli, G., Le Sezioni Unite si pronunciano sull’aggravante delle “più persone riunite” prevista per il delitto di estorsione), che – con un’argomentazione ricca ed articolata – ha ritenuto configurabile l’aggravante delle più persone riunite nel delitto di estorsione solo a fronte della simultanea presenza di due o più persone al momento della violenza o minaccia, ritenendo insufficiente la mera percezione del soggetto passivo.
22 Sul punto, volendo, Manes, V., op. ult. cit., 264 ss., con esemplificazioni relative al delitto di estorsione (art. 629 c.p.), dove la gravità del compasso edittale dovrebbe suggerire una lettura quanto più possibile attenta ad evidenziare la dorsale lesiva del comportamento tipico, emarginando ricostruzioni che – ad esempio – ritengono sufficiente la minaccia “implicita” o “ambientale”.
23 Cfr. C. cost. n. 22/2007.
24 Cfr. C. cost., ord., 22.7.2011, n. 240, che ha appunto dichiarato la questione manifestamente infondata.
25 Nella specie, il delitto indicato è stato giudicato «pienamente idoneo a fungere da tertium comparationis» perché figura «affine e sostanzialmente omogenea rispetto a quella del sequestro estorsivo», sotto il profilo, in particolare, della comune matrice storica (la legislazione dell’emergenza), delle modalità della condotta (la privazione protratta della libertà personale), della identica cornice edittale (la reclusione da venticinque a trenta anni), del sistema delle aggravanti collegate alla morte del sequestrato e simmetricamente della costellazione di misure premiali correlate alla “dissociazione” dell’agente dagli altri concorrenti nel reato (pur con «marginali differenze»); e il parallelismo è apparso confermato sotto ulteriori profili di disciplina sostanziale e processuale. L’unico profilo distintivo concerneva, piuttosto, la diversità del bene protetto, riflesso della diversa proiezione finalistica delle condotte: l’una, finalizzata al terrorismo e all’eversione, centrata sulla tutela dell’ordine costituzionale, l’altra, orientata all’estorsione, focalizzata invece sul patrimonio. Tuttavia, la diversa prospettiva di tutela, invece che neutralizzarlo, esalta – secondo la Corte – l’irragionevolezza del diverso trattamento sanzionatorio, specie nello specchio della gerarchizzazione costituzionale degli interessi protetti: se infatti le modalità di offesa sono analoghe, e l’ordine costituzionale ha un rango prioritario rispetto al patrimonio, la risposta sanzionatoria non può risultare inversamente proporzionale, perché ne risulta alterata – in termini arbitrari o manifestamente irragionevoli – la coerenza ordinamentale. E’ questo, peraltro, un tassello decisivo della ratio decidendi, che dimostra come il controllo di ragionevolezza – nonostante gli sforzi con cui si tenta di irreggimentarlo secondo una criteriologia formale – non può prescindere, almeno in materia penale, da valutazioni sostanzialistiche, posto che lo stesso “rango” dei rispettivi oggetti di tutela resta riferimento orientativo essenziale per misurare le sperequazioni sanzionatorie (in prospettiva analoga può vedersi, del resto, C. cost., 23.11.2006, n. 394).
26 C. cost. n. 68/2012, con nota di Sotis, C., Estesa al sequestro di persona a scopo di estorsione una diminuzione di pena per i fatti di lieve entità. Il diritto vivente “preso – troppo? – sul serio, in Giur. cost., 2012, 267 ss., secondo il quale, peraltro, la Corte avrebbe potuto rigettare la questione sollecitando un’interpretazione conforme – segnatamente attribuendo al concetto di “prezzo della liberazione” richiamato dalla fattispecie un significato pregnante «da intendersi come ‘specifico corrispettivo del sequestro’ (e perciò non riferibile ai fatti in cui la privazione della libertà personale sia invece finalizzata a conseguire una prestazione patrimoniale pretesa in virtù di un precedente rapporto illecito)» – superando così il (criticabile) “diritto vivente”.
27 Cfr., tra le altre, C. cost., 26.11.2004, n. 364; C. cost., 26.7.2005, n. 325; C. cost., 2.2.2007, n. 22; C. cost., 23.7.2010, n. 282.
28 Cfr. C. cost., 14.4.1980, n. 50.
29 Così ancora C. cost. n. 50/1980, che del resto ritenne non fondate le censure prospettate. In questa prospettiva, inoltre, si è ulteriormente circoscritto il margine di possibile sindacato affermando che «la tendenziale contrarietà delle pene fisse al ‘volto costituzionale’ dell’illecito penale … debba intendersi riferita alle pene fisse nel loro complesso», e «non ai trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide ed articolazioni elastiche, in maniera tale da lasciare comunque adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, ai fini dell’adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete» (in questi termini, C. cost., ord., 4.4.2008, n. 91). Su queste basi, è stata esclusa l’irragionevolezza tanto nell’ipotesi di comminatoria, per un determinato illecito, di una pena pecuniaria fissa, congiunta ad una pena detentiva dotata di forbice edittale (C. cost., ord., 22.11.2002, n. 475, che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione sollevata con riferimento all’art. 291 bis del d.P.R. 23.1.1973, n. 43, Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, reato sanzionato con la multa stabilita in misura fissa congiunta alla reclusione da uno a cinque anni), quanto nell’ipotesi in cui l’applicazione dell’aggravamento di pena – pur stabilito in misura fissa – fosse discrezionale nell’an (C. cost. n. 91/2008, in relazione alla facoltatività della recidiva reiterata, da apprezzarsi alla stregua dei criteri di corrente adozione concernenti, in particolare, la concreta significatività del nuovo delitto) e pur sempre correlato – essendo indicato in misura frazionaria – al dato variabile della pena base (che il giudice può discrezionalmente determinare, tra il minimo ed il massimo edittale, alla luce dei criteri dell’art. 133 c.p.); essendo in entrambi i casi comunque garantita al giudice la possibilità di adeguare la risposta punitiva alle specificità del singolo caso.
30 Cfr., ex plurimis, C. cost. n. 22/2007.