Problemi bioetici e alternative etiche
La bioetica è il tentativo di elaborare indirizzi e norme per affrontare i problemi emersi nella medicina contemporanea. Le trasformazioni della tecnologia medica hanno suggerito nuove domande, concernenti scelte relative, per esempio, alla procreazione e al modo di affrontare la morte. Molte di queste domande non trovavano riconoscimento nei codici etici della professione medica; la bioetica si è quindi proposta di riformulare indicazioni per mantenere gli obblighi etici tradizionali di fronte alle nuove situazioni o per trovare nuovi orientamenti morali capaci di dare risposte positive alle nuove domande. Altri problemi provengono dagli sviluppi della genetica che lasciano intravedere la possibilità di intervenire sulla struttura del DNA umano. La bioetica, intesa come etica della qualità della vita, non esclude che la medicina possa in futuro, anche attraverso interventi genetici, migliorare la vita umana e perciò ritiene che si debba affrontare la questione del rinnovamento delle regole morali per permettere il godimento di beni che quegli interventi potrebbero mettere a disposizione.
La crisi della medicina
Fu V.R. Potter a proporre nel 1971 il nome di bioetica con il suo libro Bioethics: bridge to the future. Con quel termine si riferiva a una nuova etica capace di garantire il rispetto dei valori umani, riorientando non soltanto la medicina, ma tutta l'attività di uomini che, dopo la rivoluzione scientifica e industriale, erano diventati una minaccia, "una specie di cancro" per la natura.
Il primo allarme di questo tipo era risuonato con la fine stessa della seconda guerra mondiale quando, dopo il lancio della bomba atomica, un filosofo come K. Jaspers annunciò l'inizio dell'era atomica, caratterizzata dal fatto che scienza e tecnica erano sfuggite al controllo degli uomini. Jaspers riprendeva motivi propri di movimenti che avevano visto un pericolo nelle scienze della natura, soprattutto in quelle fisiche e chimiche, strettamente collegate alla tecnica. Non sempre l'alternativa a quelle forme di sapere fu concepita in modo chiaro e uniforme, ma una delle costanti rimase l'opposizione alla società industriale, ossessionata dall'incremento del benessere materiale, e una delle formule più popolari e ripetute fu il richiamo ai valori umani che la società industriale aveva smarrito o tradito.
Al contrario di molti profeti dell'antindustrialismo, Potter riteneva però che la morale nuova dovesse essere elaborata dalla scienza perché l'istinto, che era bastato a guidare il comportamento umano e a mantenerlo entro i limiti di compatibilità con la natura, ormai non era più sufficiente. Tuttavia non ci si poteva aspettare una nuova etica dalle scienze fisico-matematiche e perciò era necessaria una 'rivoluzione biologica' che partisse dalla scienza della vita. La stessa biologia tradizionale doveva però trasformarsi per affrontare il nuovo compito, accordando le proprie conoscenze con i valori umani. Non solo ne sarebbe derivata la conservazione dell'umanità, ma sarebbe migliorata la stessa qualità della vita: in questo senso per Potter la bioetica doveva essere un'etica della vita che avrebbe ricondotto spontaneamente alla morale una medicina non più succube del sapere scientifico tradizionale. Potter esprimeva anche le apprensioni per le sorti della civiltà occidentale industrializzata, che erano riemerse verso la fine del primo periodo del dopoguerra. Nel corso degli anni Sessanta si era ripreso a parlare dell' esplosione demografica come di un pericolo incombente, perché sembravano falliti i tentativi di controllare la crescita della popolazione nel Terzo Mondo, cioè proprio là dove il rapporto tra popolazione e risorse era più svantaggioso; ma si era anche fatta strada la consapevolezza della distribuzione ineguale delle risorse, che vedeva il mondo industrializzato assorbirne la maggior parte, pur avendo la parte minore della popolazione mondiale. Erano il tipo di vita della società occidentale e il livello dei suoi consumi a costituire una minaccia mondiale: perciò bisognava cambiare il modo di vita, soprattutto della popolazione che viveva nei paesi industrializzati, più che il rapporto quantitativo tra risorse, in particolare quelle alimentari, e popolazione.
Fin dall'inizio degli anni Settanta si affacciò però la tendenza a generalizzare il problema. La tecnologia intensiva dell'industria mondiale tendeva non solo a rendere scarse le risorse in rapporto alla popolazione, ma rischiava di esaurirle e di rendere insostenibile la sopravvivenza delle tecnologie stesse. Al rapporto tra popolazione e risorse si sostituiva quello tra sviluppo scientifico-tecnologico e ambiente. Nel 1972 B. Ward e R. Dubos presentarono una relazione allarmante alla conferenza per l'ambiente organizzata dalle Nazioni Unite, sostenendo che, entro una generazione, la civiltà tecnologica avrebbe raggiunto il punto di rottura. Nello stesso anno veniva fondato il Club di Roma che lanciava la formula dello "sviluppo zero", ritenendo urgente arrestare la crescita dei paesi industrializzati. La crisi petrolifera del 1973 sarebbe apparsa a molti come il primo segno della scarsezza delle risorse energetiche.
Nello stesso anno in cui Potter proponeva la bioetica come una nuova teoria etica, A. Hellegers fondava all'Università di Georgetown il centro di riproduzione umana e bioetica dell'istituto Kennedy. Hellegers, che era un ostetrico, condivideva in parte la prospettiva generale di Potter; tuttavia assegnava alla bioetica soprattutto il compito di affrontare casi clinici, nei quali sono essenziali i rapporti tra medico e paziente, ma occorrono anche competenze multidisciplinari (sociologiche, teologiche, giuridiche e filosofiche) e non è sufficiente una prospettiva puramente biologica.
L'attenzione per il paziente faceva emergere un'altra linea, che aveva determinato la preistoria della bio etica e dava ragione dei contenuti almeno parzialmente diversi presenti nei progetti di Potter e di Hellegers. Come l'avvento dell' era atomica aveva contribuito a sollevare dubbi sulla compatibilità tra il progresso tecnologico e gli equilibri naturali, così le rivelazioni del processo di Norimberga sulle sperimentazioni condotte nei campi di concentramento tedeschi gettarono una luce sinistra su un aspetto apparentemente positivo della medicina moderna, che l'avvicinava agli altri campi del sapere scientifico, cioè sulla sua preoccupazione di andare in cerca di verifiche sperimentali.
Nei campi tedeschi gli esperimenti erano stati condotti su soggetti imprigionati senza garanzie legali; successivamente emerse che anche altrove prigionieri comuni erano stati usati per sperimentazioni o erano stati indotti ad accettarle. Le sperimentazioni rivelate a Norimberga potevano muovere da ipotesi scientifiche infondate o da progetti distorti da ideologie, ma era l'introduzione in medicina di controlli scientifici più rigorosi che induceva a mettere alla prova ipotesi scientifiche e farmaci su un numero significativo di persone. Tuttavia l'interesse per i progressi della conoscenza e per i benefici che sarebbero potuti derivarne si mescolava con la competizione tra scuole mediche e la ricerca di profitto delle industrie farmaceutiche. In questa situazione si poteva essere indotti a sacrificare la libertà e l'interesse delle persone utilizzate in una sperimentazione al progresso del sapere e al beneficio collettivo, quando non al profitto industriale. Sembrava cioè che la sperimentazione medica non potesse non coinvolgere persone, correndo il rischio di strumentalizzarle. Inoltre era chiaro che le leggi, vigenti anche in Germania, non erano bastate a proteggere le persone dagli abusi della sperimentazione e la cosa si sarebbe potuta ripetere se si fosse ammessa la possibilità di privare classi di cittadini della protezione delle leggi. Ciò mostrava la necessità di ricorrere a strumenti normativi diversi dalle leggi positive, utilizzabili per giudicare gli stessi ordinamenti politici e capaci di ispirare linee di condotta a medici e organizzazioni sanitarie. Così si faceva strada l'idea che esistessero diritti anteriori a quelli sanciti dalle leggi positive, che nessun ordinamento positivo avrebbe potuto sospendere e nessuna condizione particolare dei soggetti avrebbe potuto rendere vani.
Il Codice di Norimberga del 1946, la Dichiarazione di Ginevra del 1948 e il Codice internazionale di etica medica del 1949 (documenti che in seguito sarebbero stati ripresi nella Dichiarazione di Helsinki del 1964 e nelle direttive per la ricerca biomedica del Consiglio delle organizzazioni internazionali delle scienze mediche del 1993) delinearono le condizioni alle quali la sperimentazione medica doveva soddisfare: occorreva il consenso espresso da persone libere, cioè in grado di opporre un rifiuto effettivo, alle quali fosse stata data l'informazione sufficiente per decidere. Comunque, in nessun caso si sarebbe potuto proporre sperimentazioni che non procurassero qualche giovamento alle persone coinvolte e sarebbe stato necessario escludere qualsiasi discriminazione nella scelta delle persone sulle quali condurle, proteggendo quelle appartenenti alle fasce più deboli della popolazione. Da questa impostazione derivavano alcune conseguenze importanti per la bioetica: da un lato essa trovava le proprie regole in norme e direttive contenute in documenti internazionali, alle quali non era associata la capacità coercitiva e sanzionatoria propria delle leggi statali; dall'altro si trattava di regole che era difficile applicare direttamente, non solo perché potevano sollevare conflitti con le leggi positive, ma anche perché non era semplice riferirle ai casi concreti che la pratica medica presentava. Per affrontare i problemi che sarebbero emersi da questa nuova impostazione le istituzioni sanitarie avrebbero creato appositi organi, i comitati etici, che avrebbero potuto tener conto delle norme contenute nei documenti internazionali, non sempre recepite nelle legislazioni nazionali. I comitati etici avrebbero introdotto una qualche anomalia negli ordinamenti tradizionali, perché sarebbero stati organi senza potere legale, che avrebbero dovuto intervenire con consigli ed eventualmente con sanzioni morali. Oppure avrebbero esercitato un'azione indiretta, per esempio approvando o disapprovando programmi di ricerca e così condizionandone l'accettazione o il fmanziamento da parte delle istituzioni presso le quali si sarebbero potuti realizzare.
