Prione
La malattia degli animali cannibali
Le patologie da prioni
di Maurizio Pocchiari
13 gennaio
Viene segnalato il primo caso in Italia di encefalopatia spongiforme bovina in una vacca da latte proveniente da un allevamento nei dintorni di Pontevico (Brescia). L'animale, di circa 6 anni, era stato sottoposto a esame nell'ambito del programma di screening di massa in vigore dal 1° gennaio 2001 sui bovini macellati di età superiore ai 30 mesi. Contro la decisione della Regione Lombardia di fare abbattere tutti i capi dell'allevamento protestano gli allevatori e i macellai, il cui danno economico si aggrava di giorno in giorno, data la drastica riduzione, in alcune regioni fino al 90%, degli acquisti di carne bovina. Ma cresce il timore che anche in Italia si verifichino casi della variante del morbo di Creutzfeldt-Jakob, la forma della malattia che colpisce l'uomo e che sarebbe provocata dall'ingestione di carne infetta.
L'esordio dell'epidemia
Tra il 1985 e il 1986 i veterinari inglesi identificarono una nuova malattia del bovino che in brevissimo tempo riconobbero come una forma di encefalopatia spongiforme trasmissibile (TSE, Transmissible spongiform encephalopathy) degli animali. Cominciava così l'epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (BSE, Bovine spongiform encephalopathy); nessuno, a quel tempo, avrebbe potuto prevedere i danni sanitari ed economici che quest'evento avrebbe causato al Regno Unito e a tutta l'Europa e le difficoltà del mondo scientifico e di quello politico a comprendersi e a interagire tra loro. Molti errori sono stati compiuti nell'identificazione, la valutazione e la gestione del rischio e altri ancora nel prendere misure preventive idonee per salvaguardare la popolazione. Tutto ciò ha fatto sì che la comunicazione del rischio BSE sia stata frammentaria, inesatta e spesso contraddittoria, con il risultato di aver creato allarmismo invece che informazione. Per poter attuare una critica costruttiva delle decisioni politiche e di sanità pubblica prese in questi ultimi 15 anni, è necessario tenere conto dell'evoluzione nelle conoscenze scientifiche sulle TSE, dal momento della comparsa dei primi casi di BSE a oggi. Nella seconda metà degli anni Ottanta era già noto che le TSE erano causate da una classe di agenti infettivi molto particolari, chiamati prioni o virus lenti non convenzionali, responsabili di alcune malattie neurodegenerative a esito sempre fatale, quali la malattia di Creutzfeldt-Jakob (MCJ) nell'uomo e lo scrapie nella pecora. Entrambe queste malattie sono endemiche in tutto il mondo ma non c'è un nesso causale tra la MCJ e lo scrapie: era, ed è tutt'oggi, opinione comune che lo scrapie non sia patogeno per l'uomo. Un'altra importante informazione già disponibile a quei tempi era che, occasionalmente, lo scrapie poteva trasmettersi ad altre specie animali. In particolare, vi erano state epidemie di TSE in allevamenti di visoni alimentati con carcasse di pecore infette. Tutti i visoni presenti in allevamento al momento dell'infezione contraevano la malattia dopo circa un anno di incubazione, mentre quelli introdotti successivamente, e quindi non alimentati con carcasse infette, rimanevano indenni. Questi dati indicavano che la malattia nel visone non era contagiosa e che l'epidemia si esauriva naturalmente con la morte dei soli visoni infetti.
Partendo da questa evidenza, si formulò l'ipotesi che l'origine della BSE fosse causata dalla combinazione di due fattori: l'impiego di carcasse di pecore affette da scrapie per la preparazione di farine di carne, utilizzate come supplemento proteico nell'alimentazione dei bovini, e il cambiamento, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, delle procedure di estrazione delle proteine dalle carcasse animali che, essendo più blande, avevano diminuito la capacità di inattivare gli agenti delle TSE. Mentre l'ipotesi che l'origine della BSE sia stata lo scrapie non è mai stata confermata da dati sperimentali, anche se rimane quella più attendibile, le cause dell'andamento epidemico di BSE sono sicuramente da riferire al riciclaggio di grandi quantità di bovini infetti nella preparazione delle farine di carne. In altre parole, le prime mucche si sarebbero infettate nella prima metà degli anni Ottanta, ma secondo alcuni anche precedentemente, con mangimi contenenti residui derivati da carcasse di pecore affette da scrapie. Questi primi casi, passati del tutto inosservati, sarebbero entrati a loro volta nel ciclo produttivo delle farine di carne e avrebbero così costituito la base infettiva necessaria per sostenere l'epidemia di BSE. Quello che non ci si aspettava era che il numero di casi aumentasse così rapidamente (487 casi fino al 1987, quasi 2500 nel 1988) e che la malattia si diffondesse in un gran numero di allevamenti in tutte le contee britanniche.
La valutazione del rischio BSE alla fine degli anni Ottanta era pertanto basata sui seguenti fattori: la BSE è una forma di scrapie del bovino; l'epidemia di BSE è causata da mangimi contenenti farine di carne; la trasmissione da bovino a bovino, o da mucca a vitello, all'interno degli allevamenti è altamente improbabile, come accade per i visoni affetti da TSE; il rischio per l'uomo di contrarre lo scrapie è nullo, e quindi la BSE non è da considerarsi pericolosa per l'uomo.
In base a queste valutazioni, il primo obiettivo fu quello di tenere sotto controllo l'epidemia di BSE per salvaguardare il patrimonio zootecnico britannico. In quest'ottica, nel 1988 fu vietato l'uso delle farine di carne prodotte da ruminanti per l'alimentazione dei bovini; la BSE diventò una malattia a denuncia obbligatoria; gli animali infetti furono distrutti. Quest'ultima disposizione non era stata presa per salvaguardare la salute dei cittadini (la BSE non era considerata rischiosa per l'uomo), bensì per evitare che carcasse di animali infetti entrassero nella produzione di farine di carne, continuando ad alimentare l'epidemia. Il provvedimento di vietare l'uso di integratori proteici provenienti da ruminanti fu preso in base a considerazioni scientifiche ed è merito dei ricercatori inglesi aver correttamente individuato, in così breve tempo, la causa dell'epidemia. Purtroppo questa disposizione non fu attuata con il rigore dovuto, in parte per una disorganizzazione dei servizi veterinari britannici, in parte per ragioni economiche e politiche. I mangimi contenenti proteine animali furono esportati nei paesi della Comunità europea e nei paesi extracomunitari ancora per diversi anni e continuarono a circolare nel Regno Unito fino al 1996. Solo nel 1994 sono state adottate a livello comunitario, ma spesso disattese o male applicate dai singoli paesi membri, le prime restrizioni sull'impiego di farine animali nell'alimentazione dei ruminanti. L'inefficienza di queste misure è emersa solo tardivamente, a causa del lungo tempo di incubazione della malattia e della mancanza di esami diagnostici preclinici, che non permettono di individuare bovini infetti ma ancora asintomatici. Nel frattempo i casi di BSE nel Regno Unito continuarono ad aumentare (oltre 7000 casi nel 1989 e 14.000 nel 1990). Il governo britannico introdusse il divieto di utilizzare determinati tessuti bovini per l'alimentazione umana; venivano così eliminati e distrutti gli organi o i tessuti considerati a elevato livello infettivo, quali il cervello e il midollo spinale. Era il novembre 1989 e questa fu la prima disposizione per la tutela della salute pubblica. Non sarebbe stata sufficiente, ma qualcosa era cambiato nella valutazione del rischio BSE per l'uomo. Per comprendere questo cambiamento di tendenza è necessario approfondire alcuni aspetti eziopatogenetici delle TSE: la natura dell'agente infettivo, l'identificazione e le caratteristiche dei ceppi di TSE, le tecniche di misurazione dell'infettività e i loro limiti, la distribuzione dell'infettività nei tessuti dei bovini affetti, la via di propagazione dell'agente infettivo dopo infezione per via orale, il concetto di 'barriera di specie' e le condizioni in presenza delle quali questa barriera può essere superata.
La natura chimica dell'agente infettivo: il prione e i vari ceppi
Il prione è un agente infettivo con caratteristiche non convenzionali: ha dimensioni più piccole dei virus ed è incredibilmente resistente alle comuni procedure chimico-fisiche impiegate per rimuovere o inattivare virus, batteri, funghi o altri microrganismi noti. Metodi fisici, come il calore, e metodi chimici, come il trattamento con fenolo, cloroformio, formaldeide e alcoli, sono inefficaci; una rilevante (ma non completa) riduzione della carica infettiva si ottiene solo con un prolungato trattamento in autoclave (calore umido a elevata pressione) a 132 °C per almeno un'ora, o con procedure chimiche capaci di idrolizzare le proteine (idrossido o ipoclorito di sodio ad alte concentrazioni). Non è possibile identificare alcun acido nucleico associato con il prione e questo rende completamente inutilizzabili le raffinate tecniche di biologia molecolare (per es., la PCR, Polymerase chain reaction) usate per identificare singole particelle virali nei tessuti o nei fluidi biologici.
