privatizzazione
Teoria e politiche della privatizzazione
Avviate all’inizio degli anni 1980 in Gran Bretagna dal governo di M. Thatcher e accolte all’inizio con grande scetticismo, anche da parte di numerosi economisti, nel corso degli anni le privatizzazioni sono divenute uno strumento importante della politica pubblica di oltre 100 Paesi, rappresentando una delle principali modalità attraverso le quali affidare a meccanismi di mercato il processo di allocazione delle risorse.
Le privatizzazioni hanno rappresentato, in qualche misura, una reazione alle politiche di nazionalizzazione che avevano caratterizzato l’economia mondiale nei 25 anni precedenti. Infatti, con l’eccezione degli Stati Uniti, dove gli assetti proprietari delle imprese sono rimasti generalmente privati, in quasi tutti gli altri Paesi del mondo (inclusa l’Italia, dove però il processo era già iniziato dagli anni 1930) si è registrata a partire dalla fine degli anni 1950 un’enorme crescita della proprietà statale delle imprese, che è proseguita a ritmo sostenuto fino alla metà degli anni 1980. In Gran Bretagna il punto di svolta si è avuto nel 1984 con la privatizzazione della British Telecom, il monopolista telefonico. Da allora la quota di valore aggiunto delle imprese a partecipazione statale nel prodotto interno lordo della Gran Bretagna si è ridotta progressivamente, passando da circa il 10% nella prima metà degli anni 1980 a una percentuale di fatto insignificante nel 1997. Analoghe evoluzioni si sono registrate in tanti altri Paesi (europei, latino-americani, asiatici), inclusa l’Italia che tra il 1993 e il 2000 ha dismesso attività per una cifra complessiva pari a circa 200 miliardi di euro, risultando al riguardo tra i Paesi europei più attivi. In Italia le privatizzazioni hanno interessato interi settori produttivi, come le banche, la chimica, l’acciaio, le autostrade e altri, investendo, in pratica, l’intera economia. Lo Stato ha mantenuto il controllo proprietario nelle imprese del settore energetico (ENI ed ENEL), nell’industria militare (Finmeccanica), nei trasporti ferroviari (Ferrovie dello Stato) e nei servizi pubblici locali. Nell’insieme dei Paesi industrializzati la quota del valore aggiunto delle imprese a partecipazione statale è scesa dall’8,5% del PIL nel 1984 a meno del 5% nel 2000, mentre una riduzione ancora maggiore si registra per i Paesi in via di sviluppo dove il peso delle imprese a partecipazione statale è sceso dal 16% a metà degli anni 1980 a circa il 5% nel 2000.
Molteplici sono le ragioni che hanno innescato questo massiccio processo. Si trattava non solo di aumentare le entrate dello Stato, ma anche di promuovere l’efficienza economica, ridurre l’interferenza dello Stato nell’economia, incentivare una più diffusa distribuzione della proprietà azionaria delle imprese, nonché la concorrenza nei mercati, e infine di assoggettare le imprese a partecipazione statale, con privatizzazioni anche parziali, a una maggiore disciplina da parte del mercato. In Italia, quest’ultima esigenza ha svolto un ruolo preponderante nell’avvio del processo di dismissioni all’inizio degli anni 1990: le perdite crescenti delle attività non finanziarie dell’IRI, il grande gruppo delle imprese a partecipazione statale fondato nel 1933, erano arrivate nel 1992 al 6% del fatturato, un livello non più gestibile in considerazione dei vincoli comunitari (articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) in materia di aiuti alle imprese.
A partire dal 1989, il processo di privatizzazione ha interessato anche le economie pianificate dell’ex blocco sovietico, che hanno intrapreso un rapido percorso di transizione verso un’economia di mercato. Data la scarsità di risparmio finanziario accumulato in questi Paesi, e in particolare nell’ex Unione Sovietica, tale passaggio ha assunto forme ed esiti peculiari; invece di ricorrere al tradizionale metodo della cessione al migliore offerente, sono stati distribuiti alla popolazione buoni (voucher), liberamente utilizzabili per l’acquisto di azioni. Tale meccanismo ha consentito a coloro che dall’interno controllavano le grandi imprese monopolistiche di divenirne di fatto proprietari, acquistando sul mercato secondario grandi quantità di azioni. Molti settori sono quindi rimasti caratterizzati da un elevato grado di concentrazione e da una scarsa concorrenza.
La teoria economica alla base dei processi di privatizzazione sostiene che le imprese statali, avendo un vincolo di bilancio debole che le preserva dalla possibilità del fallimento, hanno un minore incentivo a perseguire l’efficienza rispetto a quelle private. Tale spiegazione è stata argomentata anche attraverso numerosi studi empirici. J. Karpoff, per es., ha analizzato l’impatto della proprietà (pubblica o privata) sull’efficienza di un’organizzazione (Public versus private initiative in Arctic exploration: the effects of incentives and organizational structure, «Journal of Political Economy», 2001, 109, 11) confrontando costi e risultati delle spedizioni nell’Oceano Artico tra il 1818 e il 1909, discriminati sulla base del finanziamento con fondi pubblici o privati: utilizzando diversi indicatori (naufragi, perdite di vite umane, scoperte ecc.) ha potuto stabilire che le spedizioni finanziate dai privati (57) hanno sempre dato risultati migliori di quelle finanziate con fondi pubblici (35). In particolare, quando si trattava di fondi pubblici, chi li gestiva era portato ad assumere più rischi di quanto sarebbe stato opportuno. Numerosi altri studi hanno confrontato a livello microeconomico la profittabilità e l’efficienza delle imprese privatizzate con quelle che, presumibilmente, si sarebbero registrate qualora fossero rimaste di proprietà statale. Emerge comunque dalle analisi disponibili che gli effetti delle privatizzazioni in termini di benessere dei consumatori sono particolarmente positivi se associati all’introduzione di un’efficace disciplina concorrenziale. Ciò vale in particolare nei servizi di pubblica utilità (energia elettrica, gas, ferrovie, telecomunicazioni ecc.), dove il processo di privatizzazione, accompagnato da un’opportuna separazione orizzontale (ripartizione del mercato tra un certo numero di operatori tra loro indipendenti, per es. generatori o società di distribuzione) e verticale (separazione dell’infrastruttura essenziale, per es. la rete elettrica di trasmissione, la rete ferroviaria, il gasdotto, dal controllo dell’impresa verticalmente integrata), garantisce il rapido sviluppo della concorrenza, riducendo il rischio di comportamenti direttamente o indirettamente escludenti da parte dell’impresa verticalmente integrata e favorendo così l’innovazione e la differenziazione delle produzioni.