La rivolta contro il medico
Tra il 1969 e il 1974 prese forma negli Stati Uniti un codice dei diritti del malato che, promosso da un'associazione privata, fu poi accettato dall' organizzazione degli ospedali e raccomandato dal Dipartimento federale della sanità a tutte le organizzazioni ospedaliere. La regolamentazione doveva disciplinare non procedure relativamente rare, come gli esperimenti clinici, ma la pratica medica ordinaria e perciò limitava l'autonomia del medico nella sua prassi quotidiana. Negli Stati Uniti ciò accadeva anche perché la medicina pubblica non era presente come negli stati europei e la sicurezza sanitaria era affidata alle assicurazioni private: perciò gli enti ospedalieri, che sempre più spesso dovevano affrontare contestazioni legali da parte delle società assicuratrici, cercavano di coinvolgere i pazienti con la richiesta di un consenso esplicito a esami e terapie, utilizzabile anche in una controversia giudiziaria.
Questo processo, insieme con la disciplina della sperimentazione, trasformava la figura del medico che si era venuta delineando nella tradizione occidentale, minacciando il suo potere di decidere sui trattamenti terapeutici. La scelta fmale spettava al paziente stesso, adeguatamente informato, e il consenso informato diventava la condizione minima alla quale doveva soddisfare qualsiasi pratica medica. Semmai accanto al malato poteva agire un organo come il comitato etico, che era costituito non soltanto da medici, ma anche da giuristi, filosofi, sociologi, psicologi e rappresentanti delle comunità religiose; il peso assegnato alla componente medica era diverso da paese a paese.
Venuta meno l'idea che il medico, forte della propria scienza, disponesse incondizionatamente della fiducia del paziente, e spostato il centro di decisione verso il paziente, si posero nuovi problemi, relativi non a chi (medico o paziente) dovesse decidere, ma su che cosa si potesse decidere. Fino a quando il medico aveva avuto il potere di prendere le decisioni fmali era sembrato che egli fosse vincolato da regole morali capaci di delimitare i suoi poteri, mentre era molto meno facile individuare i confini entro i quali dovevano collocarsi le pretese dei pazienti e i criteri in base ai quali il medico potesse eventualmente rifiutarsi di soddisfarle. Con il riconoscimento dei diritti del malato, il medico non poteva più rivendicare una qualche superiorità, appellandosi alla propria competenza professionale e alla presunzione di conoscere il bene del malato, e gli riusciva anche difficile far valere i limiti morali entro i quali doveva mantenere l'esercizio della professione.
Si ebbe così l'impressione che venisse meno un modo particolare di intendere la posizione del medico, una concezione che fu indicata come 'paternalismo medico', al quale si contrappose un'interpretazione contrattualistica del rapporto tra medico e paziente. In realtà, dal punto di vista storico, l'idea che tra medico e paziente intercorresse una forma di contratto, eventualmente implicito, era piuttosto un ritorno all'antico, perché nella società antica il medico non era una figura pubblica, protetta dalle istituzioni o alla quale era conferita un'autorità. In generale, nelle società tradizionali il medico era un prestatore d'opera al servizio del cliente: questi valutava la sua capacità di ripristinare la salute e la sua lealtà professionale, che avrebbe garantito il paziente contro il pericolo di vedere la vita messa a repentaglio senza il suo consenso o, peggio, per favorire parenti o nemici. Il cliente poteva difendersi dall'incompetenza o dalla frode del medico solo procedendo privatamente contro di lui.
Soltanto alla fine del Settecento la medicina accademica, forte della propria tradizione dotta, riuscì a modellarsi sulle scienze meccaniche e matematiche e a rinnegare il rapporto con le pratiche popolari e tradizionali, che avrebbero potuto rappresentare un'alternativa a quell'impostazione epistemologica. Per realizzarla la medicina aveva cercato di localizzare le malattie, cioè di associarle a lesioni anatomiche, per riclassificarle, senza tener conto della realtà umana del malato, rinchiuso nello spazio preordinato dell'ospedale. Si poteva così ritenere che, assai prima di diventare una forma attendibile di conoscenza delle patologie umane e di intervento utile su di esse, la medicina fosse stata un tentativo di inquadrare la realtà umana patologica separando la da quella normale e di fare degli ospedali non più luoghi di soccorso e di carità, ma vere e proprie barriere tra l'umanità ammalata e quella considerata normale. Nata dall'applicazione diretta dei 'concetti scientifici' ai comportamenti umani, la medicina moderna sarebbe stata fin dalle origini la forma più esasperata di dominio tecnologico sulla società. L'anatomia, strumento indispensabile di quel programma, avrebbe dato al medico un controllo completo sul corpo del malato fino a dopo la morte, quando l'autopsia avrebbe permesso di cercare la lesione che aveva causato la malattia.
Era un modo di ricostruire il percorso attraverso il quale la medicina era diventata una componente importante della vita individuale e collettiva moderna, al servizio degli organi giudiziari e dell'apparato militare, ispiratrice di misure per la lotta contro le malattie endemiche ed epidemiche e di riforme per migliorare l'igiene pubblica: tutte cose che avevano concorso a fare del medico una figura pubblica e a far considerare la medicina una scienza di pubblica utilità. Così il medico era diventato uno degli agenti di controllo della vita sociale, garante del benessere e della vita dei membri della società. Lui solo, con la sua professionalità pubblicamente riconosciuta, poteva giudicare quali fossero le condizioni di vita più favorevoli e vigilare sui doveri imposti alla popolazione per evitare le malattie. In questa prospettiva la cura della malattia smetteva di essere una faccenda privata cui il singolo provvedeva da sé, rivolgendosi al medico di propria iniziativa e seguendone le indicazioni a proprio arbitrio.
Si poteva sostenere che la popolazione avesse doveri da rispettare per evitare malattie socialmente pericolose e che la cura della salute fosse un compito dello Stato: così il medico non rispondeva più direttamente al malato suo cliente, ma diventava responsabile di fronte all'autorità politica. In seguito, la pianificazione dell'assistenza sanitaria e l'industrializzazione della medicina stessa avrebbero contribuito sempre di più a fare del medico un personaggio pubblico e si sarebbe sancita una specie di alleanza tra medicina e morale, che sarebbe stata alla base dei codici deontologici e dell'etica professionale. Tanto più che la trasformazione della medicina in scienza di pubblica utilità poteva accordarsi con l'idea che il cristianesimo aveva ereditato dal platonismo, considerando la vita un luogo di sofferenze, ma anche un dono divino e un percorso lungo il quale l'anima si purifica dal corpo e mette le premesse per una vita fatta solo di soddisfazioni non corporee. In questa prospettiva la conservazione della vita, più che il ripristino della salute, diventava il dovere fondamentale del medico. Rifiutando il primato del medico e rivendicando i diritti del malato si respingeva l'alleanza naturale tra medicina e morale, fino ad arrivare a una vera e propria rivolta contro il medico, che giungeva a mettere in dubbio l'attendibilità della sperimentazione in generale e la legittimità di sottoporre esseri umani a esperimenti: se la sperimentazione senza il consenso delle persone coinvolte presuppone che l'istituzione medica sia capace di scorgere l'interesse generale e possa perseguirlo indipendentemente dalle scelte dei singoli, anche la richiesta del consenso sembra pur sempre presupporre che le persone possano essere considerate come strumenti. Questo sarebbe un segno che la medicina, come in generale la scienza moderna, ha smarrito il senso della giusta gerarchia e, anziché mettersi al servizio degli uomini e delle loro sofferenze, fa dell 'uomo un mezzo per affermare se stessa. Si arrivava così agli stessi risultati ai quali per altre vie si era giunti nella rivolta contro la scienza, partendo dal rifiuto dell' energia atomica e in generale della società industriale. Se nella fase classica dell' età moderna la medicina, fattasi scienza di pubblica utilità, sembrava aver incorporato l'etica della vita, la medicina contemporanea, del tutto dipendente dalla visione meccanica della natura, sotto il pretesto di perseguire il progresso o il benessere collettivo, pretendeva di utilizzare le persone e diventava la forma più radicale di industrializzazione applicata agli stessi esseri umani. La cosa era tanto più grave in quanto nella società contemporanea la medicina, intensamente tecnologica, aveva permeato settori sempre più ampi della vita individuale e collettiva, dando luogo a quello che veniva descritto come un processo di medicalizzazione: si nasce, si sceglie l'alimentazione, si muore con l'assistenza di un medico. Giunta al termine del processo di disumanizzazione e meccanizzazione, la medicina, mentre si era fatta sempre più pervasiva, aveva rotto il proprio rapporto con la morale che aveva incorporato, e le regole etiche tradizionali (etica professionale, codici deontologici, etica medica) non erano più sufficienti: occorreva uno strumento nuovo per riportare la medicina alla morale, intesa come un patrimonio di principi comuni a tutti gli uomini. A questo punto era impensabile rimontare la svolta epistemologica che aveva dato origine alla medicina moderna, anche perché, nonostante il successo della propaganda culturale contro gli orrori della scienza e della tecnica contemporanee, il modello rappresentato dalla fisica e dalla chimica si stava pienamente affermando nella medicina occidentale. Il compito di riportare la medicina contemporanea sotto la morale doveva quindi essere affidato a una disciplina normativa apposita, alla bioetica appunto, che non poteva certamente essere la nuova etica scientifica di cui parlava Potter, ma neppure un semplice aggiornamento dei codici deontologici e dell'etica professionale.
