Privatizzazione
Privatizzazione delle imprese pubbliche e liberalizzazione dei mercati
Il termine privatizzazione può essere impiegato con numerosi significati e accezioni, trattandosi, in termini lessicali, di una qualunque cessione a un soggetto privato di beni patrimoniali da parte dello Stato o degli enti pubblici territoriali. La nozione che qui verrà sviluppata si riferisce però alla cessione, principalmente attraverso 'offerta pubblica', della proprietà e quindi del controllo di imprese di proprietà pubblica (state-owned enterprises, SOE) che divengono così di proprietà e controllo di privati (private-owned enterprise, POE; la terminologia è stata coniata nel contributo di W.L. Megginson e J.F. Netter, 2001).
Verranno analizzate, al riguardo, le basi teoriche per definire la convenienza economica e sociale di questa trasformazione (riforma) istituzionale, con riferimento alle imprese che forniscono servizi pubblici nazionali e locali, in particolare, alle cosiddette public utilities (PU) come energia, gas, acquedotti, trasporti e telecomunicazioni.
Infatti, p. e regolamentazione sono i modi di essere precipui con cui si estrinseca la profonda riorganizzazione dei mercati delle PU che ha avuto luogo, nel corso degli anni Novanta del Novecento, nei principali Paesi industrializzati (Petretto 2004). La teoria economica, pur riconoscendo il ruolo 'strategico' di ampia diffusione nei processi di consumo e produttivi di tali servizi, vede con favore la loro fornitura senza un intervento diretto della pubblica amministrazione, attendendosi guadagni di efficienza economica da un contesto di competitività dei mercati e p. delle imprese (Armstrong, Sappington 2006). Un intervento pubblico regolatorio diviene, comunque, necessario quando la tecnologia di produzione consente alle imprese privatizzate di conseguire extra-profitti con pregiudizio degli utenti, per cui si raccomandano interventi, oltre che per la promozione e tutela della concorrenza, anche per il controllo dei vincoli tariffari e della qualità. D'altra parte, anche in presenza di imprese pubbliche, un intervento regolatorio è indispensabile dal momento che i manager (e i politici che li hanno nominati) possono essere indotti a perseguire benefici personali monetari e anche non monetari, in termini di potere e consenso, che comunque distolgono risorse a danno degli utenti. Inoltre, sovente accade che la fruizione dei servizi di PU si configuri come un diritto che impone, come si dice, 'obblighi del servizio pubblico universale', i quali prevedono la fornitura di un livello minimo a chiunque senza discriminazioni e interruzioni, a un prezzo accessibile e con qualità determinata. In tali casi, la regolamentazione mediante un organismo indipendente, là di regolamentazione di settore, si auspica anche se le condizioni di mercato sono di tipo concorrenziale (Armstrong, Sappington 2006).
Nel tentativo di superare le incoerenze e la crisi di risultati, a causa di diffuse forme di inefficienza - della configurazione industriale, allocativa e interna - della tradizionale organizzazione industriale delle PU, basata sull'affidamento diretto della gestione dei servizi a imprese pubbliche in condizioni di monopolio verticalmente integrato, è stato concepito e reso operativo, anche grazie alla legislazione europea, un nuovo modello organizzativo, basato, invece, sulla 'separazione' tra governo e imprese (Armstrong, Cowan, Vickers 1994). I principali intenti di questa struttura istituzionale riguardano la liberalizzazione dei segmenti della filiera in cui non vige il monopolio naturale, con un'opportuna 'disintegrazione' verticale, l'apertura dei mercati all'entrata di nuovi operatori, la graduale collocazione sul mercato delle quote azionarie dell'impresa ex monopolista, e, infine, l'applicazione di regole automatiche di dinamica tariffaria nei settori non concorrenziali. Questo nuovo modello, all'interno del quale si è in sostanza sviluppata una parte fondamentale della teoria della p., trae spunto dai risultati della moderna teoria dell'informazione asimmetrica, originata da una serie di contributi pionieristici della prima metà degli anni Ottanta e successivamente estesi, in molteplici direzioni, principalmente da quella che si può denominare come la Scuola francese di Tolosa (v. le rassegne di Laffont, Tirole 1993; Laffont 2000 e 2005; Laffont, Martimort 2002; Bolton, Dewatripont 2005; Armstrong, Sappington 2006).