La mancanza di dati certi sulla struttura chimica del prione è la ragione per cui esistono contrastanti ipotesi sulla sua natura e sui suoi meccanismi di replicazione. Il termine prione deriva dall'inglese prion, un acronimo formato da proteinaceous infectious particle, particella infettiva proteica, ed è stato coniato dal premio Nobel (1997) Stanley Prusiner per sottolineare l'ipotesi che prevede che i prioni originino da un'alterata struttura tridimensionale di una proteina presente in tutti i mammiferi, conosciuta con il nome di proteina prionica cellulare (PrPc). La proteina del prione origina quindi dal patrimonio genetico dell'ospite e non è il prodotto di un acido nucleico virale. Per ragioni ancora sconosciute, la PrPc assume una conformazione spaziale alterata che consiste principalmente nelle modificazioni di alcune porzioni della proteina che si trasformano da strutture ad -elica in strutture a foglietti . La proteina patologica è stata individuata per la prima volta nel cervello di criceti con scrapie sperimentale, da cui è derivata la denominazione di PrPsc (dove sc sta per scrapie). Questa modificazione strutturale comporta un cambiamento nelle caratteristiche fisico-chimiche della proteina, che diventa resistente alla degradazione cellulare e si accumula all'interno della cellula sotto forma di fibrille amiloidee. È proprio l'alterata conformazione che, secondo Prusiner, conferisce alla PrPsc le caratteristiche infettanti. In base a questa teoria, la prima molecola di PrPsc deriva dalla conversione spontanea di una molecola endogena di PrPc. La replicazione del prione avverrebbe quindi mediante l'interazione diretta tra una neomolecola di PrPsc e una di PrPc, che a sua volta assumerebbe la conformazione patologica a foglietti . Questa conversione innescherebbe un meccanismo autocatalitico responsabile della produzione massiva di PrPsc. Quando la PrPsc è inoculata, accidentalmente o sperimentalmente, in un ospite sano, questa interagisce con la PrPc dell'ospite attivandone la sua trasformazione in nuova PrPsc e inducendo quindi la malattia nel nuovo ospite. Un'ipotesi alternativa a quella del prione considera la PrPc come il recettore o la molecola bersaglio di una particella virale sconosciuta. Il legame tra PrPc e virus indurrebbe la trasformazione della PrPc in PrPsc.
Qualunque sia l'ipotesi corretta, è noto da oltre quarant'anni che, come per altri agenti microbici, esistono vari ceppi di prioni. Questi sono isolati e caratterizzati sperimentalmente mediante l'inoculazione nei topi di tessuto cerebrale prelevato da soggetti affetti da TSE. La distinzione tra i vari ceppi, in assenza di conoscenze certe sulla struttura dell'agente, è effettuata sulla base di alcuni parametri clinici e istopatologici osservabili nei topi affetti. Dal punto di vista clinico il criterio discriminante è il tempo di incubazione della malattia, che rimane costante per ogni ceppo isolato. A seconda del ceppo, inoltre, le lesioni istopatologiche variano per gravità e distribuzione. L'analisi di nove aree della sostanza grigia e di tre di quella bianca consente di effettuare un profilo delle lesioni che è tipico per ogni ceppo considerato e indipendente dalla dose infettante. Queste metodiche d'isolamento e caratterizzazione dei ceppi infettanti hanno permesso di dimostrare che, a differenza di quanto avviene nello scrapie naturale, di cui sono stati isolati circa 20 ceppi, l'epidemia di BSE è sostenuta da un solo ceppo, diverso da quelli isolati nello scrapie e con caratteristiche (tempo d'incubazione e profilo delle lesioni dopo il passaggio nel topo) che rimangono inalterate anche dopo il passaggio in altre specie. Per questo motivo e per l'inusuale facilità di trasmissione da una specie a un'altra, la BSE emerge tra le TSE come un'entità nosologica a sé stante e distinta dallo scrapie, nonostante la sua probabile origine da esso.
Misurazione dell'infettività e sua distribuzione nei tessuti dei bovini infetti
La misurazione dell'infettività è effettuata mediante saggio biologico nel topo, quindi mediante un test che presenta limitazioni oggettive, quali per es. la quantità di materiale che si può inoculare (pochi microgrammi di tessuto) e il passaggio di specie (v. oltre), che ne limitano la sensibilità. Inoltre, il test biologico richiede tempi molto lunghi, mai inferiori a uno o due anni. Come alternativa si può misurare la presenza di PrPsc. Sebbene non vi sia totale accordo sul fatto che la PrPsc sia l'agente infettivo delle TSE, in pratica l'infettività copurifica con la PrPsc; pertanto identificare, mediante tecniche immunochimiche, la PrPsc in materiale biologico indica che quel materiale è infettivo. Tuttavia, la misurazione della PrPsc è molto meno sensibile del saggio biologico e la sua concentrazione nei vari organi e tessuti non è sempre proporzionale al livello di infettività. Poiché non esistono anticorpi capaci di distinguere la PrPc dalla PrPsc, è inoltre necessario rimuovere la PrPc dal campione in esame per non ottenere falsi positivi. Questo è possibile grazie a una particolare proprietà biochimica della PrPsc che, a differenza della PrPc, forma aggregati non solubili e parzialmente resistenti al trattamento con enzimi proteolitici. La PrPsc, così come la sua forma fisiologica PrPc, è una proteina che può contenere una o due catene laterali di zuccheri. All'esame elettroforetico la proteina appare con tre caratteristiche bande che rappresentano la forma diglicosilata (banda superiore), monoglicosilata (banda intermedia) e non glicosilata (banda inferiore). A questo esame è possibile distinguere i vari ceppi di prione in base alla velocità di migrazione della banda non glicosilata e all'intensità relativa delle tre bande. Secondo Prusiner, infatti, ogni ceppo di prione determina una diversa conformazione patologica tridimensionale della PrPsc che è quindi soggetta a essere tagliata a diversi livelli dagli enzimi proteolitici. Ciò comporta che la forma non glicosilata abbia dimensioni diverse a seconda di dove sia stata clivata e quindi migri più o meno velocemente all'elettroforesi.
L'agente infettivo delle TSE è distribuito nei diversi tessuti, organi e fluidi corporei dell'organismo in concentrazioni molto variabili da specie a specie. Poiché alla fine degli anni Ottanta non si conosceva ancora la distribuzione dell'infettività nei bovini affetti da BSE, ci si è basati sulle conoscenze relative alle pecore affette da scrapie. In base a questi dati, ottenuti agli inizi degli anni Ottanta, è stato possibile suddividere i vari tessuti in quattro categorie, secondo il loro grado di infettività. Nella categoria I, cui appartengono tessuti con infettività alta, sono presenti solo il cervello e il midollo spinale, che rappresentano gli organi bersaglio dei prioni e hanno un titolo di infettività circa 100-1000 volte superiore ai tessuti della categoria II. In questa categoria, cui appartengono tessuti a media infettività, sono inclusi gli organi e i tessuti del sistema linforeticolare, dove i prioni si replicano (almeno nella pecora) prima di giungere al sistema nervoso centrale. La categoria III comprende quei tessuti (per es., polmone, fegato ecc.) in cui l'infettività è di bassa entità o si osserva solo saltuariamente. Nella categoria IV sono classificati tutti quei tessuti in cui l'infettività non è misurabile, quali il muscolo, il latte, il sangue e molti altri. Oggi sappiamo che la distribuzione dell'infettività nei bovini affetti da BSE è principalmente localizzata nei soli tessuti nervosi (cervello, midollo spinale e gangli nervosi, specialmente quelli delle radici dorsali posti ai lati della colonna vertebrale). Gli unici altri tessuti dove è stata riscontrata infettività sono il midollo osseo dello sterno (ma solo in un caso) e l'ileo intestinale (ma solo in bovini alimentati sperimentalmente con mangimi altamente infettivi). Al contrario di quanto avviene nello scrapie della pecora, il sistema linforeticolare (milza, tonsille, linfonodi) non presenta livelli misurabili di infettività.
È opportuno notare che infettività 'non misurabile' non è sinonimo di non infetto. La sensibilità del test biologico dipende, infatti, da due fattori: la potenza della barriera di specie tra donatore (per es., bovino) e ricevente (topo) e la quantità di tessuto inoculato, che a sua volta dipende dal numero di animali usati. Se, per es., volessimo avere la certezza che un hamburger di 200 grammi non contenga l'agente della BSE, dovremmo inoculare oltre 60.000 topi (3-5 mg per topo) e tenerli in osservazione per circa due anni. Ammesso che sia possibile eseguire il test e che questo risulti negativo, ciò non garantirebbe tuttavia l'assenza di infettività per altre specie più sensibili alla BSE. Il topo è, infatti, circa 1000 volte più resistente alla BSE del bovino e al momento non è possibile valutare se l'uomo sia più o meno suscettibile del topo. È pertanto ovvio che ottenere certezze sui livelli di infettività nei vari tessuti o fluidi corporei non è praticabile e che l'analisi del rischio deve basarsi su una valutazione probabilistica piuttosto che assoluta.
Meccanismi patogenetici: le vie di propagazione del prione e i fattori genetici dell'ospite
L'organo bersaglio del prione è il sistema nervoso centrale, dove si osservano una caratteristica vacuolizzazione (spongiosi), un aumento e, a volte, un ingrandimento delle cellule astrocitarie e spesso anche una più o meno grave perdita dei neuroni. Al contrario di altri microrganismi, il prione non stimola invece l'attivazione di cellule infiammatorie nei tessuti infetti. In sostanza, le lesioni istologiche nel cervello assomigliano più a quelle che si osservano nelle malattie neurodegenerative (come, per es., l'Alzheimer o il Parkinson) piuttosto che a quelle riscontrate nelle encefaliti batteriche o virali. Da qui l'espressione encefalopatie spongiformi trasmissibili, spesso usata per indicare le malattie causate dai prioni.