L'inizio della vita
Una volta riconosciuto che la medicina non tende di per sé a realizzare fini moralmente buoni, si poteva sperare che credenze e regole morali comuni a tutti gli uomini potessero imporsi ai tecnici della medicina attraverso il diritto, riconosciuto al paziente, di far valere le proprie scelte personali. Tuttavia proprio la difesa dei diritti del malato doveva mostrare che le cose non stavano così. Erano gli stessi fruitori della medicina che, in nome dei propri diritti, favorivano la medicalizzazione, pretendendo che i medici li assistessero nella contraccezione, nell'interruzione della gravidanza, nella cura della sterilità, nella pratica dell'eutanasia: tutte prestazioni un tempo vietate o abbandonate alla medicina popolare, poste comunque al di là di quelli che erano sembrati i limiti etici della medicina moderna. Gli stessi comitati etici, che nascevano dalla constatazione dell'insufficienza delle istituzioni etiche tradizionali, non potevano più essere intesi come strumenti per riportare la medicina sotto il controllo della morale, ché anzi dovevano affrontare situazioni nuove generate dalle trasformazioni interne della medicina e dagli atteggiamenti dei suoi utenti.
La questione dell'aborto fu una delle prime questioni nelle quali emerse la consapevolezza che si era determinata una situazione nuova. In gran parte delle legislazioni occidentali moderne l'aborto era proibito; oltre al discredito professionale e sociale che avrebbe colpito chi lo avesse praticato, erano anche previste pene severe. Si trattava però di prescrizioni relativamente recenti e collegate all'acquisto di uno status accademico da parte dei medici. Infatti l'aborto era stato spesso affidato ai praticanti non ufficiali della medicina, soprattutto alle donne, e proprio a opera di donne o di medici spesso ai margini della medicina ufficiale continuò a essere largamente praticato, anche quando venne escluso dagli interventi medici consentiti. Nel mondo antico l'aborto era una pratica diffusa e non condannata: soltanto l'aborto procurato in seguito ad aggressioni era punito, ma perché era considerato un danno arrecato a una donna o alla sua famiglia. Da questo punto di vista la pratica greca e romana non era diversa da quella delle civiltà orientali, ebraiche o cristiane. Solo nel cosiddetto giuramento di Ippocrate si prescriveva al medico di non fornire alla donna nessun mezzo che provocasse l'aborto, ma quel giuramento era probabilmente un corpo di regole per un gruppo ristretto di medici antichi, forse di ispirazione pitagorica.
La condanna dell'aborto, che si introdusse nel cristianesimo, mirava a difendere più l'intangibilità dell'anima, opera di Dio, che la vita: infatti non condusse a una proibizione assoluta dell'interruzione della gravidanza, perché si riteneva che l'embrione non fosse 'animato' nella prima fase della sua vita. Tommaso d'Aquino supponeva che solo movimenti autonomi potessero provare la presenza dell'anima e credeva che soltanto dopo quaranta giorni per i maschi e ottanta per le femmine il feto fosse in grado di muoversi da sé. Questa impostazione dipendeva dall'assunzione che tutti i movimenti spontanei derivino dall'anima e che sia l'anima a dare forma umana al corpo. Una volta abbandonata quella concezione del movimento e riconosciuto che l'embrione ha caratteristiche umane prima che gli si possano attribuire movimenti spontanei, la dottrina cristiana escluse la liceità degli aborti precoci e sostenne che l'aborto era un autentico omicidio fin dal concepimento. Nel Novecento la condanna assoluta dell'aborto fu sancita con rigore nella dottrina ufficiale cattolica ed è stata recentemente ribadita con il decreto Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, con l'enciclica Humanae vitae di papa Paolo VI e con la Dichiarazione sull'aborto procurato della Congregazione per la dottrina della fede del 1974. Questa posizione è stata più volte ribadita anche da papa Giovanni Paolo II.
Nell'Ottocento anche le legislazioni civili introdussero il divieto di abortire prima della supposta capacità del feto di muoversi da solo. Infatti i medici laici, sicuri delle basi scientifiche della propria competenza, ritenevano impraticabile l'animismo tomistico e si vantavano di considerarsi eredi di Ippocrate e del suo giuramento, che sembrava garantire affidabilità e correttezza alla medicina. Ancora nel 1948 l'Associazione medica mondiale riprendeva il giuramento ippocratico e sanciva l'obbligo di rispettare la vita umana "fin dal suo concepimento". Alla base di questa impostazione vi erano non soltanto i risultati dell'embriologia moderna, ma anche la convinzione che la medicina fosse un servizio a favore della vita. Si incominciò a considerare l'aborto in modo del tutto diverso quando in esso si vide non tanto un modo per liberarsi da una gravidanza o da una nascita indesiderate, quanto una misura per fronteggiare un pericolo sanitario preciso. La proibizione religiosa dell' aborto non teneva conto dei pericoli ai quali gravidanza e parto potevano esporre le donne: queste semmai dovevano essere pronte a sacrificarsi per favorire la nascita di un figlio. Tuttavia poteva accadere anche il contrario, cioè che la madre volesse sacrificare la propria maternità per non mettere al mondo un figlio malato. Questa circostanza si presentò, in modo uniforme e generalizzato, quando in molti paesi si diffuse l'uso della tali domi de, un tranquillante prescritto alle donne gravide, e si scoprì che quel farmaco poteva provocare gravi malformazioni.
Nel 1967 la Gran Bretagna ammise l'aborto se praticato da un medico allo scopo di prevenire danni alla salute fisica o mentale della donna o di un bambino già presente nella famiglia o nel caso vi fosse un pericolo reale che nascesse un bambino gravemente minorato. L'unica condizione era che l'aborto non comportasse pericoli più gravi degli eventuali vantaggi. Negli Stati Uniti diversi stati incominciarono ad ammettere l'aborto per tutelare la salute della donna, evitare la nascita di bambini menomati o per permettere l'interruzione di gravidanze dovute a incesto o violenza. Infine la Corte suprema, con la sentenza del caso Roe contro Wade, sancì la costituzionalità del diritto di aborto. Di fatto il ricorso a questa pratica si diffuse via via che la medicina, con la diagnosi prenatale, diventava sempre più capace di prevedere anomalie del nascituro.
Con la sentenza citata, la Corte suprema degli Stati Uniti ammetteva che lo stato ha interesse per la vita potenziale del feto, ma stabiliva che fino a quando il feto non diventa 'vitale' il diritto della donna alla privacy prevale sull'interesse dello stato. La sentenza suscitò vivaci reazioni soprattutto in quello che si presentò come 'movimento per la vita', che vide in essa un sostanziale disinteresse per la protezione del feto e della maternità e il conferimento di un'indebita preferenza al diritto della donna, ma ripropose anche il problema dell'inizio di una vita che potesse essere considerata propriamente umana: si rischiava così di tornare alla teologia tomistica e di aprire una discussione sul momento in cui il feto diventa vitale. A complicare il problema dell'aborto intervenne la fecondazione artificiale. Nel tentativo di curare la sterilità si giunse a fecondare una donna non soltanto introducendo artificialmente spermatozoi nel suo corpo ma (1978) fertilizzando un uovo in vitro e poi inserendolo nell'utero di una donna. Si aprivano così nuove prospettive mediche, ma si ponevano anche nuovi problemi. Si potevano ottenere embrioni fuori dal corpo femminile e occorrevano regole per stabilire come trattarli. Le difficoltà erano aumentate dal fatto che, per avere una percentuale di successo, bisognava produrre più embrioni di quelli da impiantare (i cosiddetti embrioni soprannumerari) e occorreva stabilire dei criteri per decidere che cosa fame. Si sarebbe potuto crioconservarli per ulteriori impianti in altre donne, oppure su di essi si sarebbero potuti condurre esperimenti utili per conoscere meglio lo sviluppo dell'embrione destinato all'impianto o per fini scientifici generali. Ma si sarebbe potuto sostenere che è lecito anche produrre embrioni non per impiantarli, bensì per sottoporli a esperimenti. Tutto ciò presupponeva che su un embrione si potessero fare cose che non sarebbe stato lecito fare su una persona. Si acuì così il problema dello statuto dell'embrione, che imponeva di rispondere alla domanda, "che cos'è un embrione?", domanda che sembrava sollevare questioni biologiche, etiche e giuridiche.
Si poteva sostenere che l'embrione, quale risulta dalla fusione dei gameti, ha carattere umano e perciò deve avere la medesima protezione degli esseri umani, una protezione che deve essere identica dalla fecondazione alla morte, anche perché il patrimonio genetico resta costante. Contro questa posizione si è obiettato che la comparsa dell' embrione non coincide con la fecondazione, perché dalla penetrazione dello spermatozoo ne II 'ovocita alla fusione dei gameti passa più di una ventina di ore. Inoltre la probabilità che da un embrione nasca un essere umano non è tanto maggiore della probabilità che da ovociti e spermatozoi nasca un embrione e poi un essere umano. Perciò se l'uguaglianza della protezione da accordare a un individuo adulto e a un embrione si fonda sulla continuità del processo che porta da questo a quello, si pone il problema di estendere quella protezione anche al materiale genetico umano preembrionale. Infine l'embrione possiede nella fase iniziale proprietà che lo distinguono nettamente da un essere umano già nato: dapprima le sue cellule sono totipotenti, cioè da ognuna di esse può derivare una cellula di qualsiasi tipo, poi dallo stesso embrione possono derivare due o più gemelli, geneticamente uguali. Tutte cose che non possono accadere agli individui già nati. L'ultima possibilità viene meno verso il quattordicesimo giorno dalla fecondazione, dopo il quale lo sviluppo dell' embrione sembra procedere con continuità verso la formazione di un individuo adulto, incapace di scindersi in due o più individui uguali. Si è così profilata la possibilità di attribuire individualità all'embrione dopo il quattordicesimo giorno, chiamando eventualmente preembrione l'entità che si è sviluppata fino a quel momento.