Nei paragrafi seguenti saranno analizzati i tre filoni teorici più rilevanti per discutere la convenienza economico-sociale della p., basati sul confronto delle performances delle POE rispetto alle SOE. I tre filoni enfatizzano, in primo luogo, la limitata credibilità delle politiche governative in direzione dell'efficienza in un contesto di incompletezza contrattuale, in secondo luogo, i conflitti di interessi tra i livelli di governo nella definizione del valore sociale della produzione, e, infine, il comportamento self-interest dei vari attori istituzionali (elettori, politici, manager, sindacati), secondo l'approccio della moderna political economy (Persson, Tabellini 2000). Poiché l'obiettivo dell'efficienza, pur essendo il più significativo, non è l'unico perseguito con i processi di p., nel paragrafo conclusivo saranno riportate alcune evidenze empiriche sulle performances relative ai diversi obiettivi.
Proprietà pubblica o privata, limiti di impegno e credibilità del governo
Un risultato fondamentale della moderna teoria della impresa afferma che, a certe condizioni, possono applicarsi agli assetti proprietari (governance) le conseguenze del celebre teorema di R. Coase sulla indipendenza di un'allocazione efficiente dalla distribuzione iniziale dei diritti di proprietà.
Le condizioni richieste si riferiscono in particolare alla osservabilità, da parte degli agenti coinvolti, di tutte le variabili rilevanti - ossia costi, produttività, 'sforzo' del manager, risultato di gestione - e alla completezza dei contratti, grazie alla possibilità di contrattualizzare gli impegni e gli obblighi sulle precedenti variabili. Il primo requisito implica l'assenza dei noti fenomeni di selezione avversa e azzardo morale, e il secondo la verificabilità delle variabili da parte di un'istituzione terza, come una corte di giustizia, in grado di far rispettare i termini del contratto stesso (Laffont, Martimort 2002; Bolton, Dewatripont 2005). Pertanto, solo con contratti incompleti ed elevati costi di transazione, differenti strutture di governance possono incidere sulle performances aziendali, modificando l'allocazione dei diritti residuali di controllo e gli incentivi agli investimenti specifici in capitale umano e in conoscenze, per loro natura non verificabili e non contrattabili. Si tratta della cosiddetta teoria dell'impresa di S.J. Grossman, O.D. Hart e J. Moore (poi sempre GHM; Grossman, Hart 1986; Hart, Moore 1990; Gibbons 2005), all'interno della quale deve essere correttamente analizzata la teoria della p. delle SOE.
Al riguardo, il fondamentale della privatizzazione'di D. Sappington e J. Stiglitz (1987), fornisce il benchmark di riferimento analitico, mostrando come, entro la struttura di ipotesi di Coase, gli obiettivi di efficienza produttiva (nel senso della minimizzazione dei costi), equità ed estrazione della rendita del monopolista sono garantiti da una completa delega delle decisioni di produzione a un'impresa privata. Questo risultato - molto forte dato che, di fatto, muove nella direzione di prescindere da una pubblica amministrazione - si ottiene se un certo numero di imprese neutrali rispetto al rischio, simmetriche e non collusive, partecipa a un'asta per acquisire il diritto alla produzione e alla vincitrice è garantito un pagamento a fronte della produzione esattamente pari al valore sociale di questa. Pertanto, è dalla graduale rimozione delle restrittive ipotesi alla base del 'teorema' di Sappington e Stiglitz - contratti generalmente incompleti, costi negoziali spesso proibitivi, avversione al rischio, asimmetria e collusione tra imprese e imperfetta determinazione del valore sociale della produzione - che si sviluppa una teoria del cost-benefit dei processi di p. delle SOE.