Studi con modelli sperimentali di scrapie dimostrano che in seguito a infezione sperimentale per via periferica (endovenosa, intraperitoneale, intramuscolare, sottocutanea oppure orale) l'agente si diffonde nell'organismo per via ematica, dando inizio a una prima fase replicativa nei principali organi e tessuti linfatici (milza, linfonodi, tonsille, placche di Peyer dell'intestino). Dagli organi linfatici attraverso i nervi periferici, mediante il trasporto assonale, il prione raggiunge il midollo spinale e quindi l'encefalo, dove continua a replicarsi provocando la formazione di PrPsc e le tipiche lesioni neuropatologiche, quindi l'insorgenza dei sintomi clinici e la morte dell'animale. Alcuni ceppi particolarmente neurovirulenti (e forse l'agente della BSE è uno di questi) raggiungono il sistema nervoso centrale dal sito di inoculazione periferico penetrando direttamente nelle terminazioni nervose locali. Le vie di infezione periferica trasmettono la malattia con efficienza sempre inferiore a quella intracerebrale, ma diversa tra loro: la via endovenosa è molto più efficiente di quella intramuscolare e questa di quella orale. Dall'efficienza di trasmissione dipendono la minima dose infettante necessaria per sviluppare la malattia e il relativo periodo di incubazione. La via di trasmissione e la carica infettante non sono i soli elementi che influenzano la durata del periodo di incubazione della malattia: infatti le interazioni tra il genotipo dell'ospite (in particolare il gene della PrP) e il ceppo infettante svolgono anch'esse un ruolo fondamentale. Queste interazioni sono state particolarmente studiate utilizzando il modello sperimentale di scrapie nei topi, che possono avere due distinti geni della PrP (chiamati prn-p a e prn-p b) codificanti due PrPc completamente uguali tra loro salvo che per gli aminoacidi, rispettivamente in posizione 108 e 189 della proteina. Per quanto riguarda la composizione del gene della PrP, le specie murine sono quindi classificabili in due gruppi: quelli con il gene prn-p a e quelli con il gene prn-p b. Con la maggior parte dei ceppi di scrapie murino, i topi del primo gruppo (prn-p a) si ammalano con un tempo di incubazione inferiore rispetto a quelli del secondo gruppo (prn-p b). Con altri ceppi di scrapie murino, però, la situazione si presenta capovolta: i topi del secondo gruppo (prn-p b) si ammalano più velocemente di quelli del primo gruppo (prn-p a). Anche nella pecora il gene della PrP è polimorfico (esistono cioè variazioni nella sequenza) e la sequenza dei diversi alleli regola la suscettibilità allo scrapie e il periodo di incubazione. Nella pecora, la presenza di alcuni alleli nel gene della PrP può determinare la completa resistenza dell'animale alla malattia. Questa variazione del gene della PrP non si riscontra nei bovini o in altre specie animali che, sebbene siano suscettibili ai prioni, non sono colpite dalle TSE 'naturalmente'. Nell'uomo, come nella pecora, esistono vari siti polimorfici all'interno del gene della PrP. Particolarmente importante nei riguardi della suscettibilità alla MCJ è il gene situato alla tripletta nucleotidica (o codone) 129. Nella popolazione generale questo codone si esprime in due varianti alleliche, una codificante l'aminoacido metionina e l'altra la valina. La distribuzione del genotipo al codone 129 nelle popolazioni caucasiche dimostra che circa il 40% è omozigote per metionina, il 50% è eterozigote (metionina/valina) e il restante 10-15% è omozigote per valina. Nei casi sporadici di MCJ, invece, la distribuzione del genotipo al codone 129 differisce significativamente da quella della popolazione di controllo: circa il 70-80% dei casi è omozigote per metionina e solo il 10-15% è eterozigote, indicando una certa predisposizione genetica alla suscettibilità alla malattia. Il genotipo al codone 129, inoltre, influenza nell'uomo alcune caratteristiche cliniche della malattia
.La barriera di specie
Quando si cerca di trasmettere la malattia da una specie a un'altra (per es., dalla pecora al topo) l'efficienza di infezione si riduce; sperimentalmente ciò si evidenzia con un lungo tempo di incubazione e, spesso, con una percentuale più bassa di animali che si infettano. In natura la barriera di specie è in grado di influenzare la diffusione della malattia da una specie a un'altra ed è ragionevole pensare che l'uomo sia stato protetto dallo scrapie della pecora proprio grazie a questo fenomeno. La barriera di specie è un evento multifattoriale e il suo superamento dipende dalla combinazione di almeno quattro elementi: il ceppo di prione; la sequenza della PrP dell'ospite; la carica infettante; la via di infezione. I primi due punti sono strettamente correlati tra loro; per spiegarne l'importanza useremo un semplice modello sperimentale nel criceto. Vi sono due ceppi di scrapie che inducono la malattia nel criceto e che si differenziano per la gravità e la distribuzione delle lesioni neuropatologiche e per i tempi d'incubazione molto diversi. La differenza maggiore, e quella che ci fa meglio comprendere il significato di barriera di specie, è il loro potere patogeno nei confronti di un'altra specie, il topo. Infatti, mentre il primo ceppo induce lo scrapie nel topo, il secondo non è patogeno per questa specie. Questa incapacità del secondo ceppo di scrapie di superare la barriera di specie si supera introducendo, con tecniche di genetica molecolare, il gene della PrP del criceto nel topo. Sebbene l'esempio riportato rappresenti condizioni estreme, dimostra comunque che la sequenza del gene della PrP è coinvolta nel determinare la barriera di specie, ma la sua efficienza dipende dal ceppo di prione. Trarre conclusioni basandosi su singole osservazioni può essere quindi molto fuorviante. In termini di prevenzione della salute pubblica, aver considerato la BSE paragonabile allo scrapie e aver pertanto concluso che non sarebbe stata patogena per l'uomo è stato un grave errore di valutazione del rischio.
Il ruolo svolto dalla carica infettante nel superare la barriera di specie è abbastanza ovvio: maggiore è il livello di infettività a cui il nuovo ospite è esposto, maggiore è la possibilità che contragga la malattia. Questo semplice principio è stato quello che ha indotto a prendere i primi provvedimenti per la tutela della salute pubblica nel Regno Unito nei confronti della BSE. È stata infatti valutata la dimensione dell'esposizione alla BSE, dovuta in parte al maggior consumo di prodotti bovini rispetto a quelli ovini e in parte al drammatico aumento di casi di BSE. I dati sperimentali sull'influenza della via di trasmissione nel superare la barriera di specie sono pochi e contrastanti e non è corretto, come spesso è stato riportato, rifarsi ai dati ottenuti in esperimenti di trasmissione nella stessa specie (v. oltre) per sostenere che la via orale sia poco efficiente nel trasmettere le BSE da una specie all'altra, e quindi all'uomo. L'evidenza che l'epidemia della BSE sia risultata dalla esposizione per via orale attraverso mangimi infetti e che l'agente della BSE abbia causato, sempre per via orale, la malattia in specie diverse (bovini, felini) avvalora l'ipotesi che la via orale possa essere un veicolo efficiente di infezione.
La comparsa della variante della malattia di Creutzfeldt-Jakob
Agli inizi degli anni Novanta si verificarono due eventi che modificarono la valutazione del possibile rischio di trasmissione della BSE all'uomo. Il primo fu la comparsa di casi di BSE in altre specie animali, quali felini e bovidi esotici negli zoo britannici, il che indicava che la sequenza del gene della PrP dell'ospite non aveva un forte effetto protettivo nei confronti del ceppo della BSE. Il secondo evento di rilievo fu la dimostrazione che il ceppo della BSE era diverso da qualsiasi altro ceppo isolato da pecore con scrapie e pertanto non era più lecito assumere che la BSE non sarebbe stata patogena per l'uomo. Questi due episodi dimostravano che nel Regno Unito si erano verificate condizioni tali da permettere il superamento della barriera di specie da parte dell'agente della BSE. Difficilmente valutabile è invece il livello di esposizione alla BSE della popolazione britannica e comunitaria durante i primi anni Novanta. Il numero di bovini infetti era in costante aumento (25.000 casi di BSE nel 1991, 37.000 nel 1992) e il divieto di utilizzare i tessuti considerati più a rischio di infezione (cervello e midollo spinale) non era sufficiente a garantire la sicurezza. È infatti del 1992 la decisione di includere tra i materiali a rischio specifico l'intera testa del bovino, diminuendo così il rischio di contaminazione durante la rimozione del cervello, e del 1995 quella di colorare tali materiali (per evitare che fossero utilizzati in maniera fraudolenta) e di vietare l'uso dell'intera colonna vertebrale nella preparazione della carne recuperata meccanicamente. Quest'ultima disposizione evita l'introduzione dei gangli delle radici dorsali - tessuti nervosi altamente infettivi - nella preparazione di carni di basso costo, ampiamente utilizzate nelle mense lavorative e scolastiche.
Nel marzo 1996 il governo britannico annunciò che nell'ultimo anno erano stati identificati dieci giovani pazienti con segni clinici e lesioni neuropatologiche riconducibili alle TSE, ma con caratteristiche distinte dalle forme di MCJ fino ad allora conosciute. Questa nuova entità morbosa venne chiamata variante della MCJ (vMCJ) e se ne ipotizzò un legame con l'epidemia di BSE nei bovini. L'ipotesi, formulata su basi epidemiologiche, è stata in seguito confermata in laboratorio, osservando che il ceppo della vMCJ induce nel topo le stesse caratteristiche cliniche e neuropatologiche della BSE.