La protezione morale e giuridica piena è normalmente accordata alle persone e, supposto che soltanto esseri umani possano essere persone, è difficile attribuire personalità a materiale genetico, solo perché è umano, o a un'entità considerata un individuo umano, solo perché dotata di un patrimonio genetico destinato a rimanere costante nel tempo. Nella cultura giuridica e filosofica erano disponibili interpretazioni del concetto di persona già profondamente diverse tra loro, ma questa differenza è diventata vera contrapposizione quando esse sono state utilizzate per risolvere i problemi posti dalla necessità di definire lo statuto dell'embrione. Le soluzioni ispirate a credenze religiose hanno considerato la nozione di persona come un sostituto della nozione di anima e ne hanno fatto una proprietà inerente all'embrione, in quanto sede dell'anima. Chi ha assunto una posizione di questo genere ha talvolta ammesso la possibilità di discutere se la persona si formi immediatamente o sopravvenga quando l'embrione ha perduto la possibilità di dar luogo a gemelli monozigoti. La teologia cattolica si è rifatta volentieri a Boezio e ha considerato la persona una "sostanza razionale", che si manifesta in atto nell'individuo completamente formato, ma che può essere in potenza anche nell' embrione subito dopo la fecondazione. Alle interpretazioni sostanzialistiche della persona si sono contrapposte quelle funzionalistiche o relazionali, secondo le quali essa è non una proprietà permanente e costante di un soggetto, ma un insieme di relazioni o l'esercizio di funzioni. Pertanto non sempre un individuo è una persona, e contenuto e grado della personalità possono variare, anche nella vita di un medesimo individuo.
La comparsa dell'embrione come oggetto di pratiche mediche poneva il problema della tutela di soggetti non capaci di scegliere, un problema già incontrato nella pratica del consenso informato che si era configurato come una forma di tutela del paziente nei confronti dell'autoritarismo e del patemalismo medico e, in generale, dei soggetti deboli nei confronti di soggetti dominanti. Ma con la piena assimilazione dell'embrione alla persona umana si privavano la madre o entrambi i genitori, persone in grado di formulare perfettamente il consenso, della possibilità di esprimerlo. In realtà le proibizioni assolute o quasi assolute dell' aborto miravano a tutelare non soggetti deboli, ma la vita umana in generale che, considerata sacra, doveva essere per il medico un bene supremo e per il credente un dono di Dio. La considerazione dell'embrione e del nascituro passava talmente in secondo piano che gli si attribuiva una preferenza costante per la vita, quali che potessero essere i modi nei quali avrebbe dovuto viverla.
La fine della vita
Sul concetto di vita dovevano avere conseguenze importanti alcune decisioni giudiziali, sollecitate da quelli che si potevano chiamare i 'successi' della medicina contemporanea, cioè dalla possibilità di mantenere in vita persone irreversibilmente prive della capacità di respirare da sole o persone in possesso dei meccanismi automatici come la respirazione, ma irreversibilmente prive di coscienza e non più capaci di nutrirsi o di bere (v. anche il saggio di M.A.M. De Wachter, La fine della vita).
Nel 1976 la Corte suprema del New Jersey sentenziò che, in base al diritto costituzionale alla privacy, la famiglia di Karen Quinlan, una paziente non più in grado di respirare da sola, poteva chiedere l'arresto dell'apparato per la ventilazione forzata, considerato un mezzo artificiale di sostegno alla vita, senza rendersi colpevole di omicidio intenzionale. Invece nel 1983 la Corte suprema del Missouri negò ai genitori di Nancy Cruzan l'autorizzazione a rimuovere il tubo di alimentazione, perché Nancy era in possesso delle funzioni vegetative, ma non era in grado di esprimere le proprie preferenze, e lo stato si attribuiva un interesse a preservare la vita dei cittadini. La sospensione dell' assistenza medica fu ammessa solo otto anni dopo, perché qualcuno disse di ricordare che la stessa Cruzan l'avrebbe voluta. Invece i giudici inglesi tennero conto dell'unanime opinione dei medici, secondo i quali Tony Bland, che nel 1989 aveva riportato la distruzione della corteccia cerebrale durante un incidente sportivo ed era in stato vegetativo persistente, non aveva più nessun tipo di consapevolezza e non vi era nessuna possibilità di un miglioramento delle sue condizioni. l giudici affermarono che, quando un paziente è incapace di esprimere il proprio consenso al trattamento, i medici non hanno nessun obbligo giuridico di insistere in iniziative che sanno non essergli di nessun giovamento e possono assicurargli soltanto la continuazione della vita biologica senza nessun altro beneficio. l giudici americani riportavano la procedura medica alle decisioni del paziente, che ha la piena disponibilità della propria salute e che deve sempre poter esprimere il consenso agli interventi sanitari. Invece i giudici inglesi si rimettevano al parere del medico, che deve giudicare se la vita di un paziente, non più in grado di decidere, abbia prospettive accettabili o costituisca una minaccia per la sua dignità. Nel primo caso si profilava la possibilità di legalizzare il suicidio, riconoscendo la piena disponibilità del paziente sulla propria vita. Nel secondo si poteva aprire la strada all'eutanasia, autorizzando i medici ad affrettare la morte di pazienti irrecuperabili. Per evitare questi esiti si è utilizzato il concetto di accanimento terapeutico, che consiste nella prosecuzione ingiustificata di cure senza prospettive di guarigione e con il rischio di aggravare le sofferenze dei pazienti. Evitare l'accanimento terapeutico non significherebbe abbreviare artificialmente la vita, ma lasciare semplicemente che la natura faccia il proprio corso; per questo anche Chiese e organizzazioni o movimenti religiosi hanno accolto questo concetto.
Poiché i trattamenti di mantenimento in vita sono quasi sempre praticati quando il paziente non è più in grado di decidere, si sono escogitati documenti nei quali i cittadini possono dare, in qualsiasi momento e prima di entrare nella fase terminale della vita, istruzioni sulle terapie alle quali desiderano essere, ma soprattutto non essere, sottoposti. Queste iniziative si propongono di assicurare il diritto di autodeterminazione del cittadino e di rimettere a lui, e non al medico o al giudice, la scelta del modo di morire. Esse hanno avuto successo soprattutto negli Stati Uniti, tanto che nel 1991 una legge federale ha riconosciuto la possibilità di sottoscrivere una direttiva anticipata, chiamata anche testamento di vita, nella quale una persona può indicare i modi nei quali vorrebbe essere curata se dovesse entrare nella fase terminale di una malattia incurabile e dovesse perdere la capacità di esercitare le proprie scelte. Nel 1992 una misura del genere è stata introdotta in Danimarca e l'associazione inglese dei medici ha invitato i propri associati a tener conto delle indicazioni dei pazienti. Negli Stati Uniti le direttive anticipate vengono richieste sempre più spesso dalle istituzioni sanitarie, ma anche nei paesi nei quali esse non hanno avuto riconoscimenti legali si è sviluppata un'ampia letteratura bioetica in proposito e sono stati proposti modelli di direttive nei quali si chiede che non solo non vengano applicate misure straordinarie, ma che non si proceda neppure all'idratazione e alla nutrizione, se non nella misura richiesta per evitare sofferenze, che non si curino malattie secondarie e che si proceda a interventi palliativi anche se possono abbreviare la sopravvivenza. Per contrastare quella che considerano la componente eutanasiaca delle direttive anticipate di ispirazione laica e per ribadire il semplice rifiuto dell'accanimento terapeutico, inteso come l'adozione di terapie sproporzionate, i movimenti cattolici hanno presentato modelli propri di direttive anticipate, nei quali si chiede che la vita non sia prolungata in modo innaturale e irragionevole e si rifiuta esplicitamente l'eutanasia.
Quando nel 1967 C. Barnard fece il primo trapianto cardiaco, presso l'Università di Harvard si era già incominciato a discutere sulla defmizione di morte, ma dopo quell'intervento una commissione di quell'università propose di considerare morte le persone in coma irreversibile. Autorizzando il prelievo da persone il cui cuore battesse, si favoriva il buon esito delle operazioni e si faceva anche aumentare il numero degli organi disponibili. La commissione di Harvard presentò quella che chiamava morte cerebrale come il risultato dell'applicazione degli strumenti di accertamento disponibili alla medicina moderna che non aveva più bisogno di constatare l'arresto delle funzioni cardiorespiratorie e nervose con i mezzi tradizionali, ma che avrebbe potuto servirsi di apparecchi come l'elettroencefalografo per accertare la fine irreversibile delle funzioni cerebrali necessarie al mantenimento delle funzioni vitali. Nel 1981 le conclusioni della commissione di Harvard furono accolte da una commissione del presidente degli Stati Uniti, quando già la nuova definizione di morte era entrata nelle leggi di molti paesi, di parecchi stati degli Stati Uniti e in Gran Bretagna era stata adottata direttamente dai medici senza molte formalità.