In particolare, se alcune grandezze non sono verificabili e quindi contrattabili, il governo può risultare non credibile nella politica di regolamentazione volta al massimo benessere. J.-J. Laffont e J. Tirole (1991 e 1993), per isolare questo aspetto, immaginano un decisore pubblico 'benevolente', ossia non condizionato da alcuna 'agenda' privata, che si dichiara disposto a legarsi le mani, con la p., pur di conseguire il massimo benessere. Si deve realizzare un progetto con un dato valore sociale e un costo osservato ex post dalla proprietà, ma senza distinguere se è determinato da caratteristiche tecnologiche o da specifici comportamenti, forse opportunistici, del manager. Questi può attuare un investimento in capitale umano di natura non recuperabile, con realizzazione e benefici non verificabili. I benefici possono essere interni (a favore del manager), nel senso che questi ottiene un rendimento superiore al costo e può appropriarsi della differenza, oppure, alternativamente esterni (a favore della società), nel senso che l'investimento può essere, una volta attuato, 'assegnato' a compiti diversi, per finalità sociali. Con la proprietà pubblica il manager è incentivato a non effettuare l'investimento, in quanto l'impegno da parte del governo a non espropriarlo ex post non è credibile. Con la proprietà privata invece l'impegno è credibile, dato che gli azionisti non hanno alcun interesse a distogliere l'investimento del manager dalle finalità proprie. L'aumento di surplus che ne deriva costituisce il beneficio della p., mentre il costo è dato dall'introduzione di una 'barriera informativa', che separa il governo dalla proprietà dell'impresa, la quale deve essere pertanto adeguatamente remunerata con uno schema a incentivo. Dal confronto ex ante di questi benefici e costi scaturisce il giudizio sulla convenienza della privatizzazione.
Sempre sulla credibilità del regolatore si sofferma K.M. Schmidt (1996a e 1996b). Un governo benevolente inizialmente decide se detenere (nazionalizzazione) o cedere (privatizzazione) un'impresa pubblica; successivamente, il manager sceglie una variabile di sforzo non osservabile, che dà luogo a un investimento in capitale umano cost-reducing e che influenza la probabilità del verificarsi di due alternativi stati del mondo ('buono' e 'cattivo') per le performances dell'impresa. All'inizio il proprietario e il manager osservano la realizzazione dello stato del mondo, non verificabile all'esterno. Pertanto, nello stadio successivo alla nazionalizzazione, sono il governo e il manager a osservare il relativo parametro, mentre, dopo la p., soltanto il manager lo osserva e il governo conosce solo la distribuzione di probabilità (influenzata dallo sforzo). I vantaggi e i costi sociali della impresa pubblica sono associabili a una maggiore informazione e a una minore credibilità nei comportamenti sanzionatori. Il governo osserva la realizzazione dello stato del mondo (e ciò non costa in termini di rendita informativa); tuttavia, la minaccia di sanzionare il manager tagliando i sussidi e riducendo la produzione (o perfino chiudendo l'impresa) non è credibile: una volta che il governo ha osservato il cattivo stato del mondo (influenzato dallo sforzo) è ottimale 'perdonare' i costi elevati e portare comunque la produzione al livello efficiente dal punto di vista allocativo. Sapendo questo il manager, poiché desidera un alto livello di produzione per motivi di potere (il cosiddetto effetto Niskanen), è incentivato a non contenere costi con adeguati investimenti. I benefici e i costi dell'impresa privata sono, invece, associabili, da un lato, a una maggiore credibilità e, dall'altro, a una minore informazione, quindi alla necessità di riconoscere una rendita al proprietario. La p. risulta, dunque, tanto più conveniente quanto più è importante l'investimento cost-reducing del manager, quanto più elevato l'effetto Niskanen nel 'cattivo' stato del mondo e minore è il beneficio sociale della produzione, per cui non risulta rilevante la distorsione determinata dal meccanismo di incentivazione.
Anche secondo Hart, A. Shleifer e R. Vishny (1997), in un contesto di incompletezza contrattuale alla GHM, la riallocazione dei diritti di controllo, modificando i termini con cui si esplica l'autorità di governo dell'impresa, può influenzarne le performances. Il loro presupposto teorico è che gli investimenti non recuperabili in innovazione di costo e di qualità generano un conflitto: a una riduzione dei costi si accompagna una riduzione della qualità. La proprietà pubblica non incentiva il manager ad accrescere la qualità, e soprattutto a contenere i costi, dato che riceve una frazione limitata dei rendimenti dei rispettivi investimenti. Appropriandosi di una quota maggiore di questi, il manager di un'impresa privata è, invece, indotto a effettuare entrambi gli investimenti: con minori costi e con maggiore qualità (più elevato prezzo) avrà maggiori profitti. Tuttavia, generalmente produce una riduzione 'eccessiva' dei costi a scapito della qualità. Mentre i costi con la proprietà privata regolata sono certamente inferiori, la qualità può essere sia inferiore sia superiore, per cui, per appurare quale assetto proprietario sia dominante, occorre acquisire informazioni su questo secondo aspetto.