Nell'uomo la MCJ è conosciuta sin dagli inizi del 20° secolo ma, fino alla comparsa della vMCJ, non si era verificato alcun caso documentato trasmesso dagli animali. Le forme di MCJ note prima del 1996 erano la sporadica, la familiare e la iatrogena, quest'ultima come conseguenza di trasmissione accidentale da uomo a uomo in seguito a procedure di carattere medico-chirurgico, come la terapia sostitutiva con ormone della crescita estratto da ipofisi umane infette, il trapianto di dura madre nel corso d'interventi neurochirurgici o l'uso di strumenti neurochirurgici non correttamente sterilizzati.
La maggior parte dei classici casi di MCJ esordisce con disturbi cognitivi o con segni neurologici di tipo cerebellare (per es., la mancanza di coordinamento durante la marcia e i disturbi dell'equilibrio) o visivi (per es., il nistagmo, la diplopia e le allucinazioni visive). Nella fase di stato si associano a un deterioramento mentale rapidamente progressivo mioclonie, tremori e altri movimenti involontari e segni cerebellari o visivi. Nella fase terminale della malattia si assiste a un peggioramento dei sintomi descritti, alla comparsa in molti casi di crisi epilettiche, stato di mutismo acinetico e coma, con un decesso che usualmente sopraggiunge per infezioni respiratorie o sistemiche. La MCJ sporadica, diffusa in tutto il mondo, colpisce persone di età compresa tra i 50 e i 70 anni, di entrambi i sessi, con una frequenza di circa uno o due casi per milione di persone per anno. Le forme familiari rappresentano il 10-15% dei casi totali di MCJ e sono sempre legate a mutazioni (cioè varianti alleliche assenti nella popolazione normale) del gene della PrP. L'età di insorgenza della malattia può essere inferiore a quella riscontrata nella MCJ sporadica; a volte questi casi sono raggruppati in particolari aree geografiche (cluster). Alcune forme familiari si presentano con caratteristiche cliniche e neuropatologiche così particolari da essere identificate con nomi diversi, quali la sindrome di Gerstmann-Sträussler-Scheinker e l'insonnia fatale familiare.
La diagnosi clinica di MCJ si può effettuare con un livello di affidabilità piuttosto elevato in pazienti che presentano le caratteristiche cliniche sopra descritte. Di grande utilità per porre una corretta diagnosi in vita sono l'esame elettroencefalografico, che mostra un caratteristico periodismo, e l'identificazione nel liquido cefalorachidiano della proteina 14-3-3 (una proteina citoplasmatica neuronale non correlata alla PrP). In circa il 70% dei casi si notano, alla risonanza magnetica del cranio, alterazioni simmetriche a livello del putamen e del nucleo caudato. La certezza diagnostica per la MCJ, tuttavia, può essere raggiunta solo in seguito a riscontro autoptico con l'esame istologico del cervello o con l'identificazione della PrPsc nel tessuto cerebrale congelato mediante la tecnica nota come western blot. Le lesioni istologiche della MCJ, limitate al sistema nervoso centrale, sono quelle caratteristiche delle TSE (v. oltre).
Nel 1993 è stato istituito in alcuni paesi dell'Unione Europea, tra cui l'Italia, un sistema di sorveglianza della MCJ, al fine di individuare qualsiasi variazione nell'incidenza della malattia dovuta all'epidemia di BSE nel Regno Unito. Nell'ambito di questo sistema è stata individuata la vMCJ che si discosta dalla forma classica di MCJ per la durata della malattia, superiore ai sei mesi, e per le caratteristiche cliniche di esordio di tipo psichiatrico (depressione, ansietà, apatia, illusioni). La sintomatologia evolve nei mesi successivi con atassia della marcia, disturbi sensoriali di tipo dolorifico, che non si osservano nella forma sporadica, movimenti involontari, progressivo deterioramento intellettivo e mutismo acinetico, con un quadro neurologico franco sostanzialmente non dissimile dalla forma sporadica della malattia. Fondamentale per la diagnosi clinica di vMCJ è l'esecuzione della risonanza magnetica del cranio, che mostra un'iperintensità bilaterale di segnale a livello del pulvinar, e del tracciato elettroencefalografico, che non evidenzia il caratteristico periodismo della forma sporadica. La presenza della proteina liquorale 14-3-3 è incostante. Quando la sintomatologia clinica e gli esami strumentali non permettono di distinguere la vMCJ da altre forme di MCJ, si ricorre alla biopsia tonsillare per identificare, mediante tecniche immunochimiche, la presenza di PrPsc che si ritova nei tessuti linforeticolari dei soli pazienti affetti da vMCJ.
L'analisi del gene PRNP non ha identificato alcuna mutazione, mentre tutti i casi sono risultati omozigoti per metionina al codone polimorfico 129 del gene della PrP. La maggior parte dei casi di vMCJ è stata descritta in pazienti giovani (tra i 15 e i 30 anni) senza distinzione di sesso, anche se la malattia può colpire a qualsiasi età (il paziente più anziano aveva 74 anni). Anche nel caso della vMCJ la diagnosi è confermata esclusivamente dall'esame neuropatologico che dimostra, oltre alla spongiosi, numerose e diffuse placche amiloidee circondate da vacuoli (placche floride), non riscontrabili in altre forme di MCJ, e una forte positività immunocitochimica alla PrPsc. In aggiunta alla neuropatologia, l'analisi molecolare è in grado di differenziare il pattern di glicosilazione della PrPsc della vMCJ da quello delle forme sporadiche. Fino al luglio 2001, sono stati descritti 102 casi di vMCJ nel Regno Unito, tre in Francia, uno in Irlanda e uno a Hong Kong. Non si conoscono casi di vMCJ in Italia o in altri paesi europei ed extraeuropei.
Tabella
La situazione attuale e le prospettive future
L'allarme BSE in Italia e in Europa è quindi giustificato. Il prione della BSE può, infatti, infettare l'uomo e causare una malattia mortale. L'evidenza che l'epidemia della BSE sia risultata dall'esposizione per via orale attraverso mangimi infetti e che l'agente della BSE abbia causato, sempre per via orale, la malattia in specie diverse (bovini, felini) avvalora l'ipotesi che, anche per l'uomo, il consumo di alimenti infetti sia stato la causa della trasmissione della BSE. Non si può escludere l'esistenza di altre modalità di trasmissione, quali l'uso di farmaci e cosmetici contenenti tessuti bovini, anche se il rischio reale è stato molto contenuto grazie al controllo esercitato dalle strutture sanitarie nazionali e comunitarie fin dagli inizi degli anni Novanta.
La vMCJ compare in maniera subdola, con sintomi psichiatrici che durano alcuni mesi e in presenza dei quali non c'è possibilità alcuna di sospettare la gravità della malattia. Il fatto che la maggioranza dei casi si verifichi nel Regno Unito è chiaramente legato all'epidemia di BSE che ha colpito, dalla metà degli anni Ottanta, oltre 180.000 capi di bestiame. La quantità di materiale infetto, in gran parte sotto forma alimentare, che ha raggiunto la popolazione britannica, e probabilmente anche quella europea, è stata enorme; il periodo più a rischio è sicuramente stato agli inizi dell'epidemia, quando ancora non erano state attuate adeguate misure di controllo. La situazione è migliorata alla fine del 2000, quando è entrato in vigore l'obbligo di eseguire i cosiddetti test rapidi su tutti i bovini di oltre 30 mesi che sono macellati e destinati al consumo umano. I test rapidi, validati dalla Commissione Europea, si basano sull'individuazione della PrPsc in un campione di tessuto cerebrale fresco. Tuttavia, il prione deve raggiungere il cervello per provocare la trasformazione della PrPc in PrPsc e rendere così il test positivo. Questo implica che esiste un 'periodo finestra', di vari mesi o anni, nel quale i tessuti degli animali infetti potrebbero contenere bassi livelli di infettività e il test risultare negativo. D'altra parte, non è possibile eseguire i test rapidi nei tessuti linforeticolari (tonsille, linfonodi, milza) del bovino perché questi tessuti, che in altre specie animali risultano infetti molto tempo prima di quelli nervosi, non presentano livelli misurabili né di infettività né di PrPsc. È per questa ragione che la sicurezza degli alimenti è garantita solo se tutte le misure di controllo nel loro insieme sono attuate. Purtroppo, in molti paesi europei, inclusa l'Italia, il divieto di utilizzare i materiali a rischio specifico è stato introdotto solo nell'ottobre 2000, creando un elemento di grave preoccupazione.