Etica della vita ed etica della dignità
Anche coloro che fanno del concepimento un punto di inizio preciso della vita umana, accettando i concetti di morte cerebrale e di accanimento terapeutico e la liceità delle cure palliative, finiscono con il dare un significato meno univoco alla locuzione 'fine della vita'. Infatti è diventato sempre più difficile distinguere tra morte artificiale e morte naturale, soprattutto da quando la fase terminale della malattia si svolge quasi totalmente sotto il controllo del medico e le tecniche di rianimazione hanno reso incerto il confine tra la vita e la morte. Vi è già chi considera il concetto di morte cerebrale il punto di partenza per un'ulteriore trasformazione dell'idea di morte: poiché si può diagnosticare la perdita irreversibile delle funzioni della corteccia cerebrale, una perdita che permette la continuazione delle funzioni vitali automatiche ma impedisce l'esercizio della coscienza, si potrebbe parlare di morte corticale, perché mantenere in vita pazienti privi di corteccia non avrebbe più senso che mantenere in vita pazienti a cuore battente con l'assistenza di apparecchiature.
Anche chi nega la disponibilità della vita nel suo momento iniziale, considerato un termine rigido, è portato ad ammettere che gli interessati possano decidere, magari con un documento compilato prima di perdere le proprie capacità, in merito alla fine della propria vita. È difficile misconoscere la liceità del non curarsi affatto, ma l'accoglimento del concetto di accanimento terapeutico e il riconoscimento delle cure palliative hanno introdotto, anche in posizioni bioetiche conservatrici di ispirazione religiosa, l'idea della possibilità di scegliere in qualche modo la fine della propria vita. Lo sviluppo più radicale di tale questione ha condotto ad asserire la piena disponibilità della propria vita, un'idea che pone il problema del suicidio. Questo comportamento è stato depenalizzato nelle legislazioni moderne, che però considerano un reato aiutare un suicida a compiere il proprio gesto. Eppure da più parti si è incominciato a sostenere che l'assistenza medica a un suicida non è diversa dall'intervento con il quale un medico pone fine alle sofferenze di un malato terminale interrompendo i trattamenti terapeutici e si sono trovati medici che hanno dichiarato di aver prestato la loro opera in questi casi o di essere disposti a farlo. Esperienze di questo genere si sono realizzate, o hanno tentato di realizzarsi, in misura diversa negli Stati Uniti, in Australia, in Colombia e soprattutto in Olanda. Tuttavia, nel corso del 1997 la Corte suprema degli Stati Uniti ha dichiarato che il suicidio assistito non è incondizionatamente costituzionale, come avevano sostenuto tribunali distrettuali e corti di appello e come pretendevano medici, pazienti e filosofi. La Corte suprema ha riconosciuto che lo stato ha interesse a tutelare la vita dei cittadini e può restringere il diritto all'assistenza medica ai suicidi, ma non ha escluso di poter tornare sulla questione se casi concreti sollevassero il dubbio di incostituzionalità sulle eventuali normative statali. Anche i filosofi che hanno perorato la legittimità del suicidio assistito presso la Corte suprema degli Stati Uniti hanno sostenuto che esso deve avere funzioni di eutanasia, mentre non si può ammettere che un medico aiuti chiunque a togliersi la vita.
Le incertezze relative al momento iniziale e a quello finale della vita hanno reso difficile sostenere il principio della sacralità della vita formulato in termini puramente biologici. Infatti si è cercato di riformulare quel principio senza riferirlo a precise realtà biologiche o a interpretazioni della persona come sostanza razionale: si è cercato, cioè, di conservare il concetto di sacro come strumento con il quale far valere una protezione forte, ma di ride finire il suo oggetto. Sacri sono non tutti gli aspetti della vita, ma quelli che derivano da scelte profonde, che danno dignità alla vita, e la dignità può essere l'oggetto protetto dal carattere sacro riconosciuto alla vita. Il malato demente che esprime soddisfazione per la propria esistenza non conduce però una vita dignitosa e, se prima dell' offuscamento delle sue facoltà aveva scelto di non vivere la fase terminale della vita in quelle condizioni, queste sono le sue decisioni autentiche. Così chi pretende dal medico assistenza in un suicidio passionale non agisce in base alle capacità che sono il presupposto della sua dignità umana.
Qualcosa del genere si poteva dire anche per l'inizio della vita: aborto o fecondazione assistita non sono semplici manipolazioni di materiale biologico, eventualmente vivente, né atti con i quali si dispone arbitrariamente della vita altrui; si tratta piuttosto di scelte che muovono da concezioni, principi morali, modi di vita di chi li assume. È inevitabile che in queste situazioni gli uni intervengano nell'esistenza degli altri e talvolta prendano decisioni alloro posto, ma per valutare questi interventi bisogna esaminare se essi siano rispettosi della dignità degli altri e soprattutto dei soggetti per i quali si sceglie.
L'etica della dignità è assai più antica dell' etica della vita, propria di molte credenze religiose e incorporata dalla medicina moderna. Quell'etica supponeva che gli uomini dirigessero i propri comportamenti in base a una concezione del bene e a una visione globale della vita: un'eredità della tradizione filosofica secondo la quale l'uomo è un essere razionale, cioè un essere sensibile a motivazioni diverse dagli stimoli immediati. Tuttavia, mentre l'etica filosofica classica dava un contenuto fisso al bene, alla visione corretta della vita e alla razionalità, l'etica della dignità, nella versione moderna e contemporanea, considera la razionalità una funzione a contenuto variabile, che può generare piani morali disparati. Essa rifiuta perciò uno dei postulati dell' etica della sacralità della vita, secondo la quale la vita si esplica compiutamente nelle forme tradizionali di organizzazione familiare e sociale e va accettata con le sofferenze che essa contiene. Proprio perché fa della razionalità una struttura flessibile, l'etica della dignità ammette che si possano operare scelte differenti (di accettazione, rifiuto o correzione) nei confronti degli aspetti biologici della vita, delle sofferenze alle quali essa espone e delle strutture familiari e sociali nelle quali si esplica. Per l'etica della vita l'autonomia è soprattutto un modo per sottrarre tutto ciò che è umano, dal concepimento alla morte, al dominio della concezione naturalistica del mondo e all'azione della tecnica, mentre per l'etica della dignità è la possibilità degli uomini di determinarsi da sé, anche utilizzando scienza e tecnica e anzi facendone strumenti per ampliare il ventaglio delle possibilità di determinazione.
La conoscenza dei dati genetici
La nozione che la salute dipendesse in parte dalla struttura naturale immodificabile degli individui, ereditata dai genitori, era diffusa perfino nella cultura popolare e in parte orientava le scelte matrimoniali, soprattutto nelle società tradizionali, nelle quali l'appartenenza familiare era un elemento importante per valutare il partner procreativo. La scienza contemporanea ha potuto ricondurre alcune gravi malattie, delle quali si è ammalati fin dalla nascita o che si sviluppano a un certo momento della vita e indipendentemente dai rapporti ambientali, ai geni, cioè ai componenti fondamentali del patrimonio genetico. Nelle persone malate alcuni geni appaiono diversi rispetto a quelli delle persone sane; tali geni possono essere presenti anche in persone che, non ammalate esse stesse, li potrebbero trasmettere ai propri discendenti. l geni responsabili di malattie si possono perciò rintracciare in gruppi familiari, nei quali alcuni membri contraggono tali malattie.
La conoscenza diretta della possibilità di trasmettere geni responsabili di malattie ha posto nuovi problemi: da un lato ha aperto la possibilità di fare scelte procreative informate, come astenersi dal procreare oppure ricorrere all'aborto o alla fecondazione assistita con uovo o sperma di un donatore il cui patrimonio genetico non comporti rischi; dall'altro ha stimolato la ricerca di un nuovo tipo di terapia. Infatti, in linea di principio, è possibile sostituire o correggere i geni, responsabili di malattie o di predisposizioni a malattie, nelle cellule del corpo di una persona, dove essi esercitano la loro funzione di controllo delle reazioni biochimiche. Un intervento di questo genere si propone di sostituire o correggere i geni responsabili di malattie nelle cellule di un individuo nelle quali esse si manifestano. Perciò l'individuo sottoposto a terapia genica somatica potrà trasmettere ai propri figli i geni che la cura ha alterato in alcune cellule del suo corpo.
Gli interventi sui geni potrebbero essere considerati come una forma di eugenetica, cioè come il tentativo di selezionare individui in possesso di determinate qualità, come l' assenza di certe malattie o la resistenza ad altre. Sono scelte eugenetiche implicite anche le 'normali' strategie procreative tradizionali, che non presuppongono la conoscenza del patrimonio genetico dei partner generativi, ma passano attraverso le loro caratteristiche fenotipiche. l meccanismi di queste scelte sono complicati e non sono stati esplorati in profondità. Alla lunga essi mirano all'adattamento all'ambiente, ma questa condizione è molto indeterminata, anche perché l'ambiente è una realtà piuttosto complessa. L'ambiente sociale agisce fortemente sulle scelte riproduttive, sia introducendo filtri nelle scelte dei partner riproduttivi, sia garantendo la sostenibilità di scelte svantaggio se dal punto di vista puramente biologico. In questo senso l'organizzazione sociale, il progresso tecnologico e la medicina tradizionale hanno permesso il mantenimento di malattie genetiche o a forte componente genetica.