Anche T. Besley e M. Ghatak (2001) estendono la teoria GHM allo scopo di considerare la questione proprietaria non tanto di un'impresa quanto di una infrastruttura pubblica. Gli autori, in particolare, dimostrano che, se il valore creato da investimenti effettuati dalle parti è sotto forma di beneficio di un bene pubblico indivisibile, allora il contraente che attribuisce il valore più alto al progetto dovrebbe divenire il proprietario della infrastruttura, indipendentemente dall'importanza relativa degli investimenti e di altri aspetti legati alla tecnologia di produzione. Come esempio del loro modello considerano il caso di una scuola la cui proprietà va a un'organizzazione privata (non governativa, ONG) piuttosto che alla pubblica amministrazione, dato l'alto valore che tale organizzazione, molto attiva in una comunità, attribuisce ai livelli di well-being dei bambini della comunità stessa. La ONG, disponendo di fondi privati, ma non della tecnologia per effettuare gli investimenti (non-contrattabili) che aumentino la qualità della scuola (anch'essa non contrattabile), si affida al governo come investitore, ma trattiene l'infrastruttura acquisendola direttamente tramite un processo di privatizzazione.
Proprietà delle imprese e governi 'non benevolenti'
C. Shapiro e R. Willig (1990) dispongono la struttura decisionale di produzione su tre livelli gerarchici: il Parlamento, il 'ministro' o un'autorità e l'impresa. In caso di impresa pubblica, le informazioni sulla tecnologia dell'impresa e sulle caratteristiche della domanda sono detenute dall'impresa stessa e direttamente osservate dal ministro competente che decide se e quanto investire, nonché il livello di produzione, causa della 'collusione' implicita tra i due livelli decisionali. Le informazioni sui benefici sociali dell'impresa e gli effetti esterni generati dalla sua produzione sono detenuti simultaneamente dal primo e dal secondo livello gerarchico. Il Parlamento è 'benevolente' in quanto persegue la massimizzazione di una funzione del benessere sociale, ma il ministro la corregge sovrapponendo suoi specifici interessi di politico, la cui realizzazione dipende dal grado di discrezionalità a sua disposizione. In caso di impresa privata regolamentata, la funzione di regolatore è invece svolta da un'autorità, non in grado di osservare compiutamente le variabili aziendali. Sono i proprietari che adesso decidono l'attivazione dell'impresa, incentivati da un contratto proposto dal regolatore. Anche gli obiettivi di questo ricomprendono un''agenda' privata, che riflette la capacità del potere politico di condizionare l'azione dell'autorità, quindi il suo grado di indipendenza. Tuttavia, le conseguenze di questa distorsione sono depotenziate, dato che la p. neutralizza la discrezionalità del regolatore, attraverso la concessione di autonomia informativa ai proprietari, una parte non controllata né inserita nel settore pubblico. La 'separazione' tra politica e gestione aziendale viene quindi modellata con la costituzione, anche in questo caso, di una 'barriera informativa', per cui il cost-benefit della p. confronta i costi dell'incentivazione con i benefici della riduzione della discrezionalità dei politici.
Sulla diversa natura del conflitto di interessi tra azionisti e manager, nei due assetti proprietari, si concentra una serie di studi apparsi nella prima metà degli anni Novanta. E.M. Pint (1991) assume che l'impresa pubblica tende a soddisfare in vario modo tutti i suoi stakeholders (utenti, manager e lavoratori), mentre l'impresa privata tende a massimizzare il profitto sotto il vincolo della regola dinamica imposta dal regolatore. Sia l'impresa pubblica sia la privata regolamentata sono x-inefficienti in quanto pervengono a un rapporto capitale/lavoro distorto (a favore del capitale nell'impresa privata e a favore del lavoro in quella pubblica). Tuttavia l'impresa pubblica è inefficiente in misura maggiore, dato che tende anche a offrire, rispetto alla privata, una più elevata rendita informativa al manager sotto forma di spese inutili o sprechi, mentre è relativamente più efficiente dal punto di vista allocativo. Risultati di questo tipo, fondati sulla diversità delle funzioni obiettivo, sono però condizionati dalla struttura ad hoc dei modelli esaminati. G. De Fraja (1993) propone, per es., un modello altrettanto logico in cui il conflitto sugli obiettivi fa sì che l'efficienza produttiva possa essere più elevata in caso di impresa pubblica. Invece, J.E. Roemer e J. Silvestre (1992) mostrano che l'impresa privata regolamentata è sempre superiore all'impresa pubblica, se questa è distorta a favore dei lavoratori più che degli utenti.