In Italia la vMCJ, al contrario della forma classica non legata alla BSE, non è stata identificata e questo indica che negli anni passati l'esposizione della popolazione agli alimenti infetti è stata più bassa che nel Regno Unito e in Francia. Occorre però essere prudenti. Sebbene il tempo di incubazione della vMCJ, cioè il periodo che intercorre tra l'esposizione all'agente infettivo e la comparsa dei segni clinici, sia sconosciuto, è probabile che sia molto lungo, da anni a decenni. Pertanto, l'assenza della malattia in Italia, così come in qualunque altro paese, riflette esclusivamente l'assenza di infezione da BSE negli anni o nei decenni precedenti, ma non dà nessuna indicazione sull'attuale livello di rischio. Gli unici dati certi sui tempi di incubazione delle TSE umane sono quelli che derivano dagli studi sul kuru e sui casi iatrogeni di MCJ. Nel kuru, una forma un tempo epidemica tra gli indigeni di lingua fore della Papua-Nuova Guinea dediti a pratiche di cannibalismo durante le quali donne e bambini si cibavano dei corpi dei loro parenti, sono stati misurati tempi d'incubazione compresi tra 4 e 40 anni. Nei casi iatrogeni i tempi d'incubazione sono di circa due anni nei casi trasmessi in seguito a chirurgia intracerebrale e tra 5 e 30 anni nei casi verificatisi in seguito a terapia con ormone della crescita proveniente da donatori affetti. Questi dati, però, si riferiscono alla trasmissione da uomo a uomo e non è prudente applicarli tout court alla vMCJ, dove l'effetto della barriera di specie tra bovino e uomo potrebbe causare tempi medi d'incubazione molto lunghi. Se così fosse, i pochi casi osservati fino a oggi non rappresenterebbero altro che l'inizio di un'epidemia senza precedenti. Inoltre, al contrario di altre malattie infettive, incluse quelle con lunghi periodi di incubazione come l'AIDS, non è disponibile alcun test sierologico capace di riconoscere i soggetti infetti ma clinicamente sani. La mancanza di queste informazioni, associata all'evidenza che i pazienti con vMCJ nel Regno Unito tendono ad aumentare di anno in anno, rende impossibile una corretta previsione del numero di casi che potrebbero verificarsi in Europa nei prossimi anni. Un altro elemento d'incertezza è il ruolo svolto dal gene della PrP nella regolazione della suscettibilità alla vMCJ. Finora tutti i casi di vMCJ sono risultati omozigoti per metionina in posizione 129 della PrP. Questa predisposizione genetica potrebbe essere assoluta, e proteggere quindi la popolazione con altri genotipi (omozigoti o eterozigoti per valina) dalla BSE, oppure avere un effetto sul tempo di incubazione e ritardare solamente la comparsa della malattia. Un effetto simile è stato osservato in Francia nei pazienti affetti da MCJ iatrogena in seguito a somministrazione di ormone della crescita infetto. Nei primi anni tutti i pazienti erano portatori di omozigosi, per metionina o valina, al codone 129 del gene della PrP, dando la falsa impressione che gli eterozigoti fossero protetti dall'infezione. Questi ultimi invece svilupparono la MCJ negli anni successivi, confermando così che il genotipo dell'ospite influenza solamente il periodo di incubazione della malattia. Anche nei pazienti con kuru gli eterozigoti svilupparono la malattia più tardi dei soggetti omozigoti.
Agli inizi del 2001 ci si è improvvisamente resi conto che la BSE era più diffusa in Europa di quanto le autorità sanitarie di ciascun paese avessero previsto o voluto ammettere, anche dopo che il Comitato direttivo scientifico (Scientific steering committee) della Commissione Europea aveva, nel maggio 2000, pubblicato un documento in cui aveva classificato i paesi membri e alcuni paesi extracomunitari in quattro categorie di rischio, relative alla possibilità della presenza di casi di BSE nei bovini di ciascun paese. I paesi più a rischio, come il Regno Unito e il Portogallo, erano stati classificati nella categoria IV (paesi ad alto rischio con casi confermati di BSE) e quelli meno a rischio, come l'Australia, l'Argentina e molti altri paesi extraeuropei, nella categoria I (paesi con rischio molto improbabile). L'Italia, insieme con la Francia, la Germania, la Svizzera e altri paesi europei, rientrava nella categoria III (paesi con rischio probabile), con pochi o nessun caso accertato di BSE. Questa valutazione è passata quasi inosservata fino a quando la Svizzera e poco dopo la Francia hanno cominciato ad applicare i test rapidi su tutti i bovini di oltre 30 mesi inviati alla macellazione. L'esecuzione di questo test, sebbene con i limiti discussi precedentemente, ha messo in evidenza che la BSE era più diffusa in Europa di quanto dichiarato. Anche in Italia, subito dopo la decisione di eseguire i test rapidi, si sono immediatamente identificati casi di BSE in bovini (17 a luglio 2001) che al controllo veterinario eseguito prima della macellazione erano risultati clinicamente sani. Sebbene i casi identificati in Europa siano pochi se comparati a quelli britannici, l'andamento dell'epidemia è in continua crescita. Oggi si è in possesso di tutti gli strumenti tecnici e legislativi per bloccare l'epidemia ed eradicare la BSE. Quello che serve è una costante e attenta attuazione delle misure di prevenzione da parte degli organi competenti che non deve mai allentarsi, quali che siano le pressioni politiche ed economiche esercitate dal mondo produttivo. Non si può invece controllare l'epidemia di vMCJ, ma solo sperare che il numero di persone infette nel Regno Unito e nel resto d'Europa sia limitato. Si deve tuttavia minimizzare la possibilità di trasmettere la vMCJ da uomo a uomo attraverso procedure chirurgiche, trasfusioni di sangue o uso di derivati del plasma. La difficoltà nell'inattivare i prioni impone l'utilizzo di ferri chirurgici monouso ogniqualvolta vi sia il sospetto clinico di MCJ. L'incertezza sul numero di persone che potrebbero incubare la vMCJ nel Regno Unito, la totale mancanza di esami diagnostici preclinici per identificare i soggetti infetti e la cognizione che nella vMCJ i tessuti linforeticolari potrebbero essere infetti prima della comparsa dei segni clinici hanno sollecitato il governo britannico a imporre ferri chirurgici monouso per ogni intervento di tonsillectomia. Per gli stessi motivi è vietato utilizzare il plasma di donatori britannici per la preparazione di derivati. Questa disposizione è stata estesa, in maniera precauzionale, anche a tutti i donatori che hanno soggiornato per più di sei mesi nel Regno Unito durante il periodo di massima esposizione della popolazione alla BSE (1980-96). Queste misure possono sembrare particolarmente restrittive, ma la BSE ha insegnato che per combattere queste malattie l'unica arma efficace è quella di attuare strategie preventive di lunghissimo periodo. Investire nella ricerca scientifica è poi di vitale importanza, perché è solo dalla conoscenza approfondita dell'agente infettivo e dei meccanismi patogenetici che è possibile sviluppare metodiche per la diagnosi preclinica e strategie per la terapia.
repertorio
Malattie infettive: epidemie e agenti patogeni
Si definiscono infettive le malattie determinate da penetrazione e moltiplicazione, nei tessuti viventi, di agenti patogeni (microrganismi unicellulari, come batteri, miceti, protozoi, oppure virus) all'interno di un organismo ospite. Una malattia infettiva può presentarsi in forma sporadica, endemica, epidemica e pandemica secondo un preciso rapporto spaziotemporale: si definisce sporadica una malattia caratterizzata da episodi rari, isolati, con tendenza a rimanere circoscritta (per es., i casi di malaria contratti all'estero e rivelatisi al ritorno nel paese di origine senza dare luogo ad altre situazioni morbose); è endemica una malattia costantemente presente nella popolazione (per es., morbillo, rosolia, tubercolosi), che si manifesta con un certo numero di casi uniformemente distribuito nel tempo; il termine epidemia designa l'insorgenza, in una determinata popolazione, di casi di una malattia infettiva in eccesso rispetto alla frequenza media di quella patologia nella stessa popolazione; una pandemia, infine, è una forma di epidemia che colpisce in breve tempo un numero molto elevato di soggetti superando i confini di un paese e diffondendosi in nazioni e continenti lontani fra loro.
Le epidemie possono colpire un numero più o meno elevato di individui ricettivi, in rapporto alla contagiosità del microrganismo e ad alcuni fattori variabili e causali che favoriscono la diffusione dell'epidemia stessa. Gli individui non colpiti sono immuni o perché hanno già contratto la malattia, o perché sono protetti da una vaccinazione o da un trasferimento passivo di immunità da madre a figlio, o infine per altri fattori intrinseci che li rendono resistenti alla patologia stessa. Prima che la malattia faccia la sua comparsa, dal momento dell'incontro con l'agente patogeno (contagio) decorre un lasso di tempo variabile a seconda del tipo di morbo, detto periodo di incubazione. È anche possibile che, a seguito del contagio, alcuni individui incorrano in un'infezione asintomatica, caratterizzata dalla presenza dell'agente patogeno senza la contemporanea comparsa di segni e sintomi della malattia. L'agente patogeno in genere viene trasmesso dall'ospite in un preciso momento della malattia, che varia a seconda della patologia considerata e che viene chiamato periodo di contagiosità.
Le epidemie nel corso dei secoli
Le malattie infettive hanno accompagnato tutta la storia, biologica e sociale, dell'uomo, con un'ampia gamma di manifestazioni epidemiche, legata alle variazioni degli equilibri ecologici fra le popolazioni umane, i loro germi e l'ambiente naturale e sociale, ma anche alla storia naturale degli stessi parassiti. Le malattie infettive si sono infatti evolute in parallelo con le trasformazioni dell'organizzazione sociale delle popolazioni umane e con i cambiamenti ecologici che le hanno accompagnate. Possono essere evidenziate due tappe principali: la prima corrisponde alla transizione di popolazioni organizzate in piccoli gruppi e dedite alla caccia, all'agricoltura stabile, con la creazione di città; la seconda alla rivoluzione industriale, con l'accrescimento delle strutture urbane. Per quanto riguarda la prima di queste tappe, la domesticazione portò l'uomo in contatto permanente con le zoonosi, infezioni provenienti dal mondo animale che si vennero ad aggiungere alle malattie infettive che probabilmente avevano accompagnato lo stesso emergere della specie Homo sapiens, come la malaria. Riguardo alla seconda, la formazione di agglomerati urbani sufficientemente densi causò la diffusione di agenti eziologici, provenienti sia da zoonosi sia dall'evoluzione della specie umana, in modo stabile all'interno delle popolazioni. Molte malattie infettive sono infatti dipendenti dalla densità della popolazione, necessaria alla trasmissione dell'agente infettivo. Alcune di esse, come il vaiolo, il morbillo e la poliomielite, che producono un'immunità permanente, necessitano di una popolazione sufficientemente estesa per diventare endemiche. In gruppi numericamente più esigui, oppure se la trasmissibilità è scarsa, il virus si autolimita, scomparendo dalla popolazione e ricomparendo solo quando emergerà una nuova popolazione suscettibile. Inoltre, le precarie condizioni igieniche delle città del 19° secolo erano tali da favorire il contagio e le epidemie.
Nel passato i flagelli epidemici furono principalmente la peste, il tifo esantematico o petecchiale, la febbre tifoide, il vaiolo, le infezioni gastrointestinali, quelle delle vie respiratorie e le malattie virali di tipo influenzale. Le grandi 'pestilenze' avevano un andamento ciclico a grandi intervalli, come la 'peste nera' (peste bubbonica, combinata talvolta con quella polmonare) degli anni 1347-50, descritta da Boccaccio nell'introduzione al Decameron; per tre secoli, sino al 1720, la peste continuò a seminare il terrore in Europa, per poi scomparire da questo continente per ragioni non ben definite. Altre malattie infettive erano invece a ciclo annuale, come l'influenza o il tifo; altre ancora, come le infezioni intestinali, soprattutto nei bambini, erano endemiche, ossia presenti in maniera costante nella popolazione.
Alcune malattie dominanti sembrano caratterizzare i diversi periodi storici nelle varie aree geografiche: così la Grecia classica era interessata principalmente dalle febbri malariche, il Medioevo dalla peste, il Cinquecento dalla sifilide, apparsa dopo la scoperta dell'America, mentre la tubercolosi è stata la patologia prevalente dell'Ottocento, divenendone quasi un simbolo. Nello stesso secolo le 'fiammate epidemiche' di una nuova malattia, il colera asiatico, avevano fatto risorgere le grandi paure del passato: la 'peste del 19° secolo' ebbe sette successive pandemie che attraversarono tutta l'Europa, l'Asia e gli Stati americani (le principali furono quelle del 1830-35, 1848-50, 1853-56, 1866-67). Tubercolosi, tifo, malaria, influenza, difterite hanno dominato ancora il quadro epidemiologico nella prima metà del Novecento, mentre nel secondo dopoguerra, in seguito all'introduzione degli antibiotici e a efficaci campagne di vaccinazione e prevenzione, la mortalità provocata dalle grandi malattie infettive è di fatto scomparsa nel mondo occidentale.
Attualmente esse mantengono il primato di causa principale di mortalità solo nelle aree in via di sviluppo, dove, inoltre, le cosiddette malattie infettive emergenti (l'AIDS a partire dagli anni Ottanta e, pur con un impatto quantitativo limitato, diverse febbri emorragiche negli anni Novanta) hanno di nuovo sottolineato drammaticamente la permanenza del ruolo delle epidemie, in termini reali e metaforici. È da notare peraltro che sono stati gli stessi progressi tecnologici a determinare l'insorgenza di nuovi problemi riguardo alle malattie infettive: così, per es., lo sviluppo della chemioresistenza nei germi ha reso comuni, in ambiente ospedaliero, le infezioni che non rispondono più ai farmaci disponibili; l'uso di antibiotici nell'alimentazione degli animali ha portato a far emergere salmonelle multiresistenti, responsabili poi di epidemie umane; il plasmodio della malaria e il suo vettore sono oggi insensibili a farmaci e a insetticidi attivi fino a pochi anni fa. I progressi della scienza hanno inoltre creato particolari nicchie ecologiche, dove anche microrganismi poco patogeni sono in grado di produrre danni, colpendo, per es., i soggetti sottoposti a terapie immunodepressive, oppure i portatori di protesi ricostruttive.
Gli studi sull'origine delle epidemie
Il termine epidemia si trova già negli scritti di Ippocrate (il primo e il terzo libro delle Epidemie e il trattato Le arie, le acque, i luoghi), dove designa l'insieme delle malattie che contraddistinguono una data area geografica e la sua popolazione, insieme che varia in funzione del clima, dei venti, della natura del suolo, dei caratteri, delle stagioni, dei costumi degli abitanti; conoscendo questi fattori il medico potrà predire quali malattie saranno tipiche di una data popolazione in una data stagione. La tradizione medica antica spiega infatti l'origine e la distribuzione delle malattie endemiche ed epidemiche con l'influenza dei fattori esterni, che formano nel loro insieme una determinata 'costituzione epidemica', in grado di favorire l'insorgenza e lo sviluppo di una particolare malattia nella popolazione.
La medicina galenica, che domina il pensiero medico e le pratiche igieniche sino all'epoca moderna, considera soprattutto la composizione o piuttosto la corruzione dell'aria come il fattore decisivo per l'inizio di una epidemia. Nel Cinquecento G. Fracastoro reintroduce l'idea, già presente in Lucrezio e in Galeno, di 'semi' responsabili delle malattie contagiose, dando origine a una tradizione di studi sul 'contagio vivo'. Il pensiero medico e il senso comune, fondato sull'esperienza quotidiana, sostengono in un modo o in un altro la teoria miasmatica, che vede in 'miasmi velenosi', diffusi nell'aria o sulla superficie degli oggetti, la causa del contagio: secondo tale teoria le sostanze in decomposizione, anche in piccole quantità, sarebbero capaci di provocare nell'organismo modificazioni patologiche 'per contatto', agendo per moltiplicazione chimica, secondo una reazione a catena paragonabile alla trasmissione del fuoco da una casa a un'altra.
Sulla base di simili concetti, le autorità politiche si sforzano, a partire dal momento in cui si prende coscienza dell'importanza delle malattie epidemiche, di assicurare la purezza dell'acqua e la freschezza degli alimenti, di eliminare i rifiuti urbani, i liquami e la sporcizia, in modo da ridurre i miasmi. Questi interventi, soprattutto nei sovraffollati ambienti urbani, danno risultati positivi, e ciò dà forza alla teoria che ne è a fondamento. Ma il rimedio principe contro l'infezione consiste nella difesa, se non nella fuga. Di qui, l'isolamento dei 'contagiosi' nei lazzaretti, la chiusura delle frontiere, le quarantene, le misure amministrative come permessi e patenti sanitarie, il controllo della posta, regolarmente applicati da tutti gli Stati, talvolta con risultati efficaci, come per il cordon sanitaire realizzato ai confini dell'Impero Ottomano all'inizio del Settecento, che impedì l'importazione delle epidemie di peste via terra. I registri di mortalità, che cominciano a tenersi a partire dal 17° secolo in Inghilterra, Svezia e Germania, forniscono informazioni sulle cause di morte e permettono una migliore conoscenza della terribile mortalità dovuta alle malattie infettive. Nell'Ottocento P. Louis introduce il trattamento matematico dei dati (metodo numerico) per l'indagine quantitativa della distribuzione delle malattie, procedendo a un'acuta analisi della distribuzione della tubercolosi e alla valutazione statistica dell'efficacia dei vari tipi di terapia, base dei test clinici. Nello stesso periodo L. Villermé usa i tassi di mortalità per stabilire una connessione fra malattia e povertà e nel 1840 studia gli operai dell'industria della seta, molti dei quali bambini, mostrando l'influenza delle condizioni di lavoro sulla distribuzione statistica delle malattie. W. Farr analizza le variazioni nei tassi di mortalità (in particolare a causa del vaiolo) e cerca di definire le 'leggi' che regolano le epidemie. W. Budd e J. Snow conducono studi epidemiologici per controllare le epidemie di colera e di febbre tifoide, a fini di una loro prevenzione, mettendo in luce il ruolo dell'acqua contaminata come mezzo di trasmissione. In questo modo l'epidemiologia diviene una parte importante delle politiche di sanità pubblica, che cominciano a essere attuate nell'Ottocento.
In tale contesto igienista si ritiene che una malattia epidemica possa essere causata da una serie pressoché infinita di fattori diversi: il terreno, l'aria, l'acqua, gli alimenti, i miasmi, i rifiuti, l'urbanizzazione, il lavoro, la sessualità o la cattiva educazione. L'efficacia delle misure, in mancanza di obiettivi precisi, è molto scarsa e lo stile di intervento degli igienisti è in effetti caratterizzato piuttosto da una congerie di consigli e rimedi empirici. L'igiene scientifica, sviluppata soprattutto da M. von Pettenkofer, che introduce il metodo sperimentale nel campo dell'igiene e crea a Monaco di Baviera nel 1878 un Istituto di igiene, riconosce l'importanza della ricerca di base per individuare i vari fattori che determinano lo sviluppo di un'epidemia, ponendo l'accento sullo studio chimico dell'ambiente, in particolare del terreno e delle sue modificazioni.
La 'rivoluzione' di Pasteur e di Koch
Il concetto di epidemia muta radicalmente, nella seconda metà dell'Ottocento, con la rivoluzione batteriologica di L. Pasteur e R. Koch, quando ai principi miasmatici e alle 'costituzioni epidemiche' si sostituisce la ricerca di microbi parassitari 'specifici', identificabili in laboratorio, come causa necessaria di 'specifiche' malattie infettive. La sostituzione delle varie intuizioni e ipotesi sulla natura dei contagi e dell'infezione con una teoria scientifica unitaria risulta dalla nascita e dallo sviluppo di una nuova disciplina che, nel 1881, Pasteur chiama microbiologia.
Tale disciplina inserisce i concetti di germe e di infezione all'interno di una definizione generale di vita- basata sulla continuità nel tempo e nello spazio dell'organizzazione biologica - intesa anche come lotta interspecifica fra specie diverse (in questo caso il microbo e il suo ospite). Una malattia contagiosa o infettiva è dovuta alla presenza continua e costante di un germe (microrganismo) specifico, che si sviluppa nell'organismo e che è la causa specifica della malattia; anche se altri fattori (terreno, costituzione) possono modulare l'azione del germe e lo sviluppo della malattia, essi non possono modificarne la 'specie'. Lo sviluppo di un'epidemia e la sua gravità sono determinati da tre fattori principali: la virulenza del germe, la resistenza dell'ospite e le possibilità di trasmissione del contagio. I primi due aspetti sono di tipo biologico, mentre il terzo è legato a condizioni ecologiche e sociali. La trasmissione del germe svolge un ruolo centrale nel definire l'impatto dell'epidemia sulla popolazione ed essa dipende da fattori come la temperatura o l'umidità, ma soprattutto dal comportamento della popolazione colpita (densità demografica, pratiche alimentari, sessuali e igieniche, dispersione degli individui infetti, facilità di spostamento dei portatori ecc.). La dinamica di una malattia epidemica dipenderà quindi dalla relazione fra virulenza dell'agente, resistenza dell'ospite e meccanismi di trasmissione. Questi rapporti determinano anche il futuro evolutivo sia del parassita sia dell'ospite. La trasmissibilità dell'agente infettivo è molto facilitata da condizioni ecologiche o da comportamenti individuali e collettivi, per es., nei casi di malattie sessualmente trasmissibili; quando invece la trasmissibilità è limitata da una scarsa densità della popolazione suscettibile o dalla mancanza di vettori oppure da efficaci misure profilattiche, la selezione favorirà i ceppi di agenti patogeni che non uccidono il loro ospite, aumentando le possibilità di riproduzione, sino ad arrivare a un equilibrio fra agente patogeno e popolazioni. Lo sviluppo di un'epidemia ha quindi come condizione necessaria la presenza di un germe specifico, tuttavia nella sua dinamica, nella sua origine e nel suo sviluppo dipende dalle caratteristiche della popolazione coinvolta e da quelle dell'ambiente nel quale la popolazione e l'agente infettivo si trovano.
Gli effetti pratici della rivoluzione pasteuriana hanno cambiato il ruolo delle epidemie nel mondo occidentale. La rapida diffusione di una serie di procedimenti, come la pastorizzazione del latte (che ridusse la mortalità infantile causata da febbri intestinali ed enteriti), l'antisepsi e l'asepsi, introdotte da J. Lister (che hanno decisamente aumentato la sicurezza degli interventi medici e più in generale permesso il controllo delle forniture alimentari e di acqua), hanno modificato la vita quotidiana. Pasteur ha inoltre elaborato una strategia per la produzione di immunità artificiale mediante germi la cui virulenza era stata attenuata con varie tecniche di laboratorio, rendendo principio di validità generale la vaccinazione, introdotta contro il vaiolo da E. Jenner nel 1797. Il ceppo attenuato di un virus produce una forma benigna dell'infezione, che assicura l'immunità, grazie a una modificazione degli equilibri all'interno dell'organismo. I vaccini di Pasteur sono prodotti artificiali, costruiti in laboratorio, con il controllo diretto dello sperimentatore. Un vaccino, una volta realizzato, può essere riprodotto, nel laboratorio o industrialmente, e la sua virulenza potrà essere modificata con passaggi successivi in animali, o con metodi chimici e fisici. Questo costituisce la base dell'industria dei vaccini, che ha avuto un ruolo decisivo nel modificare le condizioni sanitarie di intere popolazioni.
Classificazione, vie di penetrazione e meccanismi di patogenicità degli agenti infettivi
Gli agenti patogeni in grado di determinare malattie infettive possono essere classificati, in ordine di grandezza, in virus, batteri, miceti e protozoi. Le armi da essi utilizzate per colonizzare l'organismo e replicarsi al suo interno vengono comunemente chiamate meccanismi di patogenicità.
La penetrazione nell'organismo può avvenire attraverso diverse vie: 1) ingestione di cibi contaminati: in questo caso si instaura il cosiddetto circuito orofecale, in quanto l'agente infettante, localizzato nell'apparato digerente, viene espulso con le feci e può entrare nella catena alimentare; ovviamente tale circuito è favorito dalle cattive condizioni igieniche ambientali e si realizza infatti per malattie come il tifo, il colera ecc.; 2) via aerea: in questi casi, tipici dei microrganismi che colonizzano l'apparato respiratorio (influenza, tubercolosi ecc.), l'agente infettante, liberato attraverso saliva, colpi di tosse, starnuti, si diffonde nell'aria in minuscole goccioline di vapore acqueo; 3) contagio sessuale: a parte le malattie che tipicamente vengono trasmesse per tale via (per es., sifilide, blenorragia, AIDS ecc.), quasi tutte le malattie infettive possono essere contagiate per via sessuale; 4) inoculazione diretta: avviene mediante l'introduzione di materiale infettante direttamente nei tessuti o nel sangue (per es., AIDS, epatite, malaria ecc.); 5) penetrazione traumatica: si verifica quando materiale infetto, a seguito di un trauma, come nel caso di ferite, entra in contatto con sangue o tessuti (tetano ecc.).
Subito dopo la penetrazione, e a volte contemporaneamente a essa, si scatena un vero e proprio conflitto tra microrganismo infettante e organismo ospite. Dall'esito di tale conflitto dipenderà se il soggetto esposto al contagio svilupperà la malattia o, al contrario, supererà l'infezione, conservando magari la memoria immunologica dell'avvenuto contatto che gli consentirà di resistere anche ad attacchi futuri da parte dello stesso agente.
a) Virus. I virus sono una classe di organismi, di natura non cellulare e di dimensioni submicroscopiche, incapaci di un metabolismo autonomo e perciò caratterizzati da vita parassitaria endocellulare obbligata. Traggono particolare vantaggio dalla loro capacità di trasformarsi spesso, attraverso piccole ma significative variazioni del codice genetico che danno loro la possibilità di adattarsi di continuo all'ambiente e di sfuggire alle difese dell'organismo, utilizzando a proprio favore il sistema biosintetico delle cellule bersaglio. Non sempre l'infezione da virus coincide con l'evolversi della malattia: in molti casi, infatti, la percentuale di pazienti sieropositivi, che hanno cioè sviluppato anticorpi contro un virus con il quale sono venuti a contatto, supera di gran lunga il numero di pazienti che hanno manifestato la malattia.
Una volta entrato nell'organismo attraverso le vie descritte in precedenza, un virus deve essere in grado di penetrare nelle singole cellule per replicarsi al loro interno. A questo scopo, esso è provvisto di molecole proteiche di superficie, capaci di interagire e agganciare specifici recettori presenti sulla superficie delle cellule. Non tutte le cellule dell'organismo possiedono i recettori adatti a ciascun tipo di virus. Ne consegue che solo specifici tipi cellulari sono sensibili, cioè infettabili, da specifici virus. Inoltre, l'infezione di una cellula sensibile non assicura automaticamente la moltiplicazione del virus stesso, né la sua liberazione nell'ambiente esterno. Una cellula, quindi, oltre che essere sensibile, deve anche essere permissiva, condizione che si realizza quando essa è in grado di mettere a disposizione del virus tutte le strutture metaboliche necessarie per la trascrizione completa del suo genoma e per la sintesi delle specifiche proteine virali.
L'infezione di una cellula da parte di un virus può quindi esprimersi in vario modo. Quando la cellula è sensibile e permissiva si genera un'infezione produttiva, caratterizzata dalla moltiplicazione del virus con formazione di progenie virale infettante; un'infezione restrittiva o latente si ha quando il genoma virale permane (integrato nel DNA cellulare o in altre forme) all'interno della cellula ospite e il processo di moltiplicazione virale viene avviato solo in particolari circostanze o dopo determinati stimoli (vedi il caso degli Herpesvirus o di alcuni Retrovirus); si parla invece di infezione abortiva quando una cellula sensibile non è completamente permissiva per l'espressione di tutti i geni virali, per cui vengono sintetizzati solo alcuni dei componenti virali, ma nessun virus completo riesce a essere liberato nell'ambiente esterno; infine, un'infezione trasformante si verifica quando il genoma virale si integra in quello cellulare, trasformando la cellula da normale a tumorale. Se dall'interazione virus-cellula si passa a considerare l'interazione virus-organismo, ognuna delle situazioni descritte darà luogo a un tipo diverso di manifestazione clinica. Si può avere così: un'infezione acuta (influenza, poliomielite, enterite ecc.), in cui le cellule infettate vengono spesso uccise (effetto citocida) o gravemente danneggiate dal virus; un'infezione latente, il cui decorso può protrarsi anche per tutta la vita senza dare sintomi evidenti o può dar luogo a periodiche riattivazioni con manifestazioni cliniche recidivanti (herpes labiale); un'infezione persistente, caratteristica di malattie cronicamente evolutive (epatite cronica attiva) o di malattie che presentano un'evoluzione lenta, ma generalmente molto grave (panencefalite subacuta sclerosante); in questo tipo di infezione il virus viene prodotto in continuazione dalle cellule senza provocare danni letali. L'infezione trasformante, infine, è causa di tumori, per la trasformazione in senso neoplastico della cellula colpita.
b) Batteri. I batteri sono microrganismi unicellulari appartenenti al regno dei Procarioti, che esercitano il loro potere patogeno attraverso dei meccanismi d'invasività e di 'tossigenicità', vale a dire invasione di tessuti e produzione di tossine che, trasportate dalla corrente circolatoria in vari distretti, agiscono a distanza dal punto in cui avviene la moltiplicazione dei batteri stessi. Vari fattori contribuiscono all'invasività della cellula batterica: le adesine, sostanze di natura proteica o lipoproteica che determinano il legame del microrganismo ai recettori delle cellule dell'organismo ospite; la capsula, una struttura fibrillare di natura generalmente polisaccaridica, che avvolge alcune specie batteriche determinandone l'aggressività in quanto è in grado di inibire la fagocitosi (cioè la distruzione da parte di macrofagi e monociti); alcuni enzimi, quali leucocidine (tossiche per i granulociti neutrofili), emolisine (responsabili della lisi dei globuli rossi), coagulasi (che coagulano il fibrinogeno intorno ai microrganismi proteggendoli dalla fagocitosi), ialuronidasi (che idrolizzano l'acido ialuronico, componente fondamentale del connettivo, permettendo una diffusione invasiva dei microrganismi che ne sono provvisti, quali lo streptococco).
La patogenicità dei batteri è rappresentata anche dalla loro capacità di elaborare tossine che, trasportate dal sangue o dalla linfa, possono causare danni spesso rilevanti, provocando febbre, disturbi nervosi e cardiovascolari e, in alcuni casi, shock. Le tossine si distinguono in esotossine ed endotossine. Le esotossine sono proteine dotate di un'azione patogena specifica, nel senso che inibiscono particolari funzioni metaboliche (per es., l'esotossina di Clostridium tetani raggiunge il sistema nervoso centrale e blocca l'invio di impulsi inibitori da parte delle cellule nervose che controllano la contrazione dei muscoli scheletrici, dando luogo a contratture muscolari parossistiche) e sono inoltre in grado di indurre anticorpi ad attività neutralizzante. Esse si trasformano spontaneamente in tossoidi, cioè sostanze che hanno perso il potere patogeno, conservando inalterato quello antigenico, ossia la capacità d'indurre anticorpi che ne neutralizzano l'attività; quando la trasformazione da tossina in tossoide è ottenuta artificialmente il prodotto finale si chiama anatossina e rappresenta il principio attivo di molti vaccini quali, per es., il vaccino antitetanico, antibotulinico, antidifterico. Le endotossine, o lipopolisaccaridi, inducono la produzione di diversi mediatori, i quali a livello dell'ipotalamo determinano il rilascio di prostaglandine ad attività termoregolatoria e provocano uno stato di malessere generale con febbre, diarrea e vomito. Non sono facilmente neutralizzate da anticorpi e per tale motivo non è possibile produrre tossoidi efficaci.
c) Miceti. I miceti, o funghi, sono organismi eucarioti, dotati di un'organizzazione cellulare più evoluta e capaci di vivere e riprodursi autonomamente. L'infezione e la malattia che i miceti provocano nell'uomo o nell'animale rappresentano quindi un evento del tutto accidentale nel loro ciclo vitale. Le infezioni da funghi, definite micosi, possono essere esogene quando l'agente infettante, normalmente costituito da spore fungine, proviene dall'ambiente esterno, come nel caso della tinea corporis; oppure endogene, quando l'agente infettante è un micete che, normalmente presente nel sito interessato, diventa patogeno solo in particolari condizioni. Questo è il caso delle infezioni 'opportunistiche' in cui una riduzione delle normali difese immunitarie dell'ospite, causata sia da altre malattie concomitanti, sia da terapie particolarmente debilitanti o da patologie che provocano immunodeficienza (AIDS), costituiscono condizioni essenziali per l'instaurarsi di infezioni micotiche anche molto gravi. Nonostante le micosi siano estremamente diffuse, è ancora poco noto lo specifico meccanismo di patogenicità, così come le relative difese dell'organismo. Nella patogenesi delle micosi il ruolo svolto dall'ospite è di fondamentale importanza. È nota, per es., l'attività micostatica svolta dagli acidi grassi prodotti dalle ghiandole sebacee della cute, tanto che le zone che ne sono sprovviste (come gli spazi interdigitali dei piedi) vanno più facilmente incontro a infezioni da funghi dermatofiti. Un altro esempio è rappresentato dalle infezioni da Candida albicans che si sviluppano in corso di terapie antibiotiche protratte, le quali, diminuendo la flora batterica residente sulle mucose, spezzano l'equilibrio che fisiologicamente tiene sotto controllo la moltiplicazione del lievito.
I fattori di patogenicità, di cui sono dotati i miceti, meno aggressivi di quelli dei batteri, sono la capsula, gli enzimi e le tossine. Molti funghi sono sprovvisti di una capsula strutturalmente ben definita, ma possiedono strutture di superficie chimicamente molto simili, soprattutto per quanto riguarda la capacità antigenica, cioè la possibilità di indurre la formazione di anticorpi nell'ospite. Dal punto di vista della patogenicità, tali strutture facilitano l'adesione del fungo alle cellule dell'organo bersaglio e quindi l'invasione dell'organo stesso. La capsula svolge, inoltre, un importante ruolo antifagocitario. Gli enzimi hanno la funzione di facilitare l'attecchimento e la diffusione di diversi funghi, nonostante sia stata dimostrata la patogenicità in ceppi che ne sono sprovvisti. Per es., gli enzimi idrolitici prodotti dai dermatofiti (elastasi, collagenasi e cheratinasi) sono in grado di degradare peli, capelli e cheratina cutanea a corti prodotti peptidici, favorendo così la colonizzazione della cute; Candida albicans produce enzimi proteolitici capaci di degradare le immunoglobuline di classe A, le quali fisiologicamente tappezzano le mucose dell'organismo difendendole dall'aggressione di agenti patogeni. Le tossine possono essere rilasciate da alcuni ceppi di funghi nell'ambiente (esotossine) o essere strettamente associate al corpo fungino e non rilasciate se non dopo lisi del corpo cellulare (endotossine). Nel primo caso, non è stata dimostrata alcuna correlazione con l'azione patogena del fungo in vivo. Le endotossine fungine, al contrario, come quelle batteriche, provocano fenomeni tossici aspecifici, anche se di entità più modesta.
d) Protozoi. I protozoi sono i microrganismi più evoluti dal punto di vista strutturale, essendo costituiti da citoplasma, uno o più nuclei contenenti un corredo cromosomico completo e relative membrane. Essi sono inoltre dotati di tutti gli organelli di una cellula eucariotica e quindi di un loro metabolismo autonomo. Si conoscono attualmente oltre 20.000 specie di protozoi, con dimensioni che vanno da poco più di 1 m a oltre 1 mm di diametro. Alcuni di essi possono trovarsi negli strati più superficiali del terreno o nelle acque e vivere indipendenti da altre forme di vita; altri vivono come parassiti (obbligati o facoltativi) o come commensali dell'uomo, di animali o di alcune piante. Ne consegue che, nonostante gli sforzi di molti studiosi, l'impresa di classificare i protozoi è veramente ardua ed essi risultano come un vasto e disomogeneo insieme di microrganismi molto diversi per caratteristiche intrinseche e potere patogeno. Le patologie umane che riconoscono un'eziologia da protozoi sono le più svariate e vanno dalla malaria (provocata da Plasmodium) alla giardiasi o amebiasi intestinale (provocate rispettivamente da Giardia e da Entamoeba), alle polmoniti da Pneumocystis carinii, alle vaginiti da Trichomonas ecc.
L'azione patogena dei protozoi può essere ricondotta principalmente ai meccanismi di danno di tipo meccanico, tossico, immunoallergico o cancerogeno. Provoca un danno di tipo meccanico, per es., l'infezione da Giardia, essa infatti si ancora saldamente alle pareti intestinali fino a tappezzarle completamente, impedendo così i normali processi di assorbimento. Un'azione simile si riscontra anche nel caso di infezione da Pneumocystis carinii che riempie letteralmente gli alveoli polmonari fino a provocare la morte per soffocamento. La malaria, invece, crea un danno meccanico a livello cellulare poiché la moltiplicazione di Plasmodium all'interno dei globuli rossi e degli epatociti provoca la rottura delle cellule stesse. Tra i danni di tipo tossico ricordiamo la massiva liberazione di citochine di tipo infiammatorio (TNF, Tumor necrosis factor, e interleuchine 1 e 6) conseguente alla crisi emolitica che si attua in corso di malaria. Nel caso del danno immunoallergico, è la risposta immune dell'organismo che eccede i limiti e diventa essa stessa causa di aggravamento della patologia in atto. Infatti, sempre nel caso della malaria, i globuli rossi parassitati diventano autoantigenici, capaci cioè di indurre anticorpi diretti contro sé stessi e di distruggerli in modo massivo. Per quanto riguarda l'azione cancerogena, bisogna ricordare la correlazione altamente significativa tra infezione da Trichomonas vaginalis e stati cancerosi e precancerosi dell'utero, anche se tale predisposizione sembra dovuta più al perdurare di un'infiammazione cronica che a un meccanismo diretto di causa-effetto. Da un punto di vista più generale, i protozoi, come altri microrganismi, sono in grado di elaborare strategie che consentono loro di sfuggire alle difese messe in atto dall'organismo. Per es., alcuni protozoi sono capaci di sfuggire agli anticorpi modificando di continuo la propria composizione antigenica superficiale, anche durante il loro ciclo vitale.