Indipendentemente da interventi correttivi diretti sul patrimonio genetico, le conoscenze genetiche già ora disponibili, e quelle che lo saranno in futuro, potrebbero permettere di correggere parzialmente le ripercussioni negative della selezione sociale sulla selezione naturale. La conoscenza del patrimonio genetico dei partner riproduttivi e le diagnosi prenatali consentono infatti scelte procreative mirate a escludere la nascita di persone ammalate o destinate ad ammalarsi e la fecondazione assistita può diventare uno strumento importante di eugenetica negativa. In essa rientrano anche gli interventi puramente terapeutici sulle cellule somatiche operati per escludere geni responsabili di patologie, che infatti sono generalmente considerati moralmente accettabili. Interventi analoghi sulle cellule germinali potrebbero escludere determinati geni non dalle cellule degli individui, ma dal patrimonio genetico umano. Un progetto di questo genere, realizzato su larga scala, potrebbe condurre a risultati irreversibili per la specie umana. Per ora, se la terapia genica somatica è difficile, quella germinale è tecnicamente impossibile. Tuttavia di per sé l'esclusione, il più possibile estesa ed eventualmente definitiva, di geni portatori di malattie dal patrimonio genetico umano dovrebbe essere considerato un fatto del tutto positivo, il coronamento del tentativo che ha animato il Progetto genoma, di esplorare il patrimonio genetico umano in primo luogo per ricostruire un quadro dei fattori genetici delle malattie. Invece la terapia genica germinale ha suscitato riserve etiche; è sembrato rischioso eliminare definitivamente certi geni dal patrimonio genetico fino a che si dispone di una conoscenza incompleta di tutte le funzioni di ciascun gene e delle interferenze tra geni diversi. In queste condizioni si potrebbe correre il rischio di eliminare geni importanti per l'esercizio di funzioni positive o che potrebbero rivelarsi importanti in situazioni per il momento imprevedibili.
Riserve ancora maggiori suscita ovviamente quella che costituirebbe una forma di eugenetica positiva, cioè l'utilizzazione della terapia genica non per curare malattie genetiche sicuramente riconosciute, ma con scopi 'migliorativi', per potenziare prestazioni normali che, come l'intelligenza, la memoria, la forza fisica, la bellezza e così via, si trovano in gradi diversi presso tutti gli individui. Si tratta di funzioni che non è facile descrivere in modo accurato ed è ancora meno facile stabilire un loro collegamento con i geni. È probabile che un collegamento vi sia, ma è anche probabile che i geni determinino parti o aspetti dei comportamenti complessi, nei quali comunque operano più geni. In questo caso il nesso tra le diverse funzioni di un gene e tra le diverse funzioni di geni diversi è ancora meno noto che nel caso delle malattie. A parte la fattibilità tecnica di interventi di questo genere, è probabile che per molto tempo sarà difficile conoscere esattamente le conseguenze di un intervento 'migliorativo' e anche giudicare sicuramente migliorativi certi interventi piuttosto che altri. I problemi sarebbero ancora maggiori se quegli interventi avvenissero sulle cellule germinali.
Contro la prospettiva, anche soltanto teorica, di elaborare progetti eugenetici fondati sulla conoscenza e l'alterazione del genoma si è invocato il principio di responsabilità, che prescrive di astenersi dalle operazioni delle quali non si conoscono le conseguenze. I tentativi di modificare il patrimonio genetico sono tipiche imprese di questo genere, perché non si conoscono né la struttura completa del genoma né le ripercussioni che la sua modificazione, anche soltanto parziale, può avere sulle interazioni tra gli individui e l'ambiente. Questo principio presuppone che esista una sfasatura tra interventi tecnicamente possibili e conoscenza delle loro conseguenze, una sfumatura che è propria del momento che sta vivendo la genetica e che potrebbe accentuarsi in futuro. In queste condizioni il principio di responsabilità può essere una regola utile per disciplinare i tentativi di utilizzare le tecniche genetiche in interventi dei quali non si conoscano le conseguenze in misura sufficiente. Quella sfasatura potrebbe essere destinata a permanere, in modo da escludere l'ammissibilità di un certo numero di applicazioni della tecnologia genetica, ma talvolta il principio di responsabilità è stato utilizzato per suggerire che l'equilibrio della natura è un sistema troppo complesso per essere modificato dall'uomo, e su questa base la genetica è stata considerata una minaccia per la stessa sopravvivenza dell'uomo, un po' come era stata considerata la fisica che aveva consentito di produrre la bomba atomica.
Nuovi problemi
Gli sviluppi recenti della genetica hanno spostato l'attenzione verso problemi diversi da quelli posti dalla nascita, dalla morte e dal perfezionamento delle tecniche mediche tradizionali. Si tratta di problemi connessi al fatto che la genetica ha determinato, almeno per il momento, una forte sfasatura, forse destinata a crescere per un certo periodo, non soltanto tra le operazioni tecnicamente possibili e le loro conseguenze, ma soprattutto tra conoscenze accessibili e interventi terapeutici possibili. In secondo luogo le prospettive aperte dalla genetica lasciano ritenere che possa crescere la conoscenza della base genetica di aspetti particolari, non patologici ma importanti, della personalità. Le persone potrebbero così sapere, sulle proprie tendenze di comportamento o sulle proprie modalità di risposta a stimoli esterni, situazioni ambientali e così via, e in generale su se stesse, molte più cose di quelle che si potevano conoscere in precedenza. Questa prospettiva attenua ulteriormente il legame tra medicina e malattia, secondo una tendenza già profilatasi con la progressiva medicalizzazione di molti aspetti non patologici della vita, come la sessualità, la procreazione, la nascita e la morte, ma può influire sul modo in cui vengono di solito concepite le persone umane, intese come centri di autoprogettazione e di decisione. Questi aspetti della personalità continueranno a essere importanti, ma la scelta tra progetti morali disponibili potrebbe tener conto di fattori biologici molto più che in passato. Inoltre esperienze culturali e morali che finora sono apparse come costituenti primarie della personalità potranno apparire come risposte a fattori biologici prima sconosciuti.
Si pone così il problema della disponibilità delle informazioni biologiche, prima di tutto agli stessi individui interessati. Vi potrebbero essere persone che non vorrebbero venire a conoscenza delle informazioni biologiche che le riguardano, per due ragioni: o perché non vorrebbero conoscere la prospettiva di incorrere in malattie incurabili o perché non vorrebbero essere condizionate da informazioni biologiche in quelle che ritengono loro scelte morali autonome. Sarebbe facile rinunciare alle informazioni biologiche se la collettività decidesse globalmente di non ricercarle, mentre è più difficile rendere possibile una rinuncia selettiva, che presuppone la scelta da parte di ogni cittadino del tipo di informazioni che intende avere o non avere. Ciò presuppone una complessa organizzazione sanitaria, nella quale le informazioni che eventualmente una persona non vorrebbe avere potrebbero essere a disposizione di qualcun altro.
Le informazioni biologiche potrebbero inoltre avere un uso sociale o collettivo. Disponendone, la società potrebbe utilizzarle per prendere decisioni sui suoi membri, escludendoli da determinate posizioni sociali o indirizzandoli ad altre. Se messe in circolazione, quelle informazioni potrebbero produrre discriminazioni, escludendo alcune persone da benefici o privando le della libertà di scegliere. Questi problemi sollecitano lo studio di misure che salvaguardino il diritto dei singoli alla riservatezza delle informazioni biologiche che li riguardano e che li difendano da discriminazioni sociali fondate sulla costruzione di mappe biologiche. Ma essi si inquadrano in prospettive etiche più profonde, che incominciano appena a delinearsi.
La prima reazione di fronte alle possibili prospettive aperte dalla genetica è solitamente di difesa e induce a considerare l'informazione genetica una proprietà privata, la cui riservatezza va difesa. Tuttavia, dal punto di vista biologico, il patrimonio genetico è tutt'altro che privato, perché rappresenta ciò che ogni individuo ha ricevuto dai genitori, trasmette in parte ai figli e ha in comune con i parenti. La conoscenza del tratto di patrimonio genetico familiare che un individuo possiede può essere importante per coloro che lo hanno in comune con lui. Contemperare le esigenze di mettere a disposizione ciò che può essere utile agli altri con l'esercizio delle proprie scelte e la tutela della riservatezza esige la maturazione di un sistema nel quale possano svilupparsi nuove libertà e nuove relazioni sociali. Infatti la comparsa della genetica suggerisce la possibilità di ripensare il modo in cui la cultura ha finora rappresentato il sistema di identità e differenze che costituiscono le società. In una società appena un po' complicata i diversi gruppi che la compongono si fanno delle immagini delle proprie diversità culturali e storiche. Le società liberali contemporanee hanno cercato di non dare troppa importanza a queste immagini, negando che le differenze culturali avessero un fondamento naturale e rifiutando di prenderle in considerazione quando si tratta di distribuire equamente risorse importanti. D'altra parte neppure le differenze naturali sono state considerate un buon fondamento per la differenziazione sociale, perché si è ritenuto che esse siano alterate dalle differenze sociali attraverso le quali emergono: i risultati della 'lotteria naturale', dalla quale tutti gli individui estraggono la propria sorte, sarebbero in gran parte mascherati dalla 'lotteria sociale'. Lo sviluppo delle conoscenze genetiche potrebbe condurre in futuro a ricostruire la mappa delle differenze naturali tra individui, in modo relativamente indipendente dal sistema di rappresentazioni con cui gruppi e individui immaginano se stessi: si potrebbe almeno in parte scorgere la 'lotteria naturale' al di là della 'lotteria sociale' e la conoscenza di un certo numero di differenze naturali potrebbe migliorare effettivamente l'utilizzazione delle differenze tra individui.