Privatizzazione e approccio della political economy
La moderna political economy cerca, come è noto, di fornire le basi teoriche ed empiriche per endogenizzare il ruolo degli agenti coinvolti, a vario titolo, nella politica nei meccanismi di decisione economica. In tema di p. delle SOE, per es., M. Boycko, Shleifer e Vishny (1996) spiegano il concetto di 'agenda' privata dei politici in termini di diritti di controllo sull'impiego di lavoro, argomentando che con la p. si attua una riallocazione di tali diritti dai politici ai manager (v. anche Shleifer 1998). I vantaggi sociali derivano dal fatto che per i politici diviene più costoso, soprattutto in caso di uno stretto vincolo di bilancio pubblico, sussidiare un'impresa privatizzata, affinché sopporti esuberi di manodopera che impiegare a tal fine i profitti di un'impresa pubblica rinunciando a trasferirli al Tesoro. Nel primo caso, infatti, l'assegnazione dei fondi pubblici deve essere contrattata con diversi ministri e non solo con quello responsabile delle entrate.
I.J.A. Dyck (1997), basandosi sull'esperienza della Germania dell'Est, sostiene che i benefici della p. possono essere associati alla formazione di un efficiente mercato dei manager. I processi di liberalizzazione e sviluppo della concorrenza possono essere considerati come veicoli per accelerare i necessari processi di ristrutturazione industriale, sotto forma di riduzione degli esuberi, riqualificazione del personale, acquisizione di tecniche a maggiore intensità capitalistica e controllo di gestione, politiche di marketing e così via. Le possibilità di introdurre tali innovazioni sono condizionate dalla capacità della proprietà di assumere manager forniti dei necessari requisiti, di cui generalmente difettano i manager pubblici. Il governo, nel momento in cui assume manager con compiti di ristrutturazione, agisce, in generale, come un agente non informato, soggetto a selezione avversa, e non in grado di far corrispondere al compenso che offre un'adeguata capacità manageriale. Un processo di p. che preceda la ristrutturazione può consentire di superare questa difficoltà di accesso al mercato dei manager. D. Bös (2000) mette in risalto anche l'azione dei sindacati, modellando la decisione di privatizzare come un gioco cooperativo (tipo bargaining) tra questi, il governo e gli azionisti privati. Tutti i giocatori sono consapevoli che la p. aumenta l'efficienza dell'impresa, ma solo il manager, collegato da un contratto agli azionisti, conosce esattamente le variabili tecnologiche e di domanda rilevanti, per cui volge l'esito a suo favore.
Laffont (2000) propone un modello con due tipi di consumatori-elettori, il secondo dei quali è proprietario delle azioni dell'impresa. La convenienza del decisore politico a privatizzare dipende da quale dei due tipi è maggioranza di governo e dal grado di asimmetria informativa del regolatore nei confronti dell'impresa, e quindi dal livello della rendita informativa da riconoscere al proprietario. Anche B. Biais ed E. Perotti (2002) modellano una società bipolare in cui prevale l'alternanza politica tra due partiti, uno conservatore e uno progressista. La razionalità del processo di p. risiede nel ruolo strategico che questo può svolgere a fini elettorali. Questi autori mostrano, in linea con l'evidenza empirica, che perfino quando gli elettori della classe media sono disponibili a sostenere le politiche redistributive care alla sinistra, una volta che diventano proprietari di un ammontare significativo di azioni di imprese pubbliche privatizzate le loro preferenze si spostano verso il partito conservatore, con politiche più orientate al mercato. Il motivo non è ideologico, ma semplicemente legato al fatto che le politiche redistributive possono deprimere il valore di mercato delle loro azioni. Anche Schmidt (2000) perviene al risultato che le p. tolgono supporto politico alla redistribuzione, ma Biais e Perotti mostrano in più che una 'machiavellica' politica di underpricing induce gli elettori della classe media ad acquistare azioni di società privatizzate e quindi, alla fine, a votare per i partiti di destra. Ancora Laffont (2005) arricchisce il contesto positivo modellando un processo di p. che dipende anche dal grado di corruzione di un Paese: la cessione della proprietà di imprese, specie nei Paesi in via di sviluppo, diviene talvolta l'unico mezzo per ovviare all'incapacità istituzionale di una pubblica amministrazione corruttibile a tenere elevato il livello di efficienza delle SOE.