Per gli scenari che lascia intravedere, la genetica è spesso considerata una minaccia, come se potesse fornire all'umanità lo strumento per plasmare definitivamente gran parte del mondo vivente: infatti, manipolando il patrimonio genetico degli animali e degli stessi uomini, si potrebbero ottenere in futuro individui rispondenti a modelli scelti in precedenza. I primi casi di clonazione di mammiferi hanno dato la sensazione che il futuro fosse già cominciato. Per evitare prospettive di questo genere si è invocato il principio di responsabilità, di cui si è detto sopra, ma le previsioni apocalittiche sulle manipolazioni genetiche presuppongono tecnologie per ora non disponibili; se anche lo fossero, non è detto che sarebbero applicate con estensione tale da mettere in pericolo gli equilibri naturali.
Gli equilibri naturali sono anche frutto delle scelte culturali diffuse dell 'umanità, di per sé non prive di pericoli. Finora ogni generazione ha in parte scelto le generazioni successive in modo largamente indiretto e attraverso schemi culturali, ma già ora le condotte procreative suggerite da screening genetici o le fecondazioni assistite permettono di determinare direttamente parte del patrimonio genetico dei nascituri, almeno negativamente, escludendo geni responsabili di malattie. In futuro, almeno in linea teorica, si potrebbe determinare positivamente parte del patrimonio genetico dei figli per garantire loro il possesso di determinate qualità, o addirittura determinarlo completamente, riproducendo esattamente, con un procedimento di clonazione, il patrimonio genetico dei genitori. Si potrebbe così far a meno della riproduzione sessuale, almeno là dove questa incontra difficoltà: una persona che non possa avere un figlio, o un figlio sano, dal proprio compagno potrebbe, in linea teorica, averlo da se stessa.
Un uso della genetica di questo tipo, pur non chiamando in causa gli scenari apocalittici evocati dal controllo totale dell'umanità con strumenti biologici, introdurrebbe gravi perturbazioni nella struttura della società e nelle credenze morali sulle quali essa si regge. Nel caso specifico della clonazione, una persona sarebbe gemella del proprio genitore, ma già la fecondazione assistita aveva suscitato obiezioni del genere. Una persona nata con questa tecnica potrebbe avere un genitore legale diverso dal genitore genetico, destinato magari a rimanere sconosciuto. Una persona, donando spermatozoi o uova, potrebbe generare dopo essere morta, oppure una donna sola potrebbe generare un figlio con il seme di un uomo mai incontrato, o ancora una donna potrebbe partorire un bambino di cui non è madre dal punto di vista genetico e così via. Si è spesso scorto in tutto ciò uno stravolgimento delle regole morali e in particolare si è temuto che la tecnologia procreativa, resa ancora più potente dalle conoscenze genetiche, fmisse con il fare dei figli delle specie di prodotti artificiali, modellati secondo i desideri dei genitori, o di un solo genitore: un aspetto particolarmente inquietante della moderna società tecnologica, nella quale si cercano tutti i mezzi per realizzare i desideri delle persone senza considerarne il valore.
È stata questa diagnosi della società contemporanea e della posizione occupata in essa dalla medicina a sostenere la pretesa che essa sia ricondotta sotto il controllo della morale tradizionale. Questa esigenza ha spinto molti moralisti conservatori e di ispirazione religiosa a irrigidire le proprie credenze fino a fare dell'embrione una persona e del patrimonio genetico il vero garante dell'identità personale, e molti moralisti liberali a spiritualizzare le proprie credenze, riconoscendo dignità alla vita umana soltanto se questa è modellata su concezioni etiche e dominata da moventi di carattere superiore. In realtà la domanda di medicina da parte delle persone è aumentata, spesso in modo del tutto indipendente dall'appartenenza religiosa e, via via che nuove tecniche mediche diventavano disponibili, si è esteso il ricorso ai medici in situazioni, collegate soprattutto alla procreazione, alla sessualità e alla morte, che sarebbe difficile considerare patologiche. In questa situazione si delinea un processo inverso a quello che viene di solito raffigurato come una riconduzione della medicina sotto la morale, perché è la stessa tecnologia medica non solo a richiedere nuove regole, ma anche a suggerire nuovi tipi di comportamento, sia per evitare le conseguenze negative della tecnologia medica stessa, sia per adattare a essa il modo di pensare delle persone. Ciò che è già avvenuto con il mutamento del concetto di morte dopo l'avvento della chirurgia dei trapianti potrebbe verificarsi in altri campi, con la trasformazione di credenze e regole concernenti la nascita, la morte, il suicidio, la parentela e così via. E forse si potrebbe giungere a trovare occasioni per mutare la stessa rappresentazione di noi stessi e della struttura del nostro comportamento morale.
Due prospettive etiche
Sul terreno che è stato illustrato si delineano due diverse interpretazioni della morale e della teoria etica che la prende a proprio oggetto. La prima interpretazione considera la morale come la struttura intrinsecamente corretta del comportamento umano e la teoria etica come lo studio delle regole che ne garantiscono la correttezza. Dal punto di vista pratico la teoria etica potrebbe promuovere e orientare la restaurazione della morale ogni volta che essa appare compromessa, una possibilità questa che, nel mondo contemporaneo, appare collegata soprattutto al primato della civiltà tecnologica. La seconda interpretazione considera la teoria etica come uno strumento per promuovere e orientare la correzione della morale corrente, che di per sé non è necessariamente buona. Nel mondo contemporaneo una prospettiva di quest'ultimo genere è stata proposta soprattutto dall'utilitarismo, un movimento che, inteso a liberare la morale corrente dai pregiudizi, considerava i principi morali non verità assolute ed evidenti, ma regole che vanno giudicate in base al benessere che generano. Perciò un principio morale, quando è in contrasto con una tecnica che permette di aumentare il benessere, va corretto. Il costituente essenziale del benessere è il piacere e pertanto tutto ciò che contribuisce alla diminuzione del dolore è considerato un elemento positivo. In questa prospettiva la medicina è stata vista dagli utilitaristi come uno strumento importante nella costruzione del benessere collettivo, e infatti l'utilitarismo ha costituito uno dei presupposti culturali della considerazione della medicina come una scienza di pubblica utilità. Come abbiamo visto, questa interpretazione della medicina è diventata un ingrediente delle etiche fondate sull'intangibilità della vita, che hanno però fatto della vita un bene in sé, un dono divino, da accettare quale che sia il suo contenuto. Invece l'utilitarismo ha respinto l'idea che le sofferenze abbiano un significato in se stesse: il singolo è completamente padrone della propria vita, della quale può liberamente disporre, fino al suicidio, e può tentare di diminuire le sofferenze, purché ciò non conduca a sofferenze maggiori per altri individui.
L'utilitarismo, mentre ha fatto della diminuzione della sofferenza il punto centrale del proprio programma e ha subordinato la tutela generalizzata della vita al perseguimento della qualità della vita stessa, in un altro senso ha allargato la considerazione della vita degna di protezione. Poiché il benessere totale è diminuito da qualsiasi sofferenza, tutto ciò che può provare sofferenza deve essere tenuto in conto; e tra gli esseri che devono essere considerati vi sono gli animali diversi dall'uomo. Questa posizione sembra rientrare nelle prospettive che emergono dalla genetica. Mentre le etiche della vita hanno spesso fatto della formazione del patrimonio genetico un punto di inizio assoluto e hanno considerato il patrimonio genetico come il garante della permanenza della individualità o della personalità umana dalla fecondazione alla morte, gli studiosi di ispirazione utilitaristica hanno osservato che la separazione tra vita umana e vita animale non è assoluta, perché il patrimonio genetico della specie umana è affine a quello di altre specie animali. Il riconoscimento di un'affinità tra l'uomo e le altre specie animali ha indotto ad attribuire diritti anche agli animali e a mettere in dubbio la liceità di infliggere loro sofferenze, utilizzando li per la sperimentazione o per l'alimentazione. D'altro lato proprio quell'affinità ha indotto a considerare gli animali come depositi di risorse biologiche, tanto più richieste da quando la medicina ha adottato la prospettiva biologica.
La presenza di due istanze contrastanti è una caratteristica dell'etica di derivazione utilitaristica. Infatti, quando interpreta le regole morali come strumenti per realizzare il massimo benessere collettivo, l'utilitarismo tende ad autorizzare trasferimenti di benessere da un individuo all'altro, perché a piccole diminuzioni di benessere individuale può corrispondere un incremento significativo del benessere totale. D'altra parte esiste un limite a trasferimenti del genere: infatti non si può infliggere a un individuo una sofferenza qualsiasi solo perché essa produce un piacere maggiore a un altro individuo. La pratica medica presenta molti casi di trasferimento di benefici da una persona all'altra: il caso più chiaro è quello della sperimentazione medica, dal quale, come si è detto, è partito uno dei rami della bioetica. L'uso strumentale delle persone a scopi sperimentali è unanimemente respinto ma, tanto nella sperimentazione considerata lecita come nella pratica medica ordinaria, avvengono trasferimenti di benefici considerati accettabili. L'organizzazione della medicina su larga scala, con le ricerche condotte su popolazioni attraverso gli screening, ha dato evidenza ancora maggiore a trasferimenti di questo genere.
Gli screening sanitari, l'utilizzazione degli animali e la tutela del loro benessere, ma anche il rapporto tra la riservatezza delle informazioni biologiche, soprattutto di natura genetica, di un individuo e la eventualità che esse possano tornare utili ad altri individui sono tutti casi nei quali occorre progettare comportamenti e regole che rendano compatibili il benessere di un individuo con quello degli altri. L'idea utilitaristica originaria, che si potessero liberamente trasferire benefici da un individuo all'altro o aumentare sicuramente i benefici di ogni individuo aumentando quelli della collettività, è ormai considerata ottimistica. La distribuzione dei benefici richiede strumenti sociali maturi che permettano di contemperare le preferenze diverse degli individui.
La bioetica affronta problemi generati dall'incontro di sistemazioni tradizionali delle preferenze con mutamenti relativamente rapidi nelle tecniche e pratiche mediche che interferiscono con le credenze presupposte da quelle sistemazioni. Il riconoscimento che esistono sofferenze generate dalla medicina stessa ha interferito con l'idea che la vita sia un bene da salvaguardare in ogni caso. D'altra parte la conoscenza delle condizioni di un essere umano dipendenti dal patrimonio genetico che i genitori gli possono trasmettere ha reso le scelte procreative atti assai diversi da quelli che la morale tradizionale ha sempre considerato. Infine la genetica ha mostrato che esistono rapporti profondi, non sempre chiaramente rispecchiati dalle rappresentazioni culturali esplicite, tra la specie umana e le altre specie animali o tra gli individui della stessa specie umana. Proprio la genetica può offrire tecniche e prospettive capaci di imprimere una svolta alla trasformazione delle credenze morali, resa possibile o richiesta dalla pratica medica contemporanea. Si tratta della possibilità di intervenire sulle strutture profonde della vita, non soltanto con modificazioni correttive mirate, come quelle eseguibili con la terapia genica, ma con vere e proprie manipolazioni genetiche. Queste sono sempre sembrate violazioni della struttura della vita e sono state quasi sempre guardate con orrore. Eppure le manipolazioni genetiche possono apparire come strumenti essenziali della medicina 'biologica', cioè della medicina che sfrutta le risorse biologiche anziché le risorse chimiche e fisiche tradizionali. Con esse si possono ottenere da animali o da materiali embrionali umani prodotti biologici, teoricamente perfino parti di organismi; sempre teoricamente, le manipolazioni genetiche possono anche produrre animali utilizzabili per scopi per i quali già oggi gli animali vengono usati, come la sperimentazione o l'alimentazione.
Sono stati prospettati dubbi radicali sulla liceità di queste utilizzazioni degli animali. Chi li ha formulati ha sostenuto che gli esseri umani dovrebbero mutare i loro modi di vita per evitare di utilizzare animali nella sperimentazione o nell' alimentazione, pagando eventualmente i prezzi che una trasformazione di questo genere comporterebbe, anche se, a detta di chi sostiene queste posizioni, si tratterebbe di prezzi relativi a un periodo di transizione, compensati da maggiori vantaggi in una prospettiva più lunga. Né è mancato chi invece ha ritenuto possibile rinunciare alla strumentalizzazione degli animali proprio in nome della fiducia nella scienza: stimolata da quella rinuncia, l'umanità potrebbe sostituire la sperimentazione sugli animali con simulazioni teoriche e trovare nuove forme di alimentazione che non comportino il consumo della carne.
Le manipolazioni genetiche potrebbero avere un'altra funzione, che aprirebbe una prospettiva alternativa alla precedente. Esse infatti potrebbero selezionare animali sui quali effettuare sperimentazioni che non avessero gli effetti negativi attualmente considerati inaccettabili, o animali che potrebbero essere allevati senza dover subire le sofferenze fisiche e psicologiche alle quali oggi sono sottoposti negli allevamenti intensivi. Queste manipolazioni potrebbero non essere così estese da compromettere la sopravvivenza delle specie 'naturali', ma riguardare soltanto gli individui da sottoporre a esperimenti o da allevare. Questa pratica sarebbe più inquietante se venisse praticata anche con gli esseri umani, e spesso si è additato nella genetica lo strumento con il quale la società umana potrebbe essere manipolata in modo totale. Ovviamente non vi è nessuna tecnica che non possa essere usata male e la possibilità di manipolazioni genetiche sugli uomini porrebbe appunto il problema della loro regolamentazione. Intanto già le conoscenze genetiche potrebbero avere conseguenze importanti sulla selezione che si opera naturalmente attraverso le scelte procreative, in seguito a diagnosi prenatali e screening genetici.
In futuro una maggiore conoscenza del patrimonio genetico potrebbe permettere una migliore allocazione delle differenze naturali e le tecniche manipolative potrebbero permettere di progettare le caratteristiche naturali degli esseri umani. Questa sarebbe una sfida importante e del tutto nuova per l'umanità, che comporterebbe la maturazione di istituti e regole sociali adatti a governarla. È probabile che non vi sia un principio o un insieme di principi dai quali dedurre le regole opportune e che per trovare tali regole si compiano errori e si provochino sofferenze. Nella fase di maturazione si potrebbero formulare indirizzi minimi che permettano di sperimentare nuove forme normative, evitando di infliggere sofferenze prevedibili, e di garantire, nelle forme richieste dalle nuove possibilità tecniche, condizioni di libertà e di equo accesso alle risorse messe a disposizione da quelle tecniche.
Bibliografia generale
BEAUCHAMP, T.L., CHILDRESS, J.P. Principles ofbiomedical ethics. 2a ed., Oxford-New Y ork, Oxford University Press, 1983.
BOMPIANI, A., a c. di, Bioetica in medicina. Roma, CIC, 1996.
CALLAHAN, D. Abortion: law, choice and morality. New York, MacMillan, 1970.
CAVALIERI, P., SINGER, P., a c. di, The great ape project: equality beyond humanity. Londra, Fourth Estate Limited, 1993.
DEFANTI, C.A. Vivo o morto? La storia della morte nella medicina moderna. Milano, Zadig, 1999.
DWORKIN, R. Life's dominion, an argument about abortion, euthanasia and individuaI freedom. Londra, Harper Collins, 1993 (trad. it. Il dominio della vita: aborto, eutanasia e libertà individuale, Milano, Edizioni di Comunità, 1994).
ENGELHARDT, H.T. JR. The foundations of bioethics. Oxford-New York, Oxford University Press, 1986 (trad. it. Manuale di bioetica, Milano, Il Saggiatore, 1991).
FORD, N. When did I begin? Conception of the human individuaI in history, philosophy and science. Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1988 (trad. it. Quando comincio io? Il concepimento nella storia, nella filosofia, nella scienza, Milano, Baldini & Castoldi, 1997).
FOUCAULT, M. Naissance de la clinique: une archéologie du regard médical. Parigi, PUF, 1963 (trad. it. Nascita della clinica, Torino, Einaudi, 1969).
GLENDON, M. A. Abortion and divorce in western law. Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1987.
HARRIS, J. The value of life. Londra-Boston, Routledge and Kegan Paul, 1985.
HARRIS, J. Wonderwoman and Superman: the ethics of human biotechnology. Oxford-New York, Oxford University Press, 1992 (trad. it. Wonderwoman e Superman. Manipolazione genetica e futuro dell'uomo, Milano, Baldini & Castoldi, 1997).
JONAS, H. Technik, Medizin und Ethik. Zur Praxis des Prinzips Verantwortung. Francoforte sul Meno, Insel Verlag, 1985 (trad. it. Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, Torino, Einaudi, 1997).
LAMB, D. Organ transplants and ethics. Londra-New Y ork, Routledge, 1990 (trad. it. Etica e trapianto degli organi, Bologna, il Mulino, 1995).
LAMB, D. Therapy abatement, autonomy and futility: ethical decisions at the edge of life. Aldershot, Avebury, 1995 (trad. it. L'etica alle frontiere della vita. Eutanasia e accanimento terapeutico, Bologna, il Mulino, 1998).
MORI, M. La fecondazione artificiale: una nuova forma di riproduzione umana. Roma-Bari, Laterza, 1995.
MORI, M. Aborto e morale: un manuale per capire, un saggio per riflettere. Milano, Il Saggiatore, 1996.
NERI, D. Eutanasia. Valori, scelte morali, dignità delle persone. Roma-Bari, Laterza, 1995.
NULAND, S.B. How we die: reflections on life'sfinal chapter. New York, Random House Large Print in association with Alfred A. Knopf, 1994 (trad. it. Come moriamo: riflessioni sull'ultimo capitolo della vita, Milano, Mondadori, 1994).
POTTER V.R. Bioethics: bridge to the future. Englewood Cliffs, Prentice Hall, 1971.
RAMSEY, P. The patient as person: exploration of biomedical ethics. New Haven, Yale University Press, 1989.
REICH, W. T., a c. di, Encyclopedia of bioethics. New York, Free Press, rev. ed., 5 volI., 1995 (la ed., 4 volI., 1978).
RODOTÀ, S., a c. di, Questioni di bioetica. Roma-Bari, Laterza, 1993.
SGRECCIA, E. Aspetti medico-sociali. In Manuale di bioetica. Milano, Vita e Pensiero, 1991.
SINGER, P. Rethinking life and death. The collapse of our traditional ethics. Melboume, Text Publishing Company, 1994 (trad. it. Ripensare la vita: la vecchia morale non serve più, Milano, Il Saggiatore, 1996).
SPINSANTI, S. Etica bio-medica. Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1987.
THOMPSON, J.J. et al., Introduzione alla bioetica, a c. di Ferranti G., Maffettone S., Napoli, Liguori, 1992.
VIAFORA, C. Fondamenti di bio etica. Milano, Ambrosiana, 1989.
WARD, B., DUBOS, R. Only one earth: the care and maintenance of a small planet: an official report commissioned by the SecretaryGeneraI of the United Nations Conference on the human environment. Londra, Deutsch and Harmondsworth, Penguin, 1972.