Obiettivi e performances dei programmi di privatizzazione
Gli obiettivi dei programmi di p. delle SOE sono stati indicati, per quanto riguarda i Paesi industrializzati, nello sviluppo della concorrenza nelle PU, nella riduzione del debito pubblico, nel cambiamento della governance delle imprese nella direzione di una più diffusa proprietà azionaria e nel conseguente ispessimento dei mercati finanziari, talvolta asfittici (Belke, Baumgärtner, Schneider, Setzer 2005). Invece, nei Paesi in via di sviluppo e in transizione si è puntato anche a creare i presupposti per l'avvio di una vera e propria economia di mercato, insieme a una nuova classe imprenditoriale e manageriale, nonché a importare capitali esteri e sanare il debito pubblico ed estero. Il successo dei programmi è stato condizionato, nel primo caso, dall'esistenza di un forte trade-off tra i vari obiettivi e dalla prevalenza di quelli assistiti da una maggiore forza dei gruppi di interesse e sponsor politici. Nel secondo caso, oltre ai trade-off, un ruolo decisivo è stato svolto anche dal timing dei processi di dismissione: i casi di insuccesso più eclatanti hanno coinciso con una cessione intempestiva, ossia non accompagnata alla creazione di un ambiente legislativo e regolatorio adeguato.
Per comprendere come opera il trade-off tra i diversi obiettivi si immagini la cessione di una PU di proprietà del Tesoro, ammettendo che l'obiettivo primario, se pur non esplicitamente dichiarato, sia la riduzione del debito pubblico e quindi l'ottenimento del massimo price-sale possibile. A tale fine, il sistema migliore è la vendita diretta a privati, che vi intravedono consistenti possibilità di profitto in futuro. Ciò è però incompatibile con l'organizzazione di un efficace meccanismo regolatorio che limiti gli extra-profitti e le rendite da posizione di mercato, mediante l'eliminazione delle barriere all'entrata e regole rigide sulla dinamica tariffaria e sul controllo degli standard qualitativi: la minaccia di un'autorità che vigili severamente sull'azienda, una volta privatizzata, limiterà la disponibilità a pagare dei soci privati e quindi l'entrata conseguibile dalla dismissione.
Sull'efficacia dei programmi di p. la ricerca empirica, se pur difficile e complessa dal punto di vista econometrico, basata su metodologie integrate tipo panel interindustriale, ha messo in luce alcune importanti evidenze (Megginson, Netter 2001; Bortolotti, Fantini, Siniscalco 2003). In primo luogo, i programmi hanno in genere effettivamente contribuito nei diversi Paesi alla riduzione del debito pubblico. In secondo luogo, in merito all'obiettivo primario dell'efficienza, la ricerca empirica ha confermato la congettura teorica, evidenziata nei paragrafi precedenti, secondo cui le POE sono generalmente più x-efficienti, ossia più in grado di minimizzare i costi e incrementare la produttività, mentre le SOE risultano mediamente più efficienti dal punto di vista allocativo, ossia maggiormente in grado di avvicinarsi alla regola del prezzo al costo marginale e di adattarsi agli obiettivi plurimi, se pur, come si è visto, non sempre 'legittimi'. In termini dinamici, la ricerca empirica ha poi evidenziato come le imprese dismesse siano, generalmente, divenute nel tempo più efficienti, più profittevoli e solide dal punto di vista finanziario. Inoltre, i programmi di dismissione delle imprese pubbliche hanno in generale effettivamente contribuito allo sviluppo dei mercati finanziari. Gli investitori hanno poi conseguito alti rendimenti, soprattutto rivendendo i titoli una volta sottoscritti.
La valutazione di un processo di riforma istituzionale così rilevante e complesso (liberalizzazione più p. e regolamentazione) non è ancora conclusiva: molta ricerca, teorica, empirica e istituzionale, sembra necessaria. Tuttavia, vi sono molti elementi per affermare che i numerosi programmi di p. portati avanti dalla metà degli anni Ottanta del 20° sec., più o meno in quasi tutti i Paesi, industrializzati e in via di sviluppo, non sia il frutto del prevalere di una concezione ideologica, ma di una condivisa rivalutazione generalizzata del ruolo, anche sociale, della funzionalità dell'economia di mercato; una rivalutazione che appare, peraltro, supportata dai risultati della ricerca economica più rigorosa